l'Unità, del 17-12-2013, di Mila Spicola
Spesso mi chiedono: qual è la prima cosa da
fare per la scuola italiana? È possibile avere un’altra
scuola? Cerco di approfondire, perché per desiderare
un’«altra scuola» bisogna prima capire cosa sappia della
scuola chi se ne auspica un’altra. E in genere ne sa poco.
Molto poco. E quel poco è pieno di narrazioni falsate. Di
opinioni personali derivanti dai propri ricordi, dai
«bollettini di guerra» elaborati ad ogni rapporto nazionale
sulle Invalsi o sui test Pisa in modo sommario e poco
approfondito, o dalle complesse articolazioni dei personali
rapporti con «l’insegnante di mio figlio». Credo però che
tutti i cittadini debbano sapere e ogni volta, mi siedo con
calma e comincio a discuterne, sempre, con chiunque. In
rete, come al bar, come alla cena tra amici, come
nell’azione politica, come nelle cose che scrivo. Vorrei che
si capisse che la «scuola italiana» non esiste come unicum,
ma esiste come una sorta di confederazione fatta di realtà e
di esperienze e di razze e di persone così diverse,
frammentate e varie che forse solo la Jugoslavia di Tito
potrebbe rendere l’idea. E come quella è pronta a esplodere
ad ogni azione governativa poco attenta. È una scuola che va
dalle eccellenze mondiali del Nord Est alle disastrate
realtà scolastiche della Sicilia. E anche lì, immagino che
il dirigente dell’Istituto d’arte di Monreale possa
bacchettarmi e ricordarmi che la scuola da lui diretta, un
istituto tecnico, smentisce la vulgata dei pessimi istituti
tecnici specie al Sud. E così l’Istituto alberghiero di
Catania. Ma insieme a questi ci sono le 13 scuole che a
Palermo i Vigili del fuoco hanno dichiarato inagibili. Ci
sono i ragazzi della classe di un altro Istituto tecnico
lasciati da soli senza prof e senza vigilanza per tre ore a
scannarsi perché la scuola non ha i fondi per i supplenti,
ci sono quelli che non hanno potuto occupare la propria
scuola perché è caduto il solito cornicione dal tetto. Forse
questa volta con gli auspici di genitori in apprensione. Ci
sono i docenti scoraggiati e affannati che non trovano il
tempo di posare manco la penna, altro che aggiornarsi, ma ci
sono anche quel 20% di docenti italiani che rappresentano il
gruppo più numeroso e qualificato in sede europea di
sperimentazione nella didattica digitale e di condivisione
metodologica. E però c’è quell’insegnante di italiano che,
mi segnala la figlia di un’amica, «non ci guarda mai negli
occhi» a fronte di «quella di filosofia» che ci incanta per
un’ora. E poi ci sono le 8 ore trascorse a scuola dagli
studenti lombardi e le 4 ore scarse passate sui banchi dai
bambini siciliani e tutti là a dire che «non conta la
quantità ma la qualità». Sfido la Lombardia a dimezzare il
tempo scuola. Ci sono quei somari degli adulti che non sanno
fare più due più due e non ci pensano che un bambino della
periferia di Palermo, al di là della «qualità della
didattica», fattore decisivo, lo so, ha bisogno innanzitutto
di esser tolto dalla strada, di trascorrere a scuola non
dico 8 ore, ma 12. Per vivere sano, prima che per imparare.
Allora qual è il problema della scuola italiana? Se non la
frammentazione? Se non la necessità di offrire a tutti i
bambini pari opportunità di offerta formativa, anzi, offrire
loro, nei casi in cui sono disgraziati per condizione e
destino, magari di più? Perché a via di ripetere le frasi di
Don Milani sulle fette di torta ne abbiam fatto una
barzelletta mediatica mai un programma di governo. E qual è
il problema della scuola italiana, se non la frammentazione
di formazione dei docenti e di selezione? Jugoslavi anche
noi per provenienza, formazione, selezione e professione?
Chi forma i docenti? Come e a che cosa? Chi seleziona i
docenti? Come e a che cosa? C’è una babele formativa e
selettiva e gestionale. Eppure non sembra preoccupare
nessuno. Sono tante le cose da fare per la scuola, intanto
non pensare di desiderare un’altra scuola, ma pensare di
fare finalmente la scuola italiana. Cercando di ottenere
un’offerta uniforme ed equa, da Bolzano ad Agrigento,
provincia tra le più povere d’Italia, e di mettere a sistema
le mirabili eccellenze che noi abbiamo in ambito scolastico.
Poi, possiamo metterci ad elencare i singoli ambiti di
azione, docenti, gestione, organizzazione, strutture,
valutazione e risorse… e magari lo faremo su questo
giornale. Ma la prima cosa è dare ai bambini e alle bambine
d’Italia pari opportunità, soprattutto a quelli poveri.
Perché non è possibile che accada ancora oggi quello che
raccontava il prete di Barbiana: che gli incapaci e
immeritevoli nascano soprattutto tra i poveri. Lui lo
vedeva, noi docenti lo vediamo. Oggi lo certificano i test
Ocse Pisa. Se c’è qualcuno là fuori batta un colpo.
Le feste si avvicinano ma quest'anno gli
insegnanti a tempo determinato non avranno retribuite le
vacanze non godute. Di fatto perderanno un mese di stipendio
Il Fatto Quotidiano, del 17-12-2013
E’ come se mi togliessero la tredicesima. In
genere quei mille euro arrivano tra gennaio e marzo e
aiutano non poco". La precaria quarantenne, Claudia C., che
racconta la storia delle ferie mancate ai precari della
scuola è una di quelle che meglio sintetizzano le
ingiustizie italiane. La scuola pubblica ci ha abituato a
vicende di mala-gestione, di impoverimento progressivo, di
svuotamento costante di competenze e prerogative. Ma la
vicenda delle ferie non retribuite assomiglia a un furto con
destrezza operato in nome della spending review, della sana
gestione di bilancio e delle politiche "in nome
dell'Europa". Una storia maldestra che per reggersi ha
bisogno di norme interpretative, poco resocontabili, oggetto
di una miriade di ricorsi a cui i sindacati di categoria
stanno per prepararsi. L'INGIUSTIZIA si traduce nella mancata corresponsione di una
cifra misera, ma rilevante per le tasche degli insegnanti
precari: 1.000-1.200 euro che, fino allo scorso anno,
venivano corrisposti al termine di quelle supplenze della
durata di dieci mesi. Le supplenze a tempo determinato,
quelle che scadono a giugno e che per essere assegnate
obbligano a file interminabili negli ultimi giorni di
agosto, lasciando giovani e meno giovani docenti con l'ansia
sospesa di chi sa che lavorerà quest'anno, ma non sa cosa
farà l'anno successivo. Prima delle manovre di spending
review del governo Monti, attuate tra luglio e dicembre
2012, il personale assunto a tempo determinato, sia per
supplenza breve sia per supplenze da settembre a giugno,
vedeva monetizzate le ferie non fruite durante il rapporto
di lavoro. Quella cifra, circa mille euro, veniva
corrisposta tra gennaio e marzo successivi e veniva a
costituire un risarcimento per i periodi di disoccupazione.
La spending review del 2012, invece, ha vietato la
monetizzazione per tutti i dipendenti pubblici. Per i
precari della scuola, però, che lavorano solo dieci mesi e
nei quali, quindi, la messa in ferie darebbe il via a una
serie infinita di sotto-supplenze se si assenta il precario
c'è bisogno di un altro che prende il suo posto e così via
la legge di Stabilità di dicembre è intervenuta con un
provvedimento ad hoc a decorrere dal 1 settembre 2013.
Nonostante l'evidente rabbia per il provvedimento, molti
hanno ritenuto che per l'ultimo anno di lavoro le ferie
sarebbero state pagate. Il 4 settembre, però, il ministero
dell'Economia, dopo aver ricevuto da parte degli istituti
scolastici la segnalazione delle ferie da retribuire per
l'anno 2012-'13, ha ritenuto necessario diramare una nota
interpretativa che ha introdotto la retroattività: la
monetizzazione va interrotta a partire dal 1 gennaio 2013.
Tutti coloro che si stavano predisponendo a incassare quei
"maledetti" mille euro hanno così scoperto che le loro
aspettative sarebbero andate deluse. Secondo la nota,
infatti, le ferie potranno essere monetizzate solo dopo aver
conteggiato tutti i giorni di sospensione previsti dall'anno
scolastico. Quindi, Natale, Pasqua e altre possibili
sospensioni, compresi i primi dieci giorni di settembre in
cui, generalmente, gli insegnanti sono a disposizione, ma
senza aver ancora cominciato l'anno scolastico vero e
proprio. I DOCENTI PRECARI non devono così sospendere il lavoro, e
quindi essere sostituiti, ma semplicemente mettersi in
ferie, o essere messi in ferie, durante le pause
scolastiche. Un danno, aggravato dalla beffa. Da qui, la
reazione dei sindacati che, però, finora non hanno invertito
la situazione. La Flc-Cgil parla di "comportamento
inqualificabile" da parte del Mef "nel metodo e nel merito".
Per il sindacato di base, Usb, "la fantasia non ha limiti
quando si vuole piegare il diritto ai propri comodi" e
quindi "per far valere il diritto al pagamento delle ferie
non godute sarà necessario portare le carte in tribunale. I
ricorsi sono stati già preparati dall'Anief, come conferma
al Fatto il suo presidente, Marcello Pacifico. "Noi pensiamo
che la scelta del ministero dell'Economia sia in palese
contrasto con la Direttiva comunitaria n. 2033/88" in base
al principio, spiega Pacifico, che le ferie vanno godute ai
fini ricreativi e quindi non sovrapponibili con periodi
sovrapponibili al normale orario scolastico". Il linguaggio
in alcuni casi è burocratico, ma i ricorsi ci saranno
senz'altro come avviene da anni nel mondo della scuola.
Retribuzioni ferme ai livelli del 2009. La
scuola, da sola, ha contribuito per il 60% alla riduzione
complessiva del personale nel pubblico impiego
Il Messaggero, del 17-12-2013, di Michele Di
Branco
IL RAPPORTO ROMA «La riduzione del personale conferma l’efficacia delle
politiche di contenimento del turn over introdotte per la
generalità dei comparti a partire dal 2008». Fredda ma
efficace, la sintesi della ragioneria del ministero
dell’Economia fotografa la situazione: grazie alle strategie
messe in campo negli ultimi 4 anni da governi di ogni colore
lo Stato ha tagliato 200 mila dipendenti. Una massiccia
operazione fatta di prepensionamenti, esodi, scivoli e di
una severa riduzione delle assunzioni. Tanto è vero che a
decine di migliaia, pur avendo vinto un concorso, aspettano
da anni il proprio ingresso in ruolo. I numeri del conto
annuale 2007-2012 parlano di una delle più incisive cure
dimagranti che abbiano mai riguardato i travet. Con
conseguenze importanti sui posti di lavoro, sulle
retribuzioni. E, ovviamente, sulla spesa. Via XX Settembre
certifica che alla fine del 2012 i lavoratori pubblici erano
3 milioni e 238 mila, con una diminuzione di 198 mila unità
rispetto al 2008 quando erano 3 milioni e 436 mila. Un calo
del 5,7% che ha avuto un’accelerazione proprio tra il 2011 e
il 2012, fase nella quale si è registrata una diminuzione di
45 mila unità (-1,4%). La ragioneria dello Stato sottolinea
che la variazione, tra il 2007 e il 2012, sarebbe più
marcata (-6,3%) se calcolata a parità di enti, ossia
escludendo dal confronto quelli entrati per la prima volta
nella rilevazione dal 2011. Il settore che più ha
contribuito alla riduzione del personale è la scuola (125
mila unità in meno tra il 2007 e il 2012 con un -10,9% in
cinque anni). TEMPI DURI Ed anche se i tecnici sottolineano che «la diminuzione di 2
mila persone nel 2012 ha rappresentato una sostanziale
stabilità», il comparto presenta valori in calo per tutto il
periodo. Una emorragia di tali proporzioni che la scuola, da
sola, ha contribuito per il 60% alla riduzione complessiva
del personale nel pubblico impiego. Tuttavia la variazione
negativa ha interessato quasi tutti i comparti. Sacrifici
pesanti per i ministeri (-11,5% dal 2007 e -2,6% tra il 2011
e il 2012), le autonomie locali (-5% nel quinquennio, -2,6%
nell'ultimo anno) e gli enti pubblici non economici (-17%, -
3,3% solo nell'ultimo anno). Un trend che, secondo le
valutazioni del ministero dell’Economia, si confermerà anche
nel 2013. «A fine anno – annotano i tecnici – è probabile
che ci sia una riduzione del personale sui livelli del
2012». Infatti nei primi sei mesi dell'anno nel quale si è
confermato il blocco del turn over si è registrata una
riduzione di personale dello 0,62%. Il taglio dei posti di
lavoro ha centrato l’obiettivo principale per il quale era
stato programmato: la riduzione del costo del lavoro. La
spesa per le retribuzioni che nel 2008 valeva 167,8 miliardi
si è ridotta a 160,4 nel 2012. E solo tra il 2011 e il 2012
è diminuita di circa 5 miliardi (-2,8% ). Pesanti anche i
riflessi sui portafogli. Lo stipendio medio nel 2011 era di
34.899 euro, mentre nel 2012 è scivolato a 34.576 con un
calo dello 0,9%. Ma non tutte i comparti hanno tirato la
cinghia e i magistrati (che non hanno contratto ma
retribuzioni stabilite per legge) hanno avuto nel 2012 un
aumento dell'8% sul 2011 raggiungendo una retribuzione media
di 141 mila euro. Nel frattempo, è cresciuta la presenza
femminile negli uffici pubblici: nel 2012 ha raggiunto il
55,5% del totale (era al 54% nel 2007 ). L’incremento della
quota rosa, fanno notare da Via XX Settembre, «è dovuto sia
al maggior numero di assunzioni rispetto agli uomini (circa
5mila in più) sia al minor numero di cessazioni (17mila in
meno)». Quanto alla distribuzione territoriale dei
dipendenti, ad eccezione della Liguria tutte le regioni del
nord hanno aumentato il loro peso. La Lombardia è la regione
con il maggior numero di statali (il 12,5% del totale ).
Miur e sindacati concordi nell'ignorare i
vincoli della legge
ItaliaOggi, del 17-12-2013, di Carlo Forte
La riforma Brunetta preclude al tavolo
negoziale la possibilità di pattuire accordi che dicano cose
diverse da quello che è scritto nella legge. E ciò vale
anche per la disciplina delle precedenze contenute
nell'articolo 7 del contratto sui trasferimenti. Ma anche
quest'anno le parti hanno deciso di fare finta di niente. Secondo quanto risulta a Italia Oggi, infatti, i
rappresentanti del ministero dell'istruzione e delle
organizzazioni sindacali avrebbero deciso di lasciare
pressoché intatto l'articolo del contratto che regola le
precedenze anche in questa tornata negoziale. L'intesa
dovrebbe essere sottoscritta oggi. Per velocizzare i
controlli della Funzione pubblica sull'articolato, ai fini
della firma definitiva, il tavolo negoziale è stato
allargato ai rappresentanti di Palazzo Vidoni. Il fatto è che dopo l'entrata in vigore della legge 15/2009
e del regolamento di attuazione, meglio noto come decreto
Brunetta (decreto legislativo 150/2009), la contrattazione
collettiva non può più derogare le norme di legge. E dunque
le precedenze previste dal contratto, ma che non sono
supportate da disposizioni di legge, sono da considerarsi
inesistenti. Le precedenze, infatti, sono deroghe alla
disciplina legale, che pone il principio del merito alla
base di qualsiasi procedura che preveda l'attribuzione di
punteggi finalizzati alla fruizione di diritti. Le deroghe, peraltro, assumevano rilievo secondo una
procedura binaria che partiva dalla disapplicazione delle
disposizioni di legge e terminava con la regolazione della
stessa materia tramite la stipula di apposite clausole
negoziali. Venuto meno il potere di deroga della
contrattazione collettiva, l'effetto non può che essere
quello della rinnovata applicabilità delle disposizioni di
legge non più derogabili dai contratti. Norme di legge che,
è bene ricordarlo, non sono mai state abrogate. Riemerge,
quindi, l'intero istituto della mobilità contenuto nella
sezione III del decreto legislativo 297/94 (articolo 460 e
seguenti). Che non prevede alcuna tipologia di precedenza
nei trasferimenti. Detto questo, nell'articolo 7 del contratto le precedenze a
prova di ricorso sono soltanto alcune. La prima è quella
destinata ai non vedenti e agli emodializzati. Perché tale
precedenza è espressamente prevista in favore dei non
vedenti dall'art. 3 della legge 120/1991. E per gli
emodializzati dall'art.61 della legge 270/82. Quest'ultima
disposizione di legge, però, prevede che tale precedenza si
applichi anche «agli insegnanti non autosufficienti o con
protesi agli arti inferiori». Di quest'ultima previsione non
si fa menzione nel contratto. E qui scatta la prima
trasfusione legislativa. Che consiste nell'introduzione
automatica di questa disposizione nel contratto, anche se
non è scritta. Resta in piedi anche la precedenza prevista
per i portatori di handicap con invalidità superiore ai 2/3
(compresa quella per i portatori di handicap grave e di cui
all'art. 33 comma 6 della legge 104/92). Idem per la
precedenza che viene attribuita a chi assiste il familiare
portatore di handicap grave in qualità di referente unico.
Anche se, in quest'ultimo caso, il contratto necessiterebbe
di una integrazione. L'articolo 33 della legge 104/92,
infatti, prevede che la precedenza (e il relativo beneficio
della inamovibilità d'ufficio del titolare della medesima)
spetta al coniuge e al parente o all'affine fino al secondo
grado. E se il coniuge o il genitore non c'è più, è invalido
o ultra65enne, il diritto è esteso anche ai parenti o affini
di terzo grado. Il contratto, invece, restringe il novero degli aventi
diritto al coniuge e al genitore oppure, se il genitore è
totalmente inabile, al fratello o alla sorella del disabile
grave. A patto che siano conviventi o che gli eventuali altri
fratelli co-obbligati risultino oggettivamente
impossibilitati. Il diritto alla precedenza viene in parte
recuperato in sede di utilizzazione o assegnazione
provvisoria. Ma anche in questo caso si tratta di una
deroga. Che non sana affatto la questione. Anzi, se
possibile, la pone in evidenza, comprimendo il relativo
diritto ponendogli un termine di durata annuale. Deroga che
oltre tutto collide anche con l'art.601 del testo unico. E
poi c'è la precedenza per i coniugi di miliari trasferiti
d'autorità. Che pure è prevista da più leggi, anche se tra
queste non c'è più la legge 100/87, di cui si fa menzione
nel contratto. Legge ormai abrogata dall'art.2268 del
decreto legislativo 66/2010 con effetti a far data dal 9
febbraio scorso. Infine resta in piedi la precedenza
prevista per gli amministratori locali essendo prevista
dalla legge 265/199 e dal testo unico degli enti locali. Fin
qui le precedenze a prova di ricorso. Quelle che invece dovrebbero cessare sono essenzialmente
tre. La prima è quella che viene attribuita ai trasferiti
d'ufficio che chiedano in via prioritaria di ritornare nella
sede di precedente titolarità (art.7, comma 1 paragrafo II
del contratto). La seconda è quella dei trasferiti d'ufficio
che chiedono il rientro nel comune. E infine, la terza, è
quella prevista per i sindacalisti che rientrano in servizio
dopo l'aspettativa.
I Neet (not in Education, Employment or
Training) under 35 aumentano di 300 mila unità in un anno.
Record al Sud
Corriere della sera.it, del 15-12-2013
In Italia ci sono oltre 3,7 milioni di
giovani under 35 che non studiano, non lavorano né sono in
alcun percorso formativo: il 28,5% della popolazione in
questa fascia di età, in crescita e ai primi posti in Europa
(più 300 mila rispetto a un anno fa). La fotografia sui Neet
(Not in Education, Employment or Training) è stata scattata
dall’Istat con riferimento al terzo trimestre 2013 ampliando
(come fa l’Eurostat) il limite di età di riferimento dai 29
ai 34 anni. La situazione è drammatica al Sud con quasi il
40% degli under 35 che non studia né lavora (oltre due
milioni di persone). Dalle tabelle si evince che su 3,7
milioni di giovani che non studiano e non lavorano, 1,2
milioni non cercano lavoro né sono disponibili a lavorare.
Ma per altri 2,5 milioni c’è la disoccupazione (1,333
milioni) o il limbo delle «forze di lavoro potenziali»
(ovvero la condizione di coloro che pur non cercando
sarebbero disponibili a lavorare) con oltre 1,2 milioni di
persone. Finora l’Istat aveva diffuso le rilevazioni sui
Neet fino ai 29 anni: 2,5 milioni contro i 2,3 del terzo
trimestre 2012. Oltre la metà dei Neet (2 milioni) sono al
Sud con una percentuale che sfiora il 40% del totale . Se si
guarda agli under 29 nel Mezzogiorno sono fuori dal percorso
lavorativo, formativo e di istruzione il 36,2%(1,3 milioni
su 2,5 milioni in tutto il Paese). Nel complesso ci sono
quasi 1,2 milioni di Neet tra i 30 e i 34 anni di cui
666.000 al Sud. Sulla cifra totale di 3,7 milioni ci sono
oltre 1,5 milioni di giovani con bassa scolarità (fino alla
licenza media), mentre 1,8 milioni hanno il diploma di
maturità e 437.000 hanno nel cassetto una laurea o un titolo
post laurea.
E se non ci pensa la scuola, è illusorio
pensare che lo facciano altre agenzie (potenzialmente)
educative
Il Fatto Quotidiano, del 15-12-2013, di
Tomaso Montanari
Le colpe dei Padri ricadono sui figli, si sa.
Così pagheremo per generazioni l’idea scellerata di affidare
l’Istruzione (che una volta era) pubblica a un ministro
come Mariastella Gelmini. Tra le eredità più pesanti di quel
passaggio fatale si deve contare l’ulteriore estromissione
della Storia dell’arte dalla formazione dei cittadini
italiani del futuro. Nonostante la raccolta di oltre 15 mila firme, nonostante
l’appoggio esplicito del ministro per i Beni
culturali Massimo Bray, nonostante la disponibilità di quasi
2500 precari prontissimi a insegnarla, la ministra Maria
Chiara Carrozza non è per ora riuscita a rimediare al grave
errore di chi l’ha, purtroppo, preceduta. Fortemente ridotta negli Istituti tecnici, la Storia
dell’arte è stata del tutto cancellata in quelli
Professionali: dove è possibile diplomarsi in Moda, Grafica
e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o
Michelangelo. E nei Licei artistici non si studierà più né
il restauro né la catalogazione del nostro patrimonio
artistico. Inoltre si chiudono tutte le sperimentazioni che
rafforzavano l’esigua presenza della Storia dell’arte negli
altri licei (compresi i classici, da sempre scandalosamente
a digiuno di figurativo). Numeri alla mano, più della metà
dei nostri ragazzi crescerà in un radicale analfabetismo
artistico. Non si tratta di una svista, né di un caso. È stata invece
una scelta consapevole, generata dal disprezzo per
le scienze umanistiche in generale e da una visione
profondamente distorta del ruolo del patrimonio storico
artistico del Paese: che non si salverà finché gli italiani
non torneranno prima a saperlo leggere. Insomma, oggi non
riusciamo a trovare qualche diecina di milioni per insegnare
la Storia dell’arte: domani ne dovremo spendere centinaia o
migliaia per riparare ai danni prodotti dall’ignoranza
generale che stiamo producendo. Perché un italiano dovrebbe essere felice di mantenere, con
le sue sudate tasse, un patrimonio culturale che sente
lontano, inaccessibile, superfluo come il lusso dei ricchi?
È una domanda cruciale, e se davvero si vuol cambiare lo
stato presente delle cose, è da qua che bisogna partire. Per
la maggior parte degli italiani di oggi, il patrimonio è
come un’immensa biblioteca stampata in un alfabeto
ormai sconosciuto. E non si può amare, e dunque voler
salvare, ciò che non si comprende, ciò che non si sente
proprio. Per non parlare della nostra classe dirigente: la
più figurativamente analfabeta dell’emisfero occidentale. Lo storico dell’arte francese André Chastel scrisse che
al Louvre gli italiani si riconoscevano dal fatto che
sapevano come guardare un quadro: e lo sapevano perché, a
differenza dei francesi, lo studiavano a scuola. Ma proprio
ora che i francesi provano ad adottare il nostro modello,
noi lo gettiamo alle ortiche. E se non ci pensa la scuola, è illusorio pensare che lo
facciano altre agenzie (potenzialmente) educative. Nei
media, nei programmi televisivi, nei libri per il grande
pubblico non c’è posto per una Storia dell’arte che non sia
il vaniloquio da ciarlatani sull’ennesima attribuzione
farlocca, o sulle mostre di un eventificio commerciale che
si rivolge a clienti lobotomizzati e non a cittadini in
formazione permanente. Educare al patrimonio vuol dire far viaggiare gli italiani
alla scoperta del loro Paese, indurli a dialogare con le
opere nei loro contesti, e non in quelle specie di tristi
giardini zoologici a pagamento che sono quasi sempre le
mostre. Renderli capaci di leggere il palinsesto
straordinario di natura, arte e storia che i Padri hanno
lasciato loro come il più prezioso dei doni. Perché non
dirottare la gran parte dei soldi pubblici spesi per far
mostre (in gran parte inutili, anzi dannose) in borse di
viaggio attraverso l’Italia per studenti capaci e
meritevoli, di ogni ordine e grado? Ma tutto questo non si
può fare se manca quel minimo di alfabetizzazione che solo
la scuola può dare. E che – paradossalmente – gli insegnanti
eroici della scuola dell’infanzia e della scuola primaria
offrono spesso molto bene, costituendo un patrimonio di
conoscenze che viene poi totalmente dissipato alle
superiori. Nel 1941, nell’ora più nera della storia europea, il grande
storico dell’arte Bernard Berenson seppe distillare pagine
profondissime, e sconvolgentemente profetiche, sul destino
della storia dell’arte. In quei mesi, egli intravide un
mondo “retto da biologi ed economisti, come guardiani
platonici, dai quali non verrebbe tollerata attività o vita
alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico
ed economico”. Egli previde anche che “la fragilità della
libertà e della cultura” avrebbe potuto aprire la strada a
una società in cui ci sarebbe stato spazio per “ricreazione
fisiologica sotto varie forme, ma di certo non per le arti
umanistiche”. Meno di un secolo dopo ci stiamo arrivando:
anche se la Gelmini, nemmeno un Berenson poteva prevederla.
Il
ministro sfida i critici: voglio candidature di alto livello
Corriere
della sera.it, del 14-12-2013, di Mariolina Iossa
Presto sarà nominato il nuovo presidente
dell’Invalsi. Lo dice il ministro Maria Chiara Carrozza al
convegno organizzato da TreeLLLe e da Fondazione per la
Scuola Compagnia di San Paolo alla Luiss sulle esperienze
internazionali di valutazione dei sistemi scolastici. E così
risponde alle polemiche di questi giorni su come il Miur e
il governo stanno procedendo per la sostituzione di Paolo
Sestito alla guida dell’Agenzia di valutazione e sul futuro
della valutazione stessa. IL NODO INVALSI – Sull’Invalsi non si torna indietro,
insomma, non ci sono ripensamenti, c’è però, continua il
ministro, la ferma intenzione di «lavorare con il
coinvolgimento di tutti, della scuola e della società, per
il potenziamento del sistema di valutazione. Io non credo in
un governo top-down, che “impone”: dunque nessun sistema
imposto dall’alto ma linee condivise». Quanto alle
candidature per la presidenza dell’Invalsi, Carrozza
assicura che sono «aperte a tutti, però voglio un profilo di
alto livello, solo così diamo valore al sistema stesso», e
anche qui la sua è una risposta indiretta alle critiche al
comitato di saggi che deve sottoporre al ministero una rosa
di personalità. Il Miur, dice ancora Carrozza, insieme con
il governo elabora un sistema standard, pone gli obiettivi,
ma non fa i test, non dice quando vanno fatti. «Io voglio
un’agenzia di valutazione indipendente, che lavori in modo
indipendente. Invece, il ministero deve fare altro, attuare
il regolamento che esiste, scenderanno presto in campo i 59
ispettori, anche se a me non piace il termine ispettore, per
me sono valutatori». Il sistema standard che l’Italia deve
elaborare, spiega il ministro «dovrà valutare se le
competenze degli studenti stanno progredendo, la valutazione
deve essere uno strumento che ci consente di raggiungere tre
obiettivi, cioè fare in modo che i giovani escano dal
sistema della formazione nei tempi giusti, sapendo quello
che vogliono fare e che cosa vanno a fare, e avendo la
migliore preparazione possibile per quello che devono fare». SCUOLA E LAVORO – La questione dei tempi, dice Carrozza, non
è da poco: «Dobbiamo formare meglio, in minor tempo, e in
maniera adeguata alle richieste del mercato del lavoro».
Questo non vuol dire, continua il ministro, «che voglio
tagliare un anno di superiori e far fare un anno in meno di
scuola, significa tener presente che i nostri studenti
escono in ritardo, l’università non rispetta il 3 più 2,
abbiamo il 15 per cento di quindicenni posticipatari, una
dispersione scolastica drammatica che in alcune regioni
raggiunge il 25 per cento, il forte divario tra Nord e Sud
ma anche a macchia d’olio al centro e al nord». Carrozza
annuncia anche una riforma «complessiva su istruzione,
università e ricerca, una riforma che non significhi qualche
norma sparpagliata dentro decreti vari o emendamenti alla
legge di stabilità». LE RISORSE – Tutto questo però non si può fare senza
risorse. «Non c’è riforma senza risorse – ha proseguito
Maria Chiara Carrozza – e non credo che i nostri insegnanti
siano troppi rispetto alle esigenze, anzi secondo me ce ne
vorrebbero di più». Ecco perché, intorno al tema della
valutazione ci sono anche, secondo il ministro, i temi del
«contratto e del reclutamento». I professori hanno dovuto
«subire in questi anni il blocco dei contratti, bisogna
intervenire su questo aspetto, quanto al reclutamento, ho
trovato una situazione caotica, gruppi reclutati in un modo
contro altri gruppi reclutati in altro modo, e tutti contro
tutti. Per mettere ordine ci vorrà molto tempo». LA VALUTAZIONE – Che un insegnante vada valutato è
necessario, lo hanno confermato tutti gli interventi alla
Luiss, qualunque cosa si pensi dell’Invalsi o di altra
sperimentazione che sta muovendo i primi passi in questi
ultimi anni in Italia, come la sperimentazione di
autovalutazione «Valorizza», un sistema che potrebbe
«portare a ottimi risultati se fosse gradualmente introdotto
nelle scuole ma solo su base condivisa con il corpo docente
e non imposto», ha spiegato il presidente di TreeLLLe,
Attilio Oliva. Gli ospiti internazionali hanno parlato dei
loro sistemi di valutazione. Con approccio molto
scientifico, Eric Hanuschek, senior fellow all’Hoover
Institution della Stanford University ha sottolineato come
finalmente anche negli Usa, nazione che è indietro riguardo
ai sistemi di valutazione, ci sono adesso maggiori
indicatori da esaminare. «I nostri dati – ha detto Hanuschek
– dimostrano che un insegnante che si colloca nella fascia
alta della scala di qualità migliora le aspettative di
reddito dei suoi studenti fino al 300 per cento della media
attuale che è di 50 mila dollari annui». Sempre i dati
americani dimostrerebbero che «l’anzianità non ha un grosso
impatto in termini di qualità e che invece anche un giovane
professore può accedere alle alte fasce di qualità. Ha
invece molta importanza una politica di premi, che stimola
il docente a fare meglio». Dalla Gran Bretagna arriva invece
un riferimento di alta complessità ed efficienza dei sistemi
di valutazione. Il visiting professor Institute of Education,
Peter Matthews, che è stato anche dirigente dell’Ofsted,
istituto di ispezione per la valutazione degli insegnanti
inglesi, ha illustrato cosa si fa in Gran Bretagna per
valutare: ci sono i test per conoscere il livello di
apprendimento degli studenti, c’è il sistema ispettivo dell’Ofsted
e ci sono anche sistemi di autovalutazione delle scuole. Da
loro esiste forte differenziazione delle retribuzioni tra
gli insegnanti a seconda del livello di qualità raggiunto e
molta autonomia delle scuole, autonomia su cui tuttavia il
governo centrale vigila con le ispezioni.
L'occasione per tornare a discutere di
valutazione nella scuola è stato un convegno ieri alla Luiss
Il Sole 24 Ore, del 13-12-2013, di Claudio
Tucci
In Inghilterra la valutazione dei professori
è una realtà da 15 anni, e aiuta a migliorare la qualità
dell'insegnamento e l'apprendimento. Un terzo degli Stati
americani pratica livelli salariali differenziati per i
docenti, e stipendi più alti legati alle performance portano
stabilità di organici e attirano anche i migliori laureati.
In Norvegia ci sono linee guida per valutare i professori
(approvate pure dagli studenti);.e in quasi tutti i paesi
europei esistono sistemi di valutazione di scuole e docenti.
E in Italia? Dopo un percorso cominciato nel 2001 (e passato
attraverso il «Libro Bianco» di Fioroni del 2007 e i decreti
Brunetta e Gelmini del 2009 e 2010) nel marzo del 2012, su
input dell'Europa, il governo Monti ha varato un sistema
nazionale di valutazione (Dpr 8o del 2012), che fa perno
sull'Invalsi (affiancato da Indire e ispettori
ministeriali). Norme però rimaste ancora sulla carta (sono
stati avviati solo alcuni progetti sperimentali, poi frenati
dall'ex ministro Profumo); e oggi gli stipendi dei docenti
italiani crescono solo per anzianità. A differenza invece di
altri paesi, come l'Inghilterra: qui c'è una elevata
autonomia delle scuole (assumono, valutano, licenziano i
capi d'istituto e tutto il personale); c'è un forte obbligo
di "render conto"; ogni professore riceve una valutazione
scritta annua della propria attività basata su standard e
obiettivi assegnati dal preside; e c'è una differenziazione
delle retribuzioni. L'occasione per tornare a discutere di valutazione nella
scuola è stato un convegno ieri alla Luiss, organizzato dai
presidenti dell'Associazione TreeLLLe e della Fondazione per
la Scuola della Compagnia di San Paolo, Attilio Oliva e Anna
Maria Poggi, alla presenza del ministro Carrozza, di Andreas
Schleicher, responsabile dell'indagine Ocse-Pisa, e dell'ex
presidente dell'Invalsi, Paolo Sestito. Il sollecito rivolto
al Miur è di fare passi avanti sulla valutazione (e
potenziare il progetto Maria Chiara Carrozza non ha chiuso: ha detto che intende
«mettere in atto il Dpr sulla valutazione»; assumere i 59
ispettori del dl Scuola; e scegliere («con candidature
aperte») il nuovo presidente dell'Invalsi. Ci sarà quindi un
potenziamento del sistema di valutazione, con il
coinvolgimento di tutti i soggetti e della società. Del
resto, ha concluso il ministro, «il primo obiettivo della
scuola è formare alla cittadinanza e al lavoro».
l'Unità, del 01-12-2013, di Benedetto
Vertecchi
Il confronto sulle scelte di politica
scolastica si sta ormai trascinando su questioni di
funzionamento quotidiano. Ognuna di esse ha certamente una
sua rilevanza, se non altro perché coinvolge le condizioni
di lavoro di un gran numero di insegnanti e quelle di studio
di milioni di bambini e ragazzi, ma è spesso marginale
rispetto agli intenti da perseguire attraverso il sistema di
istruzione. Il limite di tale confronto è che ci si sofferma
su questioni contingenti senza chiedersi cosa accadrà tra
cinque, dieci, venti o più anni (Piaget se lo chiedeva già
più di mezzo secolo fa). Men che meno ci si chiede in che
modo la scuola possa concorrere attraverso l’attività
educativa a indirizzare lo sviluppo della cultura e della
società in questa o quella direzione. Gli interventi che rispondono a logiche di breve periodo
possono, nei casi migliori, rimediare al disagio che si
manifesta in questo o quell’aspetto del funzionamento del
sistema educativo, ma non modificano la direzione del suo
sviluppo. Non è un caso che, ormai da troppo tempo, i
provvedimenti che riguardano la scuola non sono il risultato
di un confronto che coinvolga le forze politiche e quelle
sociali interessate al miglioramento dell’istruzione, ma
sono inseriti, come nel caso della legge di stabilità appena
varata, in una sorta di omnibus legislativo. Non si possono
determinare alla spicciolata nuovi traguardi per
l’educazione, i cui effetti non si limitino a qualche
aggiustamento nei conti, ma possano riscontrarsi quando i
bambini e i ragazzi che ora frequentano le scuole avranno
finito il loro percorso sequenziale di studio. La contraddizione che non si fa niente per risolvere è
quella che oppone la rapidità dei cambiamenti che si
verificano nella vita sociale e nella conoscenza con la
necessità di estendere nel tempo la progettualità educativa.
Non sappiamo che cosa faranno nella vita (in una vita, oltre
a tutto, che già oggi è molto più lunga di quella delle
generazioni precedenti) gli allievi che in questi anni
fruiscono di educazione scolastica. Quel che è certo, è che
gran parte di loro sarà impegnata in attività che ancora non
esistono e che ciò suppone una grande capacità di
comprensione e una grande flessibilità di comportamento. È
il contrario di ciò che si ricava da interventi la cui
validità il più delle volte si esaurisce prima che gli
allievi abbiano terminato gli studi nei quali sono al
momento impegnati. Le scarse indicazioni a carattere prospettico che si
ricavano dal dibattito politico e dagli interventi
dell’opinione pubblica indicano una sostanziale
insensibilità nei confronti della tradizione culturale
italiana ed europea, che si aggiunge ad atteggiamenti
subalterni nei confronti di scelte culturali che rispondono
a interessi di mercato, senza tener conto di fenomeni
evolutivi che non è difficile ipotizzare si manifestino nel
medio e nel lungo periodo. Quando si enfatizza l’importanza
dell’apprendimento dell’inglese e dell’informatica si
accetta una linea di modernizzazione schiacciata sul
momento. Non ci si chiede, per esempio, quale potrà essere
nei prossimi anni il quadro della comunicazione linguistica
nel mondo (eppure, nel Paese che più ha determinato la
diffusione della cultura anglofona, gli Stati Uniti, sono
stati pubblicati studi dai quali risulta che nell’arco di
alcuni decenni la lingua più diffusa nel Paese sarà lo
spagnolo, che peraltro già oggi è la lingua maggioritaria in
città importanti, come Miami). Né ci s’interroga sulle
conseguenze che potranno derivare da un uso fondamentalmente
consumistico di apparecchiature digitali. Eppure, basterebbe
osservare le abitudini e il comportamento di bambini e
ragazzi per trovarsi di fronte a problemi che, quanto meno,
richiederebbero una riflessione approfondita. Nelle scuole la mancanza di scelte e la subalternità al
mercato (peraltro incoraggiate dalle politiche dei governi
che dall’inizio del secolo si sono succeduti alla guida del
Paese) hanno portato a una progressiva riduzione della
capacità di bambini e ragazzi di operare con le cose,
trasformandole secondo un progetto tramite azioni coordinate
e coerenti. Sono state rapidamente abbandonate attività la
cui presenza qualificava l’attività didattica, per il fatto
che costituiva la congiunzione necessaria tra l’acquisizione
di conoscenze slegate e la loro composizione in un quadro
funzionale. Si trattava delle attività di laboratorio, nelle
quali era possibile superare la scissione tra il pensare e
il fare, tra la mente e le mani. Non solo: l’apprendimento
cessava di essere qualcosa di apprezzato solo nell’ambito di
ritualità scolastiche, per segnare in profondità il profilo
degli allievi. Quel che si sarebbe potuto lamentare, semmai,
era l’insufficienza delle dotazioni delle scuole, al fine di
porvi rimedio. È accaduto, invece, il contrario: anche le
scuole che disponevano di gabinetti e laboratori per le
dimostrazioni scientifiche e per l’osservazione
naturalistica, e che avevano nel tempo raccolto collezioni
importanti di campioni minerali e biologici, hanno lasciato
disperdere tale patrimonio, destinando le risorse a
disposizione all’acquisto di materiale digitale. Non starò qui a ricordare altre scelte ugualmente
distruttive: quante sono oggi le scuole che dispongono di un
teatro, di una sala da musica, di una biblioteca? Eppure,
basterebbe considerare che tutte le dotazioni citate
potevano essere utilizzate per molte generazioni di
studenti, mentre le apparecchiature digitali sono soggette a
un rapido superamento, per capire quanto i condizionamenti
che, con la complicità dei governi, hanno finito con
l’affermarsi comportino lo spreco delle limitate risorse
disponibili per sostenere il lavoro didattico. La questione
non è tuttavia solo di qualità dell’impegno delle risorse
finanziarie. Se si potesse dimostrare che tramite le nuove
dotazioni è possibile migliorare la qualità dell’educazione
scolastica, se ne dovrebbe sollecitare la disponibilità
indipendentemente dal costo. Il fatto è che i dati
disponibili vanno in altra direzione. Da qualche tempo nella
stampa internazionale, sia quella specializzata, sia quella
d’informazione, si legge di progetti centrati su
strumentazioni tecnologiche che sono stati interrotti per
gli effetti negativi che stavano producendo o, addirittura,
si apprende che in alcune università americane nei luoghi di
studio sono state eliminate le connessioni alla rete. A mio
giudizio erano eccessivi gli entusiasmi precedenti come lo
sono gli atteggiamenti negativi che ora si stanno
diffondendo. La questione vera è che cosa sia preferibile
per l’educazione dei nostri bambini e dei nostri ragazzi. Un
fatto è certo: nei laboratori che abbiamo evocato si
acquisiva autonomia e si stabilivano rapporti positivi con
la natura, mentre la realtà simulata nella quale oggi gli
allievi sono immersi, se considerata come un’alternativa,
produce l’effetto contrario. La conclusione mi sembra
scontata.
NEI GIORNI SCORSI È STATO PRESENTATO A ROMA
UN RAPPORTO sul sistema educativo promosso da quattro
associazioni scolastiche di diverso orientamento
l'Unità, del 01-12-2013, di Giorgio Mele
NEI GIORNI SCORSI È STATO PRESENTATO A ROMA
UN RAPPORTO sul sistema educativo promosso da quattro
associazioni scolastiche di diverso orientamento: il Cidi
(insegnanti democratici), l’Aimc (maestri cattolici), Lega
Ambiente scuola e formazione, Proteo Fare Sapere. La
ricerca, coordinata da Emanuele Barbieri, è stata condotta
sulla base dei dati del 2009 che sono i più completi. Ciò
che colpisce è il giudizio perentorio che viene espresso in
premessa e cioè il fatto che dopo 150 anni di unità
d’Italia, rispetto ai tassi di successo scolastico,
nonostante lo sviluppo culturale del Paese si registrano
disuguaglianze che ricordano i «dati relativi ai tassi di
analfabetismo della popolazione adulta nel 1861». L’allarme
riguarda due elementi decisivi: il primo è relativo al fatto
che la scuola sembra aver esaurito la sua funzione positiva
di promozione sociale, di garanzia delle pari opportunità di
successo formativo che ha avuto in altri momenti della
nostra storia e, dall’altro che tutti i dati riconfermano un
distacco ampio e strutturale tra il centro-nord e la quasi
totalità del Sud, come era appunto nel 1861. A conferma
della distanza tra le «due Italie» basta leggere i dati
relativi alla carenza dei servizi per la prima infanzia come
gli asili nido - in Emilia c’è una copertura di questo
servizio del 29%, in Campania del 2,7-, l’ assenza quasi
completa del tempo pieno, i tassi di abbandono scolastico
che in Sicilia raggiungono il 26, 5 % tra i ragazzi tra i 18
e i 24 anni. Oppure i dati dei cosiddetti Neet (ragazzi che
non studiano né lavorano) con una percentuale in Campania
del 32,9, rispetto al 9% del Trentino Alto Adige. Dal
rapporto emerge anche un indice preoccupante di
sperequazione territoriale. La caratteristica della nostra
penisola è tale che in essa convivono zone metropolitane
densamente popolate e zone montane che lo sono meno. E i
processi di ridimensionamento delle unità scolastiche,
compiute negli anni scorsi su parametri numerici uniformi e
dettati solo dalle compatibilità finanziarie, hanno generato
«disfunzioni nella qualità dell’offerta del servizio» con
«classi sovraffollate nelle aree urbane, pluriclassi, e
soppressione di plessi nei piccoli montani». Ora, se si
considera che stiamo parlando di 9 milioni di persone, si
comprende che le politiche dei tagli hanno causato la
compressione del diritto all’istruzione come stabilisce la
nostra Costituzione. D’altra parte la spesa per la scuola in
Italia rimane abbastanza bassa: il 4.8% del Pil, che ci
colloca al ventiduesimo posto tra i Paesi europei, prima
della Grecia e anche della Germania, ma molto lontano da
tutti gli altri. Un quadro complessivamente preoccupante,
quindi, tenendo conto che andrebbero verificate con più
attenzione le conseguenze del «taglio colossale» operato
dalla coppia Tremonti-Gelmini, che finora nessuno ha messo
in discussione, neanche la legge di stabilità appena varata.
È probabile perciò che tutti gli indicatori siano peggiorati
rispetto al 2009 e che il lavoro per ridare senso alla
scuola italiana sia ancora più difficile.
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Prof inidonei verso l'approdo
Ata solo
su richiesta, sì alla mobilità in altri comparti
ItaliaOggi,
del 26-11-2013, di Carlo Forte
Al via la
ricollocazione dei docenti inidonei all'insegnamento. Il
ministero dell'istruzione ha predisposto la circolare con la
quale sarà trasmesso agli uffici periferici il decreto
interministeriale di attuazione del decreto legge 104/2013.
Che ha innovato la disciplina della ricollocazione,
prevedendo che gli inidonei possano evitare il
demansionamento coatto nei ruoli del personale Ata. Il dispositivo prevede, infatti, che l'inquadramento nei
ruoli del personale non docente potrà avvenire solo se
saranno gli interessati a chiederlo. E se non lo faranno,
oppure lo faranno ma non ci saranno posti a sufficienza per
tutti, saranno ricollocati d'ufficio in altri comparti della
pubblica amministrazione. Il decreto prevede anche la
rivedibilità dei docenti che all'entrata in vigore del
decreto saranno già stati dichiarati inidonei. Sempre che i
diretti interessati non chiedano espressamente il
ricollocamento. Nel quale caso l'accertamento
medico-collegiale non verrà più disposto. In ogni caso, se a
seguito dell'eventuale vista medica il docente interessato
dovesse essere ritenuto non più inidoneo all'insegnamento,
l'amministrazione procederà a ricollocarlo immediatamente
nei ruoli del personale docente. Ecco qualche dettaglio in
più. Mobilità nella provincia La normativa di riferimento è costituita dall'articolo 15,
commi 4 e seguenti, del decreto legge 104/13, convertito con
modificazioni dalla legge 128/2013. Che ha disciplinato lo
stato giuridico del personale docente dichiarato
permanentemente inidoneo all'espletamento della funzione di
docente ma idoneo ad altre mansioni. La normativa prevede,
infatti, che tale personale possa, su istanza di parte,
essere inquadrato nei profili professionali di assistente
amministrativo e di assistente tecnico del personale Ata. In
assenza di istanza o nell'ipotesi in cui la domanda non
possa essere accolta per indisponibilità di posti,
l'interessato sarà invece tenuto a presentare domanda di
mobilità intercompartimentale, in ambito provinciale. Così
da transitare obbligatoriamente nei ruoli delle
amministrazioni dello stato che presentino vacanze di
organico, anche in deroga al piano delle assunzioni previsto
dalla legislazione vigente. In ogni caso, a seguito della
ricollocazione, i docenti interessati manterranno
l'eventuale maggiore trattamento stipendiale. E ciò avverrà
mediante assegno personale riassorbibile con i successivi
miglioramenti economici a qualsiasi titolo conseguiti. I progetti transitori Fino a quando i provvedimenti di mobilità
intercompartimentale non saranno materialmente disposti, i
docenti interessati potranno essere utilizzati per le
iniziative di prevenzione della dispersione scolastica
ovvero per attività culturali e di supporto alla didattica.
E cioè per quelle attività individuate dal decreto Carrozza
al fine di consentire, se possibile, il prolungamento
dell'orario di apertura delle scuole. La bozza di decreto
precisa, inoltre, che la domanda per transitare nei ruoli
del personale Ata dovrà essere presentata su carta semplice
all'ufficio scolastico regionale della provincia di
titolarità entro 30 giorni dalla data di conferma della
dichiarazione di inidoneità. Per agevolare le procedure
l'amministrazione ha anche predisposto un modulo che sarà
allegato alla circolare. La ricollocazione nei ruoli del
personale Ata comporterà l'immissione in ruolo su tutti i
posti di assistente amministrativo e di assistente tecnico
vacanti e disponibili. L'immissione in ruolo sarà disposta
nella provincia di appartenenza oppure in altra provincia a
domanda, con priorità rispetto alla preferenza indicata
dall'interessato. Le disponibilità conseguenti
all'accettazione dell'inquadramento in altra provincia non
potranno essere utilizzate per la revisione di provvedimenti
già adottati. Il personale che non transiterà nel ruolo Ata per mancanza
di disponibilità, rimarrà nell'attuale posizione e sarà
ricollocato a mano a mano che si verificheranno nuove
disponibilità di posti. Le immissioni in ruolo del personale
su posti di assistente tecnico saranno disposte in relazione
alla corrispondenza tra le aree didattiche di laboratorio ed
i titoli di abilitazione all'insegnamento ovvero i titoli di
studio posseduti dall'interessato. Sede provvisoria L'assegnazione della sede provvisoria di servizio sarà
effettuata sulle disponibilità residuali alla mobilità del
personale Ata per l'anno scolastico 2013/2014 e anche sulla
base di quelle conseguenti all'eventuale adeguamento
dell'organico di diritto alla situazione di fatto. I
direttori regionali disporranno affinché il personale già
dichiarato inidoneo possa essere sottoposto a nuova visita,
entro il 20 dicembre prossimo, da parte delle commissioni
mediche competenti. Se all'esito della nuova visita la
dichiarazione di inidoneità non sarà confermata, il
personale interessato tornerà a svolgere la funzione di
docente. In alternativa potrà transiterà, a domanda, da
presentarsi entro il 10 dicembre, nei ruoli del personale
Ata oppure potrà essere avviato alla mobilità
intercompartimentale.
-
Precari, la Ue non ci sta più Italia a
rischio condanna
Stipendi
più bassi rispetto ai colleghi di ruolo
ItaliaOggi, del 26-11-2013, di Franco
Bastianini
Sul
trattamento giuridico ed economico riservato dalle leggi
italiane agli insegnanti e all'altro personale precario in
servizio nelle scuole statali, l'Europa non ci sta più. La Commissione EU sembra infatti avere perso la pazienza nei
confronti dell'Italia che, nei fatti, continua ad ignorare
le richieste di adeguamento alle norme, contenute nella
direttiva comunitaria 1999/70/CE e successive modificazioni,
appunto in materia di trattamento giuridico ed economico
degli insegnanti e del personale precario della scuola
statale. Se entro sessanta giorni, si legge infatti in una nota della
Commissione inviata nei giorni scorsi alle autorità
italiane, l'Italia non avrà fornito risposte alle richieste
di chiarimenti sulla discriminazione economica in atto tra
il personale non di ruolo e quello di ruolo, questione già
oggetto di procedure d'infrazione avviate nel 2010, nel 2012
e nel 2013, la Commissione si vedrà costretta a portare
l'Italia davanti alla Corte di giustizia europea che, nel
caso di una sentenza di condanna, potrebbe costare alla
casse dello stato qualche decina di milioni di euro. Il pericolo non poteva lasciare indifferenti le
organizzazioni sindacali che, infatti, da tempo stanno
sollecitando il ministro dell'istruzione a porre fine ad una
situazione non più sostenibile soprattutto per quanto
riguarda il numero sempre più alto di contratti a tempo
determinato, anziché di contratti a tempo indeterminato a
copertura di tutti i posti vacanti negli organici di fatto e
di diritto dei docenti e del personale amministrativo,
tecnico ed ausiliario. Anche se provvisori, i dati relativi al numero dei docenti e
degli Ata in servizio nel corrente anno scolastico con
contratti fino al 30 giugno o fino al 31 agosto 2014 non
fanno che confermare la validità delle riserve espresse
dalla Commissione EU concretizzatesi nelle predette
procedure d'infrazione. Dovrebbe infatti aggirarsi intorno
alle 120.000 unità il numero dei docenti non di ruolo
attualmente in servizio, mentre il numero del personale
amministrativo, tecnico ed ausiliario in servizio con
contratti a tempo determinato dovrebbe aggirarsi intorno
alle diciottomila unità.
-
Maturità sprint, il liceo si accorcia
solo quattro anni per il diploma
Il
ministro accelera sulla sperimentazione, ecco le prime
scuole pubbliche
la
Repubblica, del 25-11-2013
LA
MINISTRA dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza sponsorizza
il liceo di quattro anni. Dopo le prime sperimentazioni che
hanno interessato tre scuole paritarie in Lombardia,
arrivano quelle statali autorizzate. Un via libera in
sordina, spinto dalle convinzioni del ministro che questa
sia la strada giusta, forse preludio di un’ennesima riforma.
AL MOMENTO, gli istituti statali che dal prossimo anno — il
2014/2015 — potranno attivare percorsi quadriennali per
giungere al diploma sono quattro: il liceo internazionale
delle scienze applicate Carlo Anti di Villafranca di Verona,
l’istituto tecnico economico Tosi di Busto Arsizio,
l’istituto superiore Majorana di Brindisi e il liceo
classico Flacco di Bari. Ma in attesa del benestare
ministeriale ci sarebbero altre tre scuole campane e
l’elenco potrebbe allungarsi. Semplice sperimentazione o
preludio dell’ennesima riforma scolastica a costo zero?
Basta infatti compattare in quattro anni l’orario delle
lezioni previsto per il quinquennio per diplomarsi a 18 anni
o addirittura a 17 anni, nei casi in cui si è sfruttato
l’anticipo. Un’eventualità che metterebbe l’Italia al passo
con quei Paesi europei dove l’intero percorso scolastico
termina un anno prima che da noi. Il liceo internazionale
delle scienze applicate Carlo Anti di Verona, in luogo delle
4.752 ore previste per l’attuale percorso di cinque anni,
prevede 4.125 ore di lezione spalmate in quattro anni e 200
ore di stage. Mentre gli studenti che vorranno frequentare
il liceo classico internazionale Flacco di Bari dovranno
sobbarcarsi 4.752 ore in quattro anni — 6 ore al giorno per
sei giorni a settimana — più 233 ore di laboratorio e stage.
«Le sperimentazioni vengono autorizzate senza nessun
criterio, senza nessun parere da parte degli organi
competenti, senza nessun riferimento normativo e senza
nessun limite», tuonano dalla Flc Cgil. «Basta alzarsi la
mattina e chiedere l’autorizzazione per ottenerla? E quante
scuole potranno averla: dieci, venti, cento?», si chiede
Domenico Pantaleo che punta il dito contro la ministra Maria
Chiara Carrozza. Ma non solo. «Tutti i progetti — spiega
Pantaleo — presentano tre punti qualificanti: l’innovazione
della didattica, il cambio di denominazione dei percorsi
ordinamentali in percorsi internazionali — con lo studio di
più ore di lingua straniera — e una selezione in ingresso
per reclutare gli studenti più motivati e che hanno ottenuto
ottimi risultati alla scuola media. Selezione che non è
prevista dalla Costituzione. Siamo ancora nella scuola
dell’obbligo e non può esserci nessuno sbarramento per
l’accesso». «In effetti, il problema della riduzione da 13 a
12 anni del percorso scolastico in Italia si pone. Ma
occorre capire — spiega Ivan Lo Bello, vicepresidente di
Confindustria, con delega all’Educazione — come vanno
distribuiti questi 12 anni. Non credo sia opportuno ridurre
il liceo a quattro anni: rischiamo di indebolirlo. E,
considerando le criticità del nostro percorso, vediamo
meglio un primo ciclo di 7 anni e 5 anni di scuola superiore
». La riduzione dell’intero percorso scolastico di un anno,
per allinearlo agli standard europei, è contenuto nell’Atto
di indirizzo sulle priorità politiche per il 2013 che l’ex
ministro Francesco Profumo ha lasciato in eredità al suo
successore. Una operazione che, secondo Profumo, serviva
anche a trovare le risorse da destinare al miglioramento
della qualità dell’offerta formativa in Italia. Ma i
sindacati temono il taglio di 20mila cattedre,
corrispondenti ad un “risparmio” di mezzo miliardo di euro.
Ma come funzionano le cose in Europa? In alcuni Paesi —
Spagna, Francia, Portogallo, Inghilterra e Grecia — la
scuola termina a 18 anni. In altri — come l’Italia, la
Germania, la Finlandia, la Svezia, la Norvegia e la
Danimarca — gli studenti si diplomano a 19 anni. Nazioni,
soprattutto quelle del nord Europa, che però ottengono i
migliori piazzamenti nei test Ocse-Pisa.
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Liceo di 4 anni. Carrozza e Puglisi:
perché no?
Si può
uscire un anno prima dalla scuola senza tagliare neppure un
insegnante
Tuttoscuola, del 26-11-2013,
Dopo l’altolà di
Sel al
liceo in quattro anni si registrano invece due importanti
prese di posizione non ostili a questa possibilità. Scendono
in campo il ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza e
la capogruppo del Pd in commissione Cultura del Senato
Francesca Puglisi. Il ministro, al termine del Consiglio Ue Educazione e
Giovani, tenutosi a Bruxelles, ha detto in proposito che si
tratta di una “sperimentazione con poche scuole, vedremo
quello che succederà. Sicuramente dovremmo aspettare l’esito
di questa sperimentazione prima di riparlarne”. Comunque “sono richieste fatte dalle scuole,
quindi lasciamo che sperimentino questa possibilità”. Poi ha spiegato che “la sperimentazione di poche scuole non
deve essere vista come una minaccia, ma come un’opportunità
di vedere quello che le scuole progettano in termini di
cambiamento. Il cambiamento deve essere visto sempre come
un’opportunità”. Possibilista anche la senatrice Francesca Puglisi, già
responsabile scuola della segreteria Pd con Bersani: “Si può
uscire un anno prima dalla scuola senza tagliare neppure un
insegnante. Ma serve un disegno complessivo che sappia
coinvolgere pienamente gli insegnanti, gli studenti, gli
educatori per immaginare insieme la scuola che serve per
ricostruire l’Italia”. Poi l’esponente pd ha allargato il discorso chiedendo al
ministro di valorizzare l’autonomia scolastica e le “buone
esperienze che si stanno facendo in molti territori” e di
permettere agli studenti di “vivere la scuola anche il
pomeriggio puntando sull’innovazione della didattica e
assicurando alle scuole un organico funzionale stabile”. Puglisi ha anche chiesto che venga offerta agli studenti “la
possibilità di costruire curricula personalizzati su una
base di discipline comuni obbligatorie orientandoli poi
verso scelte consapevoli, che si tratti di università o di
lavoro”.
Largo,
quindi, ad un'ampia consultazione prima di presentare un
disegno di legge di riforma.
La Tecnica della Scuola.it, del 22-11-2013,
di A.G.
Le rassicurazioni giungono dal
sottosegretario all’istruzione, Gianluca Galletti: ferma
restando la necessità di un intervento legislativo, è
intenzione del Ministro coinvolgerle. Largo, quindi, ad
un'ampia consultazione prima di presentare un disegno di
legge di riforma Il Governo non ha alcuna intenzione di ledere le prerogative
del Parlamento" in tema di istruzione, università e ricerca
ma intende proporre un ddl che riguarderà soltanto la
materia universitaria per l'elaborazione di un testo unico.
A sostenerlo, il 21 novembre, è stato il sottosegretario
all’istruzione, Gianluca Galletti, rispondendo alla Camera
ad un'interpellanza in tema di riordino normativo del
settore e di delega legislativa. Galletti ha ricordato che
un primo testo, al quale fa riferimento l'interpellanza, è
stato "oggetto di confronto nelle sedi tecniche, ma non è
stato discusso dal Consiglio dei ministri. Uno schema di
disegno di legge sarà invece esaminato in una delle prossime
riunioni del Consiglio dei ministri. Esso riguarderà
soltanto la materia universitaria e prevederà una delega
legislativa solo per l'elaborazione di un testo unico in
materia. Non si tratterà di un disegno di legge collegato
alla legge di stabilità, ma di una normale iniziativa
legislativa, che è lo strumento con il quale il Governo deve
normalmente sottoporre le sue proposte al Parlamento per un
esame approfondito". Galletti ha anche assicurato che, "ferma restando la
necessità di un intervento legislativo, è intenzione del
Ministro coinvolgere tutte le categorie interessate nel
processo di formazione delle future decisioni. Nel settore
della scuola, si procederà con un'ampia consultazione prima
di presentare un disegno di legge di riforma". Viene
confermata, quindi, la linea del dialogo. Che è poi quella
che avevano chiesto alcuni sindacati, come la Flc-Cgil e l’Anief. Il riordino della disciplina può essere operato senza costi,
ma - ha aggiunto il sottosegretario - per un rilancio
dell'istruzione e dell'università servono risorse. Al
riguardo, vorrei ricordare che, in una difficilissima
congiuntura economica come quella attuale, il Governo ha
mostrato una grande attenzione per questo settore, al quale
ha dedicato anche rilevanti risorse economiche". In particolare, Galletti ha segnalato le risorse previste
dal "decreto-legge n. 69 del 2013 (c.d. "decreto del fare"),
che ha stanziato 450 milioni di euro per l'edilizia
scolastica; quelle previste dal decreto-legge n. 104 del
2013, che a regime ammontano a 450 milioni di euro; e quelle
previste dal disegno di legge di stabilità, che sarà
all'esame di questa Camera nelle prossime settimane e che
prevede, tra l'altro, lo stanziamento di 150 milioni di euro
aggiuntivi per il Fondo di finanziamento ordinario delle
università e 80 milioni di euro per i policlinici
universitari, oltre al consueto stanziamento – ha concluso
Galletti - per le scuole paritarie, pari a 220 milioni di
euro". Uno stanziamento, quest’ultimo, che però non ha
proprio destato consensi assoluti.
Tuttoscuola, XXXVI, 507, del 21-11-2013, di di Benedetto
Vertecchi
Quanto il
marchese Casati propose al Parlamento piemontese la
sua riforma della scuola, alla vigilia dell’Unità nazionale,
cercò di prevedere tutti gli aspetti, anche quelli più
minuti, del suo funzionamento. Il quadro normativo che il
nuovo Stato italiano ereditò nel 1861 era dunque costituito
da una legge monumentale (oltre 450 articoli), che, in
effetti, dava forma al sistema scolastico. Nessuno dubitava
del fatto che le norme contenute nella legge fossero
adempiute, per la semplice ragione che il
piccolo sistema che Gabrio Casati aveva in mente era
caratterizzato dalla stabilità di riferimenti. La legge
supponeva che l’educazione dei figli non fosse
sostanzialmente diversa da quella dei padri. Di conseguenza,
l’intento degli ordinamenti era quello di assicurare, con la
continuità fra le generazioni, l’omogeneità delle proposte
culturali. L’impostazione e i criteri seguiti dal marchese Casati
nell’elaborazione della riforma non erano sostanzialmente
diversi da quelli che si andavano affermando altrove, e in
particolare in Francia: si trattava di una scuola di
impianto centralistico, volta ad ottenere profili culturali
omogenei, caratterizzata da una elevata condivisione del
ruolo che l’educazione avrebbe dovuto svolgere nella
rigenerazione della società. In questo senso, anche se si
trattava di una legge piemontese, la riforma di Casati
anticipava un progetto di educazione che sarebbe stato poi
ripreso dallo Stato nazionale. In breve, Casati aveva bene
interpretato il senso che poteva aveva una legge generale
sull’istruzione verso la metà dell’Ottocento. Ed era anche
corretto il presupposto dell’attuabilità delle norme,
assicurato proprio dalle dimensioni limitate del sistema
scolastico. Le complicazioni hanno incominciato a
manifestarsi quando l’accesso alla scuola di nuovi strati di
popolazione che in precedenza ne erano esclusi pose in
evidenza i limiti del disegno ottocentesco dell’ordinamento
di Casati. Finché ai nuovi arrivati ci si limitava a fornire
due o tre anni di istruzione di base i presupposti selettivi
del sistema non erano posti in discussione. Al contrario, si
poteva porre l’enfasi sul progresso della società italiana e
sui vantaggi che i diversi settori della vita sociale (in
particolare l’industria e i servizi) potevano trarre dalla
modernizzazione conseguente al diffondersi dell’alfabetismo.
In effetti, nei primi cinquant’anni di vita nazionale si
ebbe una grande crescita della parte alfabetizzata della
popolazione (si stima che bastasse una sola cifra per
indicare la percentuale di quanti erano in grado di leggere
e scrivere nel 1861). Ma alla crescita della popolazione
alfabetizzata corrispondeva un cambiamento nella domanda
sociale di istruzione. Da un lato, infatti, continuava a
crescere la domanda di istruzione di base (assicurata dalla
scuola elementare), dall’altro si manifestava una crescente
esigenze di studi secondari. E fu proprio questa esigenza a porre le premesse per una
conflittualità sull’istruzione determinata dagli opposti
interessi degli strati sociali che già fruivano di
istruzione secondaria e di quelli che aspiravano a fruirne.
A questo disagio della scuola cercò di porre rimedio il
ministro Gentile. Ma cercò di farlo con una crescita
esponenziale della base normativa. Se si considera l’insieme
delle norme che definiscono la riforma di Giovanni Gentile
le centinaia di articoli della legge Casati sembrano un
esempio di sobrietà normativa. In altre parole, Gentile si
propose di intervenire su una riforma ottocentesca con
un’altra riforma ottocentesca, senza voler considerare che i
tempi erano cambiati e che le precedenti logiche malthusiane
non avrebbero potuto reggere la pressione esercitata da una
crescita della domanda sociale d’istruzione sempre più
sollecitata dai cambiamenti in atto nelle diverse realtà
sociali ed economiche. Questi limiti della riforma di
Giovanni Gentile emersero fin dai primi anni della sua
attuazione. Il presupposto delle poche scuole ma buone si
rivelò impraticabile, e così quello della doppia
canalizzazione, inferiore e superiore, degli studi
secondari. A meno di una decina d’anni dal 1923, l’anno in
cui la riforma prese avvio, il principio della doppia
canalizzazione subì un duro colpo con la nascita del liceo
scientifico, al quale non corrispondeva un segmento
inferiore. Fu il ministro Giuseppe Bottai, nel 1939, poco
prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ad avviare,
con la Carta della Scuola, il sistema italiano d’istruzione
sulla via di una trasformazione più adeguata alla cultura
del Novecento. L’impianto scolastico della riforma Gentile
ne fu sconvolto, anche se nominalmente quella che era stata
salutata come la riforma fascistissima restò in vigore. Quel che è certo è che dopo la guerra, per l’affetto
combinato degli interventi di Bottai e di quelli di Carleton
Washburne, Commissario alleato per l’Istruzione,
l’ordinamento scolastico italiano appariva ben diverso da
quello disegnato da Gentile. Ma restava la sua cultura
ottocentesca, la presunzione che per via legislativa si
potesse intervenire sull’azione quotidiana delle scuole, la
resistenza a considerare i cambiamenti socioculturali non
come accidenti da contrastare ma come aspetti strutturali
dell’educazione, l’insensibilità all’esigenza di sostenere
le decisioni, a livello di governo come a quello didattico,
con riferimenti conoscitivi derivanti dalla ricerca. Il
reale successo di Gentile non è stato la sua riforma, ma
aver posto le premesse perché il dibattito educativo si
impastoiasse in un confronto verboso capace di consumare le
ipotesi di cambiamento senza che si potesse giungere ad una
loro verifica sensata. Non è un caso che la sola modifica di
ordinamento che nella seconda metà del Novecento ha segnato
in profondità lo sviluppo del sistema scolastico italiano
sia consistita in una semplificazione: mi riferisco, come è
evidente, alla riforma della scuola media del 1962. Da
allora non è mancata qualche buona legge (come la 517 del
1977 o la riorganizzazione della scuola elementare (1990),
ma si è costatata una divaricazione sempre maggiore tra gli
intenti perseguiti dalla normativa e la capacità di
attuarli. Quella che oggi non si può non constatare è
l’inconsistenza degli impianti interpretativi sui quali si
fondano gli interventi sul sistema scolastico. Si indicano
alle scuole funzioni e compiti che echeggiano temi sui quali
altrove è in atto un confronto impegnativo (e ben sostenuto
dalla ricerca), ma se ne riduce la densità del significato
attraverso l’assimilazione al senso comune. In altre parole,
fenomeni che dappertutto danno luogo a cambiamenti
imponenti, e sui quali si cerca di riflettere utilizzando
apparati conoscitivi capaci di alimentare con continuità il
confronto tra quanti sono interessati allo sviluppo
dell’educazione, sono ridotti in Italia ad esercitazioni
retoriche al più sostenute da banalità di senso comune o da
calchi assunti per assonanza da altri settori
dell’intervento sociale. Si continua a evocare sempre più stancamente l’esigenza di
riformare il sistema educativo. Ma credo che parlare
di riforma non produca più alcun coinvolgimento emotivo in
chi dovrebbe fruirne (sarebbe meglio dire subirne) gli
effetti. Nelle scuole, come nelle università, la parola si è
desemantizzata. Non si associa a riforma l’idea di un
progresso nell’educazione, ma solo quella di interventi
pasticciati che – se attuati – possono ulteriormente
complicare il compito educativo. Poiché quello del nostro
sistema educativo è ormai uno scenario da dopoguerra, in cui
l’esigenza preliminare è quella di ricostruire, vorrei
sommessamente proporre che si abbandoni la logica delle
riforme ottocentesche e ci si preoccupi di favorire il
manifestarsi di una nuova cultura educativa, capace di
interpretare e di proporre soluzioni. Occorrono decisioni
semplici ed essenziali, che sono immediatamente comprese se
si inseriscono in un quadro nel quale la conoscenza abbia
scacciato le assonanze: per esempio, vogliamo prendere atto
che nei paesi industrializzati la scuola è sempre più
l’ambiente dell’esperienza educativa e per questo estende la
sua azione a gran parte della giornata? Che senso ha
continuare a parlare di orari scolastici come si fa da noi,
se non quello di giustificare un moto retrogrado volto a
ridurre la consistenza dell’offerta educativa?
-
TuttoScuola del 21-11-2013
"Un richiamo ulteriore che dovrebbe spingere a trovare una
soluzione strutturale". Così il segretario della Uil scuola,
Massimo Di Menna, commenta lo stop
alla discriminazione degli
insegnanti precari arrivato oggi da Bruxelles. "Più volte abbiamo sollecitato il Governo a considerare
oltre all'ingiustizia la non legittimità dei rapporti di
lavoro precari nella scuola" spiega il sindacalista
sottolineando che a oggi ci sono ancora oltre 130.000
persone con contratto a tempo determinato che fanno
funzionare la scuola. "Nonostante i continui richiami, la risposta data con il
Piano di immissioni in ruolo è - osserva Di Menna - una
soluzione parziale perché ci sono ancora posti in organico
di diritto coperti con contratti annuali reiterati di anno
in anno. La soluzione - prosegue il leader della Uil scuola
- è nell'organico funzionale, lasciando l'adozione dei
contratti a tempo determinato solo per i casi dove c'e' una
motivazione contingente, come, ad esempio, una supplenza di
20 giorni per malattia. Anche per Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil, il
pronunciamento della Commissione Europea contro le
discriminazioni degli insegnanti precari in Italia "è di
straordinaria importanza". Il sindacalista ricorda che la Flc sostiene da anni che
nella scuola "è stata ripetutamente violata la direttiva
europea sul lavoro a tempo determinato precarizzando
strutturalmente il lavoro di migliaia di docenti e negando
sistematicamente la loro stabilizzazione". "La Flc-Cgil ha promosso - sottolinea Pantaleo - un ricorso
alla Corte di iustizia Europea. Adesso il Governo metta in
campo un piano pluriennale che consente la stabilizzazione
dei precari andando oltre gli stessi contenuti della legge
sull'istruzione recentemente approvata dal Parlamento. Non
ci potrà essere nessuno scambio tra assunzione in ruolo dei
precari e riduzione dei diritti contrattuali, come stabilito
dalla legge sull'istruzione, ma il Governo è obbligato alla
stabilizzazioni. Su questo punto la Flc-Cgil - avverte il
sindacalista - sarà intransigente e non permetterà
ulteriori perdite di tempo".
-
Liceo breve: La pezza è peggiore del buco
Da Lettera di Ecole 19 11 2013, di Pino Patroncini
Su Italia Oggi del 5 Novembre u.s. Mauro
Ghisellini, direttore degli Istituti “Olga Fiorini”, che, se
non sbaglio, costituiscono la scuola privata autorizzata dal
Ministro Carrozza ad avviare la sperimentazione della
conclusione del liceo a 18 anni anziché a 19 ( 4 anni
anziché 5) attacca i sindacati e tutti coloro che criticano
l’abbassamento a 18 anni ,perché, a suo dire, l’unica
preoccupazione di questi sarebbe il fatto che sparirebbero
46.000 posti di lavoro (più o meno quanto corrisponde in
termini di organico al cumulo orario annuale dell’anno
scolastico che scompare). Premetto che questa non è la sola
preoccupazione, né dovrebbe essere la principale, in una
Italia dove ancora gli ultimi dati Piaac dimostrano che si
va avanti poco negli studi, tanto che solo circa il 72% dei
giovani arriva al traguardo di quella che una volta si
chiamava maturità (contro l’85% che ci viene richiesto dall’Europa),
solo un 45% prosegue all’università (un 45% che è già in
calo con la crisi e che già l’anno successivo si riduce al
36% per via degli abbandoni), solo un 20% si laurea (contro
una media europea del 35%,una media OCSE del 34% e una
richiesta dell’UE di arrivare nel 2020 al 40%) e dove i
famosi ITS, alternativi all’università, accolgono
all’incirca 2.500 alunni quando altrove analoghi percorsi in
altri paesi europei viaggiano nell’ordine delle centinaia di
migliaia di alunni (in Francia sono 300.000!). Riducendo di
un anno il percorso senza compensazioni si rischia solo di
ridurre di circa un migliaio di ore la formazione di almeno
il 27% dei nostri diciannovenni! E’ questo un problema che
dovrebbero avere ben presente tutti i fautori delle riforme,
a meno che non si voglia continuare sulla via delle riforme
a capocchia, quelle a cui ci hanno abituati tanti ministeri
precedenti che hanno introdotto misure senza tenere conto
dei contesti, delle premesse e delle conseguenze. Ma, tanto
per stare all’argomentazione del nostro Ghisellini, costui
dice che i sindacati hanno fatto male i conti perché non ci
sarebbe riduzione in quanto a compensazione dell’anno
perduto ci sarebbe un aumento delle ore del primo biennio
del liceo da 27 a 34 e del secondo da 30 a 35, questo almeno
nel modello dell’”Olga Fiorini”, che non è detto debba
essere il modello nazionale. E’ comunque una pezza peggiore
del buco per svariati motivi. Primo: l’aumento delle ore per
anno aumenta la pesantezza degli studi in un paese dove a
detta di molti gli studi (vista anche la mai perduta
tradizione contenutistica e nozionistica) sono già più
pesanti che altrove in termini di orari, nozioni e
parcellizzazioni del sapere. Mi piacerebbe sapere dove era e
cosa pensava il dott. Ghisellini quando la Gelmini riduceva
gli orari della secondaria superiore accampando la
motivazione della pesantezza per accattivarsi le simpatie
degli studenti e dell’opinione pubblica, in realtà col solo
scopo di ridurre organici e cattedre. Secondo: l’operazione
viene fatta su un liceo, che, guarda caso, è il percorso
scolastico con gli orari più bassi. Negli istituti tecnici e
nei professionali che si fa? Si riportano le ore a 36 e 40
settimanali? Si spera così, con queste intensità di lavoro,
di risolvere la mole di bocciature e di abbandoni che
proprio in questi due ordini scolastici sono per lo più
localizzati? Inoltre il liceo è il percorso scolastico in
cui il problema della lunghezza degli studi si pone meno (e
tanto più in un liceo privato dove comunque vanno i più
abbienti), perché quasi tutti i diplomati proseguono negli
studi universitari. Ma non è la stessa cosa negli istituti
professionali e tecnici. Terzo: Siccome l’operazione
dovrebbe essere avviata gradualmente e ci metterebbe quattro
anni ad andare a regime noi avremmo per questi anni un
doppio organico: quello ordinario comprensivo del quinto
anno e la maggiorazione crescente di anno in anno
corrispondente ai nuovi orari. Un conto è sperimentare ciò
su una scuola, un conto è proiettarlo su un intero sistema
nell’ordine delle decine di migliaia di insegnanti da
assumere e poi ad un certo punto da liquidare di punto in
bianco. Do you remember l’onda anomala? Qualcosa di simile!
Tra l’altro i sindacati, se fossero quel coacervo di
interessi corporativi con cui ultimamente ci si diverte a
descriverli (e che anche il Ghisellini sembra adombrare
riferendo la loro ostilità solo a mere questioni di
organico), dovrebbero esserne al contrario ben contenti,
perché, si sa, i docenti funzionano all’inverso del
dentifricio che una volta uscito dal tubetto non si può più
rimettere dentro: loro una volta entrati è più difficile
buttarli fuori. Ma questo nelle scuole private, dove i
gestori fanno i loro comodi, non lo sanno.
-
Precari ai Pas per tutte le classi
Un anno sulla stessa cattedra, vale anche la formazione
19/11/2013
ItaliaOggi, del 19-11-2013, di Carlo Forte
Docenti precari ai blocchi di partenza in vista dell'avvio
dei corsi abilitanti speciali. Il ministero dell'istruzione
ha già predisposto la bozza di decreto con le disposizioni a
cui dovranno attenersi gli atenei, gli istituti di alta
cultura e gli uffici periferici per organizzare i corsi. Italia Oggi è in grado di anticiparne il contenuto: i corsi
saranno obbligatoriamente istituti e organizzati dalle
università, dai conservatori (purchè sedi di dipartimento di
didattica della musica) e dalle accademie. L'elenco degli
aventi diritto a frequentare i corsi, però, sarà compilato e
trasmesso dagli uffici scolastici regionali, sulla base
delle domande e previo accertamento del possesso dei
requisiti richiesti. Destinatari Saranno ammessi ai corsi i docenti non di ruolo, compresi
gli insegnanti tecnico pratici, in possesso dei titoli di
studio previsti dal decreto n.39/1998 e dal decreto
n.22/2005, che abbiano maturato, a decorrere dall'anno
scolastico 1999/2000 fino all'anno scolastico 2011/2012
incluso, almeno tre anni di servizio in scuole statali,
paritarie ovvero nei centri di formazione professionale,
limitatamente ai corsi accreditati per l'assolvimento
dell'obbligo scolastico. Requisiti di servizio Per avere diritto ad accedere ai corsi bisognerà essere in
grado di vantare un periodo di servizio di almeno tre anni,
ognuno dei quali su una specifica classe di concorso. Almeno
un anno di servizio dovrà essere stato prestato sulla classe
di concorso per la quale si chiede l'accesso al percorso
formativo abilitante speciale. Per essere considerato
valido, ciascun anno scolastico dovrà comprendere un periodo
di almeno 180 giorni. Oppure il servizio dovrà essere stato
prestato ininterrottamente dal 1° febbraio fino al termine
delle operazioni di scrutinio finale. Il requisito di
servizio si matura anche cumulando servizi prestati, nello
stesso anno e per la stessa classe di concorso o posto,
nelle scuole statali, paritarie e nei centri di formazione
professionale. Servizi utili A questo proposito, però, il ministero dell'istruzione, con
la nota 11970 dell'8 novembre scorso, ha chiarito che al
fine del raggiungimento dei tre anni di servizio e
analogamente a quanto previsto per la scuola primaria e per
la scuola dell'infanzia, possono essere cumulati i servizi
prestati su classi di concorso appartenenti alla scuola
secondaria sia di primo che di secondo grado. Fermo restando
che almeno un anno scolastico deve essere stato prestato
sulla stessa classe di concorso (si veda altro articolo in
pagina). Il servizio prestato nei centri di formazione
professionale deve essere riconducibile a insegnamenti
compresi in classi di concorso e prestato nei corsi
accreditati dalle regioni per garantire l'assolvimento
dell'obbligo di istruzione a decorrere dall'anno scolastico
2008/2009. Il servizio sul sostegno è valido alle stesse
condizioni del servizio prestato su classi di concorso,
avendo come riferimento la graduatoria che ha costituito
titolo di accesso al servizio sul sostegno. Gli aspiranti
che anno prestato servizio in più anni e in più di una
classe di concorso dovranno optare per una sola di esse. Domande Le classi di concorso richiedibili sono quelle previste
nelle tabelle A, C e D allegate al decreto 39/98. La domanda
di partecipazione dovrà essere inoltrata agli uffici
scolastici regionali tramite apposita istanza online. Modalità organizzative I candidati ammessi ai corsi saranno assegnati ai singoli
atenei, ai conservatori e alle accademie della regione
secondo criteri che dovranno assicurare sia la frequenza dei
corsi che lo svolgimento del servizio. Se non sarà possibile
soddisfare tutte le richieste, per scarsità di posti
attivabili, i corsi saranno suddivisi in più anni
accademici. In tal caso, l'accesso degli aventi titolo
avverrà, con priorità, in favore di chi non ha
l'abilitazione e secondo il criterio della maggiore
anzianità di servizio. Che sarà calcolata secondo i punteggi
indicati dal decreto 13 giugno 2007 per la III fascia delle
graduatorie di istituto. I servizi valutabili sono quelli
presenti al Sidi (sistema informativo dell'istruzione) se
prestati nelle scuole statali e quelli derivanti dalle
autocertificazioni degli interessati, se prestati nelle
scuole paritarie o nei centri di formazione professionale. A
parità di punteggio il candidato con maggiore anzianità
anagrafica avrà la priorità. Se non si raggiungeranno almeno
30 unità per corso, potranno essere attivati corsi
interregionali oppure i corsisti potranno essere raggruppati
per classi di concorso affini. E in ogni caso, tali corsi
potranno prevedere anche dosi massicce di attività in
e-learnig. I corsi dovrebbero iniziare entro la seconda metà
del mese di dicembre 2013 e terminare, possibilmente, entro
la prima decade del mese di giugno 2014. Gli esami si
svolgeranno entro la fine del mese di luglio 2014. La durata
complessiva dei corsi sarà di 900 ore pari a 36 Cfu. La
frequenza dei corsi è obbligatoria. Sarà consentito un
massimo di assenze nella percentuale del 20%.
Repubblica.it. del 16-11-2013, di Corrado Zunino
UNA DELLE RIFORME sul tavolo del ministro della Pubblica
istruzione è quella degli istituti tecnici (e
professionali). Sono una dorsale fondamentale
dell’istruzione italiana ed europea, garantendo si tempi
della crisi un legame diretto tra i luoghi della formazione
e i luoghi del lavoro. L’esempio, per tutti, è la Germania,
dove i 'tecnici' sono da sempre curati e finanziati e
diplomano ragazzi che al primo impiego possono guadagnare –
non è infrequente – stipendi superiori ai duemila euro. In Italia la strada è chiara, dai tempi della Gelmini: gli
istituti tecnici e professionali, troppo spesso immaginati
come scuole per radunare i ragazzi della classe proletaria
che non volevano studiare, devono tornare al centro del
sistema istruzione. La struttura produttiva del Paese – la
diffusione capillare di piccole-medie imprese sul territorio
- ha bisogno di giovani periti industriali, agronomi, ma
anche ragionieri e geometri preparati. I ministri Profumo e
Carrozza hanno continuato, nelle dichiarazioni di intenti,
su questo solco. Il ministero sotto Maria Chiara Carrozza sta articolando
una riforma che, come primo passo, deve rimuovere le
ridondanze e i vuoti (entrambi) creati dalla riforma
Gelmini. Con la Gelmini si è ridisegnato il quadro orario
degli istituti tecnici nel nome dei tagli alla spesa
riducendo drasticamente le ore di materie di indirizzo e
inserendo nell’organico un numero elevato di insegnanti
tecnici “in compresenza” che, in alcuni istituti,
semplicemente non servono. Fanno solo lievitare i costi. Un esempio, segnalato dagli stessi docenti. Nel corso
Costruzioni, territorio, ambiente (ex geometri) sono
previsti insegnanti in compresenza per informatica, fisica,
chimica, tecniche di rappresentazione grafica, estimo,
tecnologia delle costruzioni e impianti, topografia. Bene,
il risultato è quello di avere in classe un docente laureato
che continua a fare il lavoro che ha sempre fatto e un
docente tecnico che sta a guardare. Questa sovrapposizione
negli anni si è rivelata inutile e ha sottratto risorse ai
corsi di aggiornamento, per le discipline tecniche
fondamentali, e all’acquisto di strumentazione tecnica
adeguata. Sempre l’area geometri (oggi Istituto tecnico costruzioni
ambiente territorio) ha visto tagliare i rudimenti di
giurisprudenza, quando un geometra dovrà vivere
quotidianamente immerso nel codice civile e tra i
regolamenti degli enti locali. Anche gli ex istituti
alberghieri (ora enogastronomia) hanno perso l’insegnamento
delle discipline giuridiche nel triennio. Da qui, dalla rimozione degli ostacoli, dalla rimodulazione
delle materie settimanali, una buona riforma della scuola
tecnica e professionale deve ripartire. La portavoce del ministro dell'Istruzione Maria Chiara
Carrozza ha precisato che all'ordine del giorno del ministro
non c'è la riforma degli istituti tecnici e professionali.
-
'Repubblica' choc: in classe gli Itp
stanno a guardare!
Sta facendo discutere la rivelazione di 'Repubblica' sulla
ipotetica volontà del ministro dell’Istruzione, Maria Chiara
Carrozza, di voler rivedere la formulazione degli
insegnamenti degli istituti tecnici e professionali
La Tecnica della Scuola.it, del 18-11-2013, di Alessandro
Giuliani
Servizi e comunicazioni
Il
quotidiano romano sostiene che il ministro
Carrozza sarebbe in procinto di riformare tecnici e
professionali rimodulando le materie settimanali:
l’obiettivo è eliminare il “numero elevato di insegnanti
tecnici ‘in compresenza’ che, in alcuni istituti,
semplicemente non servono. Fanno solo lievitare i costi”.
Col risultato “di avere in classe un docente laureato che
continua a fare il lavoro che ha sempre fatto e un docente
tecnico che sta a guardare”. Ogni commento sul vero ruolo
degli Itp, sull’importanza nelle scuole del ‘fare’ quanto si
apprende a livello teorico, appare superfluo. Anche il Miur
prende le distanze: nessuna riforma in atto.
Sta facendo discutere la
rivelazione di 'Repubblica' sulla ipotetica
volontà del ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza,
di voler rivedere la formulazione degli insegnamenti degli
istituti tecnici e professionali. In particolare, per il
quotidiano romano sarebbe ormai impellente l’esigenza di
eliminare le copresenze dei docenti teorici con gli Itp, gli
insegnanti tecnico pratici che conducono le esercitazioni in
laboratorio. Con una formulazione a metà tra il semplicistico e il luogo
comune, il cronista giustifica anche le intenzioni che
sarebbero state espresse dal titolare del dicastero di Viale
Trastevere: in talune classi sarebbe il caso di “rimuovere
le ridondanze e i vuoti (entrambi) creati dalla riforma
Gelmini. Con la Gelmini – sostiene ancora il quotidiano - si
è ridisegnato il quadro orario degli istituti tecnici nel
nome dei tagli alla spesa riducendo drasticamente le ore di
materie di indirizzo e inserendo nell’organico un numero
elevato di insegnanti tecnici ‘in compresenza’ che, in
alcuni istituti, semplicemente non servono. Fanno solo
lievitare i costi”. Sempre nell’articolo vengono riportati degli esempi forniti
da alcuni docenti. “Nel corso Costruzioni, territorio,
ambiente (ex geometri) – continua Repubblica - sono previsti
insegnanti in compresenza per informatica, fisica, chimica,
tecniche di rappresentazione grafica, estimo, tecnologia
delle costruzioni e impianti, topografia”. La conclusione è,
almeno per un addetto ai lavori, davvero sconvolgente.
“Bene, il risultato è quello di avere in classe un docente
laureato che continua a fare il lavoro che ha sempre fatto e
un docente tecnico che sta a guardare”. Con chiosa finale che trova anche i colpevoli delle mancate
risorse fornite scuola per far aggiornare tutti i docenti.
“Questa sovrapposizione negli anni si è rivelata inutile e
ha sottratto risorse ai corsi di aggiornamento, per le
discipline tecniche fondamentali, e all’acquisto di
strumentazione tecnica adeguata”.
Ogni commento appare superfluo. Qualsiasi persona che
conosce la scuola superiore italiana e la strutturazione
della didattica degli istituti tecnici e professionali sa
bene che le cose non stanno così. Lo sa bene anche il
ministro Carrozza, la cui portavoce “ ha precisato che
all'ordine del giorno del ministro non c'è la riforma degli
istituti tecnici e professionali.
ScuolaOggi.org, del 07-11-2013, di
Ariella Bertossi
Spesso nel vivere quotidiano eventi
incomprensibili e difficilmente giustificabili si parano
davanti ai nostri occhi. Qualcuno preferisce chiamarli
incongruenze, qualcuno assurdità, altri ancora “il colmo”:
in ogni caso che nella vita tutti giorni ci si trovi davanti
a frequenti paradossi è innegabile. Accade però a volte che
tali situazioni si possano ritrovare anche nel mondo della
scuola, dando al tutto una caratteristica ancora più
“paradossale, poiché dalla scuola tutti si aspettano
congruenza e linearità di processi. A tale proposito ripenso
a quando, trasferita in Svizzera, ho iscritto i miei figli
alla scuola primaria italo-tedesca di Zurigo. Dopo il
secondo giorno di lezione la maestra di italiano, un
altoatesina il cui nome poteva essere simile a Ruth
Hofenbach mi fermò e, con un italiano alquanto traballante e
che facevo fatica a comprendere, mi consigliava di
sottoporre mio figlio a delle sedute di logopedia poiché il
suo tedesco era incomprensibile. Immaginate il mio sgomento
di fronte a questa affermazione. Posto che mio figlio in
tedesco non sapeva neanche contare, non osavo pensare a
chissà cosa avesse potuto mai dire in tedesco dopo due
giorni e aggiungendo il fatto che pronuncia l’erre “moscia”
come tutti i maschi di famiglia, sono rimasta comunque
sconcertata di fronte ad una docente di italiano che mi
parlava della pronuncia di un bambino mentre la sua, di
docente, era pessima. Paradosso… Poniamo ora di possedere
una macchina che debba essere sottoposta alla revisione
prevista per legge. Ci rivolgiamo al meccanico abilitato che
rilascerà l’attestazione e gli chiediamo di effettuare tutte
le manutenzioni necessarie perché la macchina sia dichiarata
idonea. Il meccanico svolge diligentemente le riparazioni
del caso, ma mettiamo che, al momento del rilascio del
certificato, ci dica che la macchina non ha superato la
revisione. Ognuno di noi reagirebbe in maniera diversa, ma
da tutti la cosa sarebbe percepita assurda: una situazione
simile non è giustificabile. Ebbene nella scuola paradossi
simili avvengono ogni anno. Mi riferisco al fenomeno della
bocciatura. Definisco tale situazione un paradosso perché
uno studente preparato ed “allenato” per tutto l’anno
scolastico da un team di docenti, da quello stesso team alla
fine dell’anno scolastico può non essere giudicato idoneo,
non superare la revisione insomma. Tutto ciò genera
imbarazzo quando avviene nella scuola primaria, ma nella
scuola secondaria, invece, è diventato un fenomeno tollerato
e giustificato. Altre volte si arriva definire di qualità
una scuola selettiva, rendendo gli istituti più “severi”
quelli gettonati da un utenza convinta che “selezione”
coincida con “qualità”. L’elogio del paradosso, dunque.
Sebbene tutte le indagini Ocse Pisa e altri sondaggi
sostengano che bocciare è inutile, gli insegnanti continuano
in questo tipo di pratica senza porsi veramente dalla parte
dell’alunno che essi stessi avrebbero dovuto preparare, per
la formazione e il successo del quale essi sono tenuti,
anche contrattualmente, ad impegnarsi. La giustificazione
data è che alcuni studenti non raggiungono quegli obiettivi
che gli insegnanti decidono debbano essere raggiunti sulla
base di determinate osservazioni, per la normativa, per i
quadri comuni di riferimento e per paura dei sondaggi
Invalsi che poi si abbattono come una scure sulle scuole
classificandole in più o meno virtuose. “Secondo la
classifica Pisa (2011) - che valuta i sistemi educativi
nell'area Ocse - più di uno studente su dieci (il 13%) è
stato bocciato almeno una volta nel suo percorso di studio.
Il 7% alle elementari, il 6% alle scuole medie e il 2% al
liceo. L'Italia si colloca appena al di sopra della media
Ocse, con una percentuale di allievi bocciati del 18%. I
ricercatori danno inoltre un giudizio negativo su un'altra
pratica comunemente utilizzata per trattare gli studenti che
vanno male a scuola, o hanno un comportamento inadeguato: il
trasferimento in altre strutture scolastiche. Un metodo che,
scrivono, "tende ad essere associato con una segregazione
nel sistema scolastico, in cui gli studenti che provengono
da contesti avvantaggiati finiscono in scuole con risultati
migliori mentre quelli di origini svantaggiate finiscono in
scuole peggiori". Condannando la pratica delle boccature
poiché inutile, l' Ocse raccomanda anche maggiore elasticità
da parte dei dirigenti scolastici sulla valutazione di fine
anno, in base a criteri meno rigidi. Laddove i presidi hanno
infatti più autonomia nel decidere la promozione, spesso
vengono agevolati percorsi di accompagnamento che
incentivano gli alunni più in difficoltà” (da “La Repubblica
26 luglio 2011). I docenti insorgono di fronte a questi
argomenti, da un lato non accettando la pratica buonista del
6 politico poiché sostengono che la bocciatura risponde
anche ad un concetto di giustizia, naturale conseguenza per
chi non si è impegnato, dall’ altra continuando a sostenere
che sono gli alunni a non adeguarsi a quanto proposto. “Dal
punto di vista sociale, inoltre, bocciare costa. Oltre a non
garantire il progresso educativo, far ripetere un anno
scolastico pesa sui bilanci dell'Istruzione pubblica,
proprio in un momento di crisi economica e tagli alle
scuole. Ogni bocciatura, hanno calcolato gli esperti
dell'Ocse, costa in media tra i 10 e i 15 mila dollari
annuali. In paesi come la Spagna, il Belgio o l'Olanda, i
"ripetenti" incidono sul 10% del budget complessivo per
l'educazione. Un altro effetto di lungo termine, registrato
dall'Ocse, è il ritardato ingresso dello studente nel mondo
del lavoro e la diminuzione di manodopera qualificata. Se le
bocciature si ripetono nel ciclo scolastico, gli alunni
tendono ad abbandonare lo studio, già prima del diploma. Un
fallimento. Non solo per loro.” (cit.) Dove sta l’inghippo?
Dov’è dunque la falla? Come mai un sistema istituzionale che
dovrebbe formare ed istruire ad un certo punto fallisce e
non raggiunge l’obiettivo previsto? Certamente c’è la
matrice individuale: per fortuna gli essere umani non sono
macchine da revisionare e ogni persona può rispondere in
modo diverso alle stimolazioni, a volte anche rifiutandosi
di imparare. Una soluzione al paradosso però deve essere
trovata, non ci si può infatti più permettere che
l’investimento sull’istruzione che ogni stato promuove non
produca i risultati sperati. Il cambiamento di prospettiva
non è facile da comprendere, ma in effetti è talmente
semplice quanto disarmante. Si chiama didattica per
competenze. I nuovi orientamenti pedagogici prospettano
infatti una metodologia che, invece di insistere sulla
trasmissione di contenuti che trova risposta solo in una
fetta della popolazione, punti sullo sviluppo di risposte
che potremmo definire “pratiche”, cioè il possesso di
determinate competenze. Che cosa esse siano dovrebbe essere
ormai ben noto a tutti i docenti, ma come in definitiva si
possa passare al loro sviluppo non è ancora ben chiaro. La
didattica per competenze prevede che il lavoro
dell’insegnante non si esaurisca in una lezione classica
volta all’imbonimento di conoscenze da parte di studenti che
le ripeteranno per il tempo necessario a ricordarle e poi
finiranno nel dimenticatoio. Le conoscenze, importanti e
necessarie in tutte le discipline, devono essere completate
con la padronanza di determinate competenze, cioè del saper
veramente usare quelle conoscenze dimostrando di aver
compreso e sapendo traslare i contenuti applicandoli in
altri contesti. La prospettiva quindi non sarà più quella di
valutare quanto un ragazzo sa, ma quanto sa fare. Pensiamo a
quanto ognuno di noi ha imparato durante gli anni della
crescita, all’interno delle proprie famiglie. Sicuramente i
genitori avranno raccontato, insegnato, trasmesso idee ed
insegnamenti, ma gran parte delle conoscenze si sono
tradotte in comportamenti pratici. La mamma che vuole
insegnare ad un bambino ad allacciarsi le scarpe non
inizierà mai a dire “prendi una spighetta con la mano destra
e fanne un cappio, ecc”, ma avrà fatto vedere come si fa,
facendo ripetere l’esercizio varie volte finchè ognuno di
noi non è riuscito, con somma soddisfazione, a fare il
proprio fiocco: così siamo diventati competenti con i lacci
delle scarpe. Non si comprende perché invece nella scuola,
soprattutto in alcune materie, l’insegnamento sia così
astratto da ridursi solo in conoscenze, tralasciando
completamente la sua utilità sul piano pratico. Tutti i
docenti della scuola italiana già da qualche anno sono
tenuti a certificare le competenze raggiunte dai propri
alunni alla fine di alcune tappe del percorso scolastico.
Ora la normativa lo prevede, ma perché tale certificazione
non si riduca ad un mero formalismo burocratico, il lavoro
da fare è molto. Gli insegnanti non sanno ancora lavorare
per lo sviluppo delle competenze, soprattutto quelli che
dicono di averlo sempre fatto. Si tratta di capovolgere la
prospettiva e ragionare in termini diversi, strutturando le
prove di verifica in modo nuovo, per poter valutare
veramente quanto è passato del loro insegnamento. Per quanto
io non apprezzi il sistema scolastico svizzero, devo dire
che riguardo a questo aspetto i docenti svizzeri erano ben
abituati a tale tipo di operatività. Durante i tirocini che
ho potuto seguire, ho visto maestri che entrando in classe
scrivevano alla lavagna che cosa e come avrebbero imparato
gli alunni durante quella lezione, i contenuti, in che modo
sarebbero stati valutati, nonché come sarebbero state
recuperate le carenze. Una didattica per competenze non
ammette fallimenti. Un alunno potrà possedere la determinata
competenza in livelli diversi: base, intermedio o avanzato,
ma non potrà non essere competente del tutto perché in quel
caso vorrebbe dire che la didattica non è stata strutturata
nel modo corretto. Sono da prevedere tutte le strategie
perché ogni individuo si impossessi del saper fare almeno a
livello base, poiché l’interesse sociale e la valenza
dell’insegnamento deve produrre individui che siano inseriti
in una società, la quale chiede appunto il traslare nella
pratica quanto è stato interiorizzato: la fine
dell’accademia. Il modello di certificazione delle
competenze proposto in questi mesi dal MIUR si rifà alle
competenze chiave di cittadinanza europea, esse sono:
comunicazione nella madrelingua, comunicazione nelle lingue
straniere, competenza matematica e competenze di base in
scienza e tecnologia, competenza digitale, imparare ad
imparare, competenze sociali e civiche, senso di iniziativa
e imprenditorialità, consapevolezza ed espressione
culturale. Se le prime quattro sono riportabili in maniera
generale alle conoscenze e certamente si potrebbero dare
quasi per scontate (ma tanto scontate non lo sono) le ultime
quattro sono meno intuitive. Ad un individuo che si sa
esprimere correttamente nella propria lingua e in lingua
straniera, che da nativo digitale padroneggia il linguaggio
informatico, quello scientifico e matematico e che si
inserisce correttamente all’interno di una società viene
chiesto anche di porsi, alla luce della mobilità della
conoscenza, in continua formazione diventando il tutor di se
stesso, per attivare la propria iniziativa e
l’imprenditorialità in un mondo che chiede tutta la
flessibilità possibile ai giovani in cerca di impiego.
Certificare tali tipi di abilità con una verifica di storia
sui contenuti della “Prima guerra mondiale” certamente non
sarà possibile. Ciò non significa che saranno banditi tutti
i tipi di test conoscitivi, ma alla fine del suo percorso la
scuola dovrà aver trasmesso ben oltre alle conoscenze. Nelle
prove per competenze i ragazzi meno studiosi spesso
raggiungono risultati migliori e nei test di accesso
all’università gli alunni con i punteggi più alti della
scuola superiore spesso non riescono ad entrare, soppiantati
da ragazzi meno studiosi, ma più competenti. Infatti
all’università sempre più spesso le prove richiedono una
preparazione ad ampio spettro, per selezionare non soltanto
gli alunni diligenti, ma le menti più fresche e sveglie, che
hanno già imparato, ma purtroppo non sempre grazie alla
scuola, ad applicare quanto raggranellato qua e là. Tutto
ciò getta nello sconforto quei ragazzi che per il loro
impegno si sono visti sempre premiati nella scuola, ma non
in un mondo dominato dalla logica economico- produttiva che
schiaccia il più debole con molta facilità. Le Università
selezionano i loro iscritti con dei parametri che non
coincidono con quelli della scuola secondaria, fino a quando
non ci si adeguerà e non si comprenderà che la scuola non si
può più considerare un viaggio su binari paralleli rispetto
alla società. Per ultima cosa vorrei affrontare il discorso
della motivazione. Per troppo tempo il riuscire o meno a
scuola è coinciso con la capacità di saper esporre
determinate conoscenze, saper risolvere determinati quesiti,
produrre disegni e così via nelle varie discipline. Lo
studente modello che si prefigurava uscito da un tipo di
scuola prevedeva determinati requisiti da classificare con
un voto finale. Ciò è stato terribilmente frustrante per
quella parte di ragazzi che, per tutti i motivi che la
sociologia e la psicologia hanno analizzato, non sono
riusciti a dare quanto la scuola chiedeva loro. Ora la
società non ha bisogno solo di liceali più o meno bravi nel
fare i compiti, ma di individui completi che, pur possedendo
competenze a livelli diversi, possano inserirsi nel mondo
produttivo. Quante volte il ragazzo che a scuola non
combinava niente è diventato un ottimo lavoratore, magari
più di successo del primo della classe? Ha dovuto attendere
però il lavoro per il proprio riscatto sociale perché dalla
scuola non era stato dichiarato idoneo. Ecco, credo che la
scuola non possa permettersi la dispersione che ogni anno
crea, mettendo ai margini chi non riuscendo a produrre
conoscenze, automaticamente viene bocciato. La didattica per
competenze può essere una risposta anche alla motivazione
per tutti i ragazzi che nella scuola spesso non vedono la
risposta alle loro domande.. Concludo dicendo che forse
sarebbe utile che tutti coloro che operano nella scuola non
fossero più solo insegnanti, ma diventassero finalmente
educatori. C’è infatti una profonda differenza tra le due
categorie, perché per insegnare basta conoscere, per educare
è necessario essere, con tutto ciò che ne consegue.
la Repubblica, del 07-11-2013,
di Nadia
Urbinati
Come si può pensare di fare a meno della
Sinistra in una società nella quale il tasso di
disoccupazione ha superato il 12 per cento, la soglia di
povertà è sempre più alta, e il senso di impotenza dei
giovani e meno giovani ha effetti deprimenti sull’intera
società? La domanda dovrebbe sembrare retorica e invece non
lo è perché la Sinistra incontra difficoltà straordinarie a
convincere i cittadini che di essa c’è bisogno. Non solo in
Italia. L’ostacolo è prima di tutto ideologico; non dipende
dal fatto che la Sinistra non può dimostrare di avere una
storia di successo: la costruzione dello stato sociale è
avvenuta anche grazie alla Sinistra ed è stata una storia di
successo. Dopo di che, però, le idee che erano della
Sinistra – la liberazione dal bisogno, la dignità e la
libertà individuale, e perfino l’eguaglianza delle
opportunità – sono state per anni rappresentate dalla
Destra; e fino allo scoppio di questa crisi, sembravano
meglio realizzate dal liberismo la cui potente ideologia –
“meno stato più mercato” – ha convinto per anni le
maggioranze politiche, un poco dovunque, che questa fosse la
strada migliore per realizzare la promessa di libertà.
Quella della Sinistra è stata una sconfitta ideologica
dunque, che dura da molti anni. Aggravata dalla crisi di
legittimità dei partiti politici che sta cambiando la faccia
della democrazia rappresentativa e che alimenta
l’insoddisfazione per la politica praticata la quale a sua
volta dà ossigeno ai populismi e al mito della politica
anti-partititica. Un mito che appartiene sia ai demagoghi
sia agli esperti di economia che sognano di liberare la
politica dall’ideologia e di portare la competenza tecnica
al potere. Se non che le sorti possono cambiare – questo ha detto il
nuovo sindaco di New York, Bill de Blasio. Possono cambiare
se sappiamo spiegare di chi sono le responsabilità di questa
crisi devastante: sono della Destra non della Sinistra, del
giacobinismo liberistico che ha conquistato il palazzo
d’Inverno prima a Londra e a Washington per poi mettere al
bando in pochi anni la social-democrazia del vecchio
Continente e dimostrare che al benessere diffuso si arrivava
meglio e prima scatenando il capitale invece di
responsabilizzarlo e regolarlo. Si tratta ora di deviare da
questo percorso: la sfida non è facile, ma non utopistica
come la vittoria del progressista de Blasio dimostra. Certo,
ci vuole coraggio. Ci vuole la determinazione a recuperare
il linguaggio e gli ideali che danno senso a questa sfida,
la giustificano e, soprattutto, richiedono un soggetto
politico che operi nel solco della tradizione
social-democratica. Gli ideali sono gli stessi che erano alla base della
costruzione delle democrazie europee nel secondo dopoguerra,
e che la reazione neo-liberista ha sminuito; tre in
particolare: 1) l’eguaglianza, non solo delle opportunità
legali ma anche delle condizioni sociali che consentono ai
cittadini di intraprendere le loro scelte di vita con
responsabilità; 2) il senso di sé delle persone, la fiducia
nelle proprie forze progettuali che nasce dalla libertà dal bisogno; e 3) la dignità delle persone per
ciò che sono, comunque esse siano. Tre ideali sono contenuti nella nostra Costituzione e hanno
spesso avuto come protagonisti attivi i cittadini che stanno
ai margini, le minoranze morali e culturali appunto; coloro
che hanno sperimentato e mostrato il valore del movimento e
della partecipazione politica, spesso spontanea e non
rappresentata dai partiti parlamentari: i movimenti
femminili contro la violenza, per il lavoro e la non
discriminazione nella carriera; quei cittadini che
comprendono l’importanza di difendere beni comuni
fondamentali, come la scuola e l’ambiente; gli omosessuali o
chi ha differenze di stili di vita e di fede rispetto alla
maggioranza – tutti questi protagonisti interpellano la
collettività e la politica istituzionale nel nome di ciò che
la democrazia promette: eguaglianza di considerazione e
delle condizioni di partenza per poter esprimere se stessi;
libertà dal bisogno che umilia la responsabilità individuale
e rende passivi; libertà dall’offesa e dall’umiliazione che
deriva dall’essere penalizzati per non appartenere alla
parte giusta o alla maggioranza. Restituire alla Sinistra il
significato progressista di emancipazione dalla servitù del
bisogno – e per questo riportare al centro l’attenzione alle
condizioni sociali della cittadinanza. Il preambolo della nostra Costituzione rende perfettamente
il significato di questi valori quando afferma che l’Italia
è “una Repubblica fondata sul lavoro”. Ci dice infatti che
la libertà politica (la repubblica) è possibile perché i
cittadini sono socialmente autonomi, non soggetti al
dispotismo degli amministratori delegati, ma nemmeno al
paternalismo della carità pubblica. La cittadinanza lancia
un progetto ambizioso contro la povertà perché la tratta
come un male non da lenire ma da sradicare. Alla povertà, la
democrazia sociale del dopoguerra ha dato un nome preciso:
assenza di lavoro, disoccupazione. Perché questo sistema
politico si regge sulla possibilità di ciascuno di pensare a
se stesso e alla cura dei figli; di farlo con dignità e per
mezzo di un’attività che non umilia: il lavoro in cambio di
un salario dignitoso e di diritti ad esso associati, da
quello alla scuola, alla salute e alla sicurezza sociale.
Mettere il lavoro alla base del sistema politico comporta
rivederne il significato, il valore, il senso: significa
emanciparlo dallo stigma della sofferenza facendone una
condizione di possibilità ed emancipazione. Un’impresa
titanica che la democrazia moderna è riuscita a compiere
solo molto parzialmente e quando si è legata alla tradizione
socialista non quando se ne è distanziata. Perché lavoro
dignitoso e fiducia nelle proprie capacità stanno insieme e
possono decadere insieme, come vediamo oggi. La cultura
politica di una Sinistra democratica dovrebbe riportare al
centro la battaglia contro un’ideologia che ci ha inculcato
l’abitudine a leggere gli squilibri di potere come malasorte
o sfortuna, la diseguaglianza nelle condizioni sociali come
meritata sconfitta.
l’Unità,
del 07-11-2013, di Mila Spicola
Mettetevi comodi, ci sono un po’ di questioni
che vorrei condividere con voi, così, a saltare, senza
nemmeno perder tempo a strutturare il discorso in modo
lineare.
Iniziamo da una ricorrente. Soldi alle
private? No. La penso da sempre come Rodotà: sono contraria
a fondi pubblici per le scuole private. Per una questione di
principio non di soldi. Perché non credo che le somme
destinate alle private risolverebbero i problemi della
scuola. Il bilancio interno della Scuola è di circa 80
miliardi l’anno. I soldi alle private sono circa 400
milioni. Io voglio toglierli per principio e coerenza, ma so
che non è con 400 milioni che rendo la scuola statale
“adeguata ai propri fini”. Questo Paese tutto (non i
governanti ma gli elettori) deve capire che per rendere la
scuola adeguata ai propri fini ci vogliono somme in più
adeguate, certo non le bazzecole dei 400 milioni, che tra
l’altro ha già destinato Letta con il suo Decreto Scuola
appena approvato che non credo che porterà alla scuola
grandi mutamenti. Il perno del problema è che, secondo me, e di questo voglio
parlarvi, si deve mettere mano alla riorganizzazione del
nostro mondo a cominciare dai docenti. Non siamo la scuola di 40 anni fa, che aveva ben altri
numeri (meno studenti), altre risorse e un’altra Italia.
Oggi siamo la scuola di tutti, finalmente, in un Paese
profondamente diverso: in crisi economica ma anche etica,
meno coeso da questo punto di vista, con valori una volta
scontati e condivisi da difendere oggi da capo e volta per
volta. Siamo in un mondo profondamente diverso: in mutazione
e in pieno smottamento. Abbiamo sì un corpus culturale da
trasmettere ma da ridefinire proprio nelle modalità e nel
senso di trasmissione. Di fronte a tutto ciò, per portare
avanti i “tutti” che abbiamo faticosamente ammesso nella
Scuola, anche i deboli, anche gli ultimi, anche gli
stranieri, serve un impianto di scuola diverso. Che si
inventi un nuovo modo di promuovere le eccellenze e di
recuperare le debolezze. E che punti su queste due cose
potendolo fare. Non come pii desideri destinati a rimanere
tali. Abbiamo vinto una sfida: di avere tutti i bambini, adesso
dobbiamo vincere l’altra sfida profonda di portarli tutti, a
prescindere dai loro vissuti e dal fato che li ha fatti
nascere in un posto piuttosto che in un altro, a raggiungere
tutti almeno il livello della sufficienza, a condurli tutti
al diploma, come mezzo di crescita individuale del singolo e
collettiva del sistema Italia. Lasciando per una buona volte
alle ortiche la convinzione che “chi non ha testa di
studiare se ne vada a lavorare anche senza pezzo di carta”.
Perché chi rimane fuori dai saperi oggi rimane fuori dal
mondo. Io sono cosciente che questa sarebbe la vera
rivoluzione politica e storica mai compiuta nel nostro
Paese. Altro che Rivoluzione Francese. Non so se ne son
coscienti tutti. Alcuni di quelli che remano contro forse
sì. Dalla scuola per pochi alla scuola per tutti, alla scuola
che recupera tutti. L’impianto di scuola che oggi abbiamo è di fatto ancora
quello selettivo gentiliano che non riesce a portare avanti
tutti. Con modalità tacite o meno tacite, contrastate o
meno, la scuola di oggi è ancora legata a un sistema che la
condanna ad essere la scuola selettiva e discriminatoria.
Non è colpa nostra, di noi docenti, ma il sistema è
predisposto in un modo tale che ci ritroviamo di fatto a
doverlo assecondare. Gli scarsi di qua e i bravi di là. Con
poche e difficilissime condizioni per trasformare “gli
scarsi” almeno in sufficienti. E con l’enorme esercito dei
“sufficienti” sempre stabile. La prima modalità che si era messa in campo per mutare
questo assunto era stata la scuola elementare coi moduli. E’
il sistema della scuola che recupera gli ultimi e cerca di
predisporre la condizione per il recupero di tali ultimi.
Anzi, di più, era un sistema predisposto per evitare che i
divari si formassero, volendo agire fin dai primissimi anni.
Annullato. Demagogicamente e ciecamente. La seconda modalità è quella che tenta di evitare
l’insorgere delle debolezze prima ancora della scuola:
l’asilo. E’ l’unico modo per contrastare le differenze
enormi in entrata nel ciclo della scuola formale. Asili? Annullati, non ce ne sono, soprattutto là dove
servono di più, cioè dove è certo che si formeranno
debolezze: nelle aree depresse del Paese. In Sicilia si
varia dall’1% al 6 % di possibilità per i bambini di
accedere all’asilo, in altre aree del Paese si raggiunge il
40% e siamo nelle eccezioni. E sempre con una gran
confusione di dati: non si capisce mai quali siano le
differenze tra asilo, scuola materna, scuola dell’infanzia.
Aiuterebbe parlare di ciclo prescolare 0-6 anni? Aiuterebbe.
I dati e le rilevazioni provano il legame diretto tra
successo scolastico e anni prescolari (asilo, scuola
materna, nido) frequentati. La terza modalità potrebbe essere impiantare il tempo pieno
obbligatorio nelle aree del Paese a più alto rischio
debolezza (e sono esattamente le aree dove il tempo pieno
latita), attivando processi individualizzati costanti per
il recupero degli ultimi e per il potenziamento dei primi. La quarta modalità: agire sul motore della scuola, creare un
corpo docente forte (dal punto di vista formativo e
professionale) e compatto, che abbia strumenti lessicali e
professionali comuni per poter attivare confronti, scambi e
reti nel merito dei nodi pedagogici e didattici, anche per
sperimentare tesi e impianti teorici tutti in divenire in
modo scientifico rigoroso, a cui fa seguire le diverse
pratiche estese. E qua parliam di cose veramente serie. Un corpo professionale capace di portare avanti la
“contrattazione” dei metodi didattici, dei fini pedagogici e
delle visioni di politiche scolastiche su una base comune di
lessico, di formazione e di missione è veramente quello che
si augurano i sistemi incancreniti e immobili delle
burocrazie ministeriali, o gli uffici polverosi e mal
gestiti degli uffici scolastici regionali e provinciali di
tutta Italia? Siamo il corpo di lavoratori del pubblico servizio più
numeroso. Sapete cosa vorrebbe dire avere quasi un milione
di teste attive e messe in rete e formate in modo eccellente
a parlar e fare scuola in modo unitario? Non omologato
attenzione, unitario? Quando si pensa alle rivoluzioni è
proprio alla comunanza informativa e formativa che si fa
riferimento. Non so se sono chiara. Se oggi si fa
un’indagine nel corpo docente su un qualunque argomento ne
viene fuori una frammentazione abnorme di posizioni, a
partire dalle basi conoscitive sul merito delle cose e dei
problemi, perché abnorme è la differenza di formazione dei
singoli docenti, come anche di selezione, come anche di
condizioni strutturali o contestuali in cui si opera. Faccio un esempio: l’idea di griglia o criterio valutativo
che ha una collega della primaria è completamente diversa
dall’idea di griglia o criterio valutativo di una collega di
liceo, quando questa ultima ce l’abbia..perché viene fuori
da un percorso formativo e selettivo di tipo esclusivamente
conoscitivo della disciplina insegnata non di tipo
pedagogico didattico, non solo, non avendolo maturato nella
formazione, sarà portata a rifiutarlo a priori. Nello stesso
tempo: una docente di italiano di una scuola primaria di
Trento si trova ad operare in condizioni strutturali e
contestuali completamente diverse da quelle di una collega
di Canicattì, non solo: con un bagaglio formativo diverso e
con dei processi di selezione diversi. Mi capita spessissimo di sentire a docenti di scuole
superiori “a me basta dare il mio voto e va benissimo così”.
Ma “il mio voto” cos’è, cara collega? Se il tuo sei non
corrisponde al sei della collega della stessa disciplina
della classe accanto? E’ una finzione, non altro. E così via
tutto il resto. Dai processi ai metodi. Ecco: una formazione
comune in servizio o iniziale servirebbe non ad omologare ma
a motivare e a comprendere nel merito, le scelte, le
assunzioni e i rifiuti. Ad essere coscientemente soggetti di
libertà d’insegnamento. Lo diciamo sempre no? Senza
conoscenza non c’è libertà. Nemmeno puoi spiegare queste cose al cittadino comune, è
così ancorato a un’ idea di scuola che deriva dalla sua
percezione di ragazzino, che al massimo può fornire opinioni
sulla sua personale esperienza facendo spallucce se discuti
in modo acceso di processi, metodiche, organizzazioni
didattiche. Il cittadino medio immagina il docente per come
lo ha vissuto e visto: qualcuno che entra nella classe e poi
esce dalla classe. E finisce là. Nulla può, giustamente,
dire circa tutto il lavoro che c’è prima, durante e dopo a
quella “entrata in classe”. La quale cosa vale per
l’ortolano, per il medico, per il politico, per il Premier.
Il che blocca la scuola a un’idea profondamente provinciale,
deprofessionalizzata e naif . Pensieri e ipotesi sulle cose da farsi. Per migliorare la scuola dunque forse aiuterebbe un processo
di uniformazione non dei metodi o delle pratiche ma delle
conoscenze e dei lessici, prima di allargarsi a proporre
mutamenti o modifiche al sistema organizzativo strutturale.
E’ un’ipotesi che andrebbe percorsa. Un nuovo e più adeguato sistema formativo comunque è
necessario: con la laurea non esci insegnante oggi. Anche se
sei il miglior laureato d’Italia e sei arrivato primo al
concorso. Esci “lavorante generico”, arrivi in classe ad
agir come non lo sai nemmeno tu. Arrivi in un consiglio di
classe o in una scuola in cui ci son mille teste con mille
definizioni diverse per ogni cosa e non sai nemmeno di cosa
si parli se non ne hai incontrato la trattazione nel
percorso universitario: docimologia? analisi dei processi
didattici, metodologia…strategia? Inizialmente tutto si
risolve in un approccio troppo spesso naif. E se non sai
cosa sono, metodi, processi e metodologie, la prima cosa che
viene in testa è il rifiuto di “queste teorie” e ci si
ritrova a reiterare meccanismi per imitazione che si
traggono dalla personale esperienza scolastica. Ci si affida
alle proprie risorse, si cerca di instaurare una qualche
relazione con le classi e si fa lezione. Bene che vada dopo
tre giorni ti chiederai: Ma com’è che queste cavallette non
mi ascoltano? E penserai che non ci son più i ragazzi di una
volta…Poi, piano piano maturerai modalità per far qualcosa
comunque. Per spiegare, verificare…e pensi che questo sia
insegnare. Qualcuno si mette a studiare. Poi scopri che
quasi tutti ci mettiamo a studiare. Ma lo facciamo in un
modo così sconnesso, frammentato e discontinuo che i nostri
studi iniziano e finiscono nelle nostre classi, senza
riuscire mai fare sistema nel sistema. Perchè il sistema
non te lo chiede. Non va bene. Scordiamoci questa leggenda che conta
l’esperienza, oggi avere strumenti professionali adeguati e
e un sistema di conoscenze pedagogico-didattiche comuni
all’ingresso è indispensabile, perché intanto che ti fai
“l’esperienza” sono passati dieci anni di mestiere e le
difficoltà e le richieste del mestiere oggi sono tante e
tali che non si può derogare più. Persino le sperimentazioni possibili devono essere guidate
da coscienza professionale dei processi che stai mettendo in
campo. Nella primaria tutto questo è più facile da far capire, sono
gli unici che hanno un’idea delle problematiche, avendo
seguito percorsi di scienze della formazione. Molto più
difficile è parlarne con docenti di scuola superiore:
laureati in matematica, in lettere, in scienze,..bravissimi
nelle loro discipline..ma..monchi. Il terreno di confronto
poi si fa complessissimo per mancanza, ripeto, di lessico
comune e di definizione dei temi e dei problemi. E’ solo un
fattore discrezionale e personale se poi ci siano ottimi
insegnanti o meno. Questo fattore ad oggi non è una
condizione professionale fornita e verificata dal sistema in
partenza, ne dai mezzi formativi, ne da quelli selettivi: le
oscure “competenze professionali della docenza” non sono
richieste più di tanto nei prerequisiti per accedere ai
concorsi per docenti. Perché non sono previste nemmeno nei
percorsi formativi. Difficilmente si recupererà dopo, la formazione in servizio
è poi discontinua se non assente (nelle scuole autonome c’è
poco, quando c’è) ed è uno degli anelli deboli. Il bravo
docente diventa una figura mitologica che misuri e individui
nel campo, non una precondizione verificata nella
selezione, in base ad alcune competenze specifiche che si
sono sviluppate nel percorso di studi. Diciamola tutta:
perché non si dà valore alcuno alle competenze specifiche
professionali che qualificano la professione docente. Non se
ne parla, non si sa cosa siano, non le individua il
cittadino, perché ne è all’oscuro, no le regola il
legislatore, e la differenza tra il docente bravo e quello
meno bravo è quella generica e retorica tra “eroe” o
“fannullone privilegiato”. Ecco: non riconoscere le
competenze professionali specifiche di un docente è stato il
primo passo per la dequalificazione della professione in
termini salariali e sociali. Questa di sopra non vuole essere una recriminazione ma un
dire come stanno le cose per poterle cambiare in vista di un
miglioramento. Per cui cadiamo dal pero tutti, persino noi docenti,
nell’apprendere che in una recente ricerca inglese sono i
docenti italiani a trovarsi a fianco di quelli finlandesi
per competenza e per influenza positiva sugli studenti. Cosa
vuol dire? Vuol dire che, nonostante i bachi del sistema il
singolo docente una professionalità, tacitamente,
silenziosamente, faticosamente e autonomamente la matura. Il gruppo più numeroso e qualitativamente alto di docenti
del programma europeo di digitalizzazione didattica
Etwinning ad esempio è italiano. Il problema è che non si fa
sistema, non c’è lo spazio per il confronto e non c’è
un’organizzazione superiore tale da mettere in rete e
istituzionalizzare studi, sperimentazioni, aggiornamenti. L’assurdo è che il docente che vuole farlo può oggi
aggiornarsi con estrema difficoltà, spesso a sue spese, con
ricatti psicologici, con scambi e con sensi di colpa. I casi
in cui non è così sono eccezioni. Mi si dirà che non tutti i
docenti si aggiornano: io dico invece che quasi tutti
tentano di farlo e incontra strade in salita. Sapete
perfettamente che è così, cari colleghi. Chi di voi ha
chiesto al proprio preside permessi per seguire dei corsi ha
dovuto sguainare le spade per ottenerli e ha dovuto
pagarseli. Il danno oltre la beffa. Beh no: studio e ricerca
sono funzioni strutturali della docenza, non accessori della
docenza. Averlo dimenticato è il primo indebolimento di
qualificazione professionale. Eppure trattano di cose importanti, essenziali, ineludibili.
Quante campagne informative nazionali si mettono in campo
contro il bullismo? Un’infinità: su tv e stampa. A che
servono? A nulla. Quante formazioni nazionali invece si
predispongono per i docenti delle scuole superiori sulle
dinamiche di individuazione e contrasto educativo del
bullismo? Nessuna. E così per ogni tema. Altro esempio cruciale. Quante campagne nazionali di
formazione dei docenti sulla metodologia di condivisione
della conoscenza e non della trasmissione della conoscenza
si son fatte? I processi di apprendimento oggi sono quasi
esclusivamente per condivisione e non più per trasmissione.
Chi ne parla? In quali momenti di confronto ci si interroga
in modo strutturato e organizzato? Mai. Prof Spicola di cosa
stai parlando? Appunto. Perché ci si stupisce dell’ apatia
nello studio di numeri sempre più alti di studenti? Forse
perché “i ragazzi di oggi sono senza interessi”? Ne siam
sicuri? O perché ci sono problemi enormi di linguaggio e di
paradigmi didattici da rivedere? No, non è la retorica della digitalizzazione, è il desiderio
di affrontare il nodo vitale del cambiamento, è il terreno
di scontro che stiamo vivendo in questo istante. E’ la
riflessione su cosa sia mutato nel mondo. Sono problemi
filosofici che si riflettono poi nel mondo culturale. Chi ne
parla? Stiam qua a fissarci sul tablet senza prima aver
almeno discusso di questo? Quando ha smesso la scuola di
essere il primo riflesso del mondo culturale? Da quando l’insegnante si è trasformato da intellettuale a
impiegato togliendogli lo spazio e la funzione dello studio
in servizio? A qualcuno tutto ciò ha giovato. Non ai
docenti. A chi fa comodo la mancata riqualificazione in
servizio dei docenti? A chi fa comodo che i docenti vivano
in un sistema che rende inevitabile un babele di pratiche,
di didattiche, di metodiche e di mancanza di confronto
comune sui temi? Che rende inevitabile l’enorme difficoltà
dell’ autoaggiornamento? Secondo me fa più comodo ai governi
e agli ingranaggi ministeriali, quelli che riescono a
imporre di tutto di più come apprendisti stregoni e neofiti,
con tanti alibi dalla loro parte. Quello della “professione non abbastanza qualificata” o,
detta più brutalmente “dei docenti che non sanno insegnare”
è il vessillo più facile per imporre e portare avanti con il
consenso dell’elettore scelte di razionalizzazione della
spesa ma molto, molto dubbie dal punto di vista pedagogico,
o quanto meno, non adeguatamente discusse con coloro che poi
se ne devono fare interpreti operativi nel sistema
scolastico, cioè i docenti. Siamo sicuri che “non sappiano
insegnare come facevano una volta” e invece il problema è
che “non devono più insegnare come facevano una volta”? Ad esempio: a che serve un sistema di valutazione nazionale
su cui la classe docente non ha avuto modo ne occasione di
confrontarsi riguardo alle premesse, ai metodi e alle
finalità, cosa completamente nuova e delicatissima per le
ricadute sui processi d’insegnamento apprendimento? A che
serve tenerli all’oscuro o coltivarne l’ostilità se poi tale
sistema lo devono portare avanti e rendere efficace
(attivando processi di insegnamento-apprendimento
conseguenti) gli stessi docenti che non ne hanno vissuto
insieme i momenti di costruzione e la definizione delle
finalità? Non mi si dica che è momento di confronto
l’individuazione random di qualche docente che diventa
“esperto” Invalsi e nemmeno qualche corso che “racconta”
cosa è e a cosa serve la prova Invalsi. Beh no. Non
funziona così e infatti non sta funzionando. Si rischia di
vanificare un percorso importante e serio come quello della
valutazione nazionale, si rischia di non predisporre in modo
serio ampio e condiviso nuove pratiche o riflessioni che
potrebbero nascere dall’analisi dei dati. Quello che mi auguro per i docenti è intanto un nuovo e più
adeguato sistema selettivo: non un miliardo di sistemi, ma
uno solo. Rigoroso quanto si voglia, selettivo quanto si
voglia, ma trasparente, serio e onesto. Senza fare
l’occhiolino a politiche occupazionali e sindacali, ma
facendo derivare queste ultime solo ed esclusivamente dai
bisogni della Scuola. Il secondo indebolimento (psicologico
come sociale) della nostra professione lo incontriamo nel
processo selettivo e nell’immissione in ruolo. I sindacati
si preoccupino piuttosto di verificare la regolarità dei
passaggi, le tutele da attivare e la qualificazione del
mestiere. E infine mi augurio una diversa impostazione
dell’organizzazione del lavoro, perché questo è il terzo
indebolimento della nostra professione, la disorganizzazione
e la fumosità delle funzioni connesse alla docenza. Oggi ci
troviamo in un sistema che rende possibile l’altissima
specializzazione di alcuni ma anche la possibile
dequalificazione e il lavoro difficile, o poco attento, di
altri. Chi osserva da fuori più facilmente fissa
l’attenzione sui casi di deprofessionalità e li assurge a
sistema. Riorganizzazione dunque, fondata su tre cardini:
tempo scuola, la funzione lavoro docente sia ridefinita con
l’elenco dei mille “lavori” che svolgiamo dentro la scuola e
per la scuola oltre le lezioni frontali: non solo dunque le
ore di lezione ma le ore di lavoro funzionali oggi svolte e
poco conosciute socialmente (cosa sono: programmazioni,
consigli di classe, ricevimenti, funzioni strumentali,
organizzazione, scrutini,..), la formazione in servizio che
diventi una funzione docente organica e strutturale, non
come punizione o premio,ma come parte definita del tempo
scuola, e, per favore, si parli di tutela della salute e di
salario adeguato al tempo scuola svolto. Le attività
funzionali crescono in maniera esponenziale anno dopo anno e
nessuno le riconosce, già per effettuare azioni quotidiane
come il registro elettronico e le attività burocratico
giornaliere, etc..etc..vanno via circa due ore in più al
giorno senza che ce ne accorgiamo noi per primi, per non
parlar del resto che abbiamo, dai consigli a tutto il
resto…questo è lavoro e i primi a non riconoscerlo siamo
noi. Collegare le funzioni alla sostenibilità poi: esiste un
diritto alla stanchezza, iniziamo a riconoscercelo noi per
primi e forse lo riconosceranno gli altri. Occorrerebbe una riorganizzazione nazionale dei servizi
offerti in base a degli standards almeno quantitativi
nazionali, aggiornati, obbligatori, un’ uniformazione
dell’offerta formativa almeno sulle cose minime: in termini
di asili, in termini di tempo scuola (quanto più uniformato
da Duino a Lampedusa) e di qualità di strutture: vincolando
le regioni e i comuni a standards comuni inderogabili. La scuola è frammentata ed è nel caos perché oltre alla
carenza di risorse e alla frammentazione formativa dei
docenti vive la frammentazione di condizioni strutturali e
una disorganizzazione nazionale cronica. Siamo una babele di
orari, di qualità di strutture,oltre che di metodologie e
di lessico. Non riusciamo nemmeno a capirci sulle cose elementari in un
consiglio di classe, figurarsi da sezione a sezione, da
scuola a scuola e da regione a regione e ciascuno di noi si
illude di essere il padrone della terra appena entra in
classe. Una rete di idee e di docenti Dovremmo maturare l’idea che insegnare è sì mestiere
individuale in cui vige la libertà d’insegnamento, che ha
però valore collettivo,e che la libertà individuale può
assumere un valore diverso se c’è una base comune e continua
di confronto su temi professionali di cui conosciamo
l’esistenza, i nodi e le diverse posizioni, un mestiere
libero che deve offrire alla collettività un servizio
democraticamente uniforme. Per essere collettivo devi
condividere, confrontare e mutare, giorno dopo giorno.
Questo lo si fa solo se è un atto previsto e predeterminato,
destinando tempo, volontà e soldi al confronto e alla
costruzione di una rete comunicativa professionale, che non
abbia finalità sindacali ma solo professionali,
metodologiche e didattiche. La costruzione di una rete simile è difficilissima se non la
si vuol fare, facilissima se la si vuol fare: pensate che
sarebbe facile, per un governo, avere a che fare con una
classe di 700 mila insegnanti tutti in rete, tutti informati
e tutti attivi dal punto di vista dei temi e dei nodi
educativi? Saremmo un nucleo sensibile e importante dal
punto di vista politico, al di là della funzione educativa.
Pensate che decidere di portare tutti i docenti e gli
allievi alle eccellenze e pensare a come farlo sia un atto
politico meno importante dell’ avere dieci euro in più in
busta paga? Io credo che sarebbe il vero atto politico e che
le dieci euro siano ragioneria, non Politica. Fare i conti con la realtà Per fare queste cose, fosse anche solo la necessità di
ridefinire necessariamente i salari in rapporto a una
riqualificazione professionale - non perché oggi non lo
sia, lo è, ma perché oggi non ci son “le prove”, se riscrivi
i termini contrattuali riconoscendo il lavoro effettivamente
svolto in termini di orario e di formazione, gli alibi del
“lavoro scarso” e dei “privilegi del docente” addotti
finora svaniscono -, 400 milioni di euro previsti nel
Decreto Scuola, o i fondi destinati alle scuole private,
circa 300 milioni di euro, eventualmente recuperati per la
scuola statale, sono nulla, servono miliardi: dai 10 ai 15.
Sono tanti? Sono troppi? Per noi sono persino pochi. Fatte alcune delle cose descritte sopra, la mitica “qualità
della scuola” su cui tutti si affannano a dir la loro alla
domenica mattina, verrebbe di conseguenza, perché siamo noi
docenti con le nostre teste e con le condizioni del nostro
lavoro a tenere in piedi la scuola. I 400 milioni delle
scuole private sarebbero un tassellino, ma evitiamo di
sparare ingenuità tipo che sarebbero la panacea, perché se
lo dovessero fare, di eliminarli, e poi dirci “mò statevi
zitti” avremmo ottenuto il piffero. Se io son contro i fondi
alle private, lo ripeto, lo sono per principio
costituzionale, per motivazione ideale e non per soldi. E per questo mi ribecco pure l’accusa di “ideologia” da
tutti, da destra a sinistra. Ideologia? Cioè? Direi di più:
si tratta di un’idea. Detto ciò, da un sondaggio di un anno fa solo il 2 %
dell’elettorato attivo ritiene che la scuola debba avere
fondi in più. Dunque ce la cantiamo e ce la suoniamo. Le
scelte dei governi sono venute fuori da un circolo vizioso
di ricerca di consenso facile e di necessità di far cassa.
Su un dato millantato: la dequalità della scuola e degli
insegnanti. Millantato perché discrezionale e avallato dalle
zone di vuoto (immissione in servizio non chiara e sempre
rigorosa, opzionalità della qualificazione in servizio, ore
di lavoro non quantificate….). I rilevamenti dei rendimenti
mettono in rapporto i risultati scolastici coi contesti, non
con la docenza. Le poche indagini sulla qualità della
docenza (in genere straniere) rivelano che i docenti
italiani sono generalmente professionali e competenti molto
più di tanti altri. E’ il senso comune quello che non ritiene in questo momento
la Scuola un pilastro essenziale perché, in un paese che ha
perso identità comune e individuale, come anche certezza dei
processi e dei comportamenti corretti, pensa che per
“trovare lavoro non sia essenziale, serve altro, serve la
telefonata” e dunque, in fondo, “non ci vuol mica tanto a
far il docente…che vuoi che sia? perché pagarli? e cosa
pagare?”. Questo è il sentire comune e, di conseguenza, le
forze politiche si regolano con azioni che incontrano il
favore certo: per agire sulla scuola basta “punire” il
docente e si ottiene subito favore sociale. Eppure i docenti, che siamo scontenti eccome, siamo quasi un
milione, se fossimo compatti questa idea potremmo ribaltarla
nel paese e nell’immaginario dei singoli, prima ancora che
nelle forze di governo. Narrando un’altra immagine del docente italiano. Lontana da
quella naif del docente che vuol “conservare privilegi e in
fondo lavora poco” come anche da quella del “docente eroe
missionario” e vicina a quella più rispondente al vero:
quella del docente che lavora, con spirito di servizio, che
è cosciente della sua professionalità e la difende con le
mani e con i denti, pretendendo nero su bianco su alcuni
temi senza nessuna remora a partire dalla riqualificazione
professionale e dal salario adeguato al mutamento di ruolo e
funzione. Passare cioè dalla visione impiegatizia del
docente (che hanno voluto in tanti, per pagarla poco,
sindacati e politica insieme e parte del nostro mondo) a
quella di professionista e intellettuale. E nemmeno mi
convince tanto l’immagine del docente bravo da “premiare”
accanto a quella del docente pessimo da punire: preferisco
immaginarmi dei meccanismi di progressione di carriera
lontani dal libro Cuore e più vicini alle organizzazioni
serie dei sistemi di lavoro: organizzazione, definizione e
divisione del lavoro, diversificazioni funzionali,
progressioni di carriera correlate, definizioni di standards
quantitativi e qualitativi di riferimento. Il riconoscimento del merito deve perdere tutto quello che
di confuso, “romantico”, o tacitamente “sanzionatorio” ha,
per acquistare i caratteri del normale riconoscimento della
necessità della differenziazione del lavoro svolto dentro le
scuole: si chiama divisione del lavoro e viene normalmente
adeguata ai tempi e alle necessità in ogni ambito, sarebbe
bene farlo anche nella scuola. Certo, sono sarà duro
introdurre in Italia la differenziazione delle funzioni
all’interno della scuola. Anche solo a livello di dibattito
non ne parla nessuno, nemmeno si conoscono o considerano le
figure del middle management scolastico, in genere assolte
da docenti che, gradualmente, son meno docenti e più
“altro”, figure normali e previste negli altri paesi ma
totalmente assenti nel nostro perché quelle funzioni sono
assolte in modo nebuloso dai docenti, ma se si vuol
difendere la qualità e la professionalità della scuola
Governi, Paese e sindacati devono iniziare a capire che il
difetto di professionalizzazione della scuola e dei docenti
è innanzitutto nelle loro teste, non nelle nostre. Forse ce la potremmo fare…a cambiar verso alla scuola..ma…
Osservando il vostro collegio docenti, i colleghi e le
colleghe, in che percentuale ritenete che sarebbero
disposti/e a mutare la loro comoda posizione impiegatizia
sempre uguale con quella attiva e mutevole di intellettuale?
Attuando cambiamenti profondi proprio nella considerazione
di se? Osservando lo scontento crescente e le condizioni
sempre peggiori mi sa che la percentuale stia crescendo. Io credo che la scuola debba cambiar verso intanto dal
basso, dalla consapevolezza condivisa di ciò che si è e uno
dei modi passa dalla testa di noi docenti. Non è facile,
no, non lo è. Ma è una cosa possibile. Iniziare con un Theacher’s Pride ad esempio non sarebbe
male. L’ orgoglio di essere insegnanti. Io ce l’ho e voi?
Corriere
della Sera.it, del 31-10-2013
I buoni
frutti dell’educazione per tutti L’esempio finlandese e la selezione degli insegnanti Un gruppo di studenti tra i banchi, seduti di fronte ad un
professore che insegna: immagine che dal medioevo ad oggi
non è cambiata, peccato che fuori da quella classe tutto non
sia più lo stesso. Questa è prima immagine che ci
restituisce il World
Innovation Summit for Education di
Doha. Emerge palpabile la necessità di reinventare
un’educazione che sia davvero utile alla vita di ogni
bambino che diverrà adulto. Reinventare l’educazione perché
sia più vicina alla vita reale, perché possa servire ad
interpretare il mondo, a capirlo, a sopravvivere a
globalizzazione e complessità crescente. LA VECCHIA EUROPA - I dati raccontano lo scandalo di 57
milioni di bambini che non hanno concluso la scuola
primaria, tra cui 30 milioni non hanno mai messo piede in
una scuola, dove soprattutto il continente africano non vede
i progressi asiatici. Ma anche di ormai l’80% della
popolazione mondiale che sa leggere e scrivere (con la
curiosità che meno del 10% degli europei conosce questo
dato) certificando come il lavoro sull’accesso
all’istruzione raccolga buoni frutti, con progetti come
«Educate a Child» che ha l’obiettivo ambizioso di riportare
a scuola 10 milioni di bambini entro il 2016. Paesi dalla
grande vivacità come Ghana e Bangladesh, in termini di
progettualità educativa evoluta, che significa
sperimentazione pedagogica, uso delle nuove tecnologie
spinto, relazioni con le grandi università per certificare o
confrontare modelli educativi. C’è poi un’Europa soprattutto
sud-continentale, (l’intervento del commissario europeo
Vassiliou ha rafforzato in tutti questa sensazione) che
fatica a trovare una sua via (basti pensare al ritorno di
attenzione per il metodo montessoriano e allo stupore che
qui da noi non sia, ahimè, così diffuso) stretta come è in
discussioni tutte centrare sul tema dei tagli di spesa e
riduzione del corpo docente. L’ESPERIENZA FINLANDESE - Dal tetto della classifica PISA
(sistema di valutazione delle competenze degli studenti), ha
riproposto la centralità della qualità e selezione dei
docenti. Un solo dato: 8500 domande alla laurea magistrale
per divenire maestri della scuola primaria e solo 750
selezionate. Lontani anni luce dal nostro sistema di
selezione e valutazione dei docenti, troppo spesso simile ad
un grande welfare. A ciò si affiancano le provocazioni che
le nuove tecnologie ci pongono, nel ridisegnare il profilo
dell’insegnante. In alcune aree del mondo i normali modelli
educativi con rapporti numerici da noi consueti tra docenti
e insegnanti non saranno mai raggiungibili e così le
tecnologie, soprattutto basate su dispositivi mobili, sono
una risorsa formidabile per raggiungere milioni di bambini.
Basti pensare ai positivi esperimenti nelle zone più povere
dell’India o Bangladesh. Per ultimo il tema della formazione
universitaria. I DIECI LAVORI PIU’ RICHIESTI - Tra i 10 lavori più
richiesti oggi al mondo almeno la metà non esistevano solo
10 anni fa. La laurea è un background, un punto di partenza,
come ha ricordato il rettore della Bocconi Andrea Sironi
qualche giorno fa da queste pagine. Si devono anche qui
reinventare percorsi meno centrati sull’accademia, sulle
materie e più sull’acquisizione di quegli strumenti che
consentano di continuare a imparare in un percorso di
lifelong learning senza fine. E noi in questo cammino dove
siamo? Siamo ai margini. O si ricomincia ad aver il coraggio
di tornare a parlare di come facciamo scuola, partendo dai
processi formativi e ridiamo, con coraggio, vitalità ad un
sistema che è ormai asfittico o quello che accadrà è che chi
potrà si comprerà sul mercato i servizi educativi migliori e
tutti gli altri....
Gli investimenti nell’educazione e nella
formazione in Italia sono scesi dal 2009 al 2012 e
continuano a essere molto al di sotto della media europea.
In Italia, si investe solo il 4,2% del Pil in educazione e
formazione, mentre la media dei 28 stati membri Ue è al
5,3%, anch'essa però in decrescita, come mostra l'ultimo
monitoraggio della Commissione Ue su educazione e
formazione. Ben sedici stati membri, infatti, hanno tagliato gli
investimenti all'educazione, con sei di questi, tra cui
l'Italia, che l'hanno fatto in maniera più accentuata.
L'Italia è molto al di sotto della media Ue, in particolare,
nel "raggiungimento dell'educazione universitaria": 21,7%
contro il 35,7% comunitario nel 2012. Comunque sia in Italia
che in Ue il dato è in lieve miglioramento rispetto al 2009. Il tasso di impiego dei laureati è in Italia del 54,3%, a
confronto del 75,7% in Europa, con un calo nelle cifre in
tutta l'Ue, Italia compresa. Infine, anche il dato sugli abbandoni scolastici e della
formazione conferma la distanza tra Italia e media Ue: 17,6%
contro il 12,7% dell'Unione.
Il taglio
di un anno delle superiori prende piede, sperimentazione
richiesta anche al Sud. I sindacati attaccano: si fanno
saltare altri 46 mila posti
29-10-2013, ItaliaOggi, di Alessandra Ricciardi
Il
progetto era già pronto e proprio la riduzione di un anno
del percorso delle superiori era considerata la soluzione
migliore. Per raggiungere l'obiettivo di allineare la durata
del percorso scolastico italiano alla media europea con il
diploma a 18 e non più 19 anni. L'allora ministro
dell'istruzione, Francesco Profumo, ha lasciato l'eredità di
quel progetto nella sua direttiva sulle priorità dell'azione
amministrativa, al termine di un'attività di governo giocata
sempre sul filo del rasoio del consenso dell'esecutivo dei
tecnici. Ora il ministro Anna Maria Carrozza ci riprova anche se
nella forma ridotta di una sperimentazione. Sarebbero al
momento tre gli istituti, tutti paritari, e tutti della
Lombardia, patria del progetto già negli anni passati, che
stanno testando un corso di 4 anni utile a diploma e un
quinto anno riservato ad esperienze anche all'estero per chi
ce la fa a ultimare prima. Un modello che piace se è vero
che anche istituti statali del Sud hanno chiesto di poter
aderire alla stessa sperimentazione. Un modello che piace
certamente al ministro dell'istruzione, «se ci fosse stata
quando ero studentessa», ha detto nel corso di un incontro
con gli studenti sperimentandi del liceo Carli, «anch'io mi
sarei iscritta a una scuola come la vostra». E ha poi
aggiunto: «Si tratta di un'esperienza che dovrebbe diventare
un modello da replicare in tutta Italia anche per la scuola
pubblica». Un annuncio che la messo in allarme i sindacati
della scuola. Ancora da smaltire gli 8 miliardi di tagli
delle riforma Gelmini, il blocco del contratto deciso da
Giulio Tremonti e poi prorogato da Mario Monti e ora da
Enrico Letta, contro il quale hanno indetto una
manifestazione unitaria il 30 novembre, i sindacati di
categoria devono fronteggiare pure gli effetti di una
riforma delle pensioni che ha alzato l'asticella del
pensionamento, riducendo le chance assunzionali. Un taglio
di un anno della durata del percorso delle superiori,
portato a regime, darebbe il colpo di grazia: il calcolo è
presto fatto, un anno in meno vale 46 mila posti di lavoro.
E con un precariato nella scuola che è in continua crescita,
a dispetto dei vari freni legislativi posti alla riapertura
delle graduatorie, anche la sola idea di una sperimentazione
che possa prendere piede sul territorio, aprendo una falla
del sistema, desta preoccupazione. «Ridurre di un anno il
percorso delle superiori significa l'impoverimento ulteriore
della qualità formativa con un effetto devastante sia sul
personale a tempo indeterminato che sul personale precario
in attesa di stabilizzazione», attacca Mimmo Pantaleo,
segretario della Flc-Cgil. «Chi lavora nella scuola è reduce
da una stagione di enorme travaglio che ha visto crescere a
dismisura elementi di tensione e disagio destinati a
incidere negativamente sull'organizzazione del lavoro e
quindi sulla qualità del servizio Non si avvertiva proprio»,
ragiona Francesco Scrima, segretario della Cisl scuola,
«alcun bisogno di segnali che rimettessero la scuola in uno
stato di incertezza sui suoi assetti presenti e futuri». La
questione va capovolta, dice Massimo Di Menna, segretario
della Uil scuola: «Prima si stabilizza l'organico, non in
base alle classi funzionanti ma ai docenti che ci sono, si
prevede un quinto anno per i tecnici e professionali con
stage di lavoro e per licei con attività di orientamento
universitario. Fatti questi interventi, si può procedere a
una sperimentazione di ordinamento triennale. E poi, visti i
risultati, si può pensare a un intervento strutturale.
Altrimenti è solo improvvisazione».
La legge
di Stabilità va cambiata, i sindacati della scuola hanno
messo in fila una serie di richieste che vanno dal rinnovo
del contratto, al pagamento degli scatti di anzianità dal
2012, un piano di investimenti per la scuola pubblica e un
piano pluriennale per la stabilizzazione dei precari.
l'Unità,
del 29-10-2013, di Giulia Pilla
La legge
di Stabilità va cambiata, i sindacati della scuola hanno
messo in fila una serie di richieste che vanno dal rinnovo
del contratto, al pagamento degli scatti di anzianità dal
2012, un piano di investimenti per la scuola pubblica e un
piano pluriennale per la stabilizzazione dei precari. Flc
Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Gilda e Snals-Confsal si
rivolgono a governo e Parlamento e per farsi ascoltare hanno
messo in cantiere una manifestazione a Roma per il 30
novembre. «Questo è solo il primo passo», ha detto il
segretario generale della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo, «finora
abbiamo avuto risposte insufficienti». Anche Francesco
Scrima, segretario generale della Cisl Scuola, promette
rilanci e altre mobilitazioni «perché quando c'è di mezzo la
dignità delle persone il sindacato non deve fare nessun
passo indietro». Sotto accusa è la doppia penalizzazione
dovuta al blocco e a quello degli scatti di anzianità sul
quale il dissenso è netto. «Ancora una volta si è voluto
infliggere a chi lavora nella scuola un'intollerabile
penalizzazione, che non si spiega né si giustifica con le
difficoltà finanziarie del Paese denunciano i sindacati È
inaccettabile che si prelevino dalle tasche dei lavoratori
ulteriori risorse» anche perché in questo modo si
indebolisce ancor di più il potere d'acquisto delle
retribuzioni, peraltro già basso, mentre mancano per i
lavoratori pubblici misure di alleggerimento delle tasse. Ma
non c’è solo questo: la scuola pubblica ha subito
pesantissimi tagli, per i sindacati occorre passare agli
investimenti, con un piano pluriennale che arrivi ad
allineare la spesa per istruzione e formazione alla media
europea. Le risorse si possono trovare dicono e puntano
l’indice contro la spesa pubblica improduttiva, tagliando i
costi di politica e istituzioni, additano gli sprechi e «la
scandalosa evasione fiscale».
Gradoni,
il 2013 non vale più ai fini dello stipendio. In Gazzetta
Ufficiale il dpr. Ma la Stabilità dice cose diverse.
Sindacati sul piede di guerra
ItaliaOggi,
del
29-10-2013, di Carlo Forte
Il blocco degli scatti di anzianità esce
dalla porta e rientra dalla finestra. Nella Gazzetta
Ufficiale 251 del 25 ottobre scorso è stato pubblicato il
regolamento (nato con il governo Monti e poi ultimato con
modifiche dall'esecutivo Letta) che blocca la contrattazione
retributiva, differisce di un anno la maturazione degli
scatti di anzianità e congela l'indennità di vacanza
contrattuale (decreto del Presidente della Repubblica
122/2013). Il provvedimento interviene su due materie previste
nell'articolo 11 del disegno di legge di stabilità: blocco
della contrattazione e indennità di vacanza contrattuale. E
quindi, l'applicazione delle disposizioni in esso contenute
potrebbe creare non pochi problemi di coordinamento con
quelle del disegno di legge AS1120, la legge di stabilità.
In più dispone la cancellazione dell'utilità del 2013 ai
fini dei gradoni e la possibile riapertura della
contrattazione solo per la parte normativa. Sindacati sul
piede di guerra: Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil scuola,
Snals-Confsal e Gilda ieri hanno concordato una
manifestazione di categoria per il 30 novembre: obiettivo,
modificare la legge di Stabilità per rinnovare i contratti e
garantire il pagamento dei gradoni. In vista, lo sciopero di
categoria. Contratti Il decreto 122 dispone il blocco della contrattazione
collettiva per il biennio 2013-2014 (ora possibile solo per
la parte normativa) senza possibilità di recupero (art. 1,
comma 1, lettera c). E il disegno di legge di stabilità
ricalca testualmente le disposizioni contenute nel decreto,
modificando in tal senso l'articolo 9 del decreto legge
78/2010. Ciò conforta la tesi di coloro che sostenevano che
il decreto fosse viziato da un eccesso di delega. Secondo i
quali, l'intervento legislativo si sarebbe reso necessario
perché il blocco della contrattazione collettiva non poteva
essere disposto con un semplice regolamento governativo. Scatti La copertura legislativa mancherebbe, invece, per quanto
riguarda la cancellazione dell'utilità del 2013 ai fini dei
gradoni. Questa disposizione, infatti, è presente solo nel
decreto 122 e non nel disegno di legge di stabilità. In
questo caso, dunque, l'esecutivo non avrebbe ritenuto
necessario l'intervento del parlamento, optando per
l'utilizzo del potere regolamentare. Che discenderebbe
dall'articolo 16, comma 1, del decreto legge 98/2011, il
quale dispone che il governo può disporre per regolamento
«la proroga fino al 31 dicembre 2014 delle vigenti
disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti
economici anche accessori del personale delle pubbliche
amministrazioni». Indennità di vacanza Sull'indennità di vacanza contrattuale (Ivc) le disposizioni
contenute nel decreto 122 collidono, invece, con quelle
contenute nel decreto legge di stabilità. Nel decreto c'è
scritto che nel triennio 2015/2017, fermo il congelamento
dell'importo nel biennio 2013-2014, l'indennità sarà
corrisposta secondo le disposizioni contenute nei protocolli
e nei contratti. Che prevedono, a regime, la corresponsione
di incrementi retributivi pari al 50% del tasso di
inflazione. Nel disegno di legge di stabilità, invece, viene
disposto che l'importo dell'indennità continuerà ad essere
corrisposta regolarmente, senza congelamenti di sorta, ma
nel triennio 2015/2017 l'importo non subirà incrementi e
rimarrà fermo a quello in godimento al 31 dicembre 2013. Ciò
determina l'insorgenza di un contrasto tra fonti di
difficile soluzione. Teoricamente, il decreto 122 si pone in
rapporto di specialità con la legge di stabilità (che per
sua natura è derogabile dai regolamenti). E quindi dovrebbe
prevalere su quest'ultima. Resistendo anche al fatto che
l'entrata in vigore della legge di stabilità risulterebbe
posteriore rispetto al decreto. Ma la Costituzione prevede
che ogni nuova legge che importi maggiori spese debba
necessariamente indicare i mezzi per farvi fronte. E siccome
il decreto si limita a scaricare il problema sul ministero
dell'economia (si veda il comma 3 dell'art. 1) è ragionevole
ritenere che una lettura costituzionalmente orientata delle
due fonti dovrebbe far pendere la bilancia dal lato della
legge di stabilità. Resta il fatto, però, che se il
parlamento non risolverà il contrasto direttamente in sede
legislativa, si rischia di porre le basi per un ennesimo
contenzioso seriale.
Il primo sì al San
Carlo di Milano
Corriere della sera.it,
del 24-10-2013, di Federica Cavadini
Il liceo
in quattro anni ha il via libera del ministro
dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. Maturità con un anno
di anticipo. All’università o al lavoro prima dei diciott’anni,
come in altri Paesi europei. La sperimentazione è stata
autorizzata per tre scuole paritarie, il collegio San Carlo
di Milano, il Guido Carli di Brescia e l’istituto Olga
Fiorini di Busto Arsizio. La prima maturità «anticipata»
sarà quella dei liceali milanesi, il prossimo anno.
Nell’istituto religioso di corso Magenta il progetto era
stato avviato tre anni fa con un primo (parziale) sì del
ministro Mariastella Gelmini e poi con l’assenso di
Francesco Profumo. Poi era partito a Brescia e in provincia
di Varese. Il sì del ministero è arrivato per tutti dopo
l’estate. E in viale Trastevere si dice che il ministro vorrebbe
introdurre il modello del doppio biennio anche nei licei
statali. Immediata la reazione dei sindacati: «Comprimere il
percorso scolastico comporterebbe sul quinquennio la perdita
di 40 mila cattedre. E un risparmio di un miliardo e
trecento milioni di euro», dice il presidente dell’Anief
(Associazione nazionale insegnanti e formatori), Marcello
Pacifico. Intanto la sperimentazione procede. E altre scuole, da
Brindisi a Verona, anche statali vorrebbero il via libera
del Miur. «A Busto Arsizio ha chiesto l’autorizzazione anche
lo scientifico statale Tosi. E il nostro obiettivo è
arrivare alle scuole pubbliche», dice il direttore
dell’Ufficio scolastico della Lombardia, Francesco de
Sanctis. Un percorso di studi ridotto, come l’International
Baccalaureate. E come i licei italiani all’estero, che
durano quattro anni. Il ministro va avanti. Intanto dal San
Carlo il rettore don Aldo Geranzani replica ai sindacati:
«L’innovazione non ha impatto sull’organico, né sulle
risorse. Nessun taglio, nessuna riduzione, piuttosto un
nuovo modo di fare scuola che ci allinea all’Europa». Al
Liceo internazionale del collegio milanese oggi sono
iscritti cento studenti: due classi prime, due seconde e una
terza. «Il livello è alto, svolgiamo gli stessi programmi
dei licei italiani, non quelli delle scuole internazionali —
assicura il rettore — ma il metodo è nuovo». Al San Carlo ci
sono classi da venti studenti, metà degli insegnanti
madrelingua inglese, lavagne luminose e iPad, anche lezioni
in videochat per gli studenti in stage all’estero: l’offerta
è ricca, ma è una scuola privata, le famiglie pagano rette
da novemila euro all’anno. Possibile replicare questo
modello nella scuola pubblica? «Il metodo è esportabile
anche con meno risorse», sostiene don Aldo Geranzani. «Tanti
presidi mi hanno già contattato».
Sta suscitando qualche
preoccupazione l’autorizzazione data dal Miur al liceo
“Carli” di Brescia di ridurre da 5 a 4, in via sperimentale,
il percorso di studi alle superiori
La Tecnica della
Scuola.it, del 24-10-2013, di Pasquale Almirante
Sta
suscitando qualche preoccupazione l’autorizzazione data dal
Miur al liceo “Carli”
di Brescia di ridurre da 5 a 4, in via
sperimentale, il percorso di studi alle superiori. Una sorta
di prova generale per poi contagiare il resto
dell’istruzione superiore italiana? “Profumo” di nostalgie?
Tuttavia, bisogna tenere conto che la scuola in questione,
il “Liceo Internazionale per l’impresa Guido Carli”, è un
istituto paritario e quindi ottenere una autorizzazione per
implementare una sperimentazione, come quella di accorciare
di un anno il corso di studio, potrebbe essere letta senza
le giuste apprensioni che però scattano per due ordini di
motivi. Il primo riguarda le dichiarazioni della stessa ministra,
invitata all’inaugurazione del corso: “Se ci fosse stata
quando ero studentessa, anch’io mi sarei iscritta a una
scuola come la vostra. Si tratta di un’esperienza che
dovrebbe diventare un modello da replicare in tutta Italia
anche per la scuola pubblica”. Il secondo invece ha caratteristiche più particolari,
considerata la fame di risorse di cui il nostro governo è
afflitto, dal momento che se questo modello, suggerito già
dall’ex ministro Francesco Profumo in epoca Monti, passasse,
significherebbe la soppressione di 40mila cattedre con un
risparmio stimato a circa 1.380 milioni di euro, che non
sono noccioline. E non lo sono soprattutto per il governo di
Enrico Letta: affamatamente famelico. Inoltre gli stessi dirigenti del liceo Carli di Brescia
hanno dichiarato che questa sperimentazione intende
“utilizzare un metodo che privilegia la didattica per
competenze, laboratoriale e fortemente integrata. Se da un
lato si incrementa l’apprendimento in tempi inferiori,
dall’altro si migliora la qualità, riducendo la quantità,
facendo meglio in meno tempo e consentendo agli allievi di
concentrarsi sugli obiettivi educativi e didattici volti a
sviluppare al meglio i loro talenti”. Come si possa incrementare l’apprendimento in tempi
inferiori è difficile capirlo, a condizione che le 27-30 ore
settimanali previste per i Licei si svolgano con tempi più
contingentati, nel senso di accumulare in 4 anni tutto il
programma (le cosiddette Indicazioni nazionali) che
attualmente viene si spalmato in 5, per cui sarà giocoforza
passare da 27/30 ore a settimina ad almeno 36 e oltre,
mentre di qualche insegnamento si dovranno ridurre le ore,
se non sopprimerlo: quale?. Una sperimentazione dunque
“pelosa” ma che, siccome passa attraverso una scuola
paritaria voluta fra l’altro da Confindustria, non pare
coinvolgere il resto della scuola pubblica, a condizione che
dal cilindro (ricordiamo quello di Profumo) non esca qualche
coniglio bizzarro. Uno di questo potrebbe essere quello
antropomorfo, con l’orologio di Alice, delle 24 ore a
settimana.
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Decreto scuola al giro di boa
Nuove
assunzioni e istituti sempre aperti osservati special
ItaliaOggi, del 08-10-2013, di Alessandra
Ricciardi
Nuove assunzioni e ampliamento dell'offerta
formativa, dall'ora in più di geografia all'apertura anche
pomeridiana delle scuole, osservate speciali. Tra i rilievi
del Servizio Bilancio e le richieste di chiarimento della V
commissione della camera, è toccato al vice ministro
dell'economia, Stefano Fassina, intervenire in parlamento
per spiegare fin dove si spinge la copertura finanziaria
delle misure proposte con il decreto scuola. Una sorta di controrelazione tecnica al provvedimento
oggetto di conversione in legge alla camera. Provvedimento
che, superata la crisi di governo, oggi è al suo giro di
boa: in mattinata il parere proprio della commissione
bilancio presieduta da Francesco Boccia, e nel pomeriggio il
termine per il deposito degli emendamenti nella commissione
cultura presieduta da Giancarlo Galan. Quelli parlamentari,
ma non si escludono governativi che nell'immediato
dovrebbero limitarsi ad alcune correzioni poco più che
formali. Intanto sempre oggi proseguono gli incontri
informali tra i vertici del dicastero dell'istruzione e le
altre forze politiche della maggioranza, Pdl e Scelta
civica. Già avvenuto infatti quello con il Pd, che ha
caldeggiato la necessità di un intervento sui docenti
inidonei per affidare alla contrattazione la definizione del
passaggio del personale in altri profili. Per il Pdl,
invece, sembrano decisive alcune integrazioni sul fronte
delle scuole paritarie, in crisi tra tagli ai finanziamenti
e difficoltà delle famiglie a pagare le rette. Gli
interventi richiesti riguardano Imu e Tares. Ma restano i
dubbi sulle coperture finanziarie che avevano già stoppato
le misure al consiglio dei ministri. Il dicastero dell'economia ha risposto a molti rilievi, e si
vedrà oggi se le risposte saranno sufficienti per il parere
favorevole della commissione bilancio. Per quanto riguarda
per esempio il potenziamento dell'offerta formativa,
geografia e laboratori didattici, Fassina ha precisato che
lo stanziamento di 9,9 milioni di euro fa parte del fondo
per il funzionamento delle istituzioni scolastiche statali e
che tocca al ministero guidato da Maria Chiara Carrozza
fare, con decreto, il riparto tra le varie voci.In quella
sede «si potrà quindi stabilire l'importo assegnato alle
nuove finalità». Il Servizio bilancio di Laura Boldrini aveva anche chiesto
conto dei parametri della stima dei 3,6 milioni di euro per
il 2013 e degli 11,4 per il 2014 destinati a coprire
l'apertura pomeridiana degli istituti contro la dispersione
scolastica, in particolare al Sud. Si tratta di un tetto
massimo di spesa, ha precisato l'Economia, nel quale non
rientrano le spese per il maggior impegno richiesto al
personale: «Flessibilità oraria, attività aggiuntive di
insegnamento e funzionali all'insegnamento, prestazioni
aggiuntive del personale Ata», il tutto «è remunerato
nell'ambito del fondo dell'istituzione scolastica». Il nuovo
stanziamento del dl serve a pagare infatti i materiali e le
prestazioni d'opera. Sarà la contrattazione integrativa,
agendo sul Fis (che ammonta, rileva la relazione tecnica, a
762,47 milioni), a individuare quanto andrà per le nuove
attività al personale scolastico impegnato anche il
pomeriggio. E poi, dulcis in fundo, le coperture per le
assunzioni di docenti e Ata sui posti vacanti e disponibili
per il prossimo tirennio: il decreto rinvia a un apposito
contratto il compito di garantire l'invarianza di spesa. A
chi chiedeva dettagli, l'Economia risponde che toccherà
all'autonomia delle parti in sede negoziale decidere cosa
fare. Ricorda solo che, nella precedente tornata, sindacati
e governo hanno concordato di sopprimere il primo scatto di
anzianità che va dai 3 agli 8 anni di servizio.
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Analfabetismo funzionale...
Tuttoscuola, del 08-10-2013
Un’indagine dell’Ocse, denominata All, Adult
Literacy and Life Skills, ha messo in evidenza per l’Italia
una pesante situazione di analfabetismo funzionale, cioè
l’incapacità di una persona di usare in modo adeguato le
abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni
della vita quotidiana. Tullio De Mauro, che da anni si occupa delle ricerche
sull’analfabetismo funzionale, scrive che “soltanto il 20
per cento della popolazione adulta italiana possiede gli
strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e
calcolo necessari per orientarsi in una società
contemporanea”. I dati sul resto della popolazione fanno paura: il 5% di chi
ha tra i 14 ed i 65 anni non sa distinguere una lettera da
un’altra o una cifra da un’altra; il 38% riesce a leggere
con difficoltà, quando si tratta di singole scritte o cifre.
La maggior parte degli italiani a stento riesce a
comprendere la posologia di un farmaco: il 5% non capisce
quanto scritto sul bugiardino. La metà poi non è in grado di
capire le informazioni su un foglio di istruzioni. Per combattere questo nuovo analfabetismo (di ritorno, come
viene anche chiamato) che compromette il diritto di
cittadinanza attiva di milioni di italiani tra i 15 e i 64
anni, il nostro Paese ha ancora molto da fare, perché la
percentuale di iscritti a corsi di istruzione per gli adulti
(6%) è attualmente tra le più basse dei Paesi dell’Unione. Dal prossimo anno scolastico prenderanno l’avvio i nuovi
Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, che
saranno organizzati con propria autonomia di istituzione
scolastica e affidati a un dirigente scolastico. Si tratta
di una sfida difficile e complessa per la quale l’Italia è
impegnata a raggiungere per il 2020 (strategia di Lisbona)
l’obiettivo del 12,5%. Contestualmente il nostro Paese è impegnato anche a
conseguire per quella data la riduzione del numero di
giovani con limitata alfabetizzazione e scarse competenze di
base al 15,5% del totale. Lo sviluppo del Paese passa anche dalla lotta
all’analfabetismo funzionale.
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Sostegno, il MIUR “riesuma” la
riconversione per i sovrannumerari: va fatta subito
La Tecnica della Scuola.it
Del 07-10-2013, di Alessandro Giuliani
Lo prevede la Nota n. 10402 con cui viale
Trastevere invita Usr e atenei ad avviare i corsi di
specializzazione, nell’anno accademico 2013/2014, con
priorità rispetto alle attività formative omologhe rivolte a
6.398 docenti abilitati. Andando a scartabellare i
riferimenti normativi emerge che la formazione per i docenti
rimasti senza cattedra dovrebbe essere gratuita e prevedere
un monte ore ridotto. Polemiche in arrivo. Mentre le università sono sul procinto di pubblicare i bandi
di concorso per selezionare i complessivi 6.398 candidati
alla frequenza dei percorsi formativi, riservati ai docenti
abilitati, il 4 ottobre il Miur ha pubblicato la Nota
n. 10402. Attraverso cui invita Usr e gli atenei coinvolti
ad avviare le attività specializzanti, sempre per il
sostegno e nell’anno accademico 2013/2014, da riservare al
personale docente di ruolo sovrannumerario. Il Miur sottolinea, infatti, “l’urgenza di avviare
prioritariamente i corsi destinati ai docenti delle classi
di concorso in esubero”. Pertanto, è evidente l’intenzione
dell’amministrazione di far specializzare (e quindi
collocare sui posti vacanti) prima il personale di ruolo
privo di titolarità (dalle ultime rilevazioni si tratterebbe
di oltre 8mila docenti, in gran parte operanti alle
superiori). E solo successivamente alla stabilizzazione dei
precari. A grandi linee non vi dovrebbero essere particolari
problemi, perché entrambe le procedure (e le conseguenti
assegnazioni di posti) vengano completate. A tal proposito,
basta ricordare che il Governo attraverso il D.M. 104,
approdato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 12 settembre, ha
previsto la trasformazione in tre anni di circa 27mila posti
da sposare dall’organico di fatto a quello di diritto. Ma la Nota ministeriale 10402 fa riferimento anche ad
un’altra Nota, la DGPER n. 2935, risalente al 17 aprile
2012, attraverso cui il Miur ha dato attuazione al Decreto
Direttoriale n. 7 del 16 aprile 2012: il Decreto che, in
pratica, ha istituito e regolamentato gli stessi corsi
specializzanti (previo accordo con la Conferenza nazionale
dei presidi di Scienze dalla formazione). In quest’ultimo
decreto, il Miur sottolineava che le specializzazioni sul
sostegno sarebbero state attivate per la “piena integrazione
degli alunni portatori di disabilità fisiche, psichiche e
sensoriali”, solo “su base volontaria” e riservati a
“docenti delle classi di concorso o tipologie in esubero,
con particolare riguardo a tutte le classi di concorso
interessate da restrizioni di orario prodotte della riforma
in atto”. Nel decreto si specificava, inoltre, che il numero
dei corsi sarebbe stato “programmato” (senza però
esplicitare la quota massima di partecipanti) e che sarebbe
stato lo stesso Ministero i coprire gli interi costi delle
formazione dei soprannumerari. A differenza della
specializzazione rivolta ai precari, per la quale si
prevedono costi almeno pari a quelli affrontati dagli
ammessi ai Tfa ordinari. Solo che quei corsi (oggi tornati in auge) non solo non
furono mai attivati. Ma determinarono pure una coda di
polemiche, soprattutto da parte delle associazione dei
disabili. Perché i “tre moduli, equivalenti ciascuno a 20
Cfu, corrispondenti a un livello base, intermedio,
avanzato”, non sembravano offrire garanzie adeguate sulla
formazione dei frequentanti.
Con il
17,6% siamo ancora lontani dal 10% indicato dall’Ue
La Tecnica della
Scuola.it, del 02-10-2013
Con il
17,6% siamo ancora lontani dal 10% indicato dall’Ue: il dato
aumenta al Sud Italia e si riduce al Centro-Nord. Avviato
uno studio nazionale che avrà come capofila la onlus
Intervita, con l'associazione Bruno Trentin della Cgil e la
Fondazione Giovanni Agnelli: il fine è identificare la
tipologia, i ragazzi che lasciano i banchi di scuola, i tipi
di intervento e la loro efficacia. Ammonta a circa 700 mila la quota di ragazzi e ragazze che
ogni anno lascia i banchi di scuola oppure li frequenta
saltuariamente tanto da non avere alcuna possibilità di
successo formativo. Sono i preoccupanti dati nazionali sulla
dispersione scolastica, ricordati il 1° ottobre a Roma dai
realizzatori di uno studio che avrà come capofila la onlus
Intervita, con l'associazione Bruno Trentin della Cgil e la
Fondazione Giovanni Agnelli. Questi i numeri: con il 17,6% di ragazzi che abbandonano gli
studi l'Italia, secondo i dati Istat ed Eurostat, è in fondo
alla classifica europea; un gap pesante con il resto
dell'Europa, dove in media l'abbandono scolastico è del
14,1%. Nei paesi di pari sviluppo socio-economico la media è
molto più bassa: in Germania è 10,5%, in Francia 11,6%, nel
Regno Unito 13,5%. Il dato aumenta al Sud Italia, dove è al
22,3%, mentre al Centro-Nord di attesta intorno al 16%. A ben vedere, in Italia rispetto al 2000, quando erano il
25,3%, i cosiddetti early school leavers sono diminuiti, con
un primo passo avanti verso il raggiungimento dell'obiettivo
Europa 2020 del 10%. Un dato su cui è prudente il
sottosegretario all'Istruzione Marco Rossi Doria: "C'è un
lento miglioramento dei dati sulla dispersione,
assolutamente insufficiente, che deriva dallo sforzo immane
delle scuole pubbliche. Il danno alle possibilità di
sviluppo e il fallimento formativo sono stati finalmente
messi in relazione con strumenti molto più fini che in
passato", ha aggiunto il sottosegretario intervenendo alla
presentazione degli obietti della ricerca. "Colpisce soprattutto - per Valeria Fedeli, vice presidente
del Senato - che al Sud quasi un ragazzo o una ragazza su 4
abbandonino la scuola: in un circuito esponenziale che
unisce dispersione scolastica e disoccupazione giovanile con
la criminalità. Con un danno per la società che perde
capitale umano". La ricerca che parte il prossimo mese e i cui risultati
saranno presentati tra un anno, ha come aree di riferimento
le province di Milano, Roma, Napoli e Palermo. Il fine è
identificare la tipologia e il numero di ragazzi che
lasciano i banchi di scuola e i tipi di intervento e la loro
efficacia. Intervita ha già lanciato lo scorso anno un
progetto pilota con Frequenza 200, duecento come il numero
dei giorni di lezione che la scuola deve garantire per
legge, che prevede attività di un centro diurno operativo 5
pomeriggi a settimana. Il network coinvolge 800 insegnanti e
dirigenti scolastici, 2.500 famiglie e gli operatori sociali
in attività educative.
Un piano
ambizioso, dunque, che prevede il coinvolgimento di più
settori: la scuola, del resto, di fronte ad un fenomeno
complesso e trasversale come quello dell’abbandono
scolastico precoce da sola non può farcela a vincere la
sfida.
SULLA
DISPERSIONE STIAMO LENTAMENTE MIGLIORANDO
Il
Messaggero, del 02-10-2013, di A. Cam.
ROMA Uno
studente su cinque non ritorna a scuola. Si chiama
«dispersione scolastica», è un fenomeno drammatico, che in
Italia continua a mantenersi su medie molto elevate. Sono
settecentomila bambini o ragazzi italiani, tra i 10 e i 16
anni, che abbandonano la scuola prima del tempo, non
presentandosi all’inizio dell’anno oppure frequentandola
talmente a singhiozzo che è come se non studiassero più. Il
fenomeno in Italia è così elevato che nelle regioni del Sud
raggiunge cifre doppie rispetto ad altri Paesi europei. Ma
anche nella media nazionale, secondo i dati Eurostat, siamo
maglia nera in Europa. La percentuale nazionale di abbandono
degli studi è in Italia del 17,6% dei ragazzi. La media
europea è pari al 14,1%, decisamente meglio vanno le cose in
Germania (10,5%), in Francia (11,6%) e siamo lontani anche
dalla Gran Bretagna (13,5%). Se ci limitiamo al Sud del
nostro Paese la media è del 22,3%, mentre al centro-nord si
ferma al 16,2%. Un dossier su questa emergenza nazionale è
stato elaborato da Intervita Onlus, una Ong di cooperazione
allo sviluppo. Sui dati nazionali, però, non tutto è
negativo. Si può ragionevolmente guardare al futuro senza
troppo pessimismo. C’è un miglioramento, sostanziale,
rispetto alla situazione di inizio secolo, fatidico anno
2000, quando gli early school leavers (bambini che
abbandonano la scuola) risultavano il 25,3%. Segnando un
passo avanti verso gli obiettivi degli impegni europei
riguardo all'istruzione, che prevedono una riduzione del
tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10% per l’anno
2020. «C'è un lento miglioramento dei dati sulla dispersione -
commenta il sottosegretario all'Istruzione Marco Rossi Doria
- assolutamente insufficiente, e che deriva dallo sforzo
immane delle scuole pubbliche». «Colpisce soprattutto - è il
commento di Valeria Fedeli, vice presidente del Senato - che
al Sud quasi un ragazzo su 4 abbandoni la scuola: in un
circuito esponenziale che unisce dispersione scolastica e
disoccupazione giovanile con la criminalità. Con un danno
per la società che perde capitale umano». I ragazzi in fuga
dalla scuola avrebbero un costo di oltre 70miliardi di euro
e 4 punti di Pil, secondo una prima stima fatta
dall’economista Daniele Checchi, dell’Università di Milano.
Per indagare a fondo l’impatto economico e sociale del
fenomeno della dispersione scolastica la Onlus Intervita,
con l’associazione Bruno Trentin della Cgil e la Fondazione
Giovanni Agnelli, dal prossimo mese avvierà una ricerca
della durata di un anno su quattro province di riferimento:
Milano, Roma, Napoli e Palermo.
I
candidati già iscritti nelle graduatorie ottengono l'85%
delle cattedre
Il Sole 24 Ore, del
01-10-2013, di Francesca Milano
Il
concorso della scuola bandito un anno fa dall'ex ministro
dell'Istruzione, Alessandro Profumo, ha premiato
l'esperienza: su 8.3o3 vincitori, ben 5.733 sono docenti già
iscritti nelle graduatorie a esaurimento, 1.290 sono i
laureati presenti nella terza fascia e 66 quelli presenti
nella seconda fascia delle graduatorie di istituto. Solo
1.214 «outsider», ossia aspiranti docenti provenienti da
altri settori, sono risultati vincitori. Un dato, questo,
che ribalta la situazione iniziale: su 326mi1a iscritti al
concorso, oltre 2oomila non sono nelle graduatorie a
esaurimento né facevano supplenze. Dai dati diffusi ieri dal
ministero dell'Istruzione emergono anche le difficoltà del
concorso: degli 8.3o3 vincitori, solo 3.255 sono stati già
assunti nello scorso mese di agosto. Gli altri saranno
assunti nei prossimi anni, in base alle cattedre che saranno
disponibili. Oltre ai vincitori dell'ultimo concorso, da
quest'anno scolastico sono saliti in cattedra anche 834
vincitori dei concorsi precedenti e 7.453 docenti dalle
graduatorie a esaurimento (per un totale di 11.542 posti).
«I risultati del concorso ha spiegato il ministro
dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza so- no da considerarsi
parziali perché ci sono ancora commissioni al lavoro in
Toscana, Lazio, Sicilia, Calabria e Veneto». L'identikit del
docente vincitore del concorso è: donna, over 355 già
iscritta nelle graduatorie a esaurimento. Tra i vincitori,
infatti, le donne superano di gran lunga gli uomini: solo
1.582 nuovi docenti sono maschi. L'esperienza ha pesato
durante tutto l'iter del concorso: dalla preselezione allo
scritto, fino all'orale e alla simulazione di una lezione:
meno di 800 sono i vincitori con meno di 3o anni, appena il
io°io del totale. La scrematura tra docenti con esperienza e
outsider è avvenuta già dal test di preselezione, superato
dal 32,1% dei docenti presenti in graduatoria contro i127,5%
degli «outsider». Allo scritto, poi, il 31,2% dei docenti
precari ha passato la prova, contro i119,50 degli esterni.
Alla fine, gli aspiranti docenti provenienti da altri
settori hanno ottenuto solo il 15% dei posti.
Dispersione, 4% del Pil in fumo
Intervita,
Fondazione Agnelli e Cgil valutano l'impatto economico degli
abbandoni.
ItaliaOggi, del 01-10-2013, di Emanuela Micucci
Settanta
miliardi di euro e 4 punti di Pil. Tanto costa all'Italia la
dispersione scolastica, un fenomeno che attraversa la
Penisola, da Nord a Sud, interessando quasi 2 studenti su
10. Da questa prima misurazione, effettuata da Daniele
Checchi, economista dell'Università di Milano, sui dati
dell'indagine Isfol Plus 2006, prende le mosse la Ricerca
nazionale sulla dispersione scolastica che Intervita,
Fondazione Giovanni Agnelli e l'associazione Bruno Trentin
della Cgil lanceranno oggi al Senato. Obiettivo: quantificare per la prima volta l'incidenza degli
abbandoni scolastici sul Pil italiano e i relativi
investimenti messi in campo dal Terzo Settore per
contrastarla. Nonostante le risorse stanziate e i progetti realizzati in
questi anni per contrastare il fenomeno sia da parte del
ministero dell'istruzione sia da parte del privato sociale,
il 17,6% dei ragazzi minori di 16 anni lascia prematuramente
la scuola, un tasso di abbandoni che tra i giovani
maggiorenni fino a 24 anni tocca il 18,2%. Dati Eurostat,che
collocano l'Italia in fondo alla classifica europea, dove la
media degli abbandoni è il 14,1% dei ragazzi, che scende al
10,5% in Germania, 11,6% in Francia e 13,5% nel Regno Unito.
Percentuale che allontana dall'obiettivo di Europa 2020 di
ridurre la dispersione sotto il 10%. Un ritardo di cui l'Italia paga un prezzo salatissimo: 70,7
miliardi di euro l'anno, pari a circa il 4% del Pil che si
potrebbe guadagnare, spiega Checchi, «se per un incantesimo
si riuscisse a portare l'intera popolazione italiana a
conseguire un diploma di scuola superiore e se ci fosse un
ipotetico mercato del lavoro in grado di assorbirla tutta».
«Un calcolo che – sottolinea Alessandro Volpi di Intervita -
dà l'idea dell'importanza di contrastare la dispersione
scolastica in modo efficace e del potenziale economico che
ha per il Paese». Di qui la nuova ricerca lanciata stamattina non solo per
valutare l'impatto economico della dispersione, ma anche per
comprendere quali sono le migliori iniziative messe in campo
sia del Miur sia del Terzo Settore, valutarne e ottimizzare
le risorse. «I dati del Miur non ci tornano – prosegue Volpi
-, perché c'è un sommerso non registrato. Si pensi ai dopo scuola organizzati dagli studenti
universitari o dalle parrocchie: realtà in alcun territori
molto forti. O al mercato in nero delle ripetizioni. Ai progetti delle associazioni no profit. Oltre ai fondi per
bandi come quello della Legge 285 o il Por del Miur.
Operando sul campo con il progetto Frequenza200 registriamo
nuove forme di disagio che con la crisi si stanno
affacciando non solo al Sud ma anche al Nord, nei quartieri
bene e nelle periferie urbane, colpendo ragazzi provenienti
da fasce sociali finora non a rischio, come le famiglie
separate o con disoccupati». «I dispersi – sottolinea
Gianfranco De Simone di Fondazione Agnelli – sono
soprattutto i maschi, provenienti da un ambiente familiare
con un livello di istruzione basso e/o d'origine straniera,
soprattutto di prima generazione. Di solito ci si concentra
sul biennio delle superiori, ma il meccanismo inizia alle
medie. Un intervento più efficace, poi, dovrebbe contare su
un sistema di monitoraggio integrato tra Miur, regioni e
provincie». L'anagrafe degli studenti del ministero infatti segue il
percorso di ogni studente ma, se un ragazzo dopo le medie
iscrive alla formazione professione per assolvere l'obbligo
scolastico, risulta nell'anagrafe dell'ente locale che non è
integrata con quella ministeriale. «Il rischio - precisa De
Simone - è sovrastimare la dispersione, che tuttavia resta
alta».
Dopo il caso della Sapienza a
Roma storie di studenti tartassati e sfruttati dai “padroni”
degli atenei. Professori che si tramandano posti e potere.
Se lo studente si piega, per alcuni anni fa carriera. Se
protesta, è tagliato fuori
la
Repubblica.it, del 24-09-2013,
Corrado
Zunino
Il barone,
oggi, non è austero né lontano. Non dà del lei. Non ha un
linguaggio letterario. Il barone d’ateneo italiano oggi va
al bar con lo studente, quello privilegiato s’intende. Ride
con lui, usa le sue parole, il caffè poi lo paga lo
studente. Il barone d’ateneo, salda maggioranza accademica
visto che novemila docenti nelle nostre università sono
oltre i sessant’anni, allarga la sua corte facendo finta di
reclutare giovani intellettuali, dar loro una possibilità in
un paese che disprezza cultura e conoscenza. E così, in
cambio di un voto generoso all’esame di biochimica,
un’illegittima spallata per entrare alla scuola di
specializzazione di Cardiologia, il barone d’ateneo ottiene
in prestito, in alcuni casi in ostaggio, la vita dei suoi
discenti. Devono lavorare per lui a tutte le ore, fare le
guardie di notte anche se non sono ancora medici e viaggiare
a spese proprie per i congressi italiani a cui il prof non
potrà partecipare. Produrre ricerche ponderose, ancora, che
poi il docente, solo, firmerà. E si rivenderà per la media
Anvur (arrivano così i finanziamenti pubblici). Se lo
studente volenteroso si piegherà alcune stagioni e per il
resto della vita porterà questa idea di gerarchia dentro,
arriverà il giusto insegnamento. Un po’ di carriera, qualche
occasione per farsi notare. Se, neoabilitato o
specializzando, alzerà la testa, chiederà un rimborso o
magari spiegazioni, se alla festa di compleanno del figlio
del barone non sorriderà abbastanza, a casa. Avanti un
altro. L’esercito degli universitari disperati è davvero
largo, il barone li sostituisce con uno schiocco di dita.
Con l’ultimo concorso di Cardiologia alla Sapienza,
l’accesso alla scuola di specializzazione, si è scoperto che
per passare una prova pubblica che porta a cinque anni
d’inizio professione e a uno stipendio da 1.800 euro il
mese, serviva accompagnare il direttore di scuola e primario
— professor Francesco Fedele, sei pagine di curriculum — in
auto. All’università, all’aeroporto, ai convegni, in
salumeria. Ora un amico di corso dello studente-autista
rivela che lo specializzando premiato non era un furbo
lecchino, piuttosto un neoliberto senza via d’uscita.
Racconta il “compagno vicino”: «Il cosiddetto autista del
professor Fedele è lo studente con la media più alta del mio
corso, una persona davvero in gamba che, emigrata da Lamezia
Terme a Roma, indisponibile a una nuova fuga, è stato
costretto a lavorare come uno schiavo in reparto e, quindi,
ad abbassarsi al ruolo di autista. Conosco a memoria i
problemi dei concorsi di medicina, accadono da sempre e non
so se esiste una cura: i figli dei professori continueranno
a entrare saltando la fila. Chi rimane in questo paese non è
uno stupido, è qualcuno che crede che si possa migliorare,
che questa decadenza sociale possa finire. Finora,
purtroppo, è stato impossibile denunciare un professore e
avere una possibilità di entrare con le proprie gambe in una
scuola di specializzazione». I figli, i famigli. Uno
studente di Tor Vergata, sulla scia del concorso scandalo
della Sapienza, rivela adesso come è stato preparato il
prossimo dottorato in diritto pubblico nella seconda
università romana (dieci posti disponibili). Lo scritto è
andato via il 9 settembre e l’universitario consapevole è
pronto a sottoscrivere i nomi dei vincitori in anticipo.
Un’anomalia è già chiara: uno dei partecipanti al concorso è
il figlio di un cattedratico di diritto penale. Junior, si è
scoperto, corre per lo stesso settore di diritto penale e
procedura penale di senior, e questo denuncia lo scarso
coraggio del “figlio di” nel cercare strade nuove. Il
problema serio, però, è che nella commissione giudicante
dell’erede del cattedratico c’è la docente con cui il
ragazzo è cultore della materia. Il familismo universitario,
ecco, in Italia tocca i migliori. Il professor Attilio
Mastino è un rettore, a Sassari, di riconosciuta serietà e
sta lottando con i denti e con le unghie per tenere in piedi
un ateneo che in una terra di dispersione scolastica e poco
lavoro è un avamposto. Da anni, ormai, i concorsi per
ricercatori a Sassari sono contestati, una contestazione a
bando. E la canea si è alzata anche per l’ultimo: un posto
da assegnare a Demoetnoantropologia. Ha vinto Rossella
Castellaccio, che, si è poi saputo, era figlia del
professore ordinario Angelo Castellaccio, fino al 30 giugno
2012 vicepreside di Lettere, facoltà affine al
mini-dipartimento. Il ricorso non l’aveva certo firmato il
figlio di un minatore del Sulcis, era stata Chantal Arena, a
sua volta discendente di un ex docente di Medicina. Il
maxi-dipartimento di Lettere ha rimandato tre volte gli
orali di “demoetno”: tra due “figlie di” non sapeva chi
scegliere. E il rettore Mastino è stato in difficoltà
personale: tra i sei candidati ammessi agli orali c’era pure
la figlia di sua sorella, Susanna Paulis, e del professor
Giulio Paulis, ordinario di glottologia ed ex preside di
Lettere del vicino ateneo di Cagliari. Il rettore Mastino
cita l’articolo 97 della Costituzione: «I concorsi sono
pubblici e tutti possono partecipare». Ma puntualizza: «I
parenti del rettore hanno zero possibilità di prendere
servizio, lo dice la legge 240 del 2010». I “Pro concorso
nazionale (di Medicina) hanno appena raccolto un dossier di
storie e di esami con il dubbio. Tra queste, si legge il
racconto di un esterno. «Il mio professore ha rivelato che è
usanza dell’ateneo capofila passare le domande della prova
scritta agli studenti della facoltà interna qualche giorno
prima, rendendoci così impossibile competere lealmente con
loro». I ragazzi della Link, sparsi in tutta Italia,
spiegano che il tentativo della legge Gelmini di allontanare
i parenti dalle facoltà è fallito: «Si iscrivono a un altro
corso di laurea, ed è fatta». Raccontano poi, soprattutto
quelli iscritti al Centro-Sud e in atenei metropolitani —
Luca, Alberto, Diana, Lorenzo — come si vive oggi da
studente prigioniero in facoltà. «A Medicina, ma anche a
Lettere, Ingegneria e Giurisprudenza, ti devi mettere dietro
un professore a partire dal terzo anno». Diventerà il tuo
tutor. «Devi essere disponibile a lavorare per lui,
incontrarlo a casa sua la domenica e fare ricerche,
ricerche. Se sono buone, le firmerà il tutor, acquisendo
nuovi punteggi per sé e per il suo dipartimento. Le firmerà
anche se sono scritte in inglese, quasi nessun barone sa
l’inglese. Spesso le ricerche sono solo una scusa per
ribadire un’autorità... “Dai un’occhiata a questo paper”, ti
dicono, e tu ci passi una settimana. Fuori dall’università
lavori per loro e in dipartimento invece di studiare per te
fai fotocopie, se ti va bene consigli libri alle matricole».
Ci sono docenti di Architettura che hanno fatto mappare il
centro storico di Roma per tre mesi di fila agli studenti
assegnati. Il risultato, poi, è stato presentato alla stampa
solo dal professore ordinario. Ad Architettura della
Sapienza, d’altro canto, un docente si vendeva a duemila
euro a esame le risposte per gli scritti dei “fondamentali”:
«Mi raccomando, solo contanti». L’universitario italiano
sempre più spesso si prepara sui libri di testo del suo
tutor: l’ultimo bestseller obbligato per gli ingegneri
civili è “Tecnica ed economia dei trasporti” del professor
Stefano Ricci, associato alla Sapienza di Ro- ma, centoventi
pubblicazioni all’attivo. In questo clima di contiguità
senza uguaglianza accade che esaminandi e preparatori
entrino in confidenza: «Inizi a partecipare ai convegni dei
professori, presto alle feste di famiglia. Poi,
puntualmente, porti la loro biancheria in lavanderia perché
i prof non hanno tempo, accompagni la madre a farsi operare
di cataratta perché non hanno tempo. Una nostra compagna si
è trovata a spolverare lo studio del professore, a casa,
perché lui non aveva tempo». Per ottenere l’ingresso a una
specializzazione ti scopri a dire sempre sì, «a volte anche
alle proposte più sconce». L’università, dicono loro, i
nuovi servitori del sapere, ha baroni di destra e di
sinistra. Credono tutti, senza distinzione, nella
fidelizzazione del candidato, a prescindere dall’attitudine.
Si è tornati agli anni Cinquanta. Arianna Fioravanti nel
2011 venne cacciata dal dipartimento — e dal dottorato — di
Italianistica alla Sapienza. La tutor Biancamaria Frabotta,
poetessa del catalogo Donzelli, si offese perché non aveva
appuntato al petto l’icona femminista di “Se non ora quando”
nei giorni delle proteste anti-Berlusconi. L’assegno di
ricerca sarebbe andato alla figlia dell’editore Donzelli, ma
il Tar del Lazio, in questi giorni, ha reinsediato al
dipartimento la studentessa che aveva alzato la testa. Una
delle poche
Nel Def le riforme per la
scuola: svincolare la carriera dagli aumenti per anzianità
ItaliaOggi, del 24-09-2013, di
Alessandra
Ricciardi
Una nuova
modalità di sviluppo della carriera. Che superi gli scatti
di anzianità per legare lo stipendio alle prestazioni
professionali. Ne scrive il governo Letta nel paragrafo,
dedicato alla scuola e al capitale umano, della nota di
aggiornamento del Def, il documento di economia e finanza. Ma non solo. La revisione della carriera dei docenti,
secondo quanto risulta a ItaliaOggi, è al centro del
dibattito tra i tecnici del dicastero della Funzione
pubblica e quelli dell'Istruzione in vista della prossima
direttiva per il rinnovo contrattuale. Il governo ha infatti
aperto all'ipotesi di un nuovo contratto per i dipendenti
pubblici e per la scuola che però sarà solo normativo visto
che non ci sono risorse da mettere sul piatto degli
stipendi. Su questo il ministro dell'economia, Fabrizio
Saccomanni, è stato tassativo. Salvo quelle economie di
spesa frutto di eventuali risparmi interni ai comparti, che
però nella scuola sono già assorbiti proprio dagli scatti di
anzianità. Insomma, la riapertura della stagione
contrattuale pubblica dovrà necessariamente essere
caratterizzata da una portata innovatrice in larga misura di
carattere normativo. E quelle poche risorse che nella scuola
possono essere attivate dal bilancio statale sono al momento
impegnate per il pagamento degli scatti, l'unica
progressione che consente a circa un milione di lavoratori
aumenti di stipendio rispetto all'inquadramento iniziale.
Facile dunque immaginare che, senza risorse aggiuntive, il
confronto governo-sindacati sul punto sarà a rischio di
tensioni se non di rotture, visto che tutte le sigle
sindacali di settore, Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil scuola,
Snals e Gilda, hanno sempre rivendicato il mantenimento
degli scatti, seppur diluiti come già avvenuto con l'ultima
manovra.
Il Def
messo a punto dal Tesoro, con l'apporto dei singoli ministri
competenti, sottolinea tra i comparti necessari per il
rilancio del paese quello della conoscenza, «un sistema di
istruzione qualitativamente migliore, con un'attenzione
costante alla riduzione degli abbandoni scolastici, con la
promozione dell'apprendimento permanente e il potenziamento
del rapporto tra scuola e esigenze del mercato del lavoro».
Una centralità, quella dell'istruzione, che il titolare del
dicastero di viale Trastevere, Maria Chiara Carrozza, chiede
a gran voce che sia anche sostenuta finanziariamente.
Qualcosa si è fatto, soprattutto grazie all'utilizzo dei
fondi europei, con il decreto legge sulla scuola. Ma per il
personale c'è ancora da attendere. Intanto arriva il via
libera al confronto sulla valorizzazione del personale. Che
per il governo passa, si legge nel Def, attraverso l'avvio
«di un sistema di valutazione delle prestazioni
professionali collegato a una progressione di carriera
svincolata dalla mera anzianità di servizio. Inoltre è
necessario avviare una riflessione per il nuovo reclutamento
dei dirigenti scolastici e dei docenti per assicurare una
selezione di alto profilo e una maggiore qualità alle
istituzioni scolastiche». Per i presidi il dl scuola ha già
previsto che ci sia il corso-concorso affidato alla Scuola
della pubblica amministrazione.
Nel giro di pochi giorni, due
interventi del ministero dell'istruzione, ma non c'è
chiarezza
ItaliaOggi, del
24-09-2013, di
Carlo
Forte
Nomine sul
sostegno e messe a disposizione: è caos. A soli due giorni
di distanza dall'emanazione della nota 9416, del 18
settembre, che doveva servire a mettere ordine nelle
assunzioni dei docenti di sostegno fuori graduatoria, il
ministero dell'istruzione è dovuto intervenire con una nuova
nota (9594 del 20 settembre scorso) per tentare di diradare
le nebbie suscitate dalla nota del 18 settembre.
Elenchi
aggiuntivi
Secondo la
lettura incrociata dei due pareri ministeriali, l'assunzione
dei supplenti di sostegno, individuati tramite le messe a
disposizione, va fatta con priorità rispetto ai non
specializzati.
A patto
però, che siano esaurite tutte le graduatorie di istituto
della provincia, che l'aspirante docente abbia presentato le
messe a disposizione in una sola provincia e che non risulti
incluso nelle graduatoria di alcuna provincia. Resta ferma,
in ogni caso, la priorità per gli aspiranti abilitati
rispetto ai non abilitati e l'obbligo per i dirigenti
scolastici di graduare gli aspiranti con messa a
disposizione tramite la compilazione di apposite graduatorie
aggiuntive. Il tutto mediante l'applicazione delle regole e
dei punteggi validi per le graduatorie di istituto.
La messa a
disposizione
La
questione riguarda le cosiddette messe a disposizione dei
docenti di sostegno. Che sono mere istanze con le quali gli
aspiranti docenti in possesso del diploma di
specializzazione per il sostegno agli alunni portatori di
handicap dichiarano di essere disponibili ad accettare
eventuali proposte di assunzione a tempo determinato da
parte dei dirigenti scolastici. Le istanze vengono
presentate direttamente presso le scuole. E vengono
considerate dai dirigenti scolastici all'atto
dell'esaurimento delle graduatorie di istituto. Intendendo
per tali sia le graduatorie dell'istituzione scolastica di
riferimento, che quelle delle altre scuole della provincia.
In buona sostanza, dunque, si tratta di un criterio di
assunzione meramente residuale. Che può essere utilizzato
solo dopo avere adottato senza esito tutte le soluzioni
previste dalla normativa. Compreso l'esaurimento delle
graduatorie d'istituto dei non specializzati.
Priorità
agli specializzati
Negli
ultimi anni, però, secondo quanto si evince dalla nota del
18 settembre, l'amministrazione ha dovuto fare i conti con
il contrario avviso della giurisprudenza. Che sarebbe
incline a ritenere tassativo il criterio del previo possesso
del titolo di specializzazione ai fini dell'insegnamento
agli alunni disabili. E quindi il ministero dell'istruzione
è dovuto correre ai ripari, avvisando i dirigenti scolastici
che, quando si tratta di sostegno, bisogna fare uno strappo
alla regola. In pratica, dopo l'esaurimento degli elenchi di
sostegno, il dirigente scolastico non dovrebbe applicare il
comma 2, dell'articolo 6, del regolamento sulle supplenze.
Ma dovrebbe passare all'individuazione di un docente
specializzato tra quelli che abbiano presentato la messa a
disposizione.
Note e
regolamenti
Ma il
condizionale è d'obbligo. Perché, fino ad ora, il
regolamento delle supplenze non è stato modificato nel senso
indicato dalla giurisprudenza. E dunque, continua a
dispiegare effetti. Effetti vincolanti, evidentemente. Oltre
tutto il ministero, pur avendo titolo a regolare la materia
del reclutamento dei supplenti, per farlo ha bisogno di
utilizzare lo strumento regolamentare. Che di per sé è
soggetto a rigidi vincoli procedurali. Insomma, può
modificare gli istituti sostanziali e le procedure. Ma non
può farlo con una semplice nota.
Il taglio ai costi per la politica regionale,
deciso da Monti e attuato da Letta, va a danneggiare gli
stanziamento per l'acquisto dei testi dei nuclei meno
abbienti. Il contributo pro-capite passa da 163 euro a 85
euro. La maggior parte dei danneggiati al meridione
la
Repubblica.it, del 23-09-2013, di
Salvo
Intravaia
IL GOVERNO taglia i costi della politica
regionale ma ci vanno di mezzo gli studenti meno abbienti. È
un po’ difficile comprenderne le motivazioni, ma da quest’anno
per gli alunni appartenenti alle famiglie che stentano ad
arrivare a fine mese, comprare i libri di testo scolastici
sarà un problema ancora più grosso dello scorso anno.
Perché, mentre con una mano il governo assegna alle scuole 8
milioni di euro per l’acquisto di volumi in comodato d’uso,
con l’altra ne taglia 50 che fino al 2012/2013 andavano a
rimpinguare il capitolo di spesa che serviva per assegnare
un contributo alle famiglie con figli alla scuola media o al
superiore per l’acquisto dei libri scolastici. Contributo
che viene assegnato ogni anno attraverso le regioni, in base
al reddito familiare. Ma per quest’anno le risorse si sono praticamente dimezzate
e il contributo medio per studente in difficoltà passa da
163 euro – con cui era possibile acquistare da 6 a 7 libri –
ad appena 85 euro a testa, che bastano a malapena per tre
libri al massimo. Il resto dei testi scolastici dovranno
sobbarcarselo le famiglie. Si tratta, secondo le stime
effettuate dallo stesso ministero dell’Istruzione di più di
647mila studenti, appartenenti a nuclei familiari “con
reddito inferiore ad 15.493,71 euro”. Famiglie che abbondano
soprattutto nelle regioni meridionali. Nell’anno scolastico
2012/2013 il ministero erogò alle regioni ben 103 milioni di
euro che per il 2013/2014 diventano 53.560.000. Ma è la motivazione della sforbiciata che lascia perplessi.
Nel 2012 il governo Monti emanò un decreto legge per
tagliare i costi della politica nelle regioni. Una norma
che, per il capitolo relativo all’acquisto dei libri di
testo per gli studenti meno abbienti, rimase in stand by per
qualche tempo. Poi arrivò il governo Letta che lo scorso 29
maggio, attraverso il suo ministero dell’Economia, ha
operato “un accantonamento di 49.440.000, effettuato, in via
cautelativa, nelle more dell’applicazione dell’articolo 2
del decreto-legge” sul taglio dei costi della politica
regionale. Il decreto montiano che intendeva limitare
vitalizi, indennità e gettoni di presenza degli
amministratori locali finisce così per colpire gli studenti
meno abbienti. È soprattutto nelle regioni meridionali che abita la maggior
parte degli studenti meno abbienti, sempre secondo viale
Trastevere. Qualcosa come un milione e 721mila studenti di
medie e superiori corrispondenti al 41 per cento del totale
degli studenti poveri censiti dal ministero. Le regioni più
penalizzate saranno quelle che hanno la percentuale più alta
di studenti appartenenti a nuclei familiari in difficoltà
rispetto al totale della popolazione scolastica regionale:
Sicilia, Basilicata e Campania nell’ordine. In Sicilia, dove
gli studenti meno abbienti ammontano al 29,1 per cento,
verranno a mancare quest’anno risorse per 8 milioni e
600mila euro. In Campania, gli studenti poveri dovranno
accontentarsi di 8 milioni in meno.
Il top dei trattamenti economici è in
Lussemburgo, il dato peggiore in Bulgaria
La Tecnica della Scuola.it, del 23-09-2013,
di P.A.
Il "Fatto quotidiano" riprende l’antica
questione dello scarso apprezzamento della professione
insegnante in Italia e dello scarto stipendiale che c’è in
confronto con le altre nazioni, anche se già in Europa è
presente al suo interno una differenze stramba di stipendi
tra il corpo docente, con la consequenziale differente
considerazione in cui è tenuta la professione in ogni Stato. Si passa da una media per il secondario di 4.780 euro annui
lordi in Bulgaria per arrivare ai massimi del Lussemburgo,
dove un prof del liceo viaggia su una media di 104.049 euro. L’Italia, come è noto, si posiziona nella fascia bassa,
caratterizzata tra l’altro, rispetto alla stragrande
maggioranza degli altri Paesi europei, da un aumento molto
ridotto e lentissimo dello stipendio durante la carriera. I dati più affidabili, specifica Il Fatto, nel settore
provengono da uno studio di Eurydice, organismo che dipende
dalla Commissione europea, che sottolinea come in tanti
Stati europei, a partire dall’anno scolastico 2009-2010, i
salari nelle scuole siano stati congelati o addirittura
ridotti, a causa della crisi. Si tratta di dati relativi all’anno scolastico 2011-2012,
sono cifre da cui vanno tolte le imposte che variano da
Paese a Paese, mentre le statistiche sono espresse in base
allo standard del potere d’acquisto. Sono prese poi in
considerazione i soli docenti di ruolo. In Italia, sostiene Eurydice, il salario medio annuo della
secondaria superiore si posiziona a quota 30.431 euro e il
livello massimo è raggiunto con 34.867, ma solo dopo 34 anni
di anzianità. In Francia invece il livello minimo della secondaria è di
28.666, e si può arrivare a 47.610 per il secondario
superiore. I Paesi europei dove ci vogliono almeno 34 anni di anzianità
per raggiungere lo stipendio più alto sono, oltre
all’Italia, Spagna, Ungheria, Austria, Portogallo e Romania,
mentre ce ne vogliono appena dieci in Danimarca, Regno Unito
ed Estonia. Gli insegnanti più poveri si ritrovano in Bulgaria, appena
4.780 euro annui lordi in media per il secondario. Bassi i
salari dello stesso ciclo di studi anche in altri Paesi
dell’Europa centro-orientale: Romania (5.078), Lettonia
(9.216), Ungheria (9.448), Estonia (9.520) e Slovacchia
(9.605). Niente rispetto ai 104.049 del Lussemburgo e a seguire, nei
primi posti, ci sono la Danimarca (70.097) e l’Austria
(57.779); e poi la Finlandia (49.200), che per il parametro Pisa, che
a livello dei Paesi Ocse, i più industrializzati, misura la
qualità formativa degli studenti, figura sempre al primo
posto a livello mondiale. Seguono: Belgio (48.955), Regno
Unito (44.937), Svezia (35.948). Due casi a parte sono la Germania e la Spagna, dove gli
stipendi, oltre che per l’anzianità, differiscono molto
anche secondo la regione. In Germania, ad esempio, i salari
sono ancora decisamente più bassi nell’Est e a Berlino
rispetto all’Ovest. A livello nazionale per il liceo si
passa da un minimo a inizio carriera di 45.400 euro fino ad
arrivare a 64.000. In Spagna, invece, si passa da 33.000 a
46.000, comunque decisamente al di sopra dell’Italia
-
Rossi Doria: “Nuovo clima ora
l’educazione torna al centro dell’agenda”
Intervista
La Stampa.it, del 10-09-2013, di Flavia
Amabile
Tre anni da sottosegretario al ministero
dell’Istruzione non hanno fatto perdere a Marco Rossi Doria
la vocazione di maestro, e soprattutto di maestro di strada.
È felice delle misure approvate ieri dal consiglio dei
ministri, e lo è perché ad essere difesi sono quegli ultimi
che sono i suoi alunni preferiti. Tra insegnanti di sostegno
assunti e fondi per combattere la dispersione scolastica ci
sono tutti i suoi cavalli di battaglia di sempre. Ma lei era sottosegretario già l’anno scorso. Che cos’è
cambiato in quest’anno? «Rispetto al passato è cambiato il clima. È una questione
politica, ora finalmente la scuola è al centro dell’agenda
politica, considerata di nuovo un investimento e non una
spesa. Il segnale per famiglie e professori è chiaro: si può
ripartire, forse non ci sono tutti i soldi ma già qualcosa è
stato fatto». È una questione di governo, di ministro? «E’ una questione di risultati. Bisogna portare fondi a casa
e stavolta i soldi ci sono. Erano due lustri che non si
vedeva un intervento così. Stavolta è davvero cambiato il
vento». Sono stati assunti oltre 26 mila insegnanti di sostegno. Che
cosa vuol dire per gli alunni? «Per i professori vuol dire non dover essere più licenziati
ogni anno e poi essere riassunti, ma per le famiglie e i
ragazzi vuol dire ancora di più: si affida il proprio figlio
o la propria figlia ad un insegnante e si sa che il lavoro
compiuto in un anno scolastico continuerà il successivo con
lo stesso insegnante. Si darà così una risposta stabile a
più di 52.000 alunni». Sono stati trovati anche fondi per la dispersione
scolastica. «Si tratta di 15 milioni in totale (3,6 per il 2013, 11,4
per il 2014) e altri ancora potranno essere trovati
attraverso i fondi europei. Nelle zone a rischio si potrà
tenere le scuole aperte anche di pomeriggio per il
consolidamento delle competenze di base. Sono iniziative che
abbiamo già sperimentato con successo ad esempio nella
regione Puglia. Sappiamo che porteranno ad un calo duraturo
della dispersione scolastica e ad un miglioramento delle
conoscenze dei ragazzi come è confermato dai dati Ocse e
Invalsi». Come saranno scelte le scuole a cui saranno destinati i
fondi? «Ci metteremo al lavoro con i direttori regionali per capire
i criteri da utilizzare e per fare una programmazione
relativa al prossimo anno scolastico. Si cercherà di
privilegiare soprattutto le realtà della scuola primaria».
Il decreto è un primo, importante segnale
l'Unità,
del 10-09-2013, di
Massimo
Adinolfi
Il decreto è un primo, importante segnale.
Per anni scuola e università sono scivolati a margine delle
politiche di governo e dell’attenzione pubblica, oppure sono
stati interessati da propositi di riforma confusi,
accompagnati da una sempre più accentuata diminuzione delle
risorse, a sua volta coperta da una aggressiva quanto
velleitaria ideologia meritocratica. Come se il problema
della scuola italiana stesse esclusivamente nel permettere
ai migliori di eccellere, con buona pace di tutti gli altri.
Come se non fosse invece necessario recuperare la centralità
della vita scolastica nei processi educativi, nella
considerazione delle famiglie, nel tessuto sociale del
Paese. Ci sarà tempo per analizzare nel dettaglio il
provvedimento varato ieri, che interviene su diversi aspetti
del pianeta scuola: dal caro-libri, che si cerca di
contenere, agli interventi per l’edilizia scolastica, che
possono rappresentare solo il primo passo di un piano più
generale e di stanziamenti più cospicui. Dal fondo per le
borse di studio per studenti universitari, che si incrementa
(anche se di poco) alla lotta alla dispersione scolastica,
che questo decreto prova a rilanciare (anche se, di nuovo,
15 milioni non sono certo un intervento risolutivo). Il
piano di immissione degli insegnanti, peraltro, attende
ancora di essere definito nel dettaglio. Ma, detto ciò, quel
che conta è l’impegno generale del governo a mettere mano a
una materia su cui per troppo tempo ha prevalso una logica
penalizzante, se non addirittura punitiva, nella convinzione
che la scuola italiana fosse un vasto continente di sprechi
diffusi, eccessivamente sindacalizzato e pesantemente
ideologizzato, da riportare quindi sotto gli standard di
razionalità e efficienza che l’imperativo tecnocratico dei
nostri tempi prova a dettare in ogni ambito del sociale: che
si tratti di scuola o di ospedali, di cultura o di salute,
tutto ciò che è pubblico essendo per principio giudicato
inefficiente, bisogna, questa è la parola, razionalizzare.
Il che equivale a ridurre le spese, efficientare,
sburocratizzare, professionalizzare e, in ultima analisi,
selezionare, in uno spirito competitivo che appartiene ai
dettami concorrenziali del mercato, ma che nulla o poco
dovrebbe avere a che fare con i progetti educativi e
formativi di un’istituzione scolastica. C’è uno
stanziamento, nel decreto di ieri, che merita di essere
segnalato a questo proposito. Si tratta, anche in questo
caso, di pochi milioni, dieci per l’esattezza, destinati a
finanziare l’ingresso gratuito per i docenti nei musei e nei
siti culturali. Non è cosa da poco: non certo dal punto di
vista della cifra, ma dal punto di vista della direzione che
il provvedimento si sforza di indicare. Immaginiamo infatti
cosa possa significare presentarsi presso la biglietteria di
un museo e, in forza di un tesserino da impiegato pubblico,
vedersi riconosciuto il diritto di visitare gratuitamente
una mostra: non equivale automaticamente a far parte di una
casta di privilegiati? Sembra che finalmente il governo a
questo domanda si sia attrezzato per rispondere di no, e che
voglia anzi consentire all’insegnante che torna a
frequentare i musei con soldi pubblici, e non con piccole
economie tolte a un bilancio familiare sempre più magro, di
rispondere che quella visita è importante, per il docente
certo ma anche per il discente, che troverà in aula,
l’indomani mattina, un professore non solo o non tanto più
preparato, ma più invogliato a trasmettere ai propri allievi
il gusto della scoperta, il piacere del bello e del vero, il
valore della cultura. Il corpo docente rischia in questi
anni di apparire formato da sfigati incapaci di farsi valere
nella giungla del mercato e perciò imbucatisi nella scuola.
Con questo decreto possiamo perlomeno augurarci che i
docenti ricomincino ad apparire per quel che sono e che
devono essere: un pezzo essenziale della classe dirigente
del Paese. Aiutiamo l’Italia se restituiamo loro la dignità
e il rilievo che la loro funzione merita.
Estesi i permessi di soggiorno per studio,
cade l'esenzione Imu per le paritarie
Corriere della sera.it, del 10-09-2013, di
Mariolina Iossa
ROMA — «Si torna a investire nella scuola
perché anche così si esce dalla crisi», dice il ministro
Maria Chiara Carrozza che poi annuncia uno dei provvedimenti
più attesi e discussi: «Il bonus maturità è stato cancellato
già da quest'anno, abbiamo verificato che produceva
squilibri e disparità». Ma per tutto il mondo della scuola
la buona novella è un'altra: dopo anni di tagli arrivano 400
milioni di euro e «l'istruzione riparte». Il Consiglio dei ministri vara il pacchetto scuola e
università con una serie di misure che per il governo sono
il segnale di un cambiamento di rotta perché, dice il
premier Enrico Letta, «le attese sono moltissime da parte
del mondo dell'istruzione e abbiamo voluto dare le prime
risposte. Le risorse sono limitate, abbiamo dovuto fare i
salti mortali», ma almeno adesso, conclude il presidente del
Consiglio, «torna ad essere applicato il principio
costituzionale del diritto allo studio, se non c'è diritto
allo studio le persone non sono in grado di superare le
diseguaglianze dei punti di partenza». Ecco allora che arrivano i soldi: una bella fetta (13
milioni per questi ultimi tre mesi dell'anno, 107 a regime)
servirà per l'immissione in ruolo di 26 mila insegnanti di
sostegno, ma per il prossimo triennio è prevista
l'assunzione di 69 mila docenti e 16 mila Ata. Un'altra
grossa fetta, 100 milioni, è destinata alle borse di studio
degli studenti universitari per il Fondo che diventa
consolidato, e 15 milioni vanno agli studenti medi e
superiori meritevoli ma privi di mezzi per trasporti e mense
scolastiche; 15 milioni sono per aumentare la rete wireless
nelle scuole secondarie, 6 milioni per gli studenti iscritti
alle accademie di danza, belle arti, arte drammatica e
conservatori. Tetto massimo ai libri di testo e 8 milioni per finanziare
l'acquisto da parte delle scuole di libri di testo e di
ebook da dare in prestito agli alunni in condizioni
economiche disagiate. Oltre 6 milioni saranno destinati a
potenziare già dal quarto anno del liceo l'orientamento alla
scelta della facoltà universitaria mentre con più di 3
milioni sarà reintrodotta la geografia al biennio negli
istituti tecnici e professionali e altri 3 milioni, con il
contributo del ministero dei Beni culturali, andranno ai
licei musicali paritari. Ai professori 10 milioni per la
formazione. Sarà vietato fumare negli istituti, non più soltanto nelle
aule ma anche nei cortili. Esteso il divieto alle sigarette
elettroniche. La durata del permesso di soggiorno degli
studenti stranieri sarà allineato a quella del corso di
studi. Sulle paritarie e l'articolo 12 (requisiti minimi
delle classi), in Consiglio dei ministri ci sono state
polemiche per cui si è deciso di «stralciare» le norme e di
non inserirle nel decreto mentre, a differenza di quanto si
era creduto in un primo momento, le scuole paritarie gestite
dalle onlus non saranno esentate dal pagamento dell'Imu. «Grazie al ministro Carrozza e al Pd finalmente si torna a
investire nella formazione», dice il segretario del Partito
democratico, Guglielmo Epifani. Approva la Uil. Piace alla
Cgil il
pacchetto scuola anche se, dice il portavoce nazionale del
settore Mimmo Pantaleo, «il decreto è un primo passo per
invertire le politiche degli ultimi anni che hanno devastato
il sistema d'istruzione e ricerca del nostro Paese», e
bisognerà fare di più. Tutto il Pd e il Pdl, con Stefania
Prestigiacomo, rivendica il contributo della coalizione
all'approvazione del decreto. Critica la Lega: «Così
aumenteranno la spesa pubblica e le tasse», dice il deputato
Gianluca Pini.
-
Per la scuola 400 milioni. Libri di
testo, si cambia
Il premier: il diritto allo studio in primo
piano
10/09/2013
l'Unità,
del 10-09-2013, di
Luciana
Cimino
Lo avevano annunciato già all'insediamento,
ieri lo hanno concretizzato. Dopo quasi due lustri si torna
a investire nella scuola pubblica. Certo, i danni causati
dai tagli dei governi precedenti sono difficili da
affrontare, ma l'esecutivo Letta ha cercato di dare almeno
un segnale di inversione di tendenza. Il decreto legge
approvato ieri in consiglio dei Ministri non a caso è stato
intitolato «L'Istruzione riparte». Due gli obiettivi:
salvare l'anno scolastico in corso e gettare le basi per le
prossime riforme organiche. Gli interventi previsti dalla
ministra per l'Istruzione, Maria Chiara Carrozza (che si è
detta «commossa e orgogliosa per aver riportato l'istruzione
al centro dell'agenda politica») e il premier Letta
riguardano tutti i settori del comparto grazie a uno
stanziamento di 400 milioni di euro, coperti prevalentemente
dall'accisa sugli alcolici. I primi fondi, dopo anni dì
tagli per un ammontare complessivo di circa 10 miliardi di
euro. «L'applicazione della Costituzione sul diritto allo
studio è all'inizio del nostro provvedimento - ha spiegato
il presidente - Ci interessa ricominciare a investire sulla
scuola e l'istruzione dopo anni di tagli perché sono il
centro per il rilancio del nostro Paese. Abbiamo messo a
punto alcune prime risposte, ne verranno altre». Per prima
cosa viene cancellato il contestato bonus maturità, già
dall' anno in corso. Significa che le facoltà a numero
chiuso che stanno somministrando i test di accesso in questi
giorni non dovranno tenerne conto nel calcolo per
l'ammissione. «Era di difficile applicazione e avremmo
creato iniquità», ha ammesso Carrozza. Soddisfatte le
associazioni di studenti che ne chiedevano l'abrogazione.
«Finalmente è stato cancellato il bonus - ha dichiarato
Alberto Campailla, portavoce nazionale di Link
(coordinamenti universitari) - uno strumento che avrebbe
creato grandi discriminazioni. L'abrogazione rappresenta una
grande vittoria derivante dalle tante iniziative di protesta
degli studenti». Si interviene poi nuovamente sul caro
libri. Il governo incentiva l'utilizzo dei libri usati e nel
contempo cambia le regole i tetti di spesa. Da oggi saranno
i dirigenti scolastici a vigilare sul rispetto del budget.
Inoltre sono previsti 8 milioni di euro (2,7 per il 2013 e
5,3 per il 2014) per finanziare l'acquisto di test e e-book
da parte delle scuole secondarie da destinare, in comodato
d'uso, agli alunni in situazioni economiche disagiate. Sono
invece 15 i milioni di euro a favore degli studenti «capaci
e meritevoli ma privi di mezzi» di modo che, come prevede
appunto il dettato Costituzionale, possano raggiungere il
più alto livello d'istruzione. I fondi saranno assegnati
sulla base di graduatorie regionali e serviranno a coprire
le spese di trasporto e ristorazione. Altrettanti milioni
(3,6 per il 2013, 11,4 per il 2014) serviranno per la lotta
alla dispersione scolastica attraverso un Programma di
didattica integrativa che contempla metodi didattici
individuali e il prolungamento dell'orario per gruppi di
alunni nelle realtà a rischio abbandono. 6,6 milioni anche
per l'orientamento (1,6 per il 2013 e 5 per il 2014), «sarà
coinvolto nel processo l'intero corpo docente e le ore extra
saranno numerate», ha spiegato il Cdm. 100 milioni di euro
saranno destinati alle borse di studio degli universitari
con altri 6 milioni stanziati a favore degli studenti
iscritti alle Istituzioni dell'Alta formazione artistica,
musicale e coreutica. Altre novità riguardano l'estensione
del permesso di soggiorno per chi studia nel nostro Paese
(definita dalla ministra per l'Integrazione Kyenge «un
grande passo per l'Italia»), il potenziamento delle ore di
geografia generale ed economica con lo stanziamento di 13,2
milioni; poi 15 milioni, subito spendibili, per il wireless
nelle scuole secondarie, con priorità alle superiori.
Spiegano da palazzo Chigi che «gli studenti potranno
accedere a contenuti digitali in modo rapido e senza costi»;
il divieto di fumo (incluse le sigarette elettroniche) anche
negli spazi aperti. Ma la parte più attesa del decreto
riguarda le assunzioni. «Le nostre scuole sono in drammatica
carenza - ha detto Letta - e la ripresa delle assunzioni è
un fatto molto significativo». Il piano del governo punta a
coprire il turn-over in tre anni con circa 42mila posti in
più. Poi si stabilizzeranno 27mila docenti di sostegno
(trasformando in organico di diritto le supplenze) e dal
2014 si comincerà ad assumere anche 16 mila (in tre anni)
tecnici e amministrativi (Ata). Soddisfazione è stata
espressa dai sindacati. «Il decreto va nella direzione
giusta», ha detto la Cisl mentre Domenico Pantaleo,
segretario generale Flc - Cgil parla di «primo passo
avanti». «S'iniziano a raccogliere i primi frutti delle
tante iniziative per ridare valore e dignità all'intero
sistema della conoscenza». Dl «positivo » anche per Matteo
Renzi, «se non si investe sulla scuola non si esce dalla
crisi». «Fondamentali i provvedimenti sul welfare
studentesco », commenta Valeria Fedeli, esponente Pd e
vicepresidente del Senato. Un plauso al governo arriva da
tutti i democratici mentre rimangono perplessi Sel e PdL
Approvato il pacchetto-scuola. Da gennaio
assunzioni per il personale Ata. Borse di studio per i
meritevoli e permessi per gli stranieri. Insegnanti gratis
nei musei
Corriere
della sera.it, del 09-09-2013, di
Valentina
Santarpia
Via libera del consiglio dei ministri
all’assunzione a tempo indeterminato di 26.000 insegnanti di
sostegno: verranno stabilizzati nell’arco di un triennio
passando dall’organico di fatto a quello di diritto. Da
gennaio partiranno le assunzioni anche di personale Ata per
il funzionamento delle scuole. Ma, il decreto approvato in
mattinata prevede anche l’apertura di mutui per
ristrutturare e sistemare le scuole. Per favorire interventi
straordinari e la messa in sicurezza di istituti scolastici,
nonché la costruzione di nuove scuole, le Regioni possono
stipulare mutui trentennali con la Bei, la banca di sviluppo
del consiglio d’Europa e la Cassa Depositi e prestiti. Sono
stanziati contributi pluriennali per 40 milioni di euro
annui per la durata dell’ammortamento del mutuo, a partire
dal 2014. Per le famiglie è prevista la possibilità di avere libri in
comodato d’uso per contenere la spesa per l’istruzione. È
una possibilità prevista dal decreto legge sulla scuola
approvato oggi dal consiglio dei ministri. Il ministero
assegnerà direttamente alle scuole la somma di 2,7 milioni
di euro nel 2013 e 5,3 milioni nel 2014 per l’acquisto,
anche tra reti di scuole, di libri adottati dal collegio dei
docenti, ovvero dispositivi per la lettura di contenuti
digitali, da concedere in comodato d’uso ad alunni
individuati sulla base dell’indicatore Isee. Gli insegnanti
potranno invece entrare gratis nei musei italiani. Arrivano anche 15 milioni di euro per il wireless nelle
scuole con priorità per quelle di secondo grado: lo scopo è
mettere in rete tutto il sistema scolastico Borse di studio. E’ previsto lo stanziamento di 15 milioni
per il 2014 per garantire agli studenti capaci e meritevoli
ma privi di mezzi il raggiungimento dei più alti livelli di
istruzione. I fondi saranno assegnati sulla base di
graduatorie regionali e serviranno per coprire spese di
trasporto e ristorazione. Alle erogazioni potranno accedere
gli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo
grado. Nel decreto c’è una norma che estende il permesso di
soggiorno alla durata della frequentazione dei corsi di
studio per gli studenti che vengono dall’estero a studiare
in Italia. Infine nel decreto rientrano anche le norme anti-fumo che
prima dell’estate aveva presentato il ministro Lorenzin:
sono previste multe per chi non rispetterà, da subito, il
divieto di fumo negli ambienti scolastici, nei cortili e nei
pressi degli istituti.
Via libera del Cdm al decreto con misure
urgenti in vista del nuovo anno scolastico.
la Repubblica.it, del 09-09-2013
Via libera
del Cdm al decreto con misure urgenti in vista del nuovo
anno scolastico. Tra le misure principali: l'eliminazione
del bonus maturità, l'istituzione di un fondo per il welfare
scolastico, le sanzioni per chi utilizza sigarette
elettroniche a scuola, la stabilizzazione di personale Ata e
insegnanti di sostegno
ROMA -
Eliminazione del bonus maturità già da quest'anno. Riduzione
del costo dei libri per famiglie e studenti, con
l'istituzione di un fondo per il welfare scolastico.
Sanzioni per chi utilizza sigarette elettroniche a scuola.
Estensione del permesso di soggiorno per studenti stranieri.
Assunzioni per il personale Ata e stabilizzazione di 27mila
insegnanti di sostegno. Sono le principali misure contenute
nel decreto legge su scuola e università approvato oggi dal
Consiglio dei ministri. "Quattrocento milioni di euro", il
valore complessivo dell'operazione, secondo il ministro
dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza.
Cancellazione del bonus maturità.
"L'applicazione della Costituzione sul diritto allo studio è
all'inizio del nostro provvedimento - ha sottolineato Enrico
Letta" . Che ha aggiunto: "Ci interessa ricominciare a
investire sulla scuola e l'istruzione dopo anni di tagli
perché sono il centro per il rilancio del nostro Paese.
Abbiamo messo a punto alcune prime risposte, ne verranno
altre". La misura più attesa era quella che cancella il
cosiddetto bonus maturità: "Abbiamo ritenuto che il bonus,
così, creasse disparità che non potevano andare", ha
spiegato il premier. Nella tornata di test d'ingresso alle
facoltà a numero chiuso in corso in questi giorni non si
terrà dunque conto del voto conseguito all'esame di Stato.
"Era di difficile applicazione e avremmo creato iniquità",
ha ammesso il ministro Carrozza.
Assunzioni
per personale Ata e insegnanti di sostegno.
Significative anche le misure che riguardano il personale
tecnico e amministrativo degli istituti scolastici. "Per il
funzionamento delle scuole, nel decreto c'è l'inizio della
soluzione della questione del personale Ata. Dal primo
gennaio partiranno le assunzioni" - ha annunciato il
presidente del Consiglio - "Le nostre scuole sono in
drammatica carenza" e la ripresa delle assunzioni "è fatto
molto significativo, perché la carenza non poteva
continuare" . Via libera anche all'assunzione a tempo
indeterminato di insegnanti di sostegno. "Con questo
provvedimento ci saranno 27mila immissioni in ruolo - ha
detto il ministro Carrozza -. Poi c'è un piano triennale che
prevede l'assunzione di 69mila insegnanti. In un momento di
crisi come questo, il governo dà un segnale importante".
Sempre i docenti potranno beneficiare "dell'ingresso
gratuito al sistema museale del nostro Paese". Voglia dare
un "grande messaggio di attenzione nei confronti di questo
mondo" - ha detto Letta.
Riduzione
del costo dei libri.
Previsti anche sgravi nei costi dei libri di testo per le
famiglie. "Già da quest'anno scolastico, gli studenti
potranno utilizzare i libri di testo delle edizioni
precedenti - ha spiegato il ministro dell'Istruzione Maria
Chiara Carrozza -, a patto che siano "conformi alle
indicazioni nazionali". Cambiano anche le regole sui tetti
di spesa dei libri scolastici: d'ora in poi dovranno essere
i dirigenti ad assicurarne il rispetto non approvando le
delibere del collegio dei docenti che ne prevedono il
superamento. Mentre è previsto uno stanziamento di 8 milioni
di euro (2,7 per il 2013 e 5,3 per il 2014) per finanziare
l'acquisto di libri di testo e e-book da parte delle scuole
secondarie, che li destineranno agli alunni in situazioni
economiche disagiate in comodato d'uso. Arriva il 'welfare dello studente'. Con uno stanziamento di
15 milioni di euro nel 2014 per "favorire il raggiungimento
dei più alti livelli negli studi" e "il pieno successo
formativo" degli studenti
delle medie e delle superiori. Il decreto varato oggi dal
governo introduce contributi e benefici in base a tre
parametri: l'esigenza di alleggerire la spesa delle famiglie
per pasti e trasporti; le condizioni economiche dello
studente sulla base dell'Isee; il merito negli studi in base
alla valutazione scolastica. Mentre 100 milioni di euro
saranno destinati al Fondo per le borse di studio degli
studenti universitari.
I provvedimenti del governo
La
Stampa.it, del 09-09-2013, di
Flavia
Amabile
Dai precari al bonus maturità, fino agli
insegnanti di sostegno e gli aiuti per evitare il
caro-libri: oggi in consiglio dei ministri si discute un
sostanzioso pacchetto-scuola mirato soprattutto alle
famiglie e alla volontà del governo di rendere meno caro il
costo dell’istruzione. Sulle misure si lavorerà fino all’ultimo istante, il
Consiglio dei ministri è convocato per oggi alle undici. E
ci potrebbero essere modifiche anche durante la riunione.
Nell’articolato sarà previsto uno spostamento di diverse
migliaia di posti di sostegno: si parla di 27-28mila
cattedre che passeranno dall’organico di fatto a quello di
diritto. Un altro capitolo sarà il dimensionamento delle scuole con
riferimento agli organici di dirigenti scolastici e
direttori generali amministrativi (in base all’accordo
Stato-Regioni), ma i dettagli saranno resi noti soltanto
oggi.
Libri di testo Si cercherà di ridurre i costi
dei libri di testo da adottare, prevedendo anche il comodato
d’uso per gli studenti meno abbienti. E di approvare le
misure annunciate nei giorni scorsi dalla ministra
dell’Istruzione Carrozza sul welfare scolastico, con un
pacchetto trasporti valido su autobus e treni, che dovrebbe
consentire di rendere meno caro il costo dell’istruzione per
gli studenti e le famiglie. Si sta studiando un intervento sui libri digitali che tenga
in considerazione sia le esigenze di innovazione e risparmio
che quelle poste dalle case editrici. Si dovrà scegliere se
verrà imposta una piattaforma centralizzata a livello
ministeriale o sarà data mano libera alle case editrici. I presidi Dovrebbe esserci una norma salva-presidi e
finanziamenti del fondo ordinario delle scuole utilizzato
per le esigenze che ogni istituto deve affrontare all’inizio
dell’anno scolastico. Non si hanno cifre anche perché la
materia è di competenza del ministero dell’Economia che
tende a tenere sempre molto stretti i cordoni della borsa.
La ministra aveva chiesto un aumento del fondo ordinario,
portando la quota per alunno da 8 euro a 25. Vorrebbe dire
triplicare i fondi ma è difficile che si arrivi ad un simile
risultato. Si sta pensando ad un potenziamento dell’insegnamento della
geografia negli istituti tecnici e professionali. Università Per quel che riguarda le università dovrebbe
esserci un aumento dei fondi per la ricerca e la
cancellazione dal prossimo anno del contestatissimo bonus
maturità assegnato agli studenti che affrontano i test di
ammissione nelle università a numero chiuso. Sarà istituita una graduatoria unica nazionale per i medici
specializzandi che sostituirà quelle attuali per singolo
ateneo in modo da favorire la trasparenza degli esami e
arginare le baronie. L’orientamento Uno stanziamento è previsto per favorire
l’orientamento dei ragazzi, in uscita da medie e superiori,
con l’obiettivo di far emergere attitudini ed evitare scelte
sbagliate. Ma si dovrebbe intervenire anche sull’orario
degli insegnanti per fare in modo che una quota delle loro
ore annuali dedicate ad attività funzionali debba essere
svolta sotto forma di orientamento per gli studenti degli
ultimi anni, per guidarli nella scelta dell’università o
degli istituti più adatti alla loro formazione. I precari Per quel che riguarda i precari si sta elaborando
un piano triennale per le immissioni in ruolo. Secondo le
anticipazioni del ministero dovrebbe riguardare 44mila
immissioni dal 2014 al 2017 ma anche in questo caso sulle
cifre tutto può accadere. Si tratterebbe di 26.264
professori normali, 1.608 docenti di sostegno e 13.400 Ata,
per un totale di 41.272 posti. A questi andrebbero aggiunte
le cattedre in più sul sostegno. Gli «inidonei» Non ci sarà alcun intervento sui 3.500
insegnanti non più idonei all’insegnamento nei ruoli di
assistenti amministrativi e tecnici dei laboratori . E non
sarà affrontata dal punto di vista pensionistico nemmeno la
vicenda «Quota 96», almeno in questo provvedimento.
Per il sottosegretario all’Istruzione il
rischio è di ritrovarci con una scuola dei talenti da una
parte e una degli 'sfigati' dall'alt
La Tecnica della Scuola.it, del 05-09-2013,
di Alessandro Giuliani
Per il sottosegretario all’Istruzione il
rischio è di ritrovarci con una scuola dei talenti da una
parte e una degli 'sfigati' dall'altra: grazie invece a
maggiori finanziamenti, gli insegnanti si organizzerebbero
in autonomia, rispondendo direttamente ai ragazzi e
ottenendo risultati, sia in termini di riduzione delle
bocciature sia accompagnando chi è in difficoltà. È
difficile, però, che questo Governo possa fornire certe
risposte. Dare più risorse alla scuola, per superare il problema
dell’appiattimento formativo. Che penalizza, certamente, i
ragazzi più svantaggiati e provenienti da famiglie
culturalmente meno dotate. A farne richiesta è uno dei
rappresentanti più alti del ministero dell’Istruzione, il
sottosegretario Marco Rossi Doria. “Nella scuola oggi – ha detto intervistato dal programma
'Tutta la città ne parla' di Rai Radio3 - c'è un problema di
equità, la nostra scuola è troppo standardizzata: una scuola
equa non dà la stessa cosa a tutti, ma dà di più a chi parte
con meno, come diceva don Milani. Fa scoprire le parti
nascoste di ciascuno studente e ne stimola i lati più forti.
Se non si procede così, ci ritroveremo con una scuola dei
talenti da una parte e una scuola degli 'sfigati'
dall'altra, ma questo sistema non funziona”. Rossi Doria, che è stato confermato nello stesso ruolo dopo
averlo già ricoperto con l’ex ministro Profumo, è convinto
che “equità non significa uguaglianza astratta, ma saper
riconoscere i diversi contesti familiari e sociali di
provenienza e colmare gli svantaggi con dei programmi
integrati e razionali: gli insegnanti italiani hanno gli
strumenti per fare tutto questo?”. La questione, a suo avviso, è anche economica: “bisogna
investire più risorse. Negli ultimi anni sono stati
sottratti 8,4 miliardi all'istruzione. Laddove ci sono
risorse e gli insegnanti si organizzano in autonomia,
rispondendo direttamente ai ragazzi, si ottengono grandi
risultati sia in termini di riduzione delle bocciature sia
nel settore difficile dell'accompagnamento di chi è in
difficoltà. Mancano le risorse, non gli strumenti culturali
e didattici”. Al sottosegretario è stato anche chiesto il parere sulla
posizione espressa di recente dal ministro dell’Istruzione,
Maria Chiara Carrozza, a proposito della quale la bocciatura
deve essere adottata solo come “scelta
estrema“. Secondo Rossi Doria, che è anche
maestro di ‘strada’, “bisogna essere onesti coi ragazzi:
fargli capire quello che sanno e quello che non sanno, certo
non regalargli la promozione perché significherebbe negare
la loro dignità, e poi accompagnarli nel superamento delle
difficoltà”. Il messaggio è chiaro. Anche ai colleghi di partito del
Partito Democratico. Ma il Governo, di tipo bipartisan e con
una crisi forse irreversibile sullo sfondo, sarà in grado di
recepirlo?
Il triste epilogo
della questione dei ‘Quota96’ rappresenta un esempio di come
la volontà di voler approvare determinati provvedimenti,
anche a favore degli alunni, oltre che dei dipendenti, si
scontri con la cronica scarsità di fondi statali. Come dire:
in questo momento ha probabilmente più potere la Ragioneria
generale dello Stato che il presidente del Consiglio
coadiuvato da tutti i suoi ministri.
-
E' quasi ufficiale: il fondo di istituto
sparirà
Se il fondo di istituto verrà di nuovo usato
per gli aumenti, alle scuole rimarrà ben poco da contrattare
La Tecnica della Scuola.it, del 05-09-2013,
di Reginaldo Palermo
I sindacati, Cgil esclusa, chiedono di
conoscere l'entità delle risorse derivanti dai risparmi di
sistema, in modo da poter decidere qualcosa in merito agli
scatti stipendiali. Se il fondo di istituto verrà di nuovo
usato per gli aumenti, alle scuole rimarrà ben poco da
contrattare. Ormai è chiaro come andrà a finire anche quest’anno la
contrattazione di istituto. Nella giornata del 3 settembre
il Ministero ha comunicato ai
sindacati che ci sarà un modesto incremento delle
risorse destinate al funzionamento delle scuole (ma solo per
alcune voci particolari che non riguardano tutti). Ci saranno anche un po’ di soldi in più per le supplenze, ma
questo è semplicemente un “atto dovuto” in quanto come
avviene da alcuni anni anche per il 2013 la previsione
iniziale su questa voce era stata sottostimata. Ma più interessanti di tutte sono le notizie su quanto si è
detto in fatto di fondo di istituto. Sono stati gli stessi sindacati a chiedere al Miur di
aspettare a dare delle cifre. “Prima - hanno detto i sindacati, Flc-Cgil esclusa -
vogliamo sapere a quanto ammontano i risparmi di sistema
derivanti dalla applicazione della legge 133/08 e poi ne
parleremo”. Evidentemente i sindacati hanno in mente di chiedere anche
questa volta che i risparmi di sistema vengano utilizzati
per pagare gli scatti stipendiali e siccome già si sa che
non basteranno l’idea è appunto quella di tagliare ancora le
risorse destinate al fondo di istituto. Oltretutto c’è da
dire che la legge 133 prevedeva per il 2012 un risparmio di
3miliardi e 188 milioni, superiore di 650milioni esatti a
quello calcolato per il 2011. Ora, se già lo scorso anno i risparmi sono stati risibili, è
del tutto evidente che per il 2012 sarà anche peggio. Ciò significa che gli eventuali scatti stipendiali dovranno
gravare pressoché interamente sul fondo di istituto che, in
pratica, si ridurrà a poca cosa. E, poiché alcune voci non potranno essere eliminate del
tutto (per esempio i compensi per i collaboratori del ds o
quelli per le ore eccedenti o per il lavoro festivo e
notturno) è del tutto chiaro che il taglio dovrà essere
fatto sul resto. E’ quindi necessario che le scuole facciano molta attenzione
a programmare le proprie attività e forse non sarebbe male
se anche docenti e Ata prestassero maggiore attenzione agli
incarichi assunti. A marzo ci si potrebbe trovare di fronte ad un fondo di
istituto pressoché azzerato, con tutte le conseguenze del
caso.
l'Unità, del 04-09-2013, di Franco Labella
L’assicurazione auto non c’entra niente,
c’entra, invece, la difficoltà di cui ha parlato anche Mila
nel suo ultimo post: non riusciamo, anche nella scuola, ad
essere un Paese normale. Un Paese dove si blatera da tempo di meritocrazia e poi si
varano meccanismi come quello relativo alle prove di
selezione alle Facoltà universitarie a numero chiuso che è
noto come “bonus”. Ma bisognerebbe chiamarlo decisamente “malus”. Se vi fate una
googlata
con “bonus maturità” vi salta subito fuori il quadro
d’insieme: un provvedimento del MIUR che è riuscito a
suscitare un coro unanime di dissenso. Dagli studenti ai genitori passando per i presidi e per i
professori. Non piace nemmeno ai rettori. Proprio a nessuno. E perché non lo eliminiamo? Perché come si dice,
cosa fatta capo ha.
Anche se, magari, non ha molto
senso. E’ come la storia che i miei quattro lettori conoscono già. La Gelmini elimina lo studio del Diritto alle superiori. E’ un’assurdità ma secondo Profumo e temo anche Carrozza
cosa fatta capo ha anche
se evito il turpiloquio e non scrivo di che
capa si tratta. Tornando al
bonus malus,
stavolta, pur essendoci profili quanto meno di evidente
disparità di trattamento, non hanno intervistato giuristi a
profusione come nella allucinante vicenda della decadenza di
B. e meno male perché, sicuramente, ne avremmo lette delle
belle. Ideato da Fioroni, riportato in auge dal tecnocrate Profumo,
già criticatissimo al suo primo apparire, il provvedimento è
stato poi rivisto dall’attuale ministro Carrozza in un
percorso così dilatato che il decreto a sua firma è stato
pubblicato il 12 giugno ma il corredo dei dati necessari al
calcolo è apparso in Rete qualche giorno fa, il 30 agosto. Ieri un amico me ne ha parlato veramente con il sangue agli
occhi. E’ l’ amico un mite collega di religione poco avvezzo alle
sparate polemiche. E’ un amico che fa del principio di legalità la sua seconda
religione e che m’ha spiegato che il provvedimento ha subito
quattro cambiamenti nel corso della sua breve vita. Mi fido dell’amico e rinuncio a controllare anche perché non
ci sarebbe da meravigliarsi troppo dell’idea che si pensi di
cambiare le carte in tavola in corso d’opera. Alla faccia
della certezza del Diritto…. Non l’abbiamo persino visto proprio con le regole dell’esame
di Stato come , ad esempio, con la valutazione del triennio
precedente per aspirare al voto massimo con lode ma con lo
studente che lo scopre a triennio già completato? Chissà perché allora la retroattività, Gelmini imperante a
Trastevere, non c’ha appassionato…. Ho descritto il carattere del mio amico ma la premessa era
indispensabile per capire che, come leggerete, c’entra, nel
sangue agli occhi, sicuramente il ruolo di padre ma c’entra,
soprattutto, lo scoramento del docente mosso da profondo
senso civico e rispetto delle regole che deve provare a
“giustificare” l’ingiustificabile. Il sangue agli occhi era, perciò, quello del padre
“costretto” a spiegare alla figlia un’assurdità ma anche
quello di chi deve, coltivando il civismo, provare a
spiegare un meccanismo incivile che ho persino difficoltà a
spiegare in termini semplici. Avrei dovuto rispolverare i ricordi di un lontano esame di
Statistica perché in gioco ci sono concetti un po’ astrusi,
percentili et similia,
difficili da far digerire a chi ha visto questo
provvedimento cambiare tre o quattro volte dalla sua
ideazione. Cercherò, allora, di scriverla semplice. Noi non siamo un Paese normale per due ragioni: la prima è
che, come spiegherò, dubitiamo di noi stessi, la seconda poi
è quella solita. Siamo la patria del Diritto ma riusciamo sempre a far
diventare il Diritto un esule che sta da qualche altra parte
ma non in Italia. In sintesi il punto di partenza è questo: c’è il valore
legale del titolo di studio, mettiamo in piedi un meccanismo
anche formale di commissioni per gli esami di Stato, di
procedure, di controlli ma dubitiamo delle valutazioni delle
commissioni. Siamo convinti che , come si chiamano a Napoli, agli esami
si facciano trastole,
qualcosa tra il malfatto e l’imbroglio. La vulgata dice che, mettiamo il caso, al Sud regaliamo
voti, i mitici cento e siccome le
trastole, se ci sono,
non le scopriamo o non le vogliamo scoprire, cosa
c’inventiamo? Che chi prende un voto alto in una classe con voti alti lo
dobbiamo punire. Quindi quella che formalisticamente ha preso 98 in una
classe con altri voti alti diventa sospetta e da punire. Siccome c’abbiamo il sospetto statistico che quella non sia
una classe di geni ma di piccoli imbroglioni, all’allieva di
quel 98 lì non diamo i punti di bonus che le spetterebbero
mentre, invece, alla sua compagna che il 98 l’ha preso nella
classe a fianco, la classe di pochi voti alti, sì. Ma mica la differenza è solo all’interno delle classi di uno
stesso istituto. Perché il meccanismo fa sì pure che, in base ai risultati
medi, lo studente dell’ istituto professionale che prendesse
86/100 avrebbe diritto a 3 punti di bonus maturità mentre lo
studente del liceo classico che prendesse 92/100 si
ritroverebbe con 0 (zero) punti di bonus. Se volete rovinarvi la giornata ed approfondire vi metto un
link utile. Assurdo, complicato, inspiegabile, mostruoso sotto il
profilo giuridico? Scegliete voi. E mettetevi nei panni dell’amico che deve far digerire
questa mostruosità ad una figlia che, oltre tutto, decide di
partecipare alla lotteria del numero chiuso. Ma sarebbe tanto difficile eliminare il numero chiuso
sostituendolo con un meccanismo effettivamente
meritocratico? A Medicina o a Veterinaria ti ci iscrivi liberamente ma se
poi il tuo percorso di studio si inceppa non puoi più
proseguire. Troppo complicato? Sì ma nel Paese normale dove siamo costretti ad avere sogni. Senza avere nessun Martin Luther King.
Bocciare o non bocciare, è un'alternativa che
torna nel dibattito sull'educazione.
Corriere della sera.it, del 04-09-2013, di
Gianna Fregonara
ROMA — «La bocciatura? È utile soltanto in
casi rari», perché «quando si entra in una scuola, si entra
per uscirne vincitori con il diploma». Parole del ministro
dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza, che solleveranno il
morale agli studenti alla vigilia del rientro. Meglio una selezione all'ingresso, con l'orientamento,
suggerisce il ministro, e casomai proprio non riuscissero a
seguire, «indirizzare gli studenti verso altri percorsi»,
che «l'estrema soluzione». Questione di motivare i ragazzi
ma anche questione di sistema: «L'alto tasso di respinti in
Italia è legato alla dispersione scolastica e all'incapacità
delle famiglie di seguire al meglio i propri figli — ha
detto ieri Carrozza al Mattino —. Insomma è un elemento di
disagio del sistema educativo nel suo complesso». Bocciare o non bocciare, è un'alternativa che torna nel
dibattito sull'educazione. E in Italia evoca certi fasti
scolastici sessantottini e infastidisce i sostenitori del
merito. Ma è diventato negli ultimi anni, da quando sono
disponibili i rapporti internazionali dell'Ocse (il prossimo
alla fine di quest'anno) un tema europeo. Una questione
psico-pedagogica certo, ma anche economica. Era stato nel
2008 il ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa a
fornire i dati del costo per il bilancio dello Stato delle
bocciature scolastiche: due miliardi e mezzo all'anno, dieci
miliardi in quattro anni, ottomila euro per ogni ragazzo che
deve ripetere l'anno, secondo l'Ocse. Da allora di che cosa fare con i «costi» economici e non
solo sociali del fallimento scolastico si è molto parlato.
In Italia c'è stata la «stretta» sui voti (condotta
innanzitutto) imposta dalla riforma Gelmini. In Europa
l'ultima proposta in ordine di tempo è tedesca: la
coalizione Spd-Verdi in Bassa Sassonia ha in mente
l'abolizione delle bocciature nelle scuole del Land. Non
sarebbero d'accordo i colleghi bavaresi: lo scorso giugno in
una scuola tecnica vicino a Monaco un'intera classe ha
conquistato il record negativo della bocciatura collettiva,
27 su 27 ripeteranno l'anno. Il dilemma europeo attraversa
tutti i Paesi. In Francia, dove la scuola vive uno dei
momenti più turbolenti degli ultimi decenni, dopo lungo
dibattito il Parlamento ha approvato in primavera una legge
per la riduzione progressiva delle bocciature che diventano
«eccezionali». In Finlandia, il migliore sistema scolastico
europeo secondo l'Ocse, come in Danimarca, Grecia, Regno
Unito, Norvegia, Svezia e Cipro, la promozione è automatica
fino ai 16 anni (scuola dell'obbligo) e la bocciatura è
prevista solo in casi eccezionali (assenze, gravissime
lacune) e concordata con psicologi e genitori. L'aria cambia
nel biennio finale dove il sistema diventa ovunque più
rigido. «Il tema non è quello della bocciatura ma delle alternative
che la scuola e le famiglie riescono a mettere in campo
prima di arrivarci — spiega Andrea Gavosto della Fondazione
Agnelli —. La bocciatura sanziona un errore di percorso e
dunque bisognerebbe insistere con l'orientamento». A Torino
la Fondazione con il Comune ha predisposto un test
attitudinale per tutti i ragazzi delle medie pubbliche per
aiutare gli insegnanti a dare indicazioni: «Chi segue i
risultati ha un tasso di abbandono minimo». Ma poi
servirebbero corsi di recupero personalizzati, scuole aperte
il pomeriggio... Insomma, «finanziamenti e una
riorganizzazione dell'insegnamento». Certo il rischio che la scomparsa anche solo della minaccia
della bocciatura porti un certo lassismo è un dubbio anche
per i sostenitori del sistema più «inclusivo». I dati sulla
dispersione scolastica contenuti nell'ultimo rapporto del
Miur (giugno 2013) sono chiari sul rischio di fallimento del
sistema: rispetto alla media europea l'Italia ha una
dispersione del 18%, quasi uno studente su cinque, un tasso
più alto della media europea. Dunque è venuta l'ora di
cambiare, come peraltro consiglia l'Ocse («I Paesi con il
maggior numero di bocciati sono anche quelli con il sistema
meno efficiente»)? A riabilitare la bocciatura è invece uno che ha dovuto
«incassare il colpo», parole sue, di dover ripetere la
quarta ginnasio e poi, venticinque anni dopo, ha vinto il
premio Strega, Niccolò Ammaniti: «La bocciatura serve, se
riconosciuta dallo studente e dalla famiglia come tale: come
un momento per resettarsi, mettersi in discussione e
ricominciare. Se invece è contestata, considerata come un
problema da superare senza onta, allora no. Anche se fosse
ingiusta, serve perché ti mette alla prova con l'ingiustizia
di fondo che c'è anche nella vita».
la Repubblica.it, del 04-09-2013, di Tito
Boeri
Da settimane l’attività del governo è
paralizzata dal tentativo di spostare l’Imu e l’aumento
dell’Iva un po’ più in là. In attesa di ogni compiuta
decisione in merito, i sindaci, che non sanno su quali
risorse potranno contare, hanno chiesto e ottenuto di avere
più tempo a disposizione per decidere sulle tasse
addizionali che possono attivare. I bilanci di previsione
(!) 2013 verranno così presentati a fine novembre, un mese
prima della chiusura dell’esercizio. L’incertezza regna
sovrana anche tra imprese e famiglie: non sanno quali tasse
e quale ammontare dovranno pagare. Circolano tanti acronimi,
che iniziano immancabilmente con un Ta come tassa (Tari e
Tasi tra i più gettonati), l’unica cosa certa è che il nuovo
involucro avrà un nome inglese, forse più accattivante. Il
decreto varato dal governo martedì scorso è stato riscritto
prima di andare in Gazzetta ufficiale, introducendo, tra le
altre cose, l’ennesima clausola di salvaguardia: se le
fantasiose coperture trovate per abolire la prima rata dell’Imu
2013 non si rivelassero all’altezza, fra quattro mesi
scatteranno aumenti automatici di Irap, Ires e accise. Per
scongiurare questa eventualità bisognerà ovviamente che
questo governo sia in carica. È forse questo il fine ultimo
della clausola: serve a salvaguardare il governo, ad
accordargli lunga vita nonostante un breve mandato. Nel frattempo le energie più vitali del paese non vengono
affatto salvaguardate. Anzi se ne vanno. L’ultimo episodio è
quello di Wise srl, premiata lo scorso anno ad Aarhus come
la migliore start up europea nelle innovazioni di grande
sviluppo. Nata da uno spin-off della Statale di Milano,
cercava mezzo milione di euro (un ottavo dello stipendio di
base, tra l’altro più che dimezzato, di Kakà) di
finanziamenti per proseguire le ricerche sull’uso di
nanotecnologie nella cura di un’ampia gamma di patologie. Le
banche italiane, prodighe nel concedere finanziamenti ben
più consistenti a palazzinari inquisiti e finanzieri
falliti, non l’hanno ritenuta meritoria di credito. Il Fondo
Italiano di Investimento e il Fondo Strategico Italiano
della Cassa Depositi e Prestiti non devono averla ritenuta
un’italianità strategica. Così, alla fine è stato un fondo
tedesco ad accordare il finanziamento, imponendo però che
impresa, brevetti e ricercatori si trasferissero in
Germania. Difficile trovare qualcosa di più strategico per il nostro
paese del capitale umano. Non possiamo farne a meno per
tornare a crescere. Eppure non facciamo nulla per migliorare
un bilancio disastroso: per ogni cervello che riusciamo ad
attrarre, otto se ne sono andati. La posizione dell’Italia
nella competizione mondiale per attrarre talenti è, per
certi aspetti, ancora peggiore di 50 anni fa, quando il
fisico Giovanni Piovani, allora presidente del Consiglio
Nazionale delle Ricerche, lanciava il campanello d’allarme:
“Nei giovani sempre più si radicherà il desiderio di andare
fuori dal Paese pur di trovare condizioni e mezzi
scientifici adeguati alla loro ansia e alle loro necessità
di ricerca”. Allora, come oggi, chi faceva ricerca in Italia si trovava
di fronte a vincoli di bilancio stringenti e alla miopia di
una classe dirigente incapace di capire il valore
dell’investimento in ricerca, un “bene di lusso” per De
Gasperi. Allora, come oggi, la ricerca più avanzata veniva
in gran parte finanziata dal-l’estero, da fondazioni private
come la Rockfeller Foundation o agenzie come l’Atomic Energy
Commission. Ma c’era comunque l’idea di un paese in forte
crescita economica — che prima o poi avrebbe permesso anche
a noi di acquisire “beni di lusso” — e di una rivoluzione
culturale in atto, in grado in un tempo non troppo lontano
di far capire a tutti il valore economico della ricerca
scientifica, soprattutto di quella di base. Nascevano così,
grazie al volontarismo di scienziati come Adriano Buzzati
Traverso (il cui impegno instancabile viene ricostruito,
passo per passo, in un bel libro di Francesco Cassata,
“L’Italia Intelligente”) centri di eccellenza come il
Laboratorio internazionale di genetica e biofisica di
Napoli. Sarebbero durati poco perché la rivoluzione
culturale non ci sarebbe poi stata e molti dei ricercatori
che fornivano la massa critica a questi centri sarebbero
emigrati in Svizzera e poi negli Stati Uniti. Ma quel che
conta è che allora c’era una speranza di cambiamento, in
grado di spingere molti nostri scienziati a investire
sull’Italia, malgrado tutto. Oggi questa speranza non c’è più. Difficile farsi illusioni
in un paese in cui non si fa nulla per tornare a crescere,
destinato solo fra 10 anni a raggiungere i livelli di
reddito pro capite del 2007. Un paese poi in cui non si
tiene in alcun conto la ricerca scientifica. L’ultimo
esempio lo abbiamo avuto con il voto di Camera e Senato di
qualche settimana fa che impone vincoli irrazionali alla
sperimentazione biomedica sugli animali, portandoci fuori
dall’Europa e dalla comunità scientifica internazionale.
Quel che è più indicativo è il fatto che il Parlamento abbia
deciso senza neanche sentire la necessità di consultare chi
fa ricerca biomedica in Italia: nessuna audizione, nessun
parere richiesto. Al contrario, a Silvio Garattini, uno dei
più grandi scienziati italiani, viene chiesto di non parlare
in pubblico del problema per non urtare le suscettibilità
degli animalisti. Ci si condanna così a non poter
sperimentare terapie per malattie oggi incurabili, fra cui
il cancro e le patologie da dipendenza. Lesley Rochat, la
ragazza sudafricana che nuota con gli squali tigre per
convincere tutti che non sono pericolosi, può decidere di
correre il rischio di morire in nome della difesa di quella
specie animale. Qualcuno può ammirarla, altri considerarla
dissennata. Ma perché mettere un intero Paese nella sua condizione? Il segno più evidente della perdita di speranza nella
ricerca è nelle scelte dei giovani ricercatori italiani che
hanno ottenuto, nel luglio scorso, un finanziamento dell’European
Research Council. Il finanziamento è legato a un particolare
ricercatore, che può decidere dove utilizzarlo anche
spostandosi da una istituzione a un’altra nel corso dei
quattro anni in cui fruisce dei fondi. Tra i 287 vincitori,
solo 8 ricercatori (meno del 3 per cento) hanno scelto
l’Italia come sede dove svolgere la propria ricerca. Tra
questi,un solo straniero mentre tra i 17 italiani che hanno
vinto il grant, ben 10 hanno deciso di utilizzarlo in altri
paesi. Il messaggio è forte e chiaro: l’Italia non è un
paese per chi fa ricerca. Il governo Letta può continuare nel solco delle classi
dirigenti che hanno guidato il Paese nel Dopoguerra,
mettendo la testa sotto sabbie e cemento e prestando
attenzione quasi solo a chi ha rendite immobiliari da
proteggere. Se, invece, vuole dedicare nella sua agenda
anche un minimo di attenzione al futuro, deve prendersi la
responsabilità di discernere ciò che ha potenziale di
ricerca da ciò che è mero presidio di potere locale,
distinguere chi vive per la ricerca, prima ancora che della
ricerca, dalle baronie, evitando nel modo più assoluto di
spargere a pioggia le poche risorse disponibili. La
valutazione della ricerca completata dall’Anvur nel luglio
scorso fornisce al governo il supporto per interventi
selettivi di questo tipo. Il fatto importante è che la quota
di finanziamenti attribuiti sulla base di queste valutazioni
deve aumentare significativamente perché, con le regole
attuali, si rischia di premiare proprio quegli atenei in cui
un terzo dei docenti non ha pubblicato un saggio che sia uno
nel giro di 7 anni. Bene anche concedere ai dipartimenti che
dimostrano di fare davvero ricerca maggiore autonomia nel
reclutamento, ad esempio permettendo loro di offrire
abilitazioni con procedure d’ateneo, senza dover
necessariamente passare attraverso i concorsi nazionali.
Un segnale importante di svolta si avrebbe anche emettendo
un bando nazionale per assumere i migliori ricercatori
(italiani o stranieri) che decidono di trasferirsi in
Italia, con profili di eccellenza. Numeri piccoli, ma molto
influenti per creare valore e lavoro. Le candidature
dovranno essere proposte dalle università, e le decisioni
prese da commissioni di settore cui partecipino scienziati
di tutto il mondo, tranne quelli operanti in istituzioni
universitarie italiane, per ovvi conflitti di interesse. È
il modello delle Canada excellence chairs,replicato con
successo in Catalogna con l’Icrea (www. icrea. cat). Anche
nel mezzo della crisi, nel 2012, sono riusciti a reclutare
13 ricercatori di livello internazionale. Per cambiare
registro dobbiamo rafforzare le aree in cui abbiamo già un
ruolo non secondario nella ricerca mondiale. Una parte poco
commentata del rapporto Anvur mostra che, nei confronti
internazionali, soprattutto le scienze mediche, la fisica
teorica e l’ingegneria industriale non sfigurano. Altrove
bisogna ancora costruire quella massa critica che da noi non
c’è. Ci vuole tempo per farlo. Se i rinvii per il governo
sono una forma di assicurazione, per la ricerca hanno il
sapore acro dell’addio.
Va in soffitta l'attestazione di idoneità
all'impiego
ItaliaOggi, del 03-09-2013, di Antimo Di Geronimo
L'obbligo
di presentare la certificazione sanitaria di idoneità
all'impiego all'atto dell'assunzione è stato abolito
dall'art. 42 del decreto legge 21 giugno 2013 n. 69. Lo ha
ricordato il ministero dell'istruzione con la prot. n. 1878
del 30 agosto 2013. Il provvedimento reca le istruzioni e le
indicazioni operative per le supplenze, ma la cancellazione
dell'obbligo vale anche per i docenti neoimmessi in ruolo. L'amministrazione ha ricordato, inoltre, che la rinuncia
alla nomina o l'abbandono del lavoro comporta sanzioni; il
part time è previsto ma è soggetto ad alcune condizioni; la
precedenza nella scelta della sede è anch'essa soggetta a
limitazioni. Ecco qualche dettaglio in più. La rinuncia Gli aspiranti che all'atto della presentazione della
proposta di lavoro dovessero rinunciarvi o dovessero
risultare assenti, perderanno il diritto a ricevere
ulteriori proposte derivanti dallo scorrimento della
graduatoria a esaurimento della classe di concorso o posto
di riferimento. La supplenza Qualora, dopo l'accettazione l'interessato non prenda
servizio presso la scuola di riferimento, la sanzione
prevista dall'ordinamento è la perdita della possibilità di
ottenere proposte di lavoro sia dalle graduatorie a
esaurimento che da quelle di istituto, limitatamente alla
classe di concorso o al posto di riferimento. Per esempio,
se un docente viene assunto sulla classe di concorso A043 e
non si presenta a scuola ingiustificatamente, perde il
diritto alla supplenza già ottenuta e decade anche dal
diritto di riceverne altre dai dirigenti scolastici. Sempre
però nella classe di concorso A043. Per le altre classi di
concorso tutto resta come prima. L'abbandono fa perdere tutto Nel caso in cui il supplente prenda servizio e poi, senza
giustificato motivo, dovesse ritenere di non andare più a
scuola, oltre alla supplenza perderà il diritto a ricevere
proposte di lavoro per tutte le classi di concorso o per
tutti i posti per i quali risulta incluso sia nelle
graduatorie a esaurimento che in quelle di istituto. Le sanzioni per un anno E' bene precisare che le sanzioni derivanti dalla rinuncia,
dalla mancata presa di servizio e dall'abbandono del
servizio valgono solo per la durata del corrente anno
scolastico. Dal prossimo anno, dunque, gli interessati che
sono stati sanzionati o lo saranno nel corso dell'anno,
rientreranno nel pieno possesso di tutti i loro diritti. Sia
per quanto riguarda le graduatorie a esaurimento che per le
graduatorie di istituto. Il part time L'amministrazione ha ricordato, inoltre, che anche per le
assunzioni a tempo determinato vige la facoltà, per
l'interessato, di chiedere il part time. A questo proposito,
il ministero ha chiarito che nel contratto bisognerà
indicare anche l'articolazione dell'orario di lavoro. E in
ogni caso l'adozione del tempo parziale dovrà garantire
l'unicità del docente nei rispettivi insegnamenti. Riservisti Anche quest'anno l'amministrazione ha recepito il criterio
di individuazione degli aventi titolo alla riserva dei posti
indicato dalla Corte di cassazione. In particolare, il
ministero ha ricordato che oltre agli invalidi, ne hanno
titolo anche gli orfani per lavoro o le vittime del
terrorismo. E sebbene rinviando ad altra normativa, ha
chiarito che le assunzioni dei riservisti vanno effettuate
senza tenere contro delle fasce, come se si trattasse di
un'unica graduatoria. Le precedenze Per quanto concerne la precedenza nell'assegnazione della
sede prevista dalla legge 104/92 per i portatori di handicap
e chi li assiste, il ministero ha spiegato che i criteri da
adottare sono diversi a seconda se si tratti di handicap
personale o assistenza. Nel primo caso la precedenza assume
rilievo su tutte le sedi disponibili. Nel caso degli
assistenti, invece, il diritto di precedenza ha valore solo
per il comune di residenza del disabile da assistere o, in
mancanza, nel comune più vicino. Ore eccedenti Quanto agli spezzoni fino a 6 ore, il dicastero di viale
Trastevere si è conformato alla prassi in uso, secondo la
quale, tali spezzoni devono essere utilizzati dai dirigenti
scolastici per garantire il completamento ai docenti in
servizio nell'istituzione scolastica. E qualora non ve ne
fosse bisogno dovranno essere proposti ai docenti interni a
titolo di lavoro supplementare: prima agli insegnanti di
ruolo e poi ai supplenti. Se anche in questo modo non sarà
possibile individuare un docente interessato ad occuparsene,
il dirigente dovrà scorrere la graduatoria di istituto e
assegnare lo spezzone a supplenza. L'amministrazione ha
chiarito che questa procedura vale solo per gli spezzoni che
nascono tali già in organico. Per quelli che dovessero
venire fuori da frazionamenti di cattedre dovuti a part time
o altre operazioni, invece, bisognerà procedere direttamente
con lo scorrimento della graduatoria di istituto così da
assegnare la frazione di cattedra disponibile direttamente a
supplenza.
Decreto legge, cdm rinviato. Round sulle
assunzioni
ItaliaOggi, del 03-09-2013,
di
Alessandra Ricciardi
È lievitato a circa 600 milioni di euro, dai
400 iniziali, il pacchetto scuola messo a punto dal ministro
dell'istruzione, Maria Chiara Carrozza. E nel conto non
rientra l'università, le cui misure allo studio dovrebbero
finire in un decreto ad hoc, e neanche il piano triennale
per le assunzioni degli insegnanti, già annunciato ma i cui
oneri non sono stati ancora quantificati. In attesa di definire i costi, e soprattutto di avere un
riscontro sulle coperture da parte del Tesoro, il decreto
legge per la scuola salterà un giro, si parla come prossima
data papabile del 9 settembre, alla vigilia della riapertura
di tutte le scuole. Sempre che il confronto con il ministro
dell'economia, Fabrizio Saccomanni, si chiuda positivamente.
Un risultato, questo, sul quale sono scettici gli stessi
tecnici del ministero dell'istruzione che hanno scritto
buona parte delle misure oggetto di esame. «Vanno stabilite
le priorità, che devono essere il più possibile ad ampio
impatto», dicono da Viale Trastevere. In pole la misura della stabilizzazione dei docenti di
sostegno su tutti i posti di organico: altre 27 mila
assunzioni, costo stimato 100 milioni. Una misura molto
attesa nella scuola che servirebbe anche a risolvere il
problema del contenzioso con le famiglie dei ragazzi che
richiedono maggiore presenza di docenti specializzati. È in
discesa invece la quotazione della norma che autorizza i
docenti con i requisiti per il pensionamento pre Fornero al
31 agosto 2012, e non al 31 dicembre 2011, ad andarsene in
pensione: troppi i 200 milioni necessari per la copertura.
Anche perché ci sono i docenti inidonei per motivi di
salute, che la legge vorrebbe siano trasferiti, al di là di
competenze e stato di salute, di forza tra gli Ata, ai quali
dare una risposta. E poi c'è l'organico di rete, che da solo
assorbe un altro centinaio di milioni di euro. Forte il pressing politico e sindacale per il sì a un nuovo
piano triennale di assunzioni a tempo indeterminato:
servirebbe a recuperare i 14 mila posti su cui non si sono
fatte immissioni in ruolo questo settembre e a coprire il
resto del turn over del triennio: ma i costi? Il via libera
a nuove assunzioni potrebbe calmare gli animi di una
categoria che ha la prospettiva di avere gli stipendi
bloccati per 7 anni e che vede un precariato record nel
pubblico impiego: sono circa 107 mila i contratti di
supplenza sottoscritti nel 2012/2013. E, al tempo stesso,
darebbe una risposta di garanzia di continuità didattica a
famiglie e studenti. Trattative in corso poi per i candidati al concorso a
dirigente della Lombardia, a cui il Consiglio di stato ha
imposto la ricorrezione degli scritti: il decreto potrebbe
prevedere, per la copertura delle scuole prive di dirigente
titolare, incarichi assegnati a chi ha superato le sole
prove preselettive. Si creerebbe però una situazione di
fatto di dirigenza che potrebbe dare luogo, è il timore dei
tecnici, alla richiesta di regolarizzazione, a dispetto del
responso finale del concorso. La revisione generale delle
prove di accesso alla dirigenza a questo punto sembra però
inevitabile, dopo la messe di sentenze della giustizia
amministrativa che hanno sanzionato, in lungo e in largo, i
concorsi regionali. Spuntano nel pacchetto scuola anche proposte di più ampio
interesse come il welfare per gli studenti, con interventi a
sostegno del diritto allo studio, dai trasporti all'acquisto
dei libri che potrebbe essere sostituito dal comodato d'uso.
Per favorire la formazione dei prof, invece, è all'esame
un'intesa con il dicastero dei beni culturale per l'accesso
gratuito ai musei. Ritorna in ballo la misura delle scuole aperte anche di
pomeriggio per contrastare la dispersione scolastica. Una
misura che deve fare i conti con il maggior impegno dei
docenti e del personale di vigilanza che già in passato ne
ha frenato la realizzazione causa carenza di risorse. Ecco
perché si potrebbe optare, se la coperta finanziaria dovesse
risultare corta, per una nuova sperimentazione che riguardi
i territori a più alta esposizione mafiosa.
Lo spreco di 10mila istituti con meno di 50
alunni
Corriere della sera.it, del 02-09-2013, di
Gian Antonio Stella
Un ispettore ogni 13 scuole in Gran Bretagna,
uno ogni 22 scuole in Francia, uno ogni 2.076 scuole nel
Lazio. Bastano tre numeri per capire quanto il nostro
sistema scolastico sia fuori controllo e come l'autonomia
sia stata vissuta come «tana libera tutti». Lo denuncia un
dossier di Tuttoscuola. Che lancia sei idee per cambiare
tutto. A partire dalla rottura del vecchio patto scellerato
«ti pago poco, ti chiedo poco» per passare a un altro: «ti
do di più, ti chiedo di più».Che l'autonomia sia una cosa
seria non si discute. Anzi, gli esperti concordano nel
ritenere che proprio un'ampia autonomia dovrebbe spingere le
scuole a assumersi più responsabilità. Fino a essere
costrette a migliorare la loro offerta agli studenti e alle
famiglie per poter essere «competitive» in un mondo in cui
il «pezzo di carta» di per sé è sempre meno importante. Il guaio è che la concessione di un'autonomia sempre più
larga a partire da 2000 col riconoscimento anche della
parità alle «non statali», denuncia Tuttoscuola, doveva
essere parallela a un aumento dei controlli. È successo il
contrario. «Prima» c'erano in organico 695 «ispettori», oggi
301. Solo sulla carta, però. In realtà, a causa di circa 200
vuoti, sono solo un centinaio: «In intere regioni, con
centinaia di istituzioni scolastiche e migliaia di
insegnanti, opera a volte un solo ispettore». Come nel Lazio, appunto, dove il poveretto, contando non
solo gli istituti centrali ma anche le «dependance»,
dovrebbe vigilare su 4.603 scuole. E poi ci sono due
ispettori a disposizione dell'ufficio scolastico regionale
in Piemonte, uno in Liguria, uno nelle Marche, neppure uno
in Toscana. Zero carbonella. C'è chi dirà che si possono
sempre inviare per un'ispezione dei dirigenti scolastici
investiti volta per volta del ruolo. Sarà... Restano i buchi, però. Aggravati dai tempi biblici con cui è
stato avviato il rammendo: «Il concorso per reclutare nuovi
dirigenti tecnici (con funzioni ispettive) è stato bandito
quasi sei anni fa per coprire 144 posti vacanti, ma si è
concluso solo nella primavera di quest'anno con circa 70
vincitori, che però non sono stati ancora nominati. Si parla
della prossima primavera... E nel frattempo sono diventati
vacanti per pensionamento altre decine di posti». Non
bastasse, quel concorso ha avuto una grandinata di ricorsi
per il sospetto che abbiano vinto «amici degli amici».
Auguri. Una domanda emerge angosciante dalla lettura del dossier,
che ricorda storture inaccettabili sui deficit di qualità e
di equità («come spiegare che a Milano solo un maturando su
381 è valutato meritevole di lode, e a Crotone uno ogni
35?») e la necessità di una dura lotta all'abbandono
scolastico. Quanto potremo resistere tra i Grandi con il 65%
degli italiani tra i 16 e i 65 anni con livelli di
«competenze funzionali effettive» valutate «fragili» o
addirittura «debolissime»? Mentre sta rimettendosi a girare il pianeta scolastico, al
quale Corriere.it dedicherà un «Canale Scuola» quotidiano,
la rivista di Giovanni Vinciguerra lancia, accanto alle
denunce, sei idee «un po' rivoluzionarie» per cambiare «una
scuola dove si è sballottati da una sede a un'altra, dove è
riservato lo stesso trattamento a chi lavora duro e con
passione e a chi ha la testa altrove, dove si guadagna tutti
una miseria» e «dove la carta igienica e quella per le
fotocopie le portano i genitori». Primo: basta con le scuole «chiuse agli studenti per molte
ore al giorno durante i periodi di lezione e per mesi interi
al di fuori». È uno «spreco enorme». Gli spazi scolastici
potrebbero restare aperti al pomeriggio e anche fino a fine
luglio per offrire agli studenti «servizi aggiuntivi» che
oggi le famiglie pagano ai privati: dalle lezioni di musica
ai «summer camp», dai corsi di lingue alla ginnastica
artistica. Organizzandoli in proprio, grazie ai dipendenti
che ne ricaverebbero più soldi in busta paga, o affidandoli
a privati dietro precise garanzie. Certo, occorrono
elasticità e fantasia, ma non solo le scuole potrebbero
ricavarne fondi da reinvestire ma «si sbroglierebbe anche
l'inaccettabile matassa dei precari». Secondo: per recuperare risorse servono tagli «chirurgici».
Esempio? Ci sono 10mila «microscuole» primarie con meno di
50 alunni, «che costano in termini di personale il doppio
delle altre (fino a 8 mila euro per alunno, contro i 3.500
euro di una scuola standard con 100 alunni)». Guai a toccare
quelle in montagna e nelle piccole isole: sono sacre, anche
a costo di rimetterci. Ma tantissime «sono lì spesso per
motivi di campanile». I risparmi sarebbero «reinvestiti in
spesa "buona", a partire da edilizia, banda larga,
laboratori, palestre». Terzo: occorre «liberare e premiare le energie degli
insegnanti. Sono loro che "fanno" la scuola. Certo,
guadagnano poco. Il 10-15% in meno della media dei colleghi
europei. Ma riallineare la retribuzione per tutti costerebbe
oltre 3 miliardi di euro l'anno. Troppo per l'Italia di
questi anni». Ma «allora concentriamo le risorse e gli
sforzi per premiare chi vuole dare di più» rompendo con «la
carriera dei docenti legata solo all'anzianità di servizio». Quarto: guerra agli abbandoni con «corsi di recupero
obbligatori e sistemi di incentivi e disincentivi d'intesa
con le famiglie. Per esempio: se non hai concluso l'obbligo
scolastico non puoi comprare/guidare il motorino o
partecipare a programmi sportivi del Coni». Perché non
possiamo più permetterci di avere «il 20% dei nostri
18-24enni in possesso al massimo della licenza media». Quinto: più autonomia, ma anche più controlli, più
trasparenza nei conti e «una rigorosa valutazione dei
risultati» che premino le scuole virtuose e si spingano con
quelle che non raggiungono determinati standard «fino alla
chiusura», come accade in America. Sesto: «digitalizzazione delle scuole (per tutti)». Non è
accettabile che l'Italia abbia in totale solo 14 scuole
statali «2.0», cioè digitalizzate, su oltre 9.000. Né che ci
siano soltanto, citiamo il Rapporto «Review of the Italian
Strategy for Digital Schools» voluto da Francesco Profumo, 6
Pc ogni 100 studenti contro i 16 europei e il 6% delle
scuole altamente digitalizzate contro il 37% del resto
d'Europa. Insomma, «la scuola digitale può offrire un grande
contributo al cambiamento del Paese, ed è un treno che non
può essere perso».
-
Scuola, come si formano gli insegnanti
L’Unità
del 02-09-2013, di Giunio Luzzatto
OPPORTUNAMENTE, MILA SPICOLA (L'UNITÀ DI SABATO 31 AGOSTO)
DENUNCIA IL PESSIMO SISTEMA (ANZI, NON-SISTEMA) DI
FORMAZIONE (SI FA PER DIRE) E DI RECLUTAMENTO DEGLI
INSEGNANTI IN ITALIA, e formula numerosi
drammatici interrogativi: «è possibile chiedere un percorso
formativo universitario unico, con uno zoccolo di aree
disciplinari funzionali alla docenza obbligatorie e una
divaricazione poi a seconda delle discipline e dei cicli?»;
e ancora «È possibile chiedere... una selezione meno
"all'italiana"? ... Evitare le bolge attuali di precari,
classi di concorso, precari di un tipo e altri di un altro
tipo, provenienti da Tfa, o dal concorso, o dalle Gae, o
dalla Sissis, o ... ». Si tratta, ovviamente, di domande
retoriche: nessuno sosterrebbe che questo caos va bene così.
Anche la conclusione di Mila Specola è un interrogativo: «Un
sistema selettivo tra i peggiori al mondo. Chi ne ha la
colpa? Chi dovrebbe sistemare la faccenda?». È importante
provare a dare una risposta; troppo spesso, infatti, i guai
di questo Paese vengono deplorati senza individuare cause e
responsabili, come se si trattasse di difetti genetici del
Dna nazionale (ipotesi quasi razzistica) o comunque di una
maledizione divina (ipotesi blasfema, per i credenti). Le
colpe maggiori, senza dubbio alcuno, sono dell'area
conservatrice del Paese; «conservatrice » in senso culturale
oltre che politico. Domina tuttora, in ambienti cui viene
fornito ampio spazio sui media, la vecchia mentalità
gentiliana che a livello secondario (non parliamo poi di
quello universitario) contesta l'idea stessa di una
specifica professionalità docente, con lo slogan «chi sa
bene sa anche insegnare»; da ciò, l'insistenza su curricula
formativi totalmente spostati verso i contenuti disciplinari
(per l'università, verso la ricerca), e comprendenti solo
marginalmente le tematiche pedagogico-didattiche. Il lungo
dominio della Dc nel governo del Paese, e in particolare
dell'Istruzione dello stesso (Pubblica, ma non troppo... ),
si è svolto su tale linea, che era diversa solamente per la
scuola primaria; a coloro che rivolgeranno l'insegnamento ai
bambini piccoli, e solo a loro, la pedagogia serve, veniva
riconosciuto, anzi, l'insegnamento a loro diretto
costituisce addirittura una «vocazione» (e si difese
tenacemente l'Istituto Magistrale, cioè l'obbligo di una
scelta precoce per chi intendeva dedicarsi a tale attività).
La sinistra si batté a lungo contro questi schemi; basti
ricordare le battaglie di uomini come Gaetano Salvemini in
epoca giolittiana e come Tristano Codignola e Aldo
Visalberghi in periodo repubblicano. È troppo comodo, però,
dar sempre le colpe agli altri. Anche dalla parte «nostra» i
limiti sono stati forti; non è un caso che i personaggi
sopra ricordati sono stati spesso considerati come eretici
rispetto alla ortodossia del verbo socialista. In termini
più direttamente politici, va poi ricordato che non vi è
stata alcuna continuità, né condivisione, nello sviluppo di
strategie coerenti: vi sono stati ministri che le hanno
impostate, ma sono state considerate loro scelte
individuali, presto smentite dai successori o dai colleghi.
E, demagogicamente, la tutela dei legittimi interessi
particolari di «precari» già presenti, e ben organizzati, ha
sempre prevalso sulla difesa dell'interesse generale, che
richiederebbe non solo di non togliere opportunità ai nuovi
laureati (ovviamente non ancora presenti, e perciò non
organizzati), ma soprattutto di assumere i docenti guardando
al bene degli studenti, sulla esclusiva base del merito dei
candidati, in funzione della qualità dell'insegnamento. Per
citare momenti recenti: Luigi Berlinguer stabilì nel 1999,
in occasione di una legge che in via immediata era anche una
«sanatoria» (ogni volta, si affermava solennemente che si
trattava dell'ultima... ), che ogni tre anni ci sarebbe
stato un regolare concorso; nonostante periodi governativi
anche di centrosinistra, ciò non avvenne però fino alla
gestione Profumo del 2011, e conseguentemente il precariato
si è sempre più esteso. Inoltre, nel corso dell'ultimo
governo Prodi vi fu un tentativo (l'unico, nell'intera vita
della Repubblica) di connettere, come giustamente auspica
Spicola e come avviene in tutti i Paesi culturalmente
avanzati, la formazione degli insegnanti con il loro
reclutamento; tale progetto, redatto da una commissione
presieduta dal Sottosegretario Modica per l'Università e
dalla vice-Ministro Bastico per l'Istruzione, fu però
bloccato dal ministro Fioroni (e insufficientemente
sostenuto dal ministro Mussi), col risultato di lasciare
campo libero al successivo intervento Gelmini (il Tfa,
criticabilissimo sia in sé sia perché totalmente scisso dal
reclutamento). Come dicevamo all'inizio, occorre andare
oltre le pur sacrosante denunce. La risposte, cioè le
soluzioni, ci sono, e le forze di progresso del Paese devono
perseguirle con impegno, cercando anche di comprendere il
perché degli insuccessi del passato.
Assunzioni di docenti e Ata In arrivo il
piano triennale del personale, si parte con almeno 44mila
stabilizzazioni. Il braccio di ferro con l'Economia Si
tratta per far andare in pensione con le vecchie regole
5-6mila persone
Il Sole 24 Ore, del 02-09-2013, di Claudio
Tucci
Aumento delle risorse per il fondo di
funzionamento ordinario delle scuole (da attuare magari
gradualmente nei prossimi anni). Proroga del piano triennale
di assunzioni di docenti e Ata (cioè, gli amministrativi),
per coprire il fabbisogno di personale dall'anno scolastico
2014/2015 all'anno scolastico 2016/2017 (dove si stima, per
effetto della legge Monti-Fornero, un turnover totale di
44mila posti). In più, un intervento sul decreto Profumo sui
libri digitali, per rivedere tempi e modi di adozione dei
testi in formato digitale, ma anche i tetti di spesa; e
norme ad hoc per alleviare gli esborsi delle famiglie per il
corredo librario. Inizia a prendere forma il decreto sulla
scuola annunciato da Maria Chiara Carrozza, che dovrebbe
arrivare sul tavolo del Consiglio dei ministri lunedì 9
settembre, e comunque prima dell'avvio del nuovo anno
scolastico. E se il ministro parla di «provvedimento rivolto
essenzialmente a studenti e famiglie» (invitando però a non
avere «aspettative troppo elevate»), dalle primissime bozze
di misure allo studio dei tecnici del ministero di Viale
Trastevere si profilano anche interventi, di peso, sul
potenziamento dell'autonomia scolastica e sul personale
(soprattutto precario). Sul primo punto, «si lavora per
innalzare la quota di funzionamento ordinario delle scuole,
puntando a incrementarlo del 15-2o%», spiega il capo
dipartimento dell'Istruzione, Luciano Chiappetta. La
situazione oggi del budget per il funzionamento regolare
degli istituti è piuttosto variegata: si passa da una punta
di19-20 euro a studente in alcune zone, a valori più modesti
di 9 euro a studente, in altre. Se la misura passerà il
vaglio finanziario (che si sta trattando con l'Economia) la
quota di 19-20 euro si alzerebbe a 23-24 euro; e quella di 9
curo passerebbe a poco più di n euro. «Una decisa inversione
di tendenza - sottolinea Chiappetta - a tutto vantaggio del
buon funzionamento degli istituti». Tra le ipotesi per
coprire questo aumento di spesa ci sono le economie
derivanti dai nuovi appalti per il servizio di pulizia delle
scuole. Il braccio dì ferro con Via XX Settembre è anche sul
fronte del personale. A partire dal piano triennale di nuove
assunzioni. Qui si discute dei posti dì diritto in più da
attribuire al sostegno e degli altri posti (da coprire con
nuovi assunzioni) che si formerebbero mettendo insieme gli
spezzoni orari (le ore eccedenti l'orario normale di
cattedra). Lo sblocco di queste due questioni potrebbe far
salire ancor di più il numero di stabilizzazioni fino al
2o16/2017, oltre le già conteggiate 44mila (che coprono il
turnover). Nel decreto Carrozza troverebbe spazio, ma
riformulata, la norma "salva presidi", per superare
l'impasse, in alcune regioni (soprattutto Lombardia), dovuto
all'annullamento dei giudici del concorso presidi 2011.
L'obiettivo è confezionare una norma immune da possibili
nuovi contenziosi. In forse (anche qui c'è da convincere
Fabrizio Saccomanni) c'è pure la questione dei docenti
inidonei all'insegnamento che la spending review n. 95
declassa ad Ata (norma tuttavia ancora non attuata). Il Miur
punta a evitare il "declassamento", che sbloccherebbe anche
la mancata immissione in ruolo quest'anno di 3.730 Ata
(ritenuta non necessaria dal Mef in caso di transito nei
ruoli amministrativi di questi circa 3.500 prof inidonei).
Più difficile è l'ok del Tesoro sulla norma su «Quota 96»,
per consentire a circa 5-6mila unità di andare in pensione
con le regole pre Monti- Fornero. Sarebbe una misura troppo
costosa. Novità invece potrebbero arrivare sul fronte Its,
con all'orizzonte possibili nuovi finanziamenti. «Già oggi
sono previsti13 milioni nel triennio. Puntiamo a
incrementarli ulteriormente - sottolinea il direttore
generale per gli ordinamenti e l'autonomia scolastica,
Carmela Palumbo - e legare poi la distribuzione delle
risorse a un monitoraggio, che guardi anche agli esiti
occupazionali dei ragazzi». In cantiere c'è pure la norma
che fa scendere aut anni la possibilità di entrare nei
percorsi di alternanza scuola-lavoro. Una norma su cui preme
il sottosegretario, Gabriele Toccafondi: «Aiuta i ragazzi ad
avere un primo approccio con il mondo delle imprese; e anche
a recuperare l'abbandono scolastico».
Pronto un decreto da 5 miliardi per
rilanciare il settore. Aumentati gli insegnanti di sostegno
la Repubblica.it, del 28-08-2013, di Salvo
Intravaia e Roberto Mania
ROMA
— Un piano da quasi 5 miliardi di euro per
provare a rilanciare il mercato della casa. Il ministro
delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, potrebbe presentarlo
già oggi al Consiglio dei ministri. Un decreto per favorire
l’acquisto della prima casa per le giovani coppie under 35,
insieme ad alcune misure per sostenere il pagamento degli
affitti da parte delle famiglie più svantaggiate. Mentre
sarà un prossimo Consiglio dei ministri (probabilmente
quello del 3 settembre) a varare un “pacchetto scuola”:
allargamento dell’organico relativo agli insegnanti di
sostegno, soluzione alla questione dei docenti inidonei e
una norma salva-presidenze. I tecnici del ministero delle Infrastrutture lavoreranno
tutta questa mattina per inviare il piano casa all’esame del
Consiglio dei ministri del pomeriggio. Nel piano sarà
decisivo il ruolo che giocherà la Cassa depositi e prestiti.
Perché una delle principali ragioni che ha portato al blocco
della compravendita di immobili (Nomisma stima che il 2013
terminerà con un ulteriore calo del 6 per cento delle
attività) c’è la chiusura dei rubinetti da parte delle
banche per l’erogazione dei mutui. L’Ance, l’associazione
dei costruttori, ha calcolato un crollo del 63,5 per cento
nell’ultimo trimestre rispetto allo stesso periodo del 2011.
Le banche non concedono i mutui e quando lo fanno richiedono
super-garanzie e impongono requisiti rigidissimi fino a
chiedere il pagamento di circa il 40 per cento del valore
dell’immobile. Prima della crisi la percentuale si fermava
intorno al 15. Gelata, dunque, nel mercato dell’abitazione,
con centinaia di migliaia di posti di lavoro che sono
saltati e aziende che non alzano più la saracinesca. Ma
senza la ripartenza dell’edilizia è difficile immaginare che
il nostro Pil possa rivedere davanti il segno più. Gli istituti di credito non concedono più i mutui a soggetti
che non siano iper solvibili. Non rischiano più, anche per
via dei vincoli europei. Ma a garantire indirettamente
l’affidabilità delle giovani coppie (o anche dei single) ci
sarà, appunto, nel piano del ministro Lupi, che riprende un
progetto già abbozzato dal suo predecessore, Corrado
Passera, la Cdp. Dopo alcune resistenze hanno accettato
questa impostazione sia l’associazione dei banchieri (il
cambio della guardia alla presidenza con Antonio Patuelli,
proveniente dalle file dei piccoli banchieri, è stato
decisivo) sia il titolare dell’Economia, Maurizio Saccomanni.
E il meccanismo dovrebbe essere il seguente: gli istituti di
credito — un po’ come ai tempi delle cartelle fondiarie che
negli anni Sessanta contribuirono al boom economico —
emetteranno obbligazioni per erogare i mutui, garantite
dalla Cassa depositi e prestiti, in sostanza dallo Stato. Slitta alla prossima settimana invece il pacchetto scuola
che è stato stralciato dal decreto D’Alia sulla Pubblica
amministrazione. Dovrebbe esserci l’incremento degli
insegnanti di sostegno, da tempo una richiesta delle
famiglie degli alunni disabili. L’attuale organico di
diritto è composto da 63mila docenti in pianta stabile più
38mila supplenti che cambiano ogni anno scuola e alunno. Il decreto dovrebbe innalzare da
63mila a 79-81mila la quota di organico di diritto per dare
stabilità ad uno dei settori più delicati della scuola.
Un’altra misura dovrebbe riguardare l’ormai annosa questione
dei tremila docenti inidonei per motivi di salute che il
governo ha retrocesso al rango di assistente di laboratorio
e assistente amministrativo, bloccando le assunzioni in
questi due profili. Il decreto dovrebbe riportare in
biblioteca i tremila inidonei e sbloccare l’assunzione di
3.200 unità di personale non docente. C’è infine la grana
delle reggenze. In Lombardia, quest’anno, per l’annullamento
del concorso a preside bandito nel 2011 da parte dei giudici
ammini-strativi, 473 presidenze — il 41 per cento — saranno
assegnate ad altrettanti capi d’istituto reggenti: che
guidano già un’altra scuola. Una situazione che appare
insostenibile e per la quale il governo sta cercando una
soluzione.
Lasciati fuori interinali e co.co.co.
La
Stampa.it, del 28-08-2013, di [R. I.]
ROMA
«Inaccettabile» è la parola ricorrente, nelle
dichiarazioni affidate alle agenzie di stampa. E a
pronunciarla, con toni minacciosi e annunci di «battaglie»,
sono tutti quei sindacati - soprattutto la Cgil e le
organizzazioni di base - che si sono messe a leggere nelle
pieghe del decreto sui precari della pubblica
amministrazione e hanno scovato «sacche» di trascuratezza,
con categorie intere escluse dal beneficio
dell’inquadramento. Ad alzare la voce è soprattutto il
Nidil-Cgil, il sindacato che raccoglie i lavoratori atipici
(precari per eccellenza) e che lamenta l’esclusione dei
«lavoratori in somministrazione (ex interinali) e dei
co.co.co.». Di «beffa» parla, invece l’Unione sindacale di
base (Ubs) specialmente per i ricercatori e critica la norma
che prevede la possibilità di bandire concorsi pubblici a
titoli ed esami con la riserva del 50% dei posti per i
lavoratori che abbiano maturato almeno tre anni di contratti
a tempo determinato, lasciando fuori gli altri. Anche un
sindacato strutturato e forte come Flc-Cgil (l’ex Cgil
scuola) è critico con il provvedimento e per le stesse
ragioni: «A fronte della grande enfasi posta dal presidente
del Consiglio sulla necessità di una selezione - dice il
segretario Mimmo Pantaleo - è inaccettabile che si
costringono i precari di università e ricerca a un ennesimo
concorso anche laddove hanno già superato prove concorsuali
ed esistendo strumenti contrattuali di tenure track (cioè i
titoli acquisiti che giustificano al riconferma di un
ricercatore, ndr) che dovrebbero essere esigibili». Quanto
al Codacons, che privilegia la via delle carte bollate, il
decreto lascia fuori dalla stabilizzazione decine di
migliaia di precari della scuola. «Scegliere i “migliori”
tra coloro che hanno avuto un contratto a tempo determinato,
vuol dire dimenticare e ignorare i precari storici della
scuola che, nonostante le numerose sentenze dei Tar, non
hanno avuto riconosciuto il diritto al ruolo».
-
Perché la cultura disturba i manager
la Repubblica.it, del 28-08-2013, di Chiara
Saraceno
Nell’Italia dei paradossi ci siamo spesso
sentiti dire, da datori di lavoro e ministri, che una delle
cause della disoccupazione giovanile è il mismatch tra
domanda e offerta di lavoro, unita alla scarsa disponibilità
per i lavori manuali. Le storie raccontate qui offrono
un’altra prospettiva: pur di lavorare, molti giovani
laureati sarebbero disposti anche a fare lavori ampiamente
al di sotto delle proprie competenze. Ma per essere presi in
considerazione devono nascondere di avere studiato. In un
mercato del lavoro come quello italiano, ove la domanda di
lavoro qualificato è contenuta e gran parte di proprietari e
manager non ha la laurea, un lavoratore italiano
sovraqualificato è un potenziale pericolo. Non tanto perché
potrebbe andarsene presto (vista la propensione dei datori
di lavoro per i contratti a termine e l’assenza di
investimenti negli occupati con le mansioni più basse,
questa sembra proprio una preoccupazione risibile).E neppure
perché si tratterebbe di uno spreco sociale. Piuttosto,
perché con le loro aspirazioni e la loro cultura potrebbero
creare disturbo in organizzazioni del lavoro e sistemi
produttivi incapaci di innovare e immobili. In altri termini, la disoccupazione e sotto-occupazione dei
laureati in Italia è dovuta alla scarsità della domanda in
un sistema produttivo e amministrativo che — anche nel
settore pubblico ed anche ai livelli medio alti del
management — è largamente controllato da persone con livelli
di istruzione medio-bassa, poco capaci di valorizzare e
investire nel capitale umano. Ne vediamo i risultati sul
piano della scarsa efficienza della nostra pubblica
amministrazione e nella ridotta competitività di larga parte
delle nostre aziende. La scoraggiante esperienza dei laureati che, per lavorare,
devono presentare un profilo più dimesso, meno qualificato,
tuttavia, non deve indurre a generalizzazioni. In primo
luogo, è una esperienza che, non solo da oggi, riguarda più
le donne degli uomini, in base all’idea, condivisa da molti
datori di lavoro, che le donne vadano tenute ai gradini più
bassi della scala occupazionale. In secondo luogo, riguarda
più alcune lauree — giuridiche, psicologiche, letterarie e
geo-biologiche — di altre. Si tratta, per altro, di quelle
più femminilizzate. In questo caso si può parlare di forme
di mismatch, non rispetto ai lavori poco qualificati, ma a
quelli qualificati richiesti dal mercato. Anche se la
sotto-occupazione dei geologi e dei biologi in un Paese in
cui ogni pioggia minaccia un disastro ecologico e in cui ci
sono elevati rischi di inquinamento ambientale interroga più
la domanda che non l’offerta di lavoro. Interroga più in
generale l’insipienza di un Paese che spreca le proprie
risorse vivendo alla giornata senza alcuna preoccupazione
per il futuro. Analogamente, lo stato di abbandono e
sotto-valorizzazione in cui si trovano i beni culturali
suggerisce che ci saranno, forse, troppi laureati in
lettere, ma ci sarebbe bisogno di un’iniezione di
professionisti di vario tipo per la manutenzione e la
valorizzazione del patrimonio artistico. Infine, nonostante
dal 2008 il vantaggio si sia ridotto sensibilmente, i
laureati continuano a trovare più facilmente lavoro — anche
se non sempre aderente alla loro preparazione — dei non
laureati e a guadagnare di più nel mediolungo periodo. In
altri termini, sono svantaggiati nel mercato del lavoro poco
qualificato, dove devono nascondere di avere una laurea. Ma
continuano a godere di vantaggi nel mercato del lavoro nel
suo complesso, per quanto questo sia asfittico, non molto
qualificato e premi più i titoli formali che non le
competenze ed esperienze specifiche. È certo umiliante dover nascondere di aver studiato per
poter fare un lavoro che non richiede qualifiche. Mi sembra
tuttavia più scoraggiante doversi adattare a fare lavori
poco qualificati nonostante anni di impegno nello studio.
Non si tratta di essere choosy, ma di non sprecare risorse
individuali, e anche collettive. Tanto più che in Italia,
Paese in cui l’origine tende anche a diventare un destino,
avere un curriculum professionale non standard, non
“coerente”, non è considerato un possibile vantaggio, il
segno di capacità di iniziativa, di ricerca di autonomia, di
voglia di apprendimento extracurriculare. Al contrario, dopo
aver dovuto nascondere di avere una laurea per essere
assunto come operaio o addetto ad un call center, ci si può
trovare nella necessità di dover nascondere di aver fatto
questi lavori per poter essere presi in considerazione per
un lavoro “da laureato”.
-
Grande fuga dei presidi rinunciano per
stress
C’è una situazione di incertezza totale nella
scuola e si scarica tutto sui dirigenti - sostiene Domenico
Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil
Il Messaggero, del 27-08-2013, di Alessia
Camplone
IL CASO
ROMA Sono manager. Le scuole le loro aziende.
Hanno pesanti responsabilità. Devono fare i conti ogni
giorno con risorse sempre più limitate, con personale
ridotto all’osso, con genitori sempre più esigenti. Devono
saper leggere i bilanci e conoscere il linguaggio giuridico,
pensare alla didattica e progettare percorsi di studio.
Insegnanti, ma anche contabili e soprattutto burocrati. Sono
i dirigenti scolastici, i “Ds” come li chiamano nelle aule,
i presidi come venivano chiamati prima della riforma
dell’autonomia scolastica, che li impegna con nuove
responsabilità amministrative, giuridiche e non solo
didattiche.
IL CONCORSO
Fino a qualche anno fa un lavoro ambito.
Troppo pesante ora. E c’è chi inizia a lasciare. Nonostante
la tanta fatica fatta per arrivare a guidare una scuola. Un
fenomeno che sta crescendo. In tanti preferiscono tornare a
fare i prof. Solo per fare qualche esempio, in Umbria l’anno
scorso hanno rinunciato in tre. Nel Lazio due. Altri due in
Piemonte. Tutti giovani, appena immessi in ruolo con
l’ultimo concorso del 2011. «C’è una situazione di
incertezza totale nella scuola e si scarica tutto sui
dirigenti - sostiene Domenico Pantaleo, segretario generale
della Flc Cgil -. Il problema è che i presidi si sono
trasformati da organizzatori didattici a cardinali
amministrativi». «Quando abbiamo chiesto ai due dirigenti
del Lazio perché lasciavano – racconta Mario Rusconi, vice
presidente nazionale dell’Associazione nazionale dei
presidi, l’Anp - ci hanno risposto che si sentivano
abbandonati dall’amministrazione, pressati dai sindacati
interni e dagli enti locali che non davano ascolto alle loro
esigenze».
BUSTA PAGA
Il vantaggio economico, poi, non sembra
sufficiente. Un preside guadagna circa seicento euro in più
rispetto allo stipendio dei docenti. In media 2.600 euro
netti al mese con una scuola dai 1.200 alunni in su. Un
insegnante delle scuole superiori di 50 anni percepisce sui
2.000 euro. Ma le responsabilità sono molte di meno, e
l’orario di lavoro è più leggero. E avere le scuole in
reggenza, ossia avere in affidamento gli istituti senza
dirigente, moltiplica le responsabilità ma non il salario
che cresce solo di qualche centinaio di euro. La Disal,
l’altra associazione di categoria dei dirigenti di scuola,
in questi giorni ha invitato i presidi a fare “obiezione di
coscienza” e a rifiutare di guidare altre scuole oltre la
propria.
LE ASSUNZIONI
Il riferimento è soprattutto alla Lombardia.
Perché le assunzioni in ruolo sono bloccate per via delle
vicende giudiziarie che hanno fermato il concorso da Ds e
anche quest’anno dovrebbero andare in reggenza ben 424
scuole. La Lombardia è una delle cinque regioni dove il
concorso è bloccato e le assunzioni anche.
Un ruolo difficile quello dei presidi. E che
richiede talento. Le capacità possono fare la differenza: lo
conferma uno studio della Fondazione Agnelli e
dell’Università di Cagliari. Per ogni punto in più di
“abilità manageriali” del dirigente, è stato riscontrato che
diminuiscono del 3% gli alunni che ripetono l’anno. Mentre
nei test Invalsi i risultati degli studenti con i Ds
“migliori” sono in media più alti di 2,2 punti. Ma la stessa
ricerca conferma che le capacità gestionali dei nuovi
presidi prima e dopo la riforma crescono. E in fondo molti
chiedono, per essere soddisfatti, solo qualche frustrazione
in meno e qualche risorsa in più.
Dal Mef stop a 3.370 Ata
Il Sole
24 Ore, del 26-08-2013, di Claudio
Tucci
Il ministero dell'Economia
blocca le assunzioni per il
prossimo anno scolastico, il 2013-2014, di 3.730 unità di
personale tecnico-amministrativo (gli Ata); e così a
settembre si mettono a rischio le attività di laboratorio
nelle scuole, soprattutto negli istituti tecnici. Una
questione delicata; e connessa alla sorte dei circa 3.500
docenti inidonei all'insegnamento che dovrebbero transitare
nei ruoli amministrativi, come previsto dalla spending
review n. 95 del 2012. Questa norma, tuttavia, non è ancora
stata attuata (e in parlamento ci sono anche proposte per
cassarla). Ma finché è vigente e rimane "appesa" la sorte di
questi prof il ministero dell'Economia non indietreggia, e
tiene congelate le immissioni in ruolo del personale
amministrativo (in ballo ci sono risparmi per l'Erario
nell'ordine di centinaia di milioni di euro per effetto,
appunto, delle mancate stabilizzazioni di nuovi Ata). Il
piano di riduzione del personale amministrativo voluto
dall'ex ministro, Giulio Tremonti, per contenere il numero
di bidelli (in Italia si era arrivati alla cifra record di
250mila, ben 5 volte i bidelli delle scuole tedesche) è
stato portato avanti con il meccanismo dei tagli lineari,
che ha fmito per penalizzare anche i tecnici di laboratorio,
che negli ultimi anni si sono più che dimezzati (gli Ata
infatti sono composti da bidelli, personale di segreteria,
ma anche, appunto, tecnici di laboratorio). I sindacati
protestano; e il ministero dell'Istruzione sta trattando con
il Mef possibili soluzioni, visto che i docenti dichiarati
inidonei vengono comunque pagati, ma senza di fatto
lavorare. I primi di agosto, dopo quasi un anno di
trattativa, si è sbloccata la questione relativa alle nomine
in molo 2012/2013 del personale Ata, con le autorizzazioni
per le assunzioni di 5.336 unità (i contratti a tempo
indeterminato avranno decorrenza giuridica dall'anno
scolastico 2012/2013, mentre la decorrenza economica partirà
dal nuovo anno scolastico, il 2013/2014). Ma anche questo
nuovo contingente di assunzioni non risolve il problema
nelle scuole, «visto che copre solo in parte il turn-over
dello scorso anno», sottolinea Antonino Petrolino, della
direzione nazionale dell'Anp, l'Associazione nazionale
presidi. Ci sono casi in cui sono i presidi ad aprire i
laboratori (in assenza dei tecnici): «E la didattica ne
risente visto che sarà quasi impossibile procedere a
esercitazioni pratiche, non essendoci nessuno in grado di
utilizzare i materiali». A spingere per una rapida soluzione
per il personale Ata è anche il sindacato: «Lo stop alle
immissioni in ruolo per il 2013/2014 dice il leader della
Uil Scuola, Massimo Di Menna è un modo ottuso di procedere
perché contemporaneamente si abbassa la qualità dell'offerta
formativa, specie negli istituti tecnici e professionali, e
si ricorre a un rapporto di lavoro precario. La questione va
sbloccata, e per il futuro, occorre garantire un tecnico per
ogni scuola».
Solo 3.200 docenti del «concorsone»
entreranno in ruolo
Corriere della sera.it, del 25-08-2013, di
Valentina Santarpia
ROMA — Solo meno della metà delle graduatorie
del «Concorsone» è definitiva: a sette giorni dal termine
ultimo stabilito perché i nuovi docenti entrino in ruolo per
l'anno scolastico 2013-2014, le commissioni regionali ancora
arrancano: a rivelarlo è il monitoraggio che, giorno per
giorno, sta effettuando Orizzontescuola.it sulla base dei
dati degli uffici scolastici regionali. Ad oggi,
esclusivamente le province autonome di Bolzano e Trento e la
Valle d'Aosta hanno le graduatorie finali, mentre Lazio e
Toscana hanno gettato la spugna. La regione Lazio ha
comunicato, il 21 agosto, che «non sarà in grado di
pubblicare alcuna graduatoria definitiva entro il 31
agosto», mentre la Toscana ha specificato che potrà fornire
i vincitori solo per tre classi di concorso. E ci sono molte
altre Regioni, come la Campania o l'Emilia Romagna, che
hanno fino ad ora graduatorie provvisorie in tutte le
categorie. In base ad una prima stima, questo significa che
appena 3200 vincitori del nuovo concorso potranno
realisticamente prendere servizio: non solo perché in molti
casi le procedure per le prove orali sono state rallentate
oltre misura, complici le fughe dei commissari. Ma anche
perché in molte classi di concorso ci sono meno posti
disponibili rispetto alle stime. Il ministero dell'Istruzione assicura: il 75% delle
procedure si concluderà entro il 31 agosto, e tutti gli
altri docenti abilitati entro il 15 ottobre entreranno in
servizio il prossimo anno scolastico, 2014-2015, oppure
quello successivo, 2015-2016. Ma l'Anief, il sindacato dei
precari della scuola, non ci sta: e annuncia un ricorso al
Tar del Lazio per contestare la validità pluriennale delle
graduatorie del concorso a cattedra. Secondo il segretario,
Marcello Pacifico, il bando sarebbe «illegittimo perché ha
violato il testo unico sulla scuola», che prevede che i
concorsi diano immediato accesso ai posti vacanti. Ma questo
è un altro capitolo spinoso: perché, come rileva sempre l'Anief,
le cattedre disponibili non sono quelle previste un anno fa,
quando è stato bandito il concorsone per 11.524 docenti
perché ne mancano 2032 all'appello. Chi andrà quindi a ricoprire quelle 11.268 assunzioni
autorizzate venerdì dal Consiglio dei ministri? Si pescherà
per il 50% dalle graduatorie ad esaurimento e, per la
restante metà, dal concorso, ma visto che per il 1°
settembre non ci saranno abbastanza vincitori ufficiali da
coprire 5634 posizioni, si attingerà alla vecchia
graduatoria del concorso del ‘99. Con la desolante
conseguenza che quello che l'ex ministro Francesco Profumo
immaginava come uno strumento per svecchiare la scuola, il
primo concorso pubblico dopo 13 anni, rischia di partorire
l'ennesimo compromesso burocratico all'italiana. Senza
parlare della questione degli Ausiliari tecnici
amministrativi della scuola, gli Ata, un altro nodo spinoso
che il nuovo ministro Maria Chiara Carrozza dovrà affrontare
nel decreto scuola annunciato per settembre: sono infatti
state sospese per ora le 3730 immissioni in ruolo richieste,
in attesa dei chiarimenti del Tesoro.
-
Il naufragio del Concorsone
Il grande concorso della scuola naufraga
sugli scogli della macchina burocratica
Corriere della sera.it, del 25-08-2013, di
Paolo Conti
Il grande concorso della scuola naufraga
sugli scogli della macchina burocratica. Quando il traguardo
finale è ormai alle viste per il grande concorso che
coinvolge migliaia di possibili nuovi docenti, commissari e
impiegati, aprendo anche le porte della personale speranza
di tanti uomini e donne in comprensibile attesa di un
incarico stabile, si scopre che la struttura ministeriale
davvero non può farcela a reggere tutto quel peso. Risultato
finale: soltanto uno su due dei professori vincitori avrà il
posto. Concorsone della scuola colpito e affondato. Anzi
bloccato sugli scogli della macchina burocratica nostrana,
un po' come la Concordia. Tutto rientra nella grande
tradizione della disastrata scuola italiana. Si indice,
appunto, un «concorsone» coinvolgendo migliaia di possibili
nuovi docenti, di commissari, di impiegati aprendo anche le
porte della personale speranza di tanti uomini e donne in
comprensibile attesa di un incarico stabile. E poi
puntualmente si scopre (nemmeno a dirlo, all'ultimo momento,
in pieno agosto, quando il traguardo finale è già in vista)
che no, la struttura ministeriale davvero non può farcela.
Manca nemmeno una settimana al termine stabilito ed è tutto
clamorosamente in alto mare. In tante classi ci sono meno
posti disponibili del previsto perché, nel frattempo,
l'allungamento dei tempi per la pensione ha cambiato le
carte in tavola. Le commissioni regionali arrancano e quasi naufragano
sommerse dai dati e dagli elenchi. Lazio e Toscana si sono
già tirate indietro annunciando che di rispettare i tempi
nemmeno se ne parla. Non si contano i commissari che sono
fuggiti per la mole di lavoro e l'inezia dei compensi
previsti. Risultato finale di tutto questo disastro, solo la
metà delle graduatorie è definitiva. E, come spiega nella
sua cronaca Valentina Santarpia, appena 3.200 vincitori sui
6.000 previsti potranno prendere il loro posto. E
naturalmente, visto che siamo in Italia, non poteva mancare
la tradizionale prospettiva di un mega-ricorso al Tar che
migliaia di precari esclusi dalle graduatorie presenteranno. Di tutto avrebbe avuto bisogno la scuola italiana tranne che
di uno psicodramma collettivo simile a quello che si sta
vivendo e soprattutto si vivrà quando, a metà settembre,
ricominceranno le lezioni e si riapriranno le aule. Nel 2012
il 17,6% degli studenti italiani ha abbandonato la scuola
secondaria. Peggiori solo i dati di Spagna (24,9%), Malta
(22,6%) e Portogallo (20,8%) quando la media dell'Unione
Europea è al 12,8% e l'obiettivo per il 2020 è quello di
scendere sotto il 10%. Continuando così, a colpi di concorsi
indetti con mesi di anticipo e poi bloccati dal male di
sempre (l'incapacità di gestire un evento annunciato) gli
abbandoni aumenteranno. E l'Europa si allontanerà ancora.
Gli Uffici scolastici regionali in ritardo
con le graduatorie. Da settembre i posti liberi dovranno
andare ai supplenti
la Repubblica.it , del
25-08-2013
ROMA
Concorsone a rilento, presidenze vacanti e
supplenze che arriveranno a ridosso o addirittura dopo la
ripresa delle scuole. Questa coda di agosto annuncia un anno
pieno di difficoltà. Gli Uffici scolastici regionali hanno
ingaggiato una corsa contro il tempo per pubblicare le liste
definitive del concorso a cattedra entro il 31 agosto. Dopo,
non sarà più possibile nominare i vincitori e i posti
andranno ai supplenti. Nel Lazio, il direttore scolastico
regionale Giuseppe Minichiello ha comunicato che «entro il
31 agosto non sarà possibile pubblicare alcuna graduatoria
definitiva». E, a una settimana dalla fine del mese, le
graduatorie definitive pubblicate sono un quinto del totale. In Lombardia intanto scoppia la grana delle reggenze. Il
concorso a preside del 2011 è stato annullato e restano
vacanti 473 poltrone che saranno assegnate a presidi che già
guidano altre scuole. Ma i sindacati non ci stanno e
invitano i capi d’istituto a non accettare le reggenze.
Mentre in Sicilia i Cobas hanno inviato una lettera ai
provveditori dicendosi preoccupati per i ritardi
nell’assegnazione delle supplenze.
In 100 giorni la scuola ha spuntato solo
i soldi per l'edilizia
Per la scuola, a conti fatti, c'è solo il
fondo per l'edilizia scolastica. E' quanto si evince
dall'esame del documento pubblicato nel sito del Governo. Ma
va anche detto che il fondo corrisponde all'incirca ai
finanziamenti che erano previsti per l'autonomia
La Tecnica della Scuola, del 07-08-2013, di
R.P.
Per la scuola, a conti fatti, c'è solo il
fondo per l'edilizia scolastica. E' quanto si evince
dall'esame del
documento pubblicato nel sito
del Governo. Ma va anche detto che il
fondo corrisponde all'incirca ai finanziamenti che erano
previsti per l'autonomia. Per capire quanto e come, in concreto, il Governo Letta si
sia impegnato sui temi dell’istruzione è sufficiente leggere
il
documento sui primi cento
giorni di lavoro pubblicato in queste
ore nel sito ufficiale dell’esecutivo. Alla resa dei conti, per il momento, c’è una solo
provvedimento significativo, che peraltro deve ancora essere
perfezionato in Parlamento.
“La cittadinanza di domani si
costruisce sui banchi di scuola – si legge nel
documento - e per dare
concretezza a quest’auspicio, contribuendo alla sicurezza
degli edifici e alla riduzione della dispersione scolastica,
il governo con il “decreto Fare” stanzia fino a 100 milioni
l’anno per l’edilizia scolastica per i prossimi tre anni da
fondi INAIL, integrati da altri 150 milioni nell’iter
parlamentare”. In pratica, quindi, le uniche risorse “fresche” sono
150milioni all’anno; ma – non per fare i pignoli – bisogna
anche ricordare che nel corso degli esercizi finanziari,
tralasciando i tagli di organico e quant’altro, i fondi per
la scuola sono stati appunto tagliati di alcune centinaia di
milioni all’anno. Basti ricordare i fondi per l’autonomia derivanti dalla
legge 440 che fino a 4-5 anni ammontavano appunto a
150milioni e che ora sono stati praticamente azzerati. Per non parlare delle risorse per l’aggiornamento e per le
stesse attività finalizzate alla sicurezza realizzate dalle
scuole (si tratta di altri 40-50 milioni all’anno). Insomma, a conti fatti, i 150 milioni per l’edilizia
scolastica corrispondono appunto ai risparmi su fondi che
già erano destinati alla scuola. Lascia peraltro piuttosto perplessi l’affermazione secondo
cui in questo modo si potrà combattere la dispersione
scolastica. E’ davvero curioso che si possa pensare che per migliorare i
livelli di scolarità possa bastare una migliore manutenzione
degli edifici scolastici e non invece aumentare attrezzature
(non solo quelle informatiche), biblioteche e arredi.
-
Edilizia, sindaci e presidenti province
diventano commissari straordinari
Per accelerare le procedure di spesa e di
apertura dei cantieri negli istituti che necessitano di
interventi urgenti. Stanziati anche 450 milioni di euro per
la messa in sicurezza sismica, ristrutturazioni e rimozione
amianto o la realizzazione di nuove scuole. Svincolata pure
la spesa per gli arredi scolastici dal patto di stabilità
La Tecnica della Scuola, del 07-08-2013, di
A.G.
Per
accelerare le procedure di spesa e di apertura dei cantieri
negli istituti che necessitano di interventi urgenti.
Stanziati anche 450 milioni di euro per la messa in
sicurezza sismica, ristrutturazioni e rimozione amianto o la
realizzazione di nuove scuole. Svincolata pure la spesa per
gli arredi scolastici dal patto di stabilità. La
soddisfazione del Pd Sindaci e presidenti di provincia
diventeranno Commissari straordinari per l'edilizia
scolastica fino al 31 dicembre 2014, al fine di accelerare
le procedure di spesa e di apertura dei cantieri all’interno
degli istituti, della scuola dell'obbligo e superiori, che
necessitano di interventi urgenti. L’emendamento al Decreto
legge del Fare è stato approvato il 6 agosto dall’Aula del
Senato, su iniziativa del Partito Democratico. Ed ora si
appresta ad essere approvato, assieme a tutto il decreto,
probabilmente già corso nella mattina del 7 agosto.
L’emendamento prevede anche che si stanziano
450 milioni di euro per gli interventi di messa in sicurezza
sismica, ristrutturazione e rimozione amianto o
realizzazione nuovi istituti. E svincolata la spesa per gli
arredi scolastici dal patto di stabilità. Secondo la senatrice Francesca Puglisi, capogruppo in VII
Commissione a Palazzo Madama, la cancellazione del “limite
del 20% sull'acquisto di arredi per le scuole e servizi per
l'infanzia”, imposto dal Governo Monti, è particolarmente
importante poiché “evita il rischio di lasciare sedie e
banchi rotti nelle scuole” comprese quelle dell'Emilia
terremotata “senza arredi”. Ma soprattutto essa la sua
conferma “rischiava di cancellare per intero, e in
brevissimo tempo, un importante settore produttivo del Made
in Italy: quello dell'industria dei materiali e arredi per
la didattica”. Secondo la senatrice del Pd Rosa Maria Di Giorgi,
fiorentina, componente della Commissione Istruzione, con
questi provvedimenti "l'edilizia scolastica torna al centro
delle priorità politiche. Con gli emendamenti, proposti
dagli esponenti del Pd e approvati oggi al Senato, si è
garantito un netto cambio di marcia per gli interventi di
messa in sicurezza e per la realizzazione di nuove scuole.
Da ex assessore comunale all'educazione – ha continuato la
senatrice - conosco molto bene le difficoltà degli enti
locali in questo settore. Attribuire il ruolo di 'Commissari
straordinari' ai sindaci, come nei casi di eventi
calamitosi, può garantire una velocizzazione dei tempi,
essenziale per far fronte alle tante emergenze dell'edilizia
scolastica. A Firenze, dove l'amministrazione si è impegnata
con importanti progetti sia di ristrutturazione che di nuova
edificazione, questo decreto potrebbe essere l'elemento di
svolta per garantire il sostegno economico necessario ad
avviare la realizzazione della nuova scuola Dino Compagni".
-
“Quota 96” nel decreto del prossimo
consiglio dei ministri?
Farse in arrivo al prossimo consiglio dei
ministri l'articolo della bozza di decreto legge sul
pubblico impiego del ministro D'Alia. La nota dell’on.
Ghizzoni
La Tecnica della Scuola, del 07-08-2013, di
Pasquale Almirante
Il decreto dovrebbe, obbligatorio il
condizionale, prevedere che il personale della scuola potrà
andare in pensione dal 1° Settembre con le quote, requisiti
anagrafici e contributivi, ante riforma Fornero purché essi
siano stati maturati entro il 31 agosto 2012, che sono poi
quegli stessi che il Comitato “Quota 96” invoca dal novembre
2011, quando si insediò il governo Monti e la ministra al
Lavoro diede vita alla sua penalizzante legge. La platea
interessata a questo decreto si attesta attorno a circa 6000
persone, dopo un precedente calcolo di 3500 che poi l’Inps
portò a 9000. La Commissione Bilancio intanto, secondo
quanto scrive l’on Manuela Ghizzoni nel suo Blog, finalmente
ha dato il suo parere, dopo l’Ok unanime dato, sia dalla
Commissione Lavoro e sia dalla Commissione cultura, cosicché
tutto il pacchetto che si riferisce a questo specifico
personale della scuola, “Quota 96”, dovrebbe passare in mano
al Consiglio dei ministri per accelerare i tempi e fare in
modo che già dal primo settembre i lavoratori interessati
possano lasciare il posto ad altrettanti docenti precari in
attesa di sistemazione. E siccome sul tavolo dei ministri
approderà il cosiddetto decreto D’Alia sul pubblico impiego,
le attese, e con qualche punta lieve di ottimismo, sono
quelle che anche l’articolo che riguarda i “Quota 96” possa
esservi inserito. Ma in modo particolare, come si è espressa
la commissione Bilancio? L’on Ghizzoni nella sua nota, oltre
a criticare aspramente il lavoro lento e “poco
professionale” dei funzionari della Ragioneria dello Stato
per la relazione tecnica (“un ritardo ingiustificato e molto
grave, perché – al di là dei merito del contenuto –
rappresenta un ostacolo alla assunzione delle decisioni
politiche”), dice che “la Commissione ha convenuto di
inviare una lettera alla Commissione Lavoro”, dove si
inviterà “la Commissione a “valutare la possibilità di
limitare la platea a coloro i quali maturano i requisiti
entro il 31 agosto e di mantenere invariata la data di
erogazione del trattamento di fine servizio prevista sotto
la vigenza della riforma Fornero”. Anche il presidente
Boccia, sulla stessa lunghezza d’onda, che però ha aggiunto,
scrive l’on Ghizzoni, “che la Commissione Bilancio potrebbe
indicare coperture alternative e ha sollecitato il Governo
ad assumere – dati i tempi ridotti – la soluzione del
problema”. Tuttavia Ghizzoni tiene pure a precisare che la
sua legge “tiene conto della specificità della scuola e
della sua unica finestra di uscita, ma non dimentica l’art.
59, che ho richiamato anche in commissione, nonostante la
norma sui soprannumerari, che ho definito un pericoloso
precedente proprio per i motivi di cui sopra (e costituisce
un precedente anche sul trattamento di fine servizio). Sui
tempi: è necessario un decreto d’urgenza del governo, perché
il 1 settembre è vicino. Al netto di quanto sopra, stiamo
lavorando anche in queste ore per raggiungere questo
obiettivo”. Se dunque non prendiamo lucciole per lanterne,
l’intenzione è proprio quella di affidare al governo la
soluzione del caso e per tramite di un decreto di urgenza,
il decreto D’Alia appunto, in approdo al prossimo consiglio
dei ministri nei prossimi giorni e certamente prima della
vacanze dei parlamentari.
Nella domanda di accesso è possibile
considerare gli insegnamenti differenti solo se svolti in
anni diversi. Nello stesso a.s., invece, bisogna
necessariamente raggiungere i 180 giorni con la stessa
tipologia di supplenza
La Tecnica della Scuola, del 06-08-2013, di
A.G.
La notizia non farà piacere agli aspiranti ai
corsi di abilitazione riservati a corto di giorni di
servizio da dichiarare: nella domanda di accesso è possibile
considerare gli insegnamenti differenti solo se svolti in
anni diversi. Nello stesso a.s., invece, bisogna
necessariamente raggiungere i 180 giorni con la stessa
tipologia di supplenza.
Brutte
notizie per i docenti precari che per accedere ai Percorsi
abilitanti speciali hanno necessità di cumulare i servizi di
supplenza svolti nello stesso anno scolastico su più classi
di concorsi o (nel caso della scuola dell’infanzia e
primaria) ordini di scuola diversi:
dopo la nostra segnalazione, fonti
ministeriali ci hanno fatto sapere che si tratta di una
operazione non fattibile. In pratica, chi vuole partecipare
ai corsi abilitanti riservati, deve obbligatoriamente aver
svolto ogni annualità di supplenze da almeno 180 giorni
(oppure dal 1° febbraio sino allo svolgimento degli
scrutini) su una specifica classe concorsuale o tipologia di
insegnamento. Ad ingannare, e ad illudere, i candidati ai PAS era stata
questa parte del
decreto
n. 58 del 25 luglio
scorso, pubblicato sulla GU cinque giorni dopo: “è
valutabile anche il servizio prestato in diverse classi di
concorso, purché almeno un anno scolastico di servizio sia
stato svolto
nella classe di concorso per la quale si intende
partecipare”, si legge nel decreto.
Ora che però le cose
stanno diversamente da come erano state intese, molti
docenti precari che puntavano all’abilitazione si ritrovano
davanti ad un “muro” che prelude alla loro esclusione:
costoro, infatti, solo sommando i servizi svolti nello
stesso anno scolastico su più classi di concorso, oppure
supplenze svolte su insegnamenti diversi (ad esempio
infanzia e primaria), avrebbero potuto raggiungere la soglia
dei 180 giorni.
Per
raggiungere le tre annualità da 180 giorni ciascuna, rimane
possibile, invece, sommare il servizio svolto su differenti
classi di concorso o insegnamenti quando sono stati
effettuati in anni scolastici diversi.
-
Ddl su "Quota 96": si aspetta la
relazione tecnica
Nel pomeriggio del 5 agosto la Commissione
Bilancio della Camera ha rinviato l'esame del provvedimento
in attesa di ricevere la relazione tecnica che dovrà essere
predisposta dagli uffici del Ministero del Lavoro.
La Tecnica della Scuola, del 07-08-2013, di
R.P.
Ancora un rinvio per il ddl su “Quota 96”. Nel pomeriggio del 5 agosto la Commissione Bilancio, che sta
operando in sede consultiva per trasmettere il proprio
parere alla Commissione Lavoro, ha dedicato alla questione
esattamente 5 minuti di tempo (dalle 14,15 alle 14,20). E’ intervenuta la relatrice onorevole Saltamartini che ha
ricordato come nella seduta del 26 luglio la Commissione
aveva deliberato di richiedere al Governo la predisposizione
della relazione tecnica entro giovedì 1 agosto 2013. Saltamartini ha aggiunto che
“il Ministro
Saccomanni, con lettera del 31 luglio 2013, ha rappresentato
che gli Uffici del suo Dicastero hanno provveduto a
contattare le competenti strutture del Ministero del lavoro
e delle politiche sociali, cui spetta ratione materiae la
predisposizione della relazione tecnica, ed ha assicurato la
massima celerità, una volta acquisita la predetta relazione,
a procedere alla verifica della stessa”. “Non
appena perverranno gli elementi richiesti
– ha concluso la relatrice -
la
Commissione sarà prontamente riconvocata per l'esame del
provvedimento”. Sulla
relazione della Saltamartini nessun deputato è intervenuto e
a questo punto l’esame del provvedimento è stato rinviato ad
altra seduta. Intanto nelle ultime ore è iniziata a circolare la voce
secondo cui nel cosiddetto “decreto D’Alia” potrebbe essere
inserita una disposizione proprio sulla questione della
“Quota 96”. Tutto sta a vedere però se il decreto D’Alia
verrà approvato in tempi brevi dal Governo: già nei giorni
scorsi si era parlato di una rapida adozione di questo
provvedimento che prevede tra l’altro un piano per assumere
precari nella pubblica amministrazione, ma poi del decreto
s’è persa ogni traccia.
Elusi sistematicamente i parametri sul numero
di alunni
ItaliaOggi, del 30-07-2013, di Franco
Bastianini
Il sovraffollamento delle classi scolastiche
è approdato in Parlamento. Da qualche settimana se ne sta
discutendo nella 7^ commissione permanente (istruzione
pubblica , beni culturali) del senato presieduta da Andrea
Marcucci (Pd). Quello del sovraffollamento è un fenomeno strettamente
connesso alla difficile situazione economica e alla
necessità da parte dell'amministrazione scolastica di
ricercare ogni forma di risparmio. Nel settore scuola, in
particolare, i risparmi di spesa che da qualche anno si
ottengono riducendo il numero dei docenti, a fronte di un
aumento degli alunni e a causa dalla mancanza di
riqualificazione degli edifici scolastici, stanno
determinando un sovraffollamento che va ben oltre i limiti
stabiliti per la formazione delle classi dal decreto del
Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 81. Il decreto n. 81 stabiliva infatti che, considerando anche
la deroga del dieci per cento prevista dall'art. 4 per ogni
ordine di scuola, si potevano costituire classi
rispettivamente fino a 26-28 alunni nella scuola
dell'infanzia e nella scuola primaria, fino a 27-30 alunni
nella scuola secondaria di primo grado e fino 30-33 alunni
nella scuola secondaria di secondo grado. Le norme
precedenti( i decreti ministeriale 18 dicembre 1975 e 22
agosto 1992 e la legge n. 23/1996) disponevano che il
massimo affollamento ipotizzabile dovesse essere di 26
persone/aula, fino a 20 in presenza di alunni disabili.
Prevedevano inoltre che le aule dovesse essere di altezza
non inferiore a tre metri e che il rapporto
alunni/superficie dovesse essere di 1,80 metri
quadrati/alunno nella scuola dell'infanzia e della scuola
primaria e di 1.96 metri quadrati/alunno nelle scuole
secondarie. All'aumento del numero di alunni per classe consentito dal
decreto n. 81/2009 doveva seguire un piano generale per la
riqualificazione dell'edilizia scolastica adottato dal
ministero dell'istruzione di intesa con il ministero
dell'economia e delle finanze. Non solo il piano di riqualificazione non è stato
predisposto, ma anche i parametri fissati dal decreto sono
stati sistematicamente elusi. Il numero degli alunni per
classe ha continuato ad aumentare raggiungendo punte che
vanno fino a 35/36 alunni per classe. Veri e propri pollai,
appunto. La mancata riqualificazione degli edifici scolastici
pregiudica fortemente il livello di funzionalità e qualità
delle istituzioni scolastiche e, soprattutto, il livello di
sicurezza delle scuole, tenuto conto del fatto il
sovraffollamento delle aule comporta inevitabilmente
l'inidoneità delle stesse a contenere gli alunni in
condizioni di sicurezza, salubrità, igiene e vivibilità.
Basti ricordare a tale fine che attualmente le aule sono
dimensionate per ospitare, in regime di sicurezza, un numero
massimo di 25/26 alunni. É una situazione non più sostenibile. C'è solo da auspicare
che il dibattito in corso nella 7^ commissione del senato
possa concludersi, come si legge in una proposta di
risoluzione presentata dal sen. Bocchino(M5S), in una
richiesta al Governo perché adotti le più opportune
iniziative volte al rispetto della normativa vigente in
materia di numero massimo di persone per classe tali da
ridurre l'attuale sovraffollamento.
Sull'iniziativa Invalsi nessun confronto
neanche con il MIUR
ItaliaOggi, del 30-07-2013, di Mario D'Adamo
Il commissario straordinario, Paolo Sestito, dell'istituto
nazionale per la valutazione del sistema educativo
d'istruzione e formazione, Invalsi, ha deciso che dal 25
agosto al 1° settembre cento tra docenti e dirigenti di
tutt'Italia parteciperanno a una scuola estiva di formazione
sulla valutazione, purché i dirigenti abbiano non meno di
tre anni di ruolo e i docenti cinque, siano stati
collaboratori del dirigente, presidi incaricati o titolari
di funzioni strumentali e questi e quelli abbiano davanti a
sé almeno cinque anni di servizio ancora da svolgere. Allo
scopo ha inviato ai direttori regionali dell'istruzione la
richiesta di individuare e segnalare complessivamente fino a
duecento nominativi, tra i quali scegliere i cento fortunati
sulla base dell'esito di una selezione. Le spese di viaggio,
vitto e alloggio sono a carico o degli aspiranti corsisti o
degli uffici scolastici regionali di provenienza, a
discrezione di questi ultimi, mentre quelle di
partecipazione alla scuola estiva saranno a carico di
Invalsi, eccetto le spese di viaggio, a carico dei corsisti.
Ed è subito alzata di scudi da parte delle organizzazioni
sindacali, insospettite da tanto zelo e già con il dente
avvelenato per l'introduzione in articulo mortis del
precedente governo di un sistema di valutazione fortemente
criticato. Ma andiamo con ordine. Lo scopo della formazione
agostana è riassunto nella nota di richiesta dei nominativi
e trae origine e legittimazione, appunto, dal regolamento
sul sistema nazionale di valutazione, approvato con decreto
del presidente della repubblica n. 80 del 2013 e uscito in
gazzetta ufficiale lo stesso 4 luglio, anche se la sua
effettiva entrata in vigore è di quindici giorni dopo, 19
luglio. L'Invalsi si deve dotare di esperti in grado di
condurre le visite di valutazione esterna previste dal
regolamento e di assistere le scuole nei processi di
autovalutazione. Quella che si terrà a fine agosto è solo la
prima di una serie di attività formative onde permettere a
tali esperti la familiarizzazione, sono le parole di Sestito,
«con l'individuazione e l'analisi dei processi educativi di
una istituzione scolastica, individuandone i punti di forza
e di debolezza del servizio offerto». Particolare
attenzione, continua il commissario, sarà «posta anche
sull'uso del feedback e sulle modalità di supporto che è
possibile offrire ad una scuola all'interno di un percorso
di autovalutazione». Il tutto attraverso lezioni frontali,
tavole rotonde, esercitazioni pratiche e gruppi di lavoro.
Gli uffici scolastici regionali e le province autonome di
Trento e Bolzano hanno segnalato ciascuna quattro nominativi
di docenti e dirigenti, nonché un numero ulteriore,
individuato dall'Invalsi nell'allegato 2 alla nota e diverso
da regione a regione in proporzione alla consistenza
numerica delle scuole di primo e secondo ciclo presenti su
ciascun territorio. Con il test del 29 luglio saranno
ammessi a frequentare il corso, a prescindere dal profilo, i
primi due classificati per ciascuna regione, in tutto
quarantadue (due per ciascuna delle diciannove regioni e
altri due per ciascuna delle due province autonome), mentre
gli altri cinquantadue saranno prelevati dalla graduatoria
nazionale, a prescindere dai territori di provenienza e dai
profili. Tutto ciò non poteva non passare sotto silenzio e
non allarmare le organizzazioni sindacali, che per evitare
all'Invalsi «di andare a sbattere», scrive la Cisl scuola di
Francesco Scrima, hanno chiesto l'immediato ritiro della
nota, con la Cgil di Mimmo Pantaleo che è arrivata a
dichiararla non solo inopportuna e intempestiva ma viziata
da illegittimità. Il punto è che il commissario su un
argomento così importante come il reclutamento di esperti
non ha sentito il bisogno di confrontarsi non solo con le
organizzazioni sindacali, ma nemmeno con il livello
istituzionale. Insomma, al ministero nessuno sapeva.
A fronte di 25 mila cattedre disponibili, 12
mila stabilizzazioni. Sindacati sul piede di guerra
ItaliaOggi, del 30-07-2013, di Alessandra
Ricciardi
Rischiano di slittare di un anno per i
vincitori di concorso
A fronte di 25.367 posti disponibili,
sarebbero poco meno di 12 mila le assunzioni richieste dal
ministero dell'istruzione al Tesoro per il prossimo anno
scolastico. Sottratti gli 8 mila esuberi, anche se su classi
di concorso ovviamente diverse da quelle per le quali c'è
disponibilità di posti, resterebbero dunque senza copertura
altre 5 mila cattedre. Ma non solo. Chi ha partecipato all'ultimo concorso rischia
di dover saltare un anno: perché lì dove gli orali sono
ancora in svolgimento, e dunque le graduatorie non saranno
definitive per fine agosto, non si può procedere alle
immissioni. E dunque si dovrebbero utilizzare per le
assunzioni i candidati delle graduatorie permanenti,
recuperando poi la volta successiva sulle liste del
concorso. Per evitare prevedibili tensioni e proteste dei
vincitori di concorso, un'altra ipotesi a cui stanno
lavorando a viale Trastevere è che si provveda a immissioni
anche a anno già avviato, così da assumere da entrambe le
liste, ma solo in punta di diritto: l'assunzione così
varrebbe giuridicamente già dal prossimo primo settembre,
salvo gli effetti economici che decorrerebbero dalla data
reale di inizio del contratto. Tutte ipotesi che non fanno
altro che alimentare la tensione e la preoccupazione da
parte degli aspiranti a una cattedra fissa, che si tratti di
iscritti nelle graduatorie permanenti o di concorso. La
vertenza, che ad oggi è gestita a livello centrale con i
sindacati, minaccia a settembre di esplodere. Tutte le
sigle, davanti a un precariato che supera le 150 mila unità,
sono concordi nel chiedere un cambio di passo della politica
nella gestione del personale e del reclutamento. «L'aver
dato copertura solo a 2 posti disponibili su tre ci rende
come Paese anche deboli davanti a eventuali censure per
violazioni del diritto comunitario», dice Rino di Meglio,
responsabile della Gilda degli insegnanti, «perché si tratta
di posti disponibili in organico di diritto ed è su questi
che è indifendibile la reiterazione oltre i tre anni dei
contratti a tempo determinato. I ricorsi fioccheranno».
Punta il dito contro una politica «che non fa altro che
alimentare il precariato», Mimmo Pantaleo, segretario della
Flc-Cgil. Che poi ricorda al ministro dell'istruzione Maria
Chiara Carrozza «la promessa di stabilizzare 27 mila docenti
di sostegno, ma che fine ha fatto?». Per Massimo Di Menna,
numero uno della Uil scuola, «il problema non può più essere
tamponato ricorrendo a poche migliaia di assunzioni l'anno.
Sul precariato serve un confronto reale e proposte
concrete». Intanto sta esplodendo anche la vertenza per la
stabilizzazione del personale ausiliario, tecnico e
amministrativo. «Le assunzioni sono ferme dall'anno scorso
nonostante rientrassero nelle previsioni del piano triennale
di assunzioni varato col decreto interministeriale 3 agosto
2011», spiega la Cisl scuola di Francesco Scrima. Per questo
in una nota inviata al ministero, e sottoscritta da Flc-Cgil,
Cisl scuola, Uil Scuola, Snals Confsal e Gilda, i sindacati
chiedono che si proceda da subito alle assunzioni, «anche
per evitare negative ripercussioni sull'avvio del nuovo anno
scolastico». I posti in ballo dal prossimo settembre
sarebbero 3mila. Il problema della partita delle stabilizzazioni è sempre di
ordine finanziario, quella coperta che è troppo corta e su
cui il Tesoro non sembra disposto a chiudere un occhio.
Attesa per oggi in Gazzetta ufficiale la
pubblicazione del decreto che apre ai Tfa speciali
Valutabile il servizio reso in diverse classi
di concorso
ItaliaOggi, del 30-07-2013, di Antimo Di
Geronimo
Precari ai blocchi di partenza in vista dei
corsi speciali per il conseguimento dell'abilitazione
all'insegnamento. Dovrebbe essere pubblicato oggi in
Gazzetta Ufficiale, infatti, il decreto dirigenziale che dà
il via ai Tfa speciali (tirocini formativi attivi)
ribattezzati Pas: percorsi speciali per l'abilitazione
all'insegnamento. Il bacino dei potenziali interessati è stimato tra gli
80mila e i 90mila aspiranti docenti. Le iscrizioni ai corsi,
destinate solo ai precari, dovranno essere effettuate
esclusivamente via web e gli interessati avranno tempo fino
a 29 agosto prossimo. Nella domanda bisognerà dichiarare
espressamente di essere disposti a garantire sia
l'espletamento del servizio che la frequenza dei corsi. Ma
sarà comunque consentita la fruizione dei permessi per il
diritto allo studio. Per avere diritto ad accedere ai corsi, gli aspiranti
dovranno essere in grado di vantare un requisito di servizio
pari a tre anni di insegnamento nel periodo compreso
dall'anno scolastico 1999/2000 e fino al 2011/2012 incluso.
Il servizio dovrà essere stato prestato con il possesso del
prescritto titolo di studio, in scuole statali, paritarie
ovvero nei centri di formazione professionale limitatamente
ai corsi accreditati dalle regioni per garantire
l'assolvimento dell'obbligo di istruzione a decorrere
dall'anno scolastico 2008/2009. É valutabile anche il
servizio prestato in diverse classi di concorso, purché
almeno un anno scolastico di servizio sia stato svolto nella
classe di concorso per la quale si intende partecipare. Per
gli insegnanti di scuola dell'infanzia e di scuola primaria,
gli anni di servizio prestati nella scuola dell'infanzia e
nella scuola primaria, sia su posti normali che su posti di
sostegno, si possono cumulare, purché per ciascun anno
scolastico il servizio sia stato prestato interamente sulla
stessa tipologia di posto. É valido anche il servizio
prestato su posto di sostegno, purché riconducibile alla
classe di concorso o alla tipologia di posto richiesta. Chi
non avrà raggiunto il requisito di servizio necessario nel
periodo 1999/2000-2011/2012, potrà «dichiarare anche i
servizi relativi all'anno scolastico 2012/13». Quanto ai
titoli di studio di accesso, il decreto fa riferimento
espresso ai vecchi diplomi magistrali e alle lauree del
vecchio ordinamento, salvo alcune eccezioni. Per la scuola
secondaria i titoli di accesso sono quelli elencati nel
decreto 30 gennaio 1998 n. 39, tabelle A, C e D, e nel
decreto 9 febbraio 2005 n. 22. In buona sostanza, dunque,
sono validi sia i titoli del vecchio ordinamento (indicati
nel decreto 39/2005) che le lauree specialistiche (comprese
nel decreto 22/2005). Ciò vale anche per gli aspiranti
docenti di strumento musicale, che potranno far valere allo
stesso modo sia i diplomi accademici di II livello che i
diplomi di conservatorio del vecchio ordinamento. D'altra
parte, con l'entrata in vigore del comma 107, dell'articolo
1, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, i diplomi del
vecchio ordinamento sono stati equiparati ai titoli di II
livello. E dunque, in quest'ultimo caso, più che di
un'eccezione alla regola, si tratta di una mera presa d'atto
del mutato quadro normativo. Per quanto riguarda la scuola dell'infanzia e primaria, il
decreto prevede l'accesso ai percorsi formativi speciali per
i non laureati in possesso dei vecchi diplomi conseguiti
prima dell'anno scolastico 2000/2001. In particolare, per
accedere i Pas per la scuola dell'infanzia, gli aspiranti
dovranno essere in grado di vantare il possesso del diploma
di scuola magistrale o di istituto magistrale o di titolo di
studio sperimentale dichiarato equivalente. Il titolo
sperimentale, per essere valido titolo di accesso, deve
essere riconducibile al diploma di maturità magistrale con
apposita dicitura sul diploma stesso o, in assenza di tale
dicitura, l'equivalenza a diploma magistrale deve risultare
dal decreto autorizzativo della sperimentazione per
l'istituto dove il titolo è stato conseguito. Idem per la
scuola primaria per la quale non è considerato valido il
diploma triennale (valido invece per la scuola
dell'infanzia) ma il solo diploma di istituto magistrale (o
il titolo di studio sperimentale dichiarato equivalente)
sempre che sia stato conseguito entro l'anno scolastico
2001/2002. La durata dei corsi sarà di un anno. Ma è
previsto uno sconto sui crediti in forza della
valorizzazione dell'esperienza acquisita sul campo. In luogo
dei 60 crediti, in cui si articola ordinariamente un anno di
università, la durata sarà pari a 41 crediti formativi. Ciò
dovrebbe valere anche per la scuola primaria e
dell'infanzia. Ma il condizionale è d'obbligo perché il
decreto fa riferimento solo alla tabella A del decreto 11
novembre 2011, che reca i titoli di accesso e non
l'articolazione dei crediti.
l'Unità, del 28-07-2013, di di Franco Labella
Avevo preannunziato un pezzo su Calderoli e
lo ius soli, ora mi
ritrovo a scrivere un pezzo su Fassina e la Scienza delle
Finanze. E’ l’effetto collaterale delle “larghe intese”: mentre stai
lì a far notare le nequizie anche razziste della Destra
arriva uno di Sinistra a dire cose sicuramente di “destra”. Per dirla tutta: se le scuole fossero aperte e qualcuna
delle mie studentesse mi chiedesse cos’è “l’evasione fiscale
per necessità” di cui ha improvvidamente parlato ieri
Stefano Fassina, esponente di punta del PD e viceministro
dell’Economia, dovrei prenderla alla larga. Perché è vero che Einaudi, docente di Scienza delle Finanze
oltre che primo Presidente della Repubblica eletto, usava
dire, a proposito dell’imposizione tributaria, che
“il
contribuente va tosato e non scorticato”.
E’ altrettanto vero, però, che
Einaudi la frase citata non l’ha detta nel 2013
nel paese con
il più alto tasso di evasione fiscale dell’intera Unione
Europea. Il refrain per giustificare le “larghe
intese” e le malintese difese di diritti violati come nella
vicenda kazaka è che stiamo tutti nella stessa barca. E’ di tutta evidenza che se si facesse una analisi della
percentuale di evasione dei lavoratori dipendenti e dei
pensionati (che sicuramente stanno peggio nelle loro
“barchette” rispetto agli yacht dei grandi evasori) si
scoprirebbe, senza grandi difficoltà, che sicuramente chi
evade non lo fa per necessità. Giusto ieri una persona che conosco ha ricevuto una nota
dall’INPS, che gli eroga una ricca pensione da 500 € ogni
due mesi, con la quale si chiede di comunicare il proprio
reddito del 2012. Peccato che la persona in questione abbia appena scelto
(sbagliando secondo me, visto che non ha oneri deducibili o
spese detraibili) di compilare il modello 730. Evidentemente INPS ed Amministrazione finanziaria non
comunicano (non oso pensare che la lotta all’evasione non
efficace possa dipendere negativamente anche da questo) ma
il mio conoscente era stato convinto a compilare il 730
perché ritenuto meno complicato rispetto al modello RED. E’ di altrettanta sicura evidenza (chi sta nella scuola lo
verifica di frequente) che spesso i beneficiari persino di
giuste provvidenze di origine costituzionale (dai
buoni-libro alle borse di studio) spesso e volentieri sono
figli di ricchi commercianti dall’ISEE dimagrito “per
necessità”. C’era perciò bisogno di questa uscita di Fassina? Direi proprio di no perché non solo non rafforza la lotta
culturale alla “cultura dell’evasione” ma anche perché
vanifica gli sforzi di chi si occupa dell’educazione alla
legalità nelle scuole. Addirittura? E certo perché io che ragiono quotidianamente con i miei
studenti sul perché sia ingiusto evadere le tasse in una
città come Napoli dove un contribuente su tre paga la TARSU,
vorrei capire come faccio poi a smentire chi dice che non
pagare le tasse è un atto di autodifesa contro lo Stato
predone. Possibile che un raffinato studioso ed esperto economico
come Fassina non abbia valutato gli effetti della sua
uscita? Ma se Fassina la sua uscita l’avesse fatta tra un anno
sapete quale sarebbe stato anche un risultato? Che nessuno nelle scuole ne avrebbe potuto parlare perché
fra un anno si completa il “nuovo” percorso gelminiano delle
scuole superiori riordinate e lo studio del Diritto e della
Scienza delle Finanze spariscono. Fassina conosce il tema? Conosce il sen. Roberto Ruta, Pd, ed
il suo progetto di legge
sulla reintroduzione dello studio del Diritto? Bene allora faccia e dica una cosa di Sinistra: che studiare
il Diritto nelle scuole serve anche per evitare che
l’evasione fiscale sia giustificata con lo stato di
necessità. Sono concetti semplici ed hanno un pregio: sono concetti di
Sinistra. Se ce ne ricordassimo, forse, non ci sarebbe necessità di
leggere articoli che servono a spiegare le differenze tra
Destra e Sinistra. Anche se, comunque, oggi, evidentemente servono ed allora,
nonostante siamo a luglio, tempo di vacanze e scuole chiuse,
da bravo prof. ve ne consiglio, di articoli, uno recente. E’
l’intervista di Stefano
Rodotà su Repubblica di tre giorni fa in cui si spiega con
chiarezza perché sono importanti i diritti alla salute o
all’istruzione. Disgiunti, ci ricorda Rodotà, dai limiti economici e
finanziari con cui si vogliono spiegare i tagli. Sotto l’ombrellone, con o senza il wi-fi, trovate il tempo
per leggerla. Ne vale sicuramente la pena. Parola di prof.
-
«La scuola del futuro? Nell'attesa gli
studenti giocano a carte in classe»
De Nicola, prof. a San Giovanni a Teduccio:
«Mi sento come il maestro di Vigevano»
Corriere del Mezzogiorno, del 28-07-2013, di
Roberto Russo
NAPOLI — «Il maestro è un miss...un miss..».
Un missile? «Ma no, è un missionario!!!». Il siparietto tra
il preside Pereghi che interrogava un confuso maestro
Mombelli, l'indimenticabile Alberto Sordi, rappresenta uno
dei momenti più esilaranti di un film dal sapore amaro,
appunto Il Maestro di Vigevano (regia di Elio Petri, 1963).
Sarebbe il caso che quel film lo vedessero i dirigenti del
Ministero della pubblica istruzione (pardon, Miur), per
riflettere sullo stato reale della scuola pubblica in Italia
e soprattutto nel Mezzogiorno. Una scuola devastata e in larga parte distrutta dai tagli,
eppure presuntuosamente forzata ad adeguarsi al terzo
millennio con una informatizzazione spinta. Da Roma è ormai
tutto un fiorire di webcircolari e webprotocolli con cui si
invitano i capi d'istituto ad accelerare «il processo di
dematerializzazione delle attività delle segreterie
scolastiche» (sic). Sarebbe facile fare ironia sulla
dematerializzazione di quel poco che ancora rimane in piedi
nelle aule degli istituti, visto che più della metà hanno
problemi statici. Ma tutto sommato dematerializzare, cioé
rinunciare alla carta a favore del computer è giustissimo.
«Se però lo Stato ci desse anche i soldi per comprare ad
esempio la carta igienica sarebbe meglio, perché a volte
dobbiamo fare la colletta». Angelo De Nicola, 54 anni, non è il maestro di Vigevano ma
un professore di economia aziendale che da vent'anni insegna
alla «Rosario Livatino», quartiere San Giovanni a Teduccio,
periferia orientale di Napoli. Eppure da qualche tempo si
sente anche lui colpito dalla sindrome Mombelli.
Professor
De Nicola, la «dematerializzazione» della scuola non le
piace proprio? Vuole fare il nostalgico con gessetto e
lavagna? «Macché, magari fosse tutto vero. Magari le scuole
ottenessero i mezzi elettronici che il Ministero in modo
altisonante finge di darci. La verità è che dobbiamo
adeguarci al futuro senza pesare sui bilanci degli istituti.
Come si fa? Le imprese private che forniscono le
attrezzature, mica fanno beneficenza. Le Lim, ad esempio, da
noi sono solo 4 o 5».
Lim, per
qualcuno è una sigla misteriosa, ci spieghi meglio.
«Sono le lavagne interattive multimediali.
Bellissima invenzione, per carità: gli studenti possono
vedere filmati, noi siamo in grado di scrivere e disegnare
in tempo reale, ci si collega a internet e la lezione viene
benissimo. Na' squisitezza, altro che gessetti e cancellino.
Però se la mattina noi prof, come tanti ragionier Fantozzi,
dobbiamo accapigliarci per la classe giusta allora non
funziona...».
La classe
giusta? «Quella dove c'è una Lim. La lavagna
interattiva diventa una specie di oggetto del desiderio, per
ottenerla non dico che ci si azzuffa ma poco ci manca. Io
stesso non riesco ad usare questo totem elettronico che
poche volte. E come si fa a parlare con il linguaggio di
studenti che hanno fra i tredici e i 17 anni e arrivano in
classe con iPhone, iPad, telefonini, agende digitali? E poi,
magari fosse solo un problema di accaparrarsi la prima Lim
disponibile...».
Perché,
c'è altro da sapere nella dematerializzazione della scuola?
«Sì. Tutta la rivoluzione a costo zero si
basa su altri due progetti che ci stanno facendo impazzire
e, a mio avviso, stanno anche snaturando la nostra
professione. Sono: il registro elettronico e i nuclei di
autovalutazione». Partiamo dal registro elettronico.
Perché
dice che c'è da impazzire?
«Perché è un'altra magnifica utopia. Le
scuole entro l'anno prossimo dovranno adeguarsi a fare tutto
online. Iscrizioni elettroniche, pagella in formato
elettronico, da inviare alle famiglie in e-mail; registri
on-line con assenze, presenze, voti; invio in tempo reale
dei dati alle famiglie segnalando anche se il ragazzo ha
marinato le lezioni».
Bello,
moderno, efficiente, funzionale e anche economico perché si
risparmia carta e tempo. E allora?
«Anche questa è un'annusatina di futuro che
il Ministero ci concede. Di recente ho frequentato un corso
per aggiornarmi sulle potenzialità del registro elettronico,
ovviamente tenuto da un esperto di una delle aziende
individuate per le forniture. Ebbene, egli stesso alla fine
del corso mi ha detto che per noi resterà un sogno perché
sono strumenti ancora molto costosi. L'ex ministro Profumo,
ad esempio, voleva accelerare i tempi e proponeva a modello
una scuola di Brindisi già tutta informatizzata. Vuol sapere
quanto era costata la rivoluzione informatica solo in quella
scuola? Mezzo milione di euro. Capito? Qui a San Giovanni a
Teduccio il mese scorso sono stato costretto a proporre una
colletta tra docenti, studenti e famiglie: un euro a testa
per ritinteggiare le aule che così come sono fanno
francamente schifo. Ecco, questa è la nostra realtà».
Okey,
niente registro elettronico. Passiamo al nucleo di
autovalutazione. Per il Ministero dovete valutarvi sulla
base di un fascicolo elettronico e poi ci sono le
valutazioni esterne da parte di altri prof, cosa non va?
«Tutto. In pratica uno strumento che doveva
servire a potenziare e migliorare la scuola e la didattica
si è trasformato in un regolamento di conti informatico tra
noi prof. Una specie di maligno Facebook dei docenti. Uno
scrive male del collega, l'altro ricambia. E tutto viene
pubblicato. Non parlo tanto della mia scuola perché proprio
le difficoltà ambientali ci spingono a essere più solidali,
però spesso questi metodi fanno emergere il peggio di noi
stessi. E sa qual è la cosa più dolorosa?».
No, dica
lei. «Che la maggior parte delle accuse al collega e delle
valutazioni negative vengono espresse perché in ballo ci
sono finanziamenti per progetti. Più dimostro che io sono un
prof migliore di un altro, più ho accesso a fondi e altro
che normalmente non avrei».
Un po' di
sana concorrenza stimola. «È vero, ma se si in ballo non ci fossero i
diritti basilari degli studenti. La guerra tra noi avviene
per ottenere una sedia, una lavagna elettronica. Se si
sgomita per migliorare va bene, ma se la lotta è per
l'ossigeno allora è tutto molto misero e doloroso».
Il vostro
istituto però appare attivo sul fronte del contrasto alla
dispersione scolastica. «Si fanno mille iniziative. È venuto Saviano,
è venuto il sindaco, sono venuti quelli di Libera, per
carità, le visite non mancano. Il problema resta la
didattica. Non ho difficoltà ad ammettere che l'insegnamento
vero è proprio sta diventando a sua volta un'utopia. Ma lo
sa che siamo costretti a vedere i ragazzi che giocano a
carte in classe e non possiamo intervenire?».
A carte in
classe sembra un po' troppo.
«Davvero. Il fatto è che per non allontanarli
dalle scuole, per evitare la fuga dai banchi si concede di
tutto. Vengono in classe con i telefonini accesi e parlano
quando vogliono. Inutile chiedere loro di spegnerli.
Ovviamente non puoi requisirli e poi, se non sei attento, ti
capita anche di peggio. Una collega ha subito una lettera di
richiamo perché durante la sua ora si era verificato il
furto di un telefonino; le hanno imputato scarsa attenzione.
Ma si può continuare così?».
Allora,
come fate a tenere a bada ragazzi tanto difficili?
«C'impegnamo al massimo ma sappiamo che non
basta. Di recente abbiamo persino partecipato a un progetto
di danza». Scusi, cosa c'entra il ballo con un istituto
tecnico? «È un modo per trasmettere loro i valori dello
stare insieme, un'esperienza educativa, anche un metodo per
tenerli lontani dalla strada, per appassionarli».
Insomma,
si fa di tutto ma di farli studiare non c'è verso?
«È così, e non credo che servirà a molto
dematerializzare la scuola, ammesso che ci riesca senza
spendere soldi, è una lotta impari. Ecco perché a volte mi
sento tanto come Sordi-Mombelli».
il
manifesto, del 28-07-2013, di
Roberto
Ciccarelli
Un taglio a fin di bene. Non è un paradosso,
ma è il pacco regalo che l'emendamento all'articolo 59 bis
del «decreto del Fare», voluto dal Pd e accettato dal
governo, vorrebbe recapitare agli studenti «meritevoli» che
oggi sono in vacanza, ma che a settembre si iscriveranno ad
un corso di laurea. Tutto è partito dalla proposta del
responsabile istruzione del partito di Epifani, Marco
Meloni, corrente «lettiana», che ha colto l'occasione del
decreto omnibus per lanciare una proposta che gli sta a
cuore. Si tratta del «Programma nazionale per il sostegno
degli studenti capaci e meritevoli», un fondo che nei fatti
è un binario parallelo al sistema del diritto allo studio
gestito dalle regioni e garantito dalla Costituzione. Nel Dl
«Fare» è previsto lo stanziamento di 240 milioni di euro che
sarà prelevato dai 540 milioni della quota premiale prevista
sul Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) degli atenei. Il
colmo è che esiste un altro emendamento dell'ex ministro
Maria Stella Gelmini, che prevede l'aumento della stessa
quota premiale dall'attuale 13% al 20% nel 2014 fino a
raggiungere il 30% sull'Ffo. Tutto a danno dei fondi
ordinari erogati dallo Stato agli atenei, molti dei quali
sono stati penalizzati dal taglio di 1,4 miliardi di euro
voluto dalla stessa Gelmini (e da Tremonti). La quota
premiale che Meloni vuole tagliare, e che Gelmini vuole
aumentare, dovrà essere distribuita per i 3/5 in base alle
«pagelle» degli atenei stilate dall'agenzia per la
valutazione della ricerca universitaria (Anvur), sulla cui
«oggettività» sono emerse molte incertezze dopo la loro
pubblicazione sui media da parte della stessa agenzia ( Il
Manifesto 26 luglio). La decisione ultima spetterà al
ministro dell'Università e Ricerca Maria Chiara Carrozza, «lettiana»,
che dovrà distribuire anche il restante 1/5 in base alla
valutazione delle politiche di reclutamento nelle
università. Gli studenti della Rete della Conoscenza credono
che la spettacolare confusione provocata dalle «larghe
intese» al governo imporrà agli atenei l'aumento delle tasse
per assumere un maggiore numero dei docenti e per permettere
agli atenei di scalare le incerte classifiche dell'Anvur in
base alle quali il ministro assegna i fondi. «L'aumento
voluto dalla Gelmini - afferma Luca Spadon, portavoce della
Rete della Conoscenza - dividerà gli atenei tra una serie A
iper-finanziata e una serie B condannata alla chiusura. Se
queste norme dovessero diventare legge, siamo pronti a
rilanciare un autunno di protesta». Alla faccia della
«pacificazione» con i giovani invocata ieri da Letta. Gli
umori tra i «giovani» che il presidente del Consiglio scruta
con timore non sono dei migliori. E si capisce: il diritto
allo studio non è stato rifinanziato per il 2014, mentre
quest'anno ci sono stati migliaia di «idonei non
beneficiari», cioè vincitori di borsa ma senza posto in una
casa dello studente. Una situazione provocata dai tagli che
hanno eroso i finanziamenti. Letta ha un altro problema.
Alle regioni «rosse» Liguria e Toscana non è piaciuta
l'intromissione del suo Pd sul diritto allo studio. E
chiedono il ritiro delle norme nel passaggio del Dl al
Senato. «Il diritto allo studio non è un bancomat - afferma
la vice-presidente della Toscana Stella Targetti - il
governo deve rifinanziarlo per la realizzazione di alloggi e
mense per gli studenti». I rettori della Crui hanno
rincarato la dose. «Invece di prevedere fondi specifici per
la causa sacrosanta dei capaci e meritevoli - ha detto
quello di Bologna Ivano Dionigi - perché non assegnare la
quota premiale dovuta e obbligare le università a spendere
per il diritto allo studio?». Così dovrebbe essere, stando
alla lettera della riforma Gelmini, ma i lettiani del Pd
hanno una grana da risolvere. Il programma che Meloni vuole
sostenere dovrebbe essere gestito da una creatura della
riforma Gelmini: la fondazione per il merito. Doveva essere
finanziata dai privati, ma in due anni nessuno si è
presentato con un assegno in mano. La soluzione è prendere i
soldi dagli atenei. Le larghe intese hanno una lunga storia.
Risale al 2008. E da allora non è mai finita.
L’ente finanziato serve ad aiutare i
“meritevoli” ma doveva decollare grazie alle aziende
la Repubblica.it, del 25-07-2013, di Roberto
Petrini
ROMA
Blitz notturno sul “decreto del fare” sui
fondi per l’Università. Ad insaputa dei Rettori, che sono
sul piede di guerra, un emendamento della maggioranza ha
tagliato 240 milioni alle risorse destinate alle università
più efficienti. «Un emendamento sciagurato », osserva il
Rettore dell’Università di Bologna Ivano Dionigi. Con
l’aggravante che la misura arriva pochi giorni dopo la
pubblicazione delle «classifiche» dell’Anvur (l’agenzia
pubblica di valutazione) sugli atenei che hanno ottenuto la
migliore performance e in parallelo con la notizia che la
quota di fondi che andrà alle università più «meritevoli»
salirà dal 13,5 al 20 per cento, circa 1,2 miliardi.
Tuttavia proprio da questi 1,2 miliardi sono stati
«sottratti» i 240 milioni che andranno a finanziare la
Fondazione per il merito, istituita dalla legge Gelmini, di
carattere privato, e destinata a promuovere gli studenti più
meritevoli ma nell’ottica di una collaborazione con il
sistema industriale e, almeno nel progetto iniziale, con
risorse versate dagli imprenditori. L’intervento arriva dopo
tagli al Fondo di finanziamento ordinario all’Università che
proseguono da tre anni (300 milioni quest’anno) e che hanno
ridotto le risorse da 7 a 6,3 miliardi. «Invece di prevedere
fondi specifici e additivi per la causa sacrosanta dei
capaci e meritevoli, si tolgono all’intero sistema
universitario. Perché non assegnare alle università la
relativa e dovuta quota premiale obbligandole a spendere per
il diritto allo studio? », chiede Dionigi. Dopo la protesta
della Conferenza dei rettori non è escluso un ripensamento
che, come per molte altre materie, potrebbe arrivare nel
passaggio al Senato. Scoppia intanto il caso della partecipazione degli stranieri
ai concorsi pubblici italiani. Il disegno di legge
«europeo», presentato dal governo, recependo una direttiva,
aggiorna la nostra legislazione (risalente al 2001) in base
alla quale ai pubblici concorsi possono partecipare solo
cittadini Ue. Una norma discriminatoria che si è tentato di
correggere specificando nel ddl governativo che possono
partecipare anche i cittadini di «paesi terzi » ma solo se
muniti di permesso di soggiorno definitivo. Una dizione che
rischia di circoscrivere l’accesso degli stranieri ai
concorsi e che inoltre, come osserva il sito lavoce.info,
potrebbe escludere le categorie non espressamente citate
dalla norma e autorizzare le restrizioni incostituzionali
basate sulla cittadinanza. La vicenda, seguita con
preoccupazione dall’Asgi, è ancora aperta: «Abbiamo
presentato un emendamento che allarga la possibilità a chi
ha un permesso di soggiorno temporaneo» dice il parlamentare
di Sel Giulio Marcon. In ballo infatti non ci sono solo
bassi livelli lavorativi ma anche ricercatori e studenti
formati in Italia che si vedrebbero negato l’accesso alla
pubblica amministrazione.
-
Stop ai compiti d’estate, da mamme e
ragazzi coro di sì per il ministro
Dibattito aperto dopo l’intervista della
Carrozza al Messaggero
Il Messaggero, del 25-07-2013, Alessia
Camplone
ROMA I primi a brindare sono stati i ragazzi.
Nei siti degli studenti è un coro di consensi al ministro
dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, che ieri sul
Messaggero ha spezzato una lancia contro le «tonnellate di
versioni di latino o decine di problemi da risolvere»
imposti agli alunni durante le vacanze estive. Ma i consensi
degli studenti sono scontati, e il ministro ha chiarito
invece subito di essere dalla parte della «lobby delle
mamme» (lei stessa la chiama così). Anche se poi le
famiglie, che pure soffrono l’ossessione dei compiti durante
le vacanze, non sono per una loro abolizione senza altri
cambiamenti. «Il ministro dice di alleggerire i compiti, non
di abolirli – osserva Antonio Affinita, direttore generale
del Moige, movimento italiano genitori - I compiti d’estate
servono a mantenere allenata la mente. Un minimo di
allenamento occorre sempre. Il problema sono le vacanze
troppo lunghe». Un «piano di formazione per i docenti» viene
chiesto da Davide Guarneri, presidente nazionale dell’Age,
associazione italiana genitori: «D’accordo nel merito con
Maria Chiara Carrozza. Però il problema è che quanti compiti
dare agli alunni lo decidono gli insegnanti. I docenti
devono lavorare sulla didattica, meno legata ai programmi e
più capace di sviluppare anche competenze trasversali negli
studenti. In questo modo pure una gita in montagna permette
di imparare molto. E aiuterebbe a ridurre il bisogno di
compiti estivi». Quindi: meno compiti, ma migliori. «È la
qualità del compito che fa la differenza. Sono d’accordo con
il ministro, purtroppo alle volte c’è un appesantimento
inutile – osserva Francesca Berardinelli, dirigente
dell’Istituto comprensivo Pescara 5 - Quello che occorre è
saper dare compiti che siano significativi. Ma non possiamo
farne a meno. Il ragazzo deve consolidare il lavoro fatto in
classe». Ma, poi, quanti studenti fanno veramente i compiti
d’estate? Solo uno su due, secondo una ricerca del pediatra
Italo Farnetani, professore a contratto presso l’Università
Milano-Bicocca. E il portale Skuola.net pubblica un
sondaggio dal quale risulta che il 46% dei ragazzi dichiara
preventivamente che non li farà, e che il 12% invece ci si
dedicherà all’ultimo momento. GLI ALTRI PAESI I compiti durante l’estate non sono un tema controverso solo
in Italia. In Francia se ne parla da tempo, e il presidente
Francois Hollande dice che andrebbero aboliti. Negli Stati
Uniti una ricerca della Johns Hopkins University di
Baltimora ha riportato invece in auge la loro utilità. Il
66% dei docenti – sostiene lo studio – impiega a settembre
tra le 3 o le 4 settimane di ripasso per riportare la classe
ai livelli di prima. La conseguenza: le scuole statunitensi
ora organizzano corsi estivi di allenamento per gli
studenti, con i quali fanno fronte al «summer brain drain»,
la fuga estiva dei cervelli. Il New York Times, da parte
sua, ha sbattuto in prima pagina la ricetta «matematica» del
Gallaway District School del New Jersey: «Non più di dieci
minuti al giorno per ogni anno di scuola che il bambino o
ragazzo ha già frequentato». L’idea però lanciata sul
Messaggero da Maria Chiara Carrozza è anche quella di un
passo diverso. Il ministro suggerisce agli insegnanti di
proporre per l’estate una lista di libri ai loro studenti,
perché selezionino le loro letture: «Dobbiamo insegnare il
valore della scelta». E su questo i genitori sono
entusiasti. «La lettura va incentivata. Occorre un rapporto
diverso tra scuole e biblioteche», sottolinea Guarneri. «La
scarsa passione dei ragazzi per la lettura ci preoccupa e
d’estate diventa più evidente» avverte Affinita. Anna
Oliverio Ferraris, docente di psicologia dello sviluppo alla
Sapienza di Roma, sostiene addirittura che l’estate «è
sicuramente il periodo più adatto per stimolare i ragazzi
alla lettura». Di diversa opinione Farnetani: «La lettura è
una passione che va coltivata durante l'anno». Il docente di
Milano difende il valore del relax: «Piuttosto che stare
chino sui libri, è meglio che il ragazzo stia all'aria
aperta, con gli amici, e dia spazio alla fantasia».
Nei Paesi che più all’avanguardia si sostiene
che gli insegnanti sono più un allenatore che un
trasmettitore di conoscenze. Ecco anche da noi deve essere
così.
Il Messaggero, del 25-07-2013, di A. Cam.
ROMA «Il nostro ministro ha ragione da
vendere». Non ha dubbi Luigi Berlinguer, una vita dedicata
alla scuola. Da quando, nel 1996 (e fino al 2000), è stato
ministro della Pubblica istruzione. Sue alcune importanti
riforme come quella dei cicli scolastici, l’innalzamento
dell’obbligo, la maturità e l’autonomia scolastica.
Onorevole
Berlinguer, lei dunque concorda con il ministro Carrozza per
i compiti sulle vacanze? «Sì, ha dato un imperativo categorico per gli
studenti: devono leggere, leggere, leggere. E le vacanze
sono il periodo in cui si deve leggere di più. Devono anche
essere un momento di riposo, di svago. Io mi ricordo che per
me erano una gioia. Ma questo non vuol dire che non devono
avere una funzione educativa».
La scuola
quale strada deve percorrere, allora?
«Ai miei tempi le biblioteche scolastiche
quasi non esistevano. Anche ora sono rare. La scuola dei
nostri padri era una scuola senza gioia. La nostra scuola
deve essere la scuola della gioia, una scuola diversa. I
bambini devono poter leggere, devono poter suonare uno
strumento, devono dipingere, praticare l’arte. Dobbiamo
superare l’idea che l’orario scolastico sia solo al mattino.
Anche il pomeriggio e l’estate devono essere occasioni
educative. E occasioni educative non costrittive. Perché c’è
una funzione educativa anche nel gioco, nello sport,
nell’andare a una mostra, nell’ascoltare un concerto».
Dunque una
scuola da cambiare. «Anche il paesaggio è cultura. L’Italia è
troppo bella per una scuola come la nostra, che sembra non
meritarsela. Si può imparare a parlare le lingue trovando
occasioni per incontrarsi. Quale momento migliore
dell’estate per conoscere? La lingua si impara parlando,
prima ancora di conoscere la grammatica. Noi dobbiamo
allenare la mente ma con gioia. È possibile. Si può fare».
Una scuola
capace di andare oltre i banchi.
«Noi abbiamo bisogno di una scuola diversa.
Che metta al centro il soggetto che apprende. Io insegnante
ti do i compiti. E poi cosa succede? Che mi dimentico che
esisti. E tu ti arrangi. Se hai una famiglia colta, capace
di aiutarti, è bene. Altrimenti te la devi vedere da solo.
Invece la funzione della scuola deve essere quella di dare a
tutti, nello stesso modo e senza invadenza. Va chiusa la
scuola dei banchi, dei neri catafalchi, come diceva la
Montessori. E va aperta un’altra scuola. Una scuola che
punti sulla gioia, sulle emozioni, sulla curiosità perché
questo è l’apprendimento che resta».
Questo
vuol dire rivedere la didattica.
«Nei Paesi che più all’avanguardia si
sostiene che gli insegnanti sono più un allenatore che un
trasmettitore di conoscenze. Ecco anche da noi deve essere
così. Saper coinvolgere gli alunni è un compito gravoso. La
nostra società ce lo chiede. In molti altri Paesi, appunto,
già succede. Per noi questo vuol dire riconoscere agli
insegnanti un ruolo sociale di rilievo. Anche con una
retribuzione economica all’altezza. L’operazione più
importante che dobbiamo fare in questo momento è programmare
con loro come deve sviluppare la scuola. Io conosco
centinaia di docenti che già sono impegnati in questa
direzione. Che stanno provando a cambiare la scuola.
Insegnanti che fanno veri miracoli. Deve diventare la
normalità».
-
Voti più alti con il preside-manager ecco
la ricetta della scuola perfetta
Studio della Fondazione Agnelli: ma in Italia
record di dirigenti poco capaci
la
Repubblica.it, del 24-07-2013, di
Maria
Novella De Luca
ROMA
Hanno un discreto potere, infinite
responsabilità e solitamente enormi problemi di budget. Ieri
si chiamavano presidi, oggi Ds, cioè dirigenti scolastici.
Un po’ prof, un po’ manager, un po’ burocrati, in una
professione in bilico tra passato e futuro. Con la riforma
dell’autonomia scolastica infatti il loro ruolo si è
ampliato, diventando nei fatti quello di veri e propri
organizzatori di strutture articolate e complesse come
aziende. Ma chi sono, quanto “valgono” e come sono formati
oggi i presidi italiani? Una ricerca della Fondazione
Agnelli e dell’università di Cagliari, all’interno del
progetto internazionale “World management survey in schools”
ha provato a raccontare il “mestiere di preside”, delineando
un percorso profilato di ombre e luci che si intrecciano con
le difficoltà crescenti della nostra scuola. In un confronto internazionale dove l’Italia, purtroppo, ne
esce con un ritratto opaco. Con la conferma però che laddove
i presidi sono migliori, gli studenti presentano ai test
Invalsi 2,2 punti in più rispetto agli studenti di scuole
gestite in modo meno brillante. Se invece il termine di
riferimento è la bocciatura, la ricerca dimostra che per
ogni punto in più di “abilità manageriale” conquistata dai
dirigenti scolastici, diminuisce del 3 per cento il rischio
per gli allievi di quella scuola di non essere ammessi
all’anno successivo. Dunque la qualità paga, anche se per adesso i presidi
italiani nel confronto internazionale restano agli ultimi
posti della classifica, ossia circa due punti indietro
rispetto ai paesi presi in esame. (In cima, in una scala da
1 a 5, ci sono i dirigenti scolastici inglesi, seguiti dalla
Svezia, il Canada, gli Stati Uniti, la Germania, ultima
l’Italia). Entrando nei dettagli della ricerca curata da
Gianfranco De Simone della Fondazione Agnelli, da Fabiano
Schivardi e Adriana Di Liberto dell’università di Cagliari,
sulla base di 338 interviste a dirigenti scolastici di
scuole di secondo grado statali e paritarie, si vedono
molteplici differenze. I presidi italiani sono ad esempio i
più anziani di tutti, con un’età media di 58 anni, contro i
48-50 anni degli altri. Nella nostra scuola però c’è il
record di dirigenti scolastiche donne, il 35 per cento di
tutti i presidi in servizio, subito dopo la Svezia dove sono
il 44 per cento, e questo è un dato positivo perché vuol
dire che finalmente le donne (che sono oltre l’80 per cento
delle insegnanti) raggiungono livelli dirigenziali. E altro dato importante, all’interno di questo panorama non
proprio vincente, è che la situazione va migliorando.
Infatti analizzando le capacità organizzative e gestionali
dei dirigenti scolastici prima e dopo la riforma che ha
istituito il concorso ordinario per presidi, si nota come il
punteggio passi da 1,96 a 2,17 punti, dimostrazione che
qualcosa è cambiato nella preparazione dei presidi italiani.
Spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli:
«I dati dimostrano che la figura tradizionale del preside,
che diventava dirigente scolastico a fine carriera avendo
fatto per tutta la vita il professore, non basta più. Oggi
chi governa una scuola, così prevede la riforma, deve avere
delle vere e proprie capacità manageriali, pur senza
dimenticare il ruolo dell’educazione. La novità di questa
ricerca è che per la volta viene valutato il merito di chi
gestisce professori e allievi». Un percorso di trasparenza insomma che mostra un
miglioramento, per una figura nuova. Aggiunge Gavosto: «Un
preside oggi deve essere in grado di leggere un bilancio e
di reperire fondi, capire la didattica e avere rapporti con
i genitori, e organizzare la vita di mille allievi e magari
cento professori è come gestire una media azienda italiana,
e per questo bisogna essere formati». Infatti dai dati
raccolti emerge che il ritardo nell’abilità gestionale non
dipende tanto dai vincoli della nostra (terribile)
burocrazia, quanto appunto da una mancanza di preparazione. Restano comunque degli aspetti molto legati alle
caratteristiche “storiche” dell’istruzione in Italia.
Leggendo l’indagine della Fondazione Agnelli, si vede con
chiarezza che le scuole migliori da un punto di vista della
“qualità organizzativa e manageriale” sono i licei, classici
e scientifici, del Nord Est, mentre i presidi più efficienti
sono quelli che hanno un curriculum scientifico. Il Sud
resta indietro, ma questa purtroppo non è una novità.
«Un bravo insegnante è quello che stimola la
curiosità e incoraggia la scelta
Il Messaggero, del 24-07-2013, di Maria
Latella
SI INVESTA NELLA SCUOLA. I NOSTRI GIOVANI
POSSONO SALVARE IL PAESE MA SE LI MANDIAMO TUTTI VIA, SIAMO
FINITI»
L’INTERVISTA
Maria Chiara Carrozza è un tipo severamente
sobrio o sobriamente severo ma per almeno un paio di cose
sfugge al cliché del tipico ministro dell'Istruzione. Per
esempio: non crede nell'efficacia taumaturgica dei compiti
per le vacanze. «Diciamo che su questo terreno mi sento più
vicina alla lobby delle mamme. Non serve a niente imporre
tonnellate di versioni di latino o decine di problemi da
risolvere. Vengono smaltiti meccanicamente, senza
concentrazione. Meglio vacanze più brevi, ma vere vacanze.
Con il piacere di leggere, questo sì. Un bravo insegnante è
quello che stimola la curiosità e incoraggia la scelta.
Sarebbe bello che ad ogni ragazzo fosse fornita una lista di
libri perché selezioni le sue letture delle vacanze.
Dobbiamo insegnare il valore della scelta». Ministro
dell'Istruzione e prima ancora rettore dell'Istituto
Sant'Anna di Pisa, scuola di eccellenza, Maria Chiara
Carrozza smentisce anche il cliché della secchiona
predestinata. La passione per lo studio le è venuta
all'università, al liceo faceva tante altre cose, dallo sci
al basket al volontariato con gli scout, e infatti si
diplomò non con il massimo ma con 52/60. Liceo scientifico
nella stessa Pisa in cui studiava il futuro premier Enrico
Letta. Di Enrico Letta e di molto altro parliamo nel suo
ufficio di ministro in viale Trastevere. Che tipo è il nostro presidente del Consiglio? «Enrico Letta è empatico». Veramente sembra piuttosto controllato. «Invece è molto sensibile. Da politico è abituato a tenersi
dentro tutto, è vero. Ma si accorge di quel che gli gira
intorno. Se no non sarebbe presidente del consiglio. È
empatico ed anche autorevole. È stato più volte ministro e
questo aiuta». Essendo entrambi di Pisa, città piccola, Letta e Carrozza si
conoscevano da prima e «da quando sono diventata rettore ci
siamo frequentati di più. Lui aveva studiato al Sant' Anna».
Stesso ambiente, famiglie colte, basso profilo e alte
letture. Con Letta, insomma, vi capite al volo... Il
telefono squilla e guarda caso è lui che la cerca. Il
ministro Carrozza si allontana per qualche minuto. Crisi di governo? Breve accenno di un sorriso: «Ma no, è che ci sentiamo
spesso». Rimpasto? «Mai creduto all'ipotesi». Comunque, e per tornare a Pisa, il ministro ammette una
certa predestinazione all'incarico «nella mia famiglia erano
tutti insegnanti o professori. Mio padre si è sempre
definito un servitore dello Stato e lo considerava un
valore». Esperta di fisica delle particelle mentali, la giovane Maria
Chiara sceglie di fare la sua tesi di laurea al Cern di
Ginevra. Che cosa consiglierebbe ai giovani ricercatori che, avendo
vinto una borsa di studio , preferiscono usarla all'estero
invece che in Italia? Prima di diventare rettore al Sant'Anna mi avevano offerto
un posto in California. Ero tentata, ma ho scelto di restare
nel mio Paese. L'ho fatto perché a 39 anni al Sant'Anna mi
avevano dato un incarico di grande responsabilità e molta
libertà di gestione. Si erano fidati. Nell' università
italiana invece non si lascia abbastanza libertà ai giovani.
È troppo strutturata e troppo gerarchica. Il professore
anziano fa da tappo. E negli enti di ricerca non c’è
sufficiente turn over». Lei cosa sta facendo per cambiare le cose? «Intanto penso che chi vince un progetto europeo dovrebbe
poter essere chiamato dall'università senza passare per
concorsi nazionali. I giovani si proporrebbero di più
all'estero e le nostre università potrebbero scegliere tra
gente selezionata con cura». A proposito di merito. Perché i nostri quindicenni sono
piazzati cosi male nelle classifiche Ocse, soprattutto nelle
materie scientifiche? «Qualche miglioramento c’è stato ma il cambiamento si vedrà
solo se valorizzeremo gli insegnanti. La matematica, per
esempio, ha una bella tradizione in Italia, ma ci sono pochi
fondi per la formazione. E poi bisogna far sapere che una
laurea in materie scientifiche e tecnologiche aiuterà a
trovare lavoro». Perché in Italia nessuno lo spiega andando a parlare ai
ragazzini delle medie? «Bisogna farlo. Preparare i percorsi dalla medie. Il sistema
degli anni ’50 era sbagliato perché classista, ma una cosa
giusta l'aveva colta: dava una visione del futuro». Perché ha deciso di rinviare l'adozione dell'E-book nelle
scuole? «Il presupposto è portare Internet in tutte le scuole, non
si può andare avanti con pochi esempi pilota. Anche qui,
poi, bisognerà formare gli insegnanti. La priorità, comunque
e per il momento, è investire in edilizia scolastica. La
qualità dell’apprendimento dipende anche dall'ambiente nel
quale studi. Ci sono studi che lo dimostrano. Prima si
interviene nell'edilizia poi sul resto». Ma molte multinazionali potrebbero aiutarvi a digitalizzare
la scuola italiana. «Ci stiamo ragionando, purché non si vincoli il sistema
scolastico a un solo brand. I nostri bambini e bambine non
sono i consumatori futuri di questo o quel software.
Vigilerò su questo». Lei è sempre connessa? «Sì. Ma nei weekend un po’ meno. E di notte cellulari e iPad
vanno spenti. Ai miei ricercatori lo dicevo sempre. Quando
si dorme, si dorme». Quindicimila nuovi insegnanti. Saranno adeguati
all'insegnamento 2.0? «Dobbiamo credere che il nostro sistema li renda tali. Il
problema è che dovremmo dare loro la possibilità di
aggiornarsi. Invece abbiamo tagliato molte risorse. Troppe». Lei ha detto che non ci sarà una riforma Carrozza. Sicura?
Prima o poi cadete tutti nella tentazione. «Vedremo. Ma penso sia sbagliato personalizzare le riforme.
Bisognerebbe chiamarle con un numero: sono frutto di un
lavoro di squadra. E poi se le battezzi con un nome assumono
subito connotati negativi». Perché i ministri dell'Istruzione di solito sono antipatici? Al ministro sfugge la prima semi-risata. Siamo al momento
dei saluti. Le chiedo cosa pensa di quel che ha detto papa
Francesco, del fatto che stiamo creando una generazione di
senza lavoro. Il ministro torna seria: «Serve un atto di
coraggio», dice. In che senso? «Perché soldi non ce ne sono e quelli che ci sono dovrebbero
andare all'istruzione. I nostri giovani possono salvare
questo Paese. Ma se li mandiamo tutti via, siamo finiti. Le faccio un esempio: i giovani ricercatori dell’Istituto di
vulcanologia. Gente preziosa se vogliamo prevenire i rischi
sismici. C'è appena stato un altro terremoto. Non possiamo
non investire su loro. Eppure, anche loro sono precari». È precario anche il vostro governo? «È un governo pro tempore». Che significa? Che hai un mandato definito e devi essere sempre pronto a
lasciare. Ma fino a quel momento fai tutto quel che puoi e
quel che devi. Intanto si semina, ci sarà qualcuno che
raccoglierà. Non si deve personalizzare. L'eccesso di
individualismo è uno dei mali italiani. è il lavoro di
gruppo che va incentivato. Nel mio settore, nella robotica,
è impensabile non fare lavoro di squadra. La leadership si
costruisce se si rispetta il gruppo. Proprio come fa Enrico
Letta con I suoi ministri».
-
Il podio delle università
Siena al top. E poi Bologna, eccellente nella
didattica, e Padova, Trento, Pavia. Ecco la classifica della
Grande Guida Repubblica-Censis
18/07/2013
la Repubblica
L’ateneo migliore d’Italia è Siena. Il
giudizio reca l’autorevole firma del Censis e si trova nella
Grande Guida Università che esce domani con Repubblica per
aiutare gli studenti a scegliere la laurea giusta. Il voto
di 103,4 su 110, infatti, non lo colloca solo al primo posto
della sua categoria, quella di medie dimensioni, ma al
vertice assoluto in Italia. Per il rettore Angelo Riccaboni
è «una grande soddisfazione, dopo anni di difficoltà
economiche che stiamo risolvendo con tanti sacrifici. Anche
perché dimostra che mettere al centro dei propri sforzi gli
studenti alla fine conviene sempre ». Un’attenzione
ripagata: gli studenti che provengono fuori dalla Toscana
sono più della metà, a testimonianza dell’attrattiva
accademica di Siena. «Comunque non abbiamo aggiustato il
bilancio solo tagliando », puntualizza il rettore, «ma anche
con iniziative che portano ricavi. Come Med Solutions, la
nostra rete che fa parte del programma dell’Onu Sustainable
Development Solutions Network.«In pratica, mettendo a frutto
l’attenzione che dedichiamo all’ecocompatibilità, con Med Solutions aiutiamo a individuare le soluzioni di
sviluppo sostenibile più adatte a raggiungere gli obiettivi
della Conferenza di Rio, con la responsabilità del
coordinamento per l’area del Mediterraneo». La classifica che premia la qualità dell’ateneo di Siena
tiene conto di quattro grandi indicatori: Servizi (mensa e
alloggio). Borse e contributi, Strutture (aule e
biblioteche), Web e Internazionalizzazione e anticipa quella
più dettagliata sulle singole aree disciplinari. Dove
quest’anno c’è una grande novità. A causa della riforma
Gelmini, infatti, il Censis ha dovuto rifare le sue
valutazioni secondo nuovi modelli. Università anno zero,
quindi. «La cancellazione delle Facoltà e la
riorganizzazione dell’offerta formativa in base ad altre logiche», spiega
Roberto Ciampicacigli, direttore del Censis Servizi che
realizza il ranking ormai da quattordici anni, «ci ha
costretto a modificare la struttura della valutazione ».
Così quest’anno la Grande Guida propone una classifica delle
lauree Triennali divisa in Didattica e Ricerca, dove la
Didattica, quella che interessa di più i ragazzi che devono
iscriversi, è organizzata nelle 15 Aree disciplinari in cui
sono state raccolte le 47 classi di laurea istituite dal ministero dell’Università. Per fare un esempio, l’area
economico- statistica raggruppa i corsi di laurea in Scienze
dell’economia e della gestione aziendale, Scienze economiche
e Statistica. La classifica della Ricerca, invece, segue le
aree disciplinari stabilite dal Consiglio universitario
nazionale (Cun) a questo scopo. Sembra complicato?
Effettivamente lo è, ma così lo ha voluto il ministero. I risultati mettono in luce un primato di Bologna, con 6
primi posti (più 1 nelle lauree a ciclo unico, 2 secondi e 2 terzi posti), seguita da atenei come
Padova, che primeggia fra l’altro nelle sei lauree a ciclo
unico con ben tre primi posti (Farmacia, Veterinaria e
Odontoiatria), Siena, Trento. «In effetti», conferma
Ciampicacigli, «benché queste classifiche non possano essere
confrontate a quelle degli scorsi anni a causa della
revisione dei parametri, i poli di eccellenza didattica
continuano ad emergere. Un dato importante è che se
un’università è forte nell’Internazionalizzazione, quasi
sempre si trova in alta classifica ». In questo anno zero,
insomma, la bontà delle valutazioni del Censis ne esce
confermata. Tra i risultati apparentemente curiosi c’è il
primo posto di Sassari nell’area Architettura, davanti ai
Politecnici di Milano e Torino e allo Iuav di Venezia. Ma
anche in questo caso è una falsa sorpresa: il valore di
Sassari è ben noto da tempo e registrato negli anni scorsi.
Confermata anche l’ormai storica latitanza del Sud nei
vertici delle classifiche, con l’eccezione dell’ateneo
calabrese di Arcavacata di Rende (provincia di Cosenza),
secondo nella categoria Grandi. Ciampicacigli sottolinea che «ci vorrà del tempo per
abituarsi a questo nuovo sistema, come dimostra il fatto che
gli studenti continuano a ripetere di essere iscritti “alla
facoltà di Lettere” o “alla facoltà di Legge”, anche se le
Facoltà ufficialmente non esistono più». D’altra parte molti
atenei presentando l’offerta formativa usano ancora la
parola “Facoltà” e metà dei quarantuno atenei pubblici è in
mezzo al guado della riforma: dovranno completare il
passaggio entro il 2014. Ma al posto delle Facoltà che cosa
c’è? Per complicare ulteriormente le cose, il ministero ha
fissato solo le linee guida, lasciando agli atenei la scelta
della “governance” del nuovo sistema. Quindi sono nati
Dipartimenti, Scuole, Aree... «Proprio per non fare confusione », spiega Riccaboni, «a
Siena abbiamo deciso di dividere l’offerta formativa per
aree tematiche e corsi di studio. In fondo allo studente
importa poco che facciano capo a Dipartimenti, Scuole o ad
altro ancora». Anche se riconosce che questa riforma è stata
particolarmente complessa, il rettore crede che «il
cambiamento dovrebbe avere diversi vantaggi, perché mette
sotto un unico organismo didattica e ricerca e semplifica i
processi decisionali. Noi per esempio siamo passati da 43
Dipartimenti e 9 Facoltà a 15 Dipartimenti. Un altro vantaggio è di aver accorpato le lauree in maniera
più omogenea. L’esempio lampante è la facoltà di Scienze
Matematiche, Fisiche e Naturali: un ircocervo che metteva
insieme biologia, matematica, fisica, geologia, informatica;
queste materie adesso sono più correttamente divise fra Area
scientifica e Area Geo-biologica. «Questo è il momento più difficile », nota Andrea Cammelli,
del consorzio universitario Almalaurea, «perché il nuovo
sistema convive ancora con il vecchio e questo rende ancora
più complicato fare delle scelte che, come nel caso della
laurea, potranno avere un impatto determinante sul futuro
dei ragazzi. Tanto più che è difficile spazzare il campo da
tanti luoghi comuni. Si dice, per esempio, che abbiamo
troppi laureati in materie umanistiche, ma i dati dicono che
in Italia i laureati nell’area umanistica sono solo il 22
per cento del totale, mentre in Germania sono il 31 e negli
Stati Uniti il 29. Speriamo che la confusione non
contribuisca a deprimere l’interesse dei giovani per la
laurea. Anche perché c’è un problema ancora più grave:
purtroppo oggi solo il trenta per cento dei diciannovenni si
iscrive all’università, con una quota crescente di giovani
provenienti da famiglie benestanti, con il rischio che
l’università torni a essere un privilegio dipendente dal
reddito. L’Italia si conferma il fanalino di coda dei paesi
Ocse per numero di laureati. Altro che ripresa: questo sì
che è tagliare le gambe allo sviluppo».
ScuolaOggi, del 18-07-2013, di Pippo Frisone
In questi giorni sono stati resi noti i dati
riguardanti gli organici dei Dirigenti Scolastici. I dati risultano ancor più allarmanti se legati al
contenzioso ancora aperto sui concorsi del 2011. In Lombardia che ha il più alto numero di istituzioni
scolastiche, il CdS ha parzialmente annullato il concorso
che deve ripartire dalla correzione dei mille elaborati. Un
altro anno sprecato! Altra grande regione in bilico è la Campania. Qui il Cds non
si è ancora pronunciato. E ancora, il Molise rinviato a ottobre e la Toscana, i cui
esiti si conosceranno a novembre. Nonostante il recente dimensionamento delle unità
scolastiche che le ha ridotte a 8.636, di cui ancora 589
sottodimensionate, i posti vacanti privi di dirigenti a
livello nazionale all’1.9.13 risultano 1.124. La Lombardia è la regione che registra i dati più
preoccupanti. Qui, dopo una cura da cavallo imposta dalla
regione, le istituzioni scolastiche si sono ridotte a 1.151
di cui 33 sottodimensionate e 20 CPIA. Nelle 1.118 scuole normodimensionate rimangono in servizio
726 dirigenti scolastici, di cui 49 trattenuti in servizio a
riequilibrare i 49 pensionamenti. I posti in organico in
Lombardia che restano vacanti al 1.9.13 sono 392 di cui 355
sono quelli messi a concorso. A questi posti vanno aggiunti 33 delle scuole
sottodimensionate nonché le disponibilità annuali che
deriveranno da comandi, distacchi, aspettative, estero
ecc…che porteranno l’emergenza a ben oltre i 400 posti! Una
vera e propria emergenza, non solo in Lombardia ma a livello
nazionale, risultando 1.124 le scoperture dei posti al
1.9.13 , cui vanno aggiunti 589 posti dalle scuole
sottodimensionate e le ulteriori disponibilità annuali! Ora far partire per il terzo anno consecutivo quasi 2 mila
istituzioni scolastiche senza una dirigenza autonoma, non
può non interrogare il governo, chiamato non solo a
risolvere i problemi dei concorsi e del reclutamento dei
dirigenti ma anche a garantire un regolare funzionamento di
tutte le istituzioni scolastiche. L’istituto della reggenza
per scuole oramai dimensionate e complesse, con almeno mille
alunni e circa duecento dipendenti, non può essere, ancora
una volta, l’unica risposta che dà l’Amministrazione a
quella che è diventata una vera e propria emergenza
nazionale. La reggenza può andar bene per brevi periodi ma non per un
intero anno scolastico! I risultati del disagio e delle
difficoltà in cui vivono le scuole in reggenza , infatti ,
sono sotto gli occhi di tutti, nonostante i salti mortali
che i dirigenti scolastici sono costretti a fare. Le scuole devono tornare a funzionare regolarmente. Basta
con le reggenze annuali e le dirigenze precarie! Il Governo
faccia ripartire i concorsi , riapra con un provvedimento
d’emergenza, magari limitato a un anno, gli incarichi di
presidenza oppure dia al Direttore regionale la facoltà di
affidare l’incarico ( fiduciario ) al personale docente,
risultato idoneo nei concorsi bloccati. Estrema ratio, ridia
l’esonero totale ai docenti vicari. Una cosa è certa. Se si lasceranno ancora le cose come
stanno, le scuole e non solo quelle in reggenza, rischiano
di abbassare ulteriormente il livello di qualità
dell’istruzione e del diritto allo studio, già fortemente
compromesso dai tagli. Si è detto che la ripresa deve
ripartire anche e soprattutto dalla scuola e dalla
formazione. E’ giunta l’ora di passare dalle parole ai fatti.
-
Docenti inidonei: tutti d'accordo, ma non
si trovano i soldi
Anche le Commissioni Cultura e Lavoro della
Camera ritengono che la questione dei docenti inidonei debba
essere risolta al più presto ma nessuno ha idea di dove
trovare i soldi necessari.
La Tecnica della Scuola.it, del 18-07-2013,
di R.P.
La discussione sulla questione del transito dei docenti
inidonei nei ruoli del personale Ata prosegue senza sosta in
Parlamento. Finora le prese di posizione a favore della
cancellazione delle disposizioni contenute nell’art. 14 del
D.L. 95/2012 sono state numerose. L’ultima si è registrata il 16 luglio in occasione di una
seduta congiunta delle Commissioni Cultura e Lavoro della
Camera. Le 4 mozioni presentate dal M5S, dal PD, dal PdL e da SeL
sono state discusse insieme, nel tentativo di giungere ad un
documento unitario condiviso da tutte le forze politiche. Per il Governo è intervenuto il sottosegretario Marco Rossi
Doria che ha ripercorso l’intera vicenda e ha fornito i dati
richiesti nella seduta precedente da diversi deputati. La sensazione però è che si stia facendo “melina” perché a
conti fatti i numeri sono più o meno sempre gli stessi da un
anno a questa parte. Il punto di tutta la questione è, come sempre, di natura
finanziaria e Rossi Doria ha confermato che la copertura
necessaria è esattamente quella già indicata dal
sottosegretario Toccafondi durante un suo intervento alla
Commissione Cultura del Senato: 114,31 milioni per il 2013,
110,09 milioni per il 2014, 105,86 milioni per il 2015,
101,63 milioni per il 2016 e 97,41 milioni a decorrere dal
2017. Lo stesso Rossi Doria ha concluso il proprio intervento
auspicando che il Governo adotti quanto prima
”tutte le
iniziative, anche di carattere normativo, volte ad
individuare le migliori soluzioni per l'utilizzo e la
valorizzazione del personale docente dichiarato inidoneo”.
Resta il fatto che per ora, come
ha sottolineato Gianni Melilla (SEL), siamo sempre fermi
alla dichiarazioni di intenti mentre sarebbe il caso che il
Governo assumesse finalmente una posizione chiara spiegando
in che modo intenda individuare la copertura finanziaria per
risolvere il problema.
Il Messaggero, del 17-07-2013, di Giorgio
Israel
Non servivano i dati Invalsi (il 50% degli
studenti ha sbagliato i test) per sapere che la matematica è
la bestia nera della scuola italiana. In realtà, le cose
vanno male ovunque per il diffondersi di approcci didattici
che, affastellando le innovazioni, hanno oscurato il senso
della disciplina. Ciò accade anche in Paesi considerati di
successo come la Finlandia, dove la matematica è diventata
un oggetto didattico irriconoscibile, utile a superare bene
i test Ocse-Pisa, ma con effetti disastrosi denunciati dai
matematici finlandesi. La peculiarità del caso italiano è
che, a forza di riforme a metà e sperimentazioni, non c'è
più un sistema coerente. Triste esito per un Paese che ha
avuto un Federigo Enriques, grande matematico e grande
cultore dell'insegnamento, i cui manuali hanno plasmato
generazioni. L'Italia si trovò, all'indomani dell'unità,
senza un sistema d'istruzione e i matematici furono in prima
fila nel costruirlo: nell'arco di un trentennio un Paese che
non esisteva sulla scena della scienza mondiale divenne la
terza potenza matematica, dopo Germania e Francia. Per la
matematica il riferimento fu l'opera massima della scienza
greca e occidentale: gli Elementi di Euclide, modello del
ragionamento matematico fondato sul rigore logico e
sull'intuizione geometrica. Che questo approccio abbia
funzionato è indiscutibile, come lo è che dovesse essere
riformato, soprattutto introducendo gli sviluppi del
pensiero matematico legati allo studio del mondo fisico. Ma
gli estremismi sono nefasti nella scienza non meno che
altrove. Negli anni Sessanta un influente gruppo di
matematici francesi lanciò lo slogan furente «Abbasso
Euclide!» (che ebbe larga eco e ferventi sostenitori, come
il pedagogista Jean Piaget), e propose di centrare
l'insegnamento sulle "strutture" astratte e la teoria degli
insiemi. La geometria doveva essere spazzata via e ridotta
all'algebra. I buoni manuali non dovevano contenere figure.
La riforma fu implementata in Francia, seguita in molti
Paesi e si risolse in un disastro. Il celebre matematico
russo Vladimir Arnold diceva ironicamente che se si fosse
chiesto a un bambino francese quanto fa 2 + 3 non avrebbe
risposto 5 bensì «3 + 2 perché l'addizione è commutativa».
In Francia si tornò indietro di corsa. Da noi non si torna
mai indietro: si rappattuma. Così, all'infatuazione degli
anni Sessanta e Settanta seguirono revisioni che hanno
lasciato pessime eredità: la mania di infliggere fin da
piccoli la teoria degli insiemi (inutile al livello
scolastico), l'idea sbagliata che la matematica si
identifichi con la logica, l'ossessione per le regole e le
definizioni. Una vicenda (autentica) che illustra questa
ossessione è quella di un bambino imputato di non capire la
divisione. Perché non sa dividere? Al contrario. E allora?
Il guaio è che non apprende le "5 proprietà" dell'addizione
che la maestra vuole si conoscano in ordine: un numero
diviso per sé stesso dà 1, ecc. Il povero bambino che non
riesce a ricordare la filastrocca è diagnosticato "discalculico"...
Del resto, i manuali scolastici offrono il panorama
desolante di un diluvio di "proprietà" insensate che
alimentano l'antipatia per la matematica in ogni persona
ragionevole. Cosa è rimasto del vecchio approccio
geometrico? Brandelli che aggravano l'incoerenza del
panorama. Inoltre, nella logica da bricolage delle nostre
"riforme" i correttivi si sono sommati ai correttivi.
Riassumerei uno di questi nello slogan: "andiamoci piano".
Il bambino non deve sentir parlare di numeri e figure prima
dei 6 anni e, per altri due anni, evitare i numeri grandi:
una disastrosa «didattica della paura». Un altro correttivo
è la "concretezza": proporre tante applicazioni, esempi
"divertenti", senza una visione unificante. Il risultato
alimentato dall'introduzione massiccia di test e
dell'insegnamento rivolto al superamento dei test riduce la
matematica a un sistema per risolvere enigmi e rompicapi. Il
tratto comune è: alla larga dai concetti e dalle visioni
organiche. Ma la matematica è ben altro. È la scienza più
antica che, come tale, ha relazioni con ogni ambito della
conoscenza e tocca tutte le questioni teoriche e pratiche da
sempre al centro dei pensieri umani. Solo facendo
comprendere questo, «restituendo la matematica alla
cultura», esplorando l'affascinante tematica del numero e
del continuo geometrico, è possibile destare interesse e
affrontare l'analfabetismo matematico. Tante esperienze di
successo mostrano che questa è la via giusta. Chí pensa, con
mediocre scetticismo, che si tratti di illusioni in realtà
non crede che i giovani possano avere autentici interessi e
che l'unico problema sia come indorare una pillola
indigesta: è la via maestra per scendere sempre più in
basso.
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Promossa in chimica, rimandata in
economia ecco la prima pagella della ricerca italiana
I voti dell’Agenzia del ministero ad atenei e
istituti. Bocciato il Cnr.
la Repubblica, del 17-07-2013, di Elena Dusi
ROMA La ricerca scientifica in Italia da oggi ha le sue pagelle.
Enti di ricerca, università e singoli scienziati hanno
ricevuto un punteggio in base alla qualità del loro lavoro.
Da questo “voto” si partirà d’ora in poi per assegnare una
parte dei finanziamenti pubblici alla ricerca: la quota
cosiddetta “premiale”. Nel 2013 il ministero dell’Istruzione
e della ricerca scientifica ha stanziato 6,69 miliardi di
euro per la scienza svolta nelle università. Il 7 per cento
di questo fondo (540 milioni) rappresenta la quota
“premiale”. Verrà cioè distribuita alle varie istituzioni in
base alla qualità del lavoro. «L’Italia entra nell’Europa
della valutazione. È una rivoluzione al servizio dei
cittadini» ha detto ieri la titolare del ministero, Maria
Chiara Carrozza, presentando i primi dati dell’Anvur,
l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario
e della ricerca. Storia lunga e travagliata, quella dell’Anvur. L’Agenzia è
stata istituita nel 2006 e il suo lavoro è costato intorno
ai 10 milioni di euro. Ma era dal 1999 che l’Italia tentava
di dotarsi di un ente per la valutazione della ricerca, con
commissioni prima varate e poi naufragate. Sei anni e mezzo
dopo la sua nascita — tempo necessario per assegnare un
punteggio a 184 mila fra articoli scientifici, monografie,
saggi, atti di convegni, brevetti, traduzioni, cartografie
prodotti dagli scienziati italiani fra 2004 e 2010 — l’Anvur
ha presentato ieri i suoi risultati. In un rapporto monstre
ha digerito, sintetizzato e ordinato in tabelle centinaia di
parametri. Risultato: il sito dell’Agenzia ieri ha avuto un
collasso, ma l’Anvur ha guadagnato il plauso di quanti
ritenevano non più rinviabile la misurazione del merito dei
ricercatori. «Si tratta del più grande esercizio di
valutazione a livello internazionale» spiegano i
responsabili dell’Agenzia. Manca ancora l’ultimo passo, che
il Miur promette di compiere entro l’estate: decidere a
quale, fra i tantissimi punteggi sfornati dall’Anvur, verrà
ancorata la distribuzione dei fondi premiali. Ogni ricercatore delle 95 università e dei 12 enti di
ricerca suddivisi in 14 aree scientifiche ha dovuto
sottoporre all’Anvur le sue migliori pubblicazioni
scientifiche. A valutarle sono stati chiamati 450 esperti,
coadiuvati da 15mila revisori. Fra i settori in cui l’Italia
ha basi più solide spiccano chimica, fisica, ingegneria
industriale e dell’innovazione. Meno buoni i voti per le
scienze economiche, sociali e politiche. Tra le università,
le performance degli atenei del nord sono mediamente
migliori. A brillare è Padova, che ottiene il punteggio più
alto in 7 delle 14 aree di ricerca valutate. Tra gli enti,
si conferma il buon funzionamento dell’Istituto nazionale di
fisica nucleare e dell’Istituto italiano di tecnologia.
Punteggi inferiori alla media per l’istituzione più grande
del paese, il Consiglio nazionale delle ricerche, ente da 8
mila dipendenti e un miliardo di budget. La prossima
valutazione è prevista fra cinque anni.
Intervista al direttore del Censis, Roma: un
problema la rassegnazione dei giovani
l'Unità,
del 16-07-2013, di
Oreste
Pivetta
Si discute dei Neet da una infinità di anni e
questa infinità di anni mi inquieta ben più del numero dei
Neet. Numero che aumenta, senza tuttavia che nel frattempo
si sia messo in atto qualche progetto concreto, semplice,
chiaro». In attesa del miracolo, in attesa di una pioggia di
soldi sulla scuola, in attesa di un balzo prodigioso del
Pil. Intanto i Neet, giovani senza studio e senza lavoro,
invadono l'Italia e risalgono verso l'Europa: «Prima la
questione riguardava il Sud, adesso colpisce il Centro e il
Nord e supera i confini. Anche la Francia comincia a
soffrirne ». Sono parole di Giuseppe Roma, direttore
generale del Censis, che di fronte all'aspetto generazionale
delle crisi, accusa la bassa intensità sociale delle
politiche economiche europee.
Direttore,
tra i capitoli della nostra inchiesta c'è quello relativo
alla «spesa pubblica». L'accusa: si spende poco per
l'istruzione e per la formazione. Basta a spiegare i Neet?
Non c'è di mezzo anche qualcosa di personale?
«Si sommano varie situazioni, dalla scuola alla televisione
all'obiettiva povertà dell'offerta di lavoro, a giustificare
una certo declino della tensione giovanile. S'arriva alla
rassegnazione. Ma è decisivo il ruolo della scuola,
nell'insegnare e quindi nel costruire cultura e competenze,
professionalità e capacità, ma anche nell'aiutare,
nell'accompagnare, nell'indirizzare. Non mi sento tuttavia
di condividere il segno tutto economicista della
contestazione. È un luogo comune che si debba spendere di
più. Bisogna spendere meglio, per una scuola più qualificata
e diversa, che non si arrenda di fronte all'abbandono, che
sappia garantire quelli che chiamerei servizi di
accompagnamento e che si preoccupi di sanare la tradizionale
cesura con il mondo del lavoro, creando continuità e
opportunità. Chi studia dovrebbe ben prima del diploma
incrociare il lavoro e chi abbandona dovrebbe potersi
riprendere la scuola. Si sta parlando di istruzione per gli
adulti. C'è un progetto in corso, si chiama appunto Ida,
Istruzione degli adulti. Una volta esisteva la scuola
serale: quanti tecnici hanno costruito una loro carriera
attraverso le "serali"? In altri Paesi d'Europa la scuola
degli adulti è una pratica consolidata. È un modo per
recuperare rispetto alla discriminazione che una cattiva
società e una cattiva scuola producono».
Questa che
definirei lacerazione rispetto al mondo del lavoro non nasce
da ciò che la scuola promette e insegna, a volte male?
«Alla formazione si affida un valore troppo generico, troppo
condizionato dalle famose risorse che non si investono. A
forza di citarla, la formazione diventa un totem,
inattaccabile, inavvicinabile: non si investe abbastanza
anzi si taglia, non si cambia, non si aggiorna, non ci si
interroga sui compiti oggi: non c'è dubbio che si debba
andare a scuola perché li deve crescere una cultura critica,
ma tra i banchi scolastici si deve anche imparare un
mestiere vero misurando la propria esperienza scolastica nel
lavoro. Un paese, con le difficoltà del nostro, e le sue
istituzioni si dovrebbero porre l'obiettivo di una svolta
intellettuale e politica, tornando a riconoscere il valore
essenziale del lavoro, anche di quei lavori intermedi,
spesso misconosciuti o disprezzati, sui quali una società
moderna fonda la propria solidità».
Però tra
tanti Neet, vi sono anche tanti giovani che la svolta
l'hanno imposta da sé...
«Ci sono anche numeri positivi. Se ad esempio la nostra
agricoltura regge è perché tanti giovani hanno deciso di
tornare ai campi, un modo di tornare alla natura. C'è di
mezzo una scelta culturale».
Forse pesa
un certo tipo di comunicazione. Chiamiamola pure pubblicità.
L'ecologico, il biologico, il chilometro zero,
l'agriturismo...
«Non è un caso se certi lavori piacciono: lo chef fatica, ma
televisioni e giornali non fanno altro che illustrare
ricette e questa rappresentazione giova a un mestiere fino a
qualche tempo fa assai meno considerato. Non vale purtroppo
per l'idraulico. La comunicazione è utile, ma è parziale».
Si rischia
di invadere il mondo di cuochi e di veterinari. Che fare,
dunque, per superare questo inghippo?
«Fare pubblicità al lavoro, cioè restituire centralità al
lavoro, a tutti i lavori. La scuola deve sapersi rinnovare,
riproponendo con la cultura critica anche quell'istruzione
tecnica, considerata da noi un ripiego poco appetibile...».
Non ci
sono ancora troppe "veline" e troppi "X factor", troppi
modelli di successo facile, senza fatica?
«Qualche inchiesta giudiziaria ha per fortuna ridimensionato
il fascino di alcune figure femminili. Io direi che si esce
da una crisi del lavoro proponendo altre figure:
giardinieri, badanti, elettricisti. Naturalmente se si dà
formazione e si aiutano nuove forme organizzative,
cooperative ad esempio (non sarà un caso se la cooperazione
è un settore in crescita di manodopera). Se si danno
messaggi giusti: la dignità del lavoro, che non è un vincolo
per sopravvivere ma è una opportunità per trovare se stessi.
E diamo strumenti giusti, magari mettendo a frutto quei
fondi europei che giacciono inutilizzati. Avevo pensato a
una "Banca per i giovani", con un sottotitolo:
"Dall'idraulico a Bill Gates". Cominciamo dall'idraulico,
non restiamo immobili in attesa di Bill Gates».
Il nuovo anno a rischio continuità, ricorso
di massa alle reggenze. Oggi vertice al ministero
ItaliaOggi, del 16-07-2013, di Alessandra
Ricciardi
In Lombardia, ricorrezione degli scritti e
nuovi orali, 355 posti. L'Abruzzo ha visto annullare la
graduatoria definitiva, 68 nomine pronte. Calabria, scritti
sospesi, 108 posti. In Campania sono in attesa di sapere se
ci saranno gli orali: a gara 224 incarichi. La Toscana ha
112 neodirigenti nominati, ma la sentenza di merito è
prevista per novembre e chissà come finirà. Il Molise ne conta solo 16 di nomine da fare, ma pure qui il
concorso è stato annullato. Il Lazio con i suoi 215 nuovi
presidi potrebbe invece farcela, ma le code giudiziarie
potrebbero anche rivelare sorprese. A conti fatti, oltre il
40% degli incarichi a preside, messi a concorso nel 2011
attraverso procedure regionali, oggi è in bilico sotto la
spada di Damocle della giustizia amministrativa. Vizi formali e meno, buste troppo trasparenti in cui sono
stati inseriti gli elaborati, presidenti di commissioni che
non erano presenti ai lavori, incompatibilità manifeste...
Consiglio di stato e Tar hanno evidenziato nella selezione
di 2.386 dirigenti errori e superficialità
dell'amministrazione scolastica che danneggiano anche quanti
hanno superato con impegno e buona fede le prove. Quando infatti si annullano prove o graduatorie, non c'è più
certezza per nessuno. Gli oltre 400 candidati lombardi che
hanno superato gli scritti, da ricorreggere dopo la sentenza
del Consiglio di stato, chiedono ora a gran voce al ministro
dell'istruzione, Maria Chiara Carrozza, un decreto che
faccia salve le loro posizioni. Quello che è certo è che la
continuità è a rischio e che all'inizio del nuovo anno,
mancando i dirigenti titolari, ci sarà un ricorso di massa
alle reggenze, con presidi a mezzo servizio su più sedi.
Oggi ci sarà al ministero dell'istruzione un vertice con i
sindacati per fare chiarezza su quanto avvenuto, mentre chi
rischia di dover rifare un concorso vinto prepara a sua
volte il ricorso per danni. «Si è creata una spirale di cui
non si vede la fine e che solleva pesanti interrogativi
sulla stessa credibilità delle procedure di reclutamento»,
dice Francesco Scrima segretario della Cisl scuola. «Servono
nuove procedure, gestite a livello nazionale che
garantiscano imparzialità e trasparenza», invoca Mimmo
Pantaleo, segretario Flc-Cgil. Intanto dalle parti di Pdl e
Lega ritorna il tamtam delle assunzioni dirette.
L'accusa: il sistema è incoerente con quello
contrattuale
ItaliaOggi, del 16-07-2013, di Mario D'Adamo
Nel corso dell'incontro svoltosi la settimana
scorsa al ministero con i rappresentanti delle
organizzazioni sindacali sono continuate a piovere critiche
sul decreto che introduce il sistema nazionale di
valutazione in materia di istruzione e formazione.
Pubblicato in Gazzetta ufficiale il 4 luglio scorso e
fortemente voluto dal precedente ministro dell'istruzione,
Francesco Profumo, che nel marzo scorso lo aveva presentato
al governo per l'approvazione, il decreto, in particolare,
interseca i propri contenuti con quelli contrattuali sulla
valutazione dei dirigenti scolastici. E crea incertezze interpretative e resistenze. Alle
sollecitazioni della dirigente preposta agli ordinamenti
scolastici, Carmela Palumbo, che segnalava come l'unica area
dirigenziale non ancora sottoposta a valutazione è quella
dei dirigenti scolastici, le organizzazioni sindacali hanno
obiettato che, a distanza di sette anni dalla sottoscrizione
del contratto che la prevedeva, non ha ancora trovato
applicazione la normativa sulla verifica dei risultati e la
valutazione dei dirigenti scolastici, soprattutto perché il
ministero non ha provveduto alle parti di sua competenza,
l'attivazione dei nuclei di valutazione e la determinazione
dei criteri ai quali si dovrebbero attenere. Pensare ora di
introdurre un altro sistema di valutazione, oltre tutto meno
garantistico di quello contrattuale, è incoerente e
irrazionale, in relazione anche a diverse altre critiche al
decreto. Dei tre organismi, infatti, ai quali è affidata la
valutazione, Invalsi, Indire e corpo ispettivo, Invalsi e
Indire devono essere riformati e quanto agli ispettori se ne
dovrebbe rivedere il profilo, per tacere del fatto che, se
pur sarebbe necessario un organico ben più consistente di
quello attuale di 330 unità, in ogni caso esso presenta così
numerosi buchi da non poter essere colmati nemmeno con
l'immissione in ruolo dei cinquantanove neovincitori di un
concorso durato oltre cinque anni, che andranno ad
aggiungersi alle poche decine di colleghi in servizio
neppure in tutte le regioni. E se per completare l'organico
sarà indetto un altro concorso, c'è il rischio che passi un
altro lustro. Pensare realisticamente di avviare una
valutazione del sistema scolastico con questi mezzi è come
tentare di svuotare il mare con un secchiello forato. E
pensare di farlo nei confronti dei dirigenti scolastici
rischia di aprire anche un contenzioso giuridico – sindacale
infinito. La valutazione negativa di un dirigente scolastico
ha effetti sull'incarico affidato, che potrebbe essere
modificato fino a far intervenire il recesso, e su una quota
parte della retribuzione, quella di risultato, che potrebbe
non essere attribuita. Il sistema di valutazione, introdotto
con il decreto, prevede infatti che i risultati della
valutazione operata nelle scuole sottoposte ad esame siano
forniti ai direttori generali degli uffici scolastici
regionali, ai sensi dell'art. 25 del decreto legislativo n.
165 del 2001. E quest'ultima disposizione prevede che i
dirigenti scolastici rispondano della gestione delle risorse
finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio. Per
rispondere dei risultati del servizio, però, occorre vi sia
un nesso di causalità con la loro azione e per
l'accertamento di questo nesso il contratto dell'11 aprile
2006 aveva giustamente previsto una serie di procedure e
garanzia e tutela del preside sottoposto a verifica. Se
queste mancano o non sono rispettate o vengono trascurate,
come sembra fare il decreto, non si va da nessuna parte o,
meglio, si va dal giudice del lavoro, giacché in materia di
diritti retributivi e di svolgimento delle mansioni affidate
il contratto di lavoro continua a prevalere sul decreto.
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Modernizzazione non sempre fa rima con
educazione
l'Unità, del 15-07-2013, di Benedetto
Vertecchi
QUELLA A CUI STIAMO ASSISTENDO NELLA SCUOLA È
UNA SORTA DI MODERNIZZAZIONE FORZOSA. DI FRONTE ALLA
CONSTATAZIONE DELLA GRAVITÀ DELLA CRISI SI TENTA di correre
ai ripari, intervenendo su aspetti nei quali si manifesta un
disagio più acuto. E lo si fa cercando di riversare sul
funzionamento ordinario del sistema elementi di razionalità
desunti in parte da procedure ricognitive messe a punto da
organizzazioni internazionali, in parte tentando di
riversare sulla gestione delle scuole e sulle pratiche di
insegnamento la sapienza reificata nelle risorse che lo
sviluppo della tecnologia ha reso disponibili. Se le
procedure ricognitive danno l’impressione di offrire gli
elementi necessari a interpretare lo stato del sistema
educativo, le nuove risorse dovrebbero consentire sia di
migliorare la gestione delle scuole, sia di introdurre
pratiche d’insegnamento più adeguate. Il fatto è che la
modernizzazione alla quale stiamo assistendo risponde a
logiche interpretative che con l’educazione hanno poco o
nulla da spartire. Di per sé, infatti, i dati ottenuti
tramite procedure ricognitive possono far emergere aspetti
critici dell’attività delle scuole, ma non indicano in che
modo le difficoltà emerse abbiano avuto origine o possano
essere superate. I dati sull’educazione scolastica sono,
infatti, posti in relazione a variabili che costituiscono
riferimenti prossimi, sul piano spaziale (per esempio, i
dati del Nord sono migliori di quelli del Sud) e su quello
temporale (ovvero in che modo questo o quel provvedimento
normativo abbia modificato il quadro preesistente). Qualcosa
di non troppo diverso si può dire dell’introduzione di nuove
risorse, dalle quali si attendono ricadute valutabili in un
contesto semplificato, che non tiene conto della complessità
degli stimoli che raggiungono gli allievi. In breve, ci
troviamo di fronte a una cultura educativa scadente, che non
costituisce il punto di approdo di una riflessione autonoma,
ma si limita a proporre un calco di modi di argomentare
affermati in altri settori della vita sociale, in
particolare da quelli produttivi. C’è bisogno di
ricostituire condizioni positive per lo sviluppo del sistema
educativo e, in primo luogo, di elaborare un disegno
interpretativo per il tempo, verso il passato e verso il
futuro. Le comparazioni devono cogliere tendenze dalle quali
derivino cambiamenti significativi nei profili culturali
delle popolazioni. Per esempio, è comune oggi sentir
lamentare la regressione in atto nel livello delle
competenze simboliche della popolazione adulta. In altre
parole, popolazioni che hanno fruito di periodi anche
consistenti di educazione scolastica si dimostrano
progressivamente meno capaci di utilizzare il linguaggio
alfabetico per comunicare. In una logica di breve periodo,
questo fenomeno è inspiegabile, o se ne danno spiegazioni
banali, come la cattiva qualità dell’istruzione fruita.
Meglio sarebbe chiedersi per quali ragioni nel corso degli
ultimi secoli sia stata avvertita la necessità di sostituire
a una generale condizione di analfabetismo la capacità
diffusa di leggere e scrivere (e, possiamo anche aggiungere,
di far di conto). Troveremmo che all’origine di una
trasformazione che ha segnato in modo determinante la storia
sociale europea ci sono stati, a seconda dei casi, una
spinta religiosa (nei Paesi riformati, per consentire al
popolo cristiano di leggere le Scritture), o una sociale,
collegabile alle innovazioni che si sono registrate
nell’amministrazione degli Stati, nelle attività economiche,
nell’organizzazione della vita quotidiana. La spinta
religiosa ha preceduto di due o tre secoli l’altro fattore
dinamico di cambiamento culturale. Ebbene, la comparazione
delle quote di popolazione che stanno subendo la regressione
alfabetica mostra che il fenomeno è molto meno grave nel
primo gruppo di Paesi, quelli di religione riformata. Dal
momento che le condizioni attuali di vita non sono troppo
diverse tra i diversi Paesi, potremmo ipotizzare che
un’educazione volta a consentire il possesso comune di una
cultura non rivolta a soddisfare esigenze di breve periodo
ha effetti più duraturi. In altre parole, la categoria
dell’utilità nell’educazione non coincide con quella dei
bilanci di breve periodo enfatizzati dalla modernizzazione
forzosa del sistema scolastico. È singolare l’ostentazione
di certezza che accompagna interventi sul funzionamento
della scuola che si fondano, nei casi migliori, su
suggestioni analogiche, ma non sono sostenuti da alcuna
evidenza di ricerca. Se le procedure ricognitive fossero
utilizzate per cercare di capire la complessità dei fenomeni
educativi, potrebbero compararsi i dati che si riferiscono a
sistemi scolastici variamente organizzati e diversi dal
punto di vista delle scelte operative. Si potrebbe giungere
alla conclusione che i simulacri della modernizzazione
forzosa non sono quelli più comuni nelle condizioni in cui
si ottengono migliori risultati. Assai più rilevante è la
definizione dei profili culturali, la finalizzazione dei
processi nel lungo periodo, la condivisione degli intenti da
parte delle popolazioni. Di fronte alla difficoltà di
conseguire esiti desiderati, ci si dovrebbe chiedere non
solo se le pratiche messe in atto erano le più opportune, ma
anche se i messaggi sociali capaci di orientare gli
atteggiamenti e sostenere l’apprendimento non siano stati
negativi. Sono tante le domande che occorre porsi per
intraprendere un cammino di sviluppo per l’educazione: quel
che conta è non credere che sia facile trovare le risposte.
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Apprendistato a 14 anni: si torna al
dopoguerra?
Un emendamento del Pdl al decreto Lavoro, ora
all'esame delle commissioni Finanze e Lavoro del Senato,
vorrebbe anticipare di un ulteriore anno l’ammissione di
giovani nelle aziende
La Tecnica della Scuola.it, del 14-07-2013,
di Alessandro Giuliani
Un
emendamento del Pdl al decreto Lavoro, ora all'esame delle
commissioni Finanze e Lavoro del Senato, vorrebbe anticipare
di un ulteriore anno l’ammissione di giovani nelle aziende.
Per il presidente della commissione Lavoro, Maurizio
Sacconi, è un modo per offrire una alternativa alla totale
inattività. Ma per evitare un salto indietro di oltre 50
anni occorrerà prevedere un minimo di formazione scolastica.
Le continue indicazioni da parte di
rappresentanti del Governo Letta verso un rafforzamento del
rapporto tra scuola e aziende potrebbero presto tramutarsi
in norme di legge. L’indicazione è arrivata dal presidente
della commissione Lavoro di Palazzo Madama, Maurizio
Sacconi, che nel commentare gli emendamenti presentati dal
Pdl al decreto Lavoro all'esame delle commissioni Finanze e
Lavoro del Senato ha parlato di alcune proposte emendative
"dedicate alla integrazione tra scuola e lavoro, tra
apprendimento teorico e pratico, tanto attraverso le
tipologie di apprendistato, che vanno semplificate, quanto
attraverso forme di studio che includono periodi di
alternanza con esperienze in ambiti lavorativi". La novità riguardante il potenziamento delle attività di
apprendistato è che vorrebbero essere portate indietro di un
ulteriore anno: "si ipotizza che possano iniziare a 14 anni
allo scopo di offrire una alternativa alla totale
inattività", ha precisato Sacconi. Significherebbe, in
pratica, fare un salto indietro di oltre cinquant’anni,
quando, in un dopoguerra caratterizzato da tantissimi
giovani che lasciavano ancora prematuramente la scuola,
quella dell’apprendistato rappresentava una valida
alternativa per salvare tanti giovani dalla disoccupazione e
dalla strada. Secondo Sacconi, si tratta di un’opportunità importante. Su
cui il suo raggruppamento politico conta. E su cui la
maggioranza dovrà confrontarsi seriamente. Il decreto
Lavoro, del resto, sembra che sia diventato un passaggio
decisivo per la tenuta dell’esecutivo. "Tocca al Governo ora
fare una sintesi, cercare mediazioni nella maggioranza,
assumere la responsabilità di decisioni che saranno
lealmente votate. E al Governo - conclude Sacconi -
rivolgiamo un forte appello ad avere coraggio". I segnali perché l’emendamento del Pdl venga approvato ci
sono. C’è
la spinta di Confindustria.
E ci sono i dati riguardanti l’abbandono scolastico in età
di obbligo formativo, purtroppo ancora vicino al 20% anziché
a quel 10% che indica l’Europa da anni. Per completezza, però, va detto che non basta dare il via
libera all’apprendistato a 14 anni. Il Governo dovrebbe
varare anche una serie di norme (adeguatamente
finanziate) che permettano sì ai giovani di trovare spazio
nelle aziende (fiscalmente agevolate) già all’indomani della
licenza media, senza però abbandonare del tutto la
formazione scolastica. Una parte dell’attività lavorativa
precoce dovrebbe essere dedicata alla teoria, allo sviluppo
dei contenuti delle materie principali costituenti il
biennio delle scuole professionali. Insomma, occorre una
formula che integri lavoro e formazione. Perché 14 anni sono
davvero pochi per lasciare la scuola. Ma altrettanto pochi
per iniziare solo a lavorare.
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Maturità, crollano i 100 e lode l’anno
nero dei superbravi i presidi: regole troppo rigide
Delusione da nord a sud. A Milano niente
encomi nei licei storici
la Repubblica, del 11-07-2013, di Salvo
Intravaia
LA SCUOLA italiana perde i suoi cervelloni.
Sembra che non riesca più a formare studenti degni di lode,
quella che dal 2007 le commissioni possono attribuire ai
ragazzi particolarmente brillanti. Dal 2010 al 2012 il
crollo dei diplomati con 100 e lode è netto: meno 46% nelle
scuole statali, meno 74 nelle paritarie. E QUEST’ANNO andrà
ancora peggio: il numero dei superbravi è destinato ad
assottigliarsi ancora. Così mentre gli scrutini sono ancora
in corso montano le proteste dei presidi che chiedono una
norma “più flessibile”. Anche perché ora la lode vale 10
punti di bonus per l’accesso a Medicina e alle altre facoltà
a numero chiuso. Da Nord a Sud, i capi d’istituto censurano
l’eccessiva rigidità delle regole per l’attribuzione del
massimo punteggio. «Ci sono polemiche diffuse sulla scarsità
delle lodi – ammette Gregorio Iannaccone, presidente
dell’Associazione nazionale dei dirigenti scolastici – ma
non stiamo parlando della tessera del pane. La lode è un
fatto eccezionale che necessita di regole rigide». Più
diplomatico Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione
nazionale presidi: «Non si può inflazionare il massimo dei
voti – commenta – Ma qualunque meccanismo rigido che vincola
ai risultati degli anni precedenti non consente alla
commissione d’esame nessuna flessibilità di giudizio e si
trasforma in una tagliola». A Milano, in appena due anni, le eccellenze si sono
dimezzate. E per la prima volta i classici Berchet, Manzoni
e Parini sono rimasti senza superbravi. «Questi criteri sono
ingiusti. C’è tutto un sistema da ripensare», si lamentano i
presidi meneghini. In calo le lodi anche a Torino e nelle
altre grandi città. Da tre anni, lo scientifico Cannizzaro
di Palermo non vede studenti lodati. «Attribuire la lode –
spiega il preside Leonardo Saguto – è diventato troppo
difficile: basta un niente per farla svanire. Occorrerebbe
dare più spazio al percorso scolastico e maggiori margini alle commissioni». A Napoli, niente lodi al liceo classico Vittorio Emanuele, e
solo tre all’Umberto, il liceo del presidente Giorgio
Napolitano, che l’anno scorso ne contò otto. Nella Capitale,
i superbravi scarseggiano anche nei licei, che hanno sempre fatto il pieno. Righi e
Tacito sono in attesa di salutare il primo genietto cum
laude. Una sola lode, finora, al Visconti e due al Mamiani.
«Folle il fatto – spiega Alessandra Francucci, preside del
liceo scientifico Sabin di Bologna – che non sia concesso di avere un voto inferiore all’8 in
pagella ed è un peccato perché così non si valorizzano i
ragazzi». Anche nel capoluogo emiliano si contano pochissime
eccellenze: solo tre, e tutte conquistate da donne, nello
storico liceo classico Galvani. Dal 2012, per aggiudicarsi la lode occorre il massimo
punteggio nelle prove d’esame – 75 in tutto – e presentarsi
alla commissione col massimo credito scolastico: 25 punti,
che si ottengono con una media, nelle pagelle degli ultimi
tre anni, superiore a 9, e senza essersi aggiudicati neanche
un 7. In più, le decisioni sul punteggio da attribuire agli
studenti devono essere state assunte all’unanimità. Fino al
2009, il percorso per arrivare al voto record era più
semplice: bastavano le prove e il credito al top. E per
quest’ultimo bisognava presentarsi con una media in pagella
superiore a otto decimi. Poi la Gelmini ha inasprito le
regole, entrate a regime nel 2012, e anche per gli studenti
eccellenti l’esame di maturità è diventato più difficile.
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Scuola, l'Italia bocciata in Europa
Siamo l’unico Paese dell’area Ocse che dal
1995 non ha aumentato la spesa pubblica per studente della
scuola primaria e secondaria e che ha fortemente ridotto la
spesa pubblica per studente dell’università
l'Unità, del
10-07-2013, di
Nicola
Cacace
MENTRE LE SPESE PER ISTRUZIONE AUMENTANO IN
TUTTO IL MONDO,RICCO E POVERO, PER FRONTEGGIARE LA CRESCENTE
COMPLESSITÀ E VARIABILITÀ DEI LAVORI,l’Italia, marcia in
direzione opposta. Siamo l’unico Paese dell’area Ocse che
dal 1995 non ha aumentato la spesa pubblica per studente
della scuola primaria e secondaria e che ha fortemente
ridotto la spesa pubblica per studente dell’università. In
anni in cui la strumentazione tecnica ed informatica di
supporto agli studi aumenta continuamente, noi riduciamo i
fondi pubblici. Nello stesso periodo, 15 anni, i Paesi
dell’Ocse hanno aumentato del 62% la spesa per istruzione
primaria e secondaria mentre in media mantenevano invariata
la spesa per studente universitario. Questo per quanto
riguarda le tendenze medie, che non dicono tutto. Perché il
divario nei livelli assoluti di spesa pubblica tra Paesi del
Nord e del Sud Europa si allarga sempre più. In Europa,
nella politica dell’istruzione, invece di esserci
convergenza c’è divergenza. Serve una Maastricht
dell’istruzione per ridurre questi divari. Mentre i
norvegesi investono 731 euro per cittadino nell’università ,
Francia e Germania ne investono 304 e l’Italia solo 104. Per
effetto di una drastica riduzione dei fondi per
l’università, in Italia aumenta continuamente la quota
privata delle famiglie, per cui l’università sta diventando
sempre più un business per famiglie agiate. Se quest’anno
non ci sarà un ripristino del finanziamento decurtato di 300
milioni di euro, auspicato anche dal ministro Maria Chiara
Carrozza, la posizione dell’Italia nella classifica delle
università europee peggiorerà ulteriormente, così come la
posizione del Paese nella divisione internazionale del
lavoro. Ed i lodevoli Piani predisposti dall’Europa, anche
sotto la spinta del nostro governo, per avviare qualche
centinaio di migliaia di giovani dalla scuola o
dall’inattività al lavoro, rischiano di infrangersi contro
il muro della fragilità delle fondamenta culturali. Il muro
delle carenze di cultura, basica e superiore, per poter
rispondere positivamente agli sforzi di orientamento ed
avviamento al lavoro da parte degli ispettorati al lavoro a
ciò preposti. Come oggi abbiamo difficoltà quasi
insormontabili ad avviare un minatore del Sulcis ad una
diversa esperienza lavorativa, date le sue carenze culturali
di base, così potremo avere difficoltà simili ad avviare un
suo figliolo ad acquisire le conoscenze necessarie a
svolgere un qualsiasi lavoro disponibile, se la scuola non
gli avrà dato gli strumenti culturali necessari ad
orientarsi nel difficile e mutevole mondo dei lavori di
oggi. Investire sul futuro non significa solo investire
nelle infrastrutture materiali, strade, energia,
innovazione, significa soprattutto investire sui giovani.
L’Italia è già il Paese più vecchio del mondo, con meno
giovani relativamente ad altri Paesi, se poi rinuncia anche
ad investire sui suoi pochi giovani, soprattutto nella loro
cultura, si condanna anche ad una fine ingloriosa e certa,
in un mondo globale dai rapidi cambiamenti. Si condanna ad
una vecchiaia inesorabile e crescente, dove, con i vecchi,
resta solo la parte «peggiore» dei giovani, i migliori
essendo fuggiti verso lidi più attraenti.
La Carrozza con i corsi riservati apre la
strada ad altri 80 mila aspiranti docenti. Ma i posti su cui
assumere nei prossimi anni scarseggiano
ItaliaOggi del 09-07-2013
di Carlo
Forte e Alessandra Ricciardi
Al via i
corsi abilitanti riservati ai docenti precari. E senza la
prova preselettiva, paventata dall'ex ministro
dell'istruzione, Francesco Profumo. La dizione ufficiale è
«percorsi formativi abilitanti speciali» che va a sostituire
la vecchia dizione dell'era Profumo dei Tfa speciali (la
sigla Tfa sta per tirocini formativi attivi).
La novità è
contenuta in un decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
serie generale n.155 del 4 luglio scorso, che entrerà in
vigore il 19 luglio prossimo. A partire da quella data gli
interessati potranno produrre domanda, utilizzando la
procedura via web che sarà attività dal ministero
dell'istruzione. É prevista anche l'emanazione di un decreto
dirigenziale che recherà la normativa di dettaglio.
L'accesso ai corsi abilitanti sarà riservata ai precari che
potranno vantare 3 anni di servizio, ma fino al 2011/2012,
di cui almeno uno nella disciplina oggetto del corso, anche
se abilitati in altre discipline. Non è previsto il
superamento di prove di accesso e, secondo quanto risulta a
Italia Oggi, per fare fronte alle richieste (che potrebbero
raggiungere quota 80mila) gli aventi titolo a partecipare
saranno classificati secondo l'anzianità di servizio. Tale
criterio servirà a definire gli scaglioni che saranno
gradualmente avviati alla frequenza dei corsi. Il tutto però
senza che ci sia chiarezza sui posti disponibili per le
future assunzioni. Dopo gli annunci del ministro
dell'istruzione, Maria Chiara Carrozza, relativi a 15 mila
nuove immissioni in ruolo a settembre e 44 mila nel
successivo triennio, grazie al turn over, non sono giunti
atti concreti. Ma non solo. La disponibilità dei posti
indicati, circa 15 mila all'anno, si rivela comunque
largamente insufficiente se confrontata con il fabbisogno
occupazionale della categoria dei docenti precari abilitati,
oggi a quota 150 mila. Categoria destinata a crescere
ulteriormente proprio grazie ai corsi riservati che stanno
per partire. Insomma, il sistema della formazione e del
reclutamento sta mettendo sempre più a nudo le sue falle
complice l'assenza, in questo concordano tutte le sigle
sindacali, di una politica che guidi il processo,
contemperando l'esigenza di rinnovamento con la tutela di
diritti acquisiti, e non lo insegua. Il decreto sui corsi
riservati tra l'altro sbarra la strada ai docenti di ruolo.
Di fatto precludendo una ricollocazione professionale per i
circa 9mila insegnanti in esubero sulla propria classe di
concorso e che potrebbero abilitarsi su altri classi per le
quali c'è carenza di prof. E così la mobilità professionale,
pensata dalla legge per un utilizzo intelligente del
personale, perde un'altra buona occasione per passare dalle
parole ai fatti. La preclusione appare ancora più stridente
se si pensa che molti docenti in esubero sono stati e
saranno ricollocati secondo i titoli di studio posseduti e a
prescindere dal possesso dell'abilitazione, così come
indicato dall'art. 14, comma 17 del decreto legge 95/2012.
Quanto al contenuto del decreto sui corsi riservati, il
dispositivo prevede che fino all'anno accademico 2014-2015
gli atenei e le istituzioni dell'alta formazione artistica,
musicale e coreutica dovranno istituire ed attivare percorsi
abilitanti speciali finalizzati al conseguimento
dell'abilitazione all'insegnamento nella scuola secondaria
di primo e secondo grado e analoghi percorsi dovranno essere
organizzati per la scuola dell'infanzia e primaria. Potranno
partecipare i docenti non di ruolo che abbiano maturato, a
decorrere dal 1999/2000 fino al 2011/2012 incluso, almeno
tre anni di servizio in scuole statali, paritarie o nei
centri di formazione professionale. Il lavoro prestato nei
centri di formazione riconducibile a insegnamenti compresi
in classi di concorso sarà valutato solo se prestato per
garantire l'assolvimento dell'obbligo di istruzione a
decorrere dall'anno scolastico 2008/2009. Ai fini del
raggiungimento dei requisiti previsti sarà valutato anche il
servizio effettuato nella stessa classe di concorso o
tipologia di posto, prestato per ciascun anno scolastico per
un periodo di almeno 180 giorni. Oppure quello valutabile
come anno di servizio intero, ai sensi dell'articolo 11,
comma 14, della legge 3 maggio 1999, n. 124. E cioè dal 2
febbraio fino agli scrutini. Il requisito potrà essere
raggiunto anche cumulando i servizi prestati, nello stesso
anno e per la stessa classe di concorso o posto, nelle
scuole statali, paritarie e centri di formazione
professionale.
L'Ocse punta il dito contro il
disinvestimento in istruzione: così si alimenta la crisi.
Intanto i ragazzi senza titolo di studio arrivano al 20%
Il Tirreno, del 09-07-2013
L'istruzione pesa sempre meno nel bilancio
dell'Italia. Si svalutano i titoli di studio, gli
insegnanti, gli studenti, le scuole, mentre dovrebbero
essere la priorità. Insomma, se esistesse un G8 della
conoscenza, l'Italia ne resterebbe fuori. Leggendo i dati
dell'ultimo rapporto Education at a Glance dell'Ocse, il
sospetto è che l'Italia voglia divorziare dall'istruzione. Il nostro, avverte l'Ocse, è il Paese in cui la massa dei
lavoratori meno istruiti è superiore a quella dei più
istruiti. Questo, nonostante il recupero registrato negli
ultimi venti anni sul fronte della scolarizzazione
secondaria superiore. Se nel 2011, infatti, tra i 55-64enni
uomini i diplomati erano poco più del 50%, i 25-34enni erano
già più del 70%. Tra le donne il gap è passato da meno del
40% di diplomate 55-64enni a più del 70% delle 25-34enni. Ma
se i più giovani corrono a perdifiato per recuperare il
distacco, sono proprio loro a soffrire di più gli effetti
della crisi. L'attrazione gravitazionale esercitata dalle
coorti dei lavoratori più anziani e meno istruiti porta giù
le coorti dei lavoratori più istruiti a cui non resta che
guardare sempre di più oltreconfine. Un buco nero insomma,
in cui il retaggio rischia di pesare eccessivamente su un
sistema che sembra soffrire più di altri della crisi del
ricambio generazionale e della difficoltà di costruire
comunità intorno ai temi dell'educazione. Svalutazione degli insegnanti Dopo una fiammata che ha visto crescere, soprattutto
dall'inizio a metà dell'ultimo decennio, le aspirazioni
degli italiani che hanno iniziato a voler andare
all'università, oggi indietreggiamo. L'emorragia di
immatricolati all'università è di quelle da codice rosso.
Studiare è sempre più un optional, anche perché spesso non
ce lo si può più permettere. Ma se al di fuori dei nostri
confini nazionali verrebbe in mente, al limite, di
valorizzare i docenti per reinvestire sugli studenti, da noi
non si corre questo rischio. L'Italia è il Paese dell'Ocse,
insieme all'Ungheria, dove sono stati tagliati i salari dei
docenti, e in Italia ciò è avvenuto in misura doppia
rispetto all'Ungheria. Nella spesa annuale per studente, il
valore dei salari dei docenti diminuisce tra il 2005 e il
2011 di più del 26% per i maestri della scuola primaria, e
dello stesso periodo diminuisce di più del 25% per i
professori (in Ungheria hanno tagliato l'11% dei salari per
i maestri e il 13% per i prof). Giù gli investimenti, sale la depressione cognitiva Dal 1995 al 2010 gli investimenti stagnano mentre altrove,
come in Corea e in Polonia, raddoppiano. Così si spiega come
Paesi che hanno iniziato a investire quindici anni fa in
istruzione sono oggi in testa alle classifiche mondiali Ocse
Pisa dell'apprendimento. Misurando la variazione di spesa in
istruzione ricorrendo al deflattore del Pil, che consente di
valutare il trend degli investimenti rispetto ad un indice
di cambio pari a 100 nel 2005, vediamo che la spesa per
studente in istruzione è passata da 96 nel 1995 a 97 punti
nel 2000 ed è rimasta a 97 nel 2010. La media Ocse è di 73
nel 95, 84 nel 2000 e 117 nel 2010. Nei Paesi che si sono
tuffati a capofitto nella sfida della conoscenza,
l'investimento cresce da 15 anni a questa parte. In
Finlandia era pari a 81 nel 95, 85 nel 2000, a 112 nel 2010.
In Corea da 68 del 2000 è passata a 135 nel 2005. in Polonia
passano da 50 nel 95, a 78 nel 2000 a 153 nel 2010. L'Italia
invece è rimasta a guardare. A rischio il patto educativo e le motivazioni Ma i nodi vengono al pettine proprio con la crisi del 2008.
Tra il 2008 e il 2010 risultiamo, secondo l'Ocse, il terzo
Paese, dopo Islanda ed Estonia, con il 7% di Pil di tagli
all'istruzione. E solo in Italia, insieme a Ungheria e
Islanda, il decremento degli investimenti sulle istituzioni
scolastiche è stato maggiore del decremento di Pil
dall'inizio della crisi. È questo il dato più allarmante.
Recentemente Andreas Schleicher, patron di Ocse Pisa, aveva
sottolineato come proprio la crisi finanziaria del 2008
abbia enfatizzato il ruolo dell'istruzione nel dettare
l'agenda delle priorità. Se così stanno le cose allora
sorprende come mai in Italia sono sempre meno i giovani che
decidono di non proseguire a studiare all'università o
presso istituti superiori e sia in crescita il fenomeno dei
neet (not in education, employment and training), arrivato
ad interessare, qui da noi, secondo le stime Ocse, più del
20% dei 15-29enni.
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Il prof con il curriculum taroccato che
giudica gli aspiranti colleghi
Aveva inserito testi mai pubblicati. Il
giallo della correzione
Corriere della sera.it, del 08-07-2013, di
Gian Antonio Stella
Accettereste d'essere giudicati da un
professore che per entrare in commissione e giudicare voi ha
presentato un curriculum taroccato? Mai, direte. Eppure è
quanto sta accadendo agli aspiranti docenti universitari,
ordinari e associati, di Storia moderna. Non solo: sullo
scandalo è stata messa una pezza ancora più strabiliante. Il
permesso al taroccatore, udite udite, d'aggiustare quel
curriculum retroattivamente. Teatro della storia, Messina. Dove l'ateneo, già al centro
di mille polemiche e scosso ieri dagli arresti per gli
«esami facili» e le rivelazioni sulle interferenze della
‘ndrangheta, era stato sconvolto anni fa perfino da un
delitto, l'uccisione a colpi di lupara del professore Matteo
Bottari. Un omicidio seguito da inchieste arroventate e
dalla definizione della città peloritana come di un
«verminaio». Tutto comincia quando, nel tentativo di lasciarsi alle
spalle le sconcezze di certi concorsi del passato quando i
baroni più spregiudicati potevano mettere in cattedra figli,
mogli, cognati, famigli e somari, viene tentata la strada di
commissioni nazionali delegate non ad assegnare le cattedre
ma a valutare gli aspiranti professori. I quali, una volta
abilitati, avranno il diritto a partecipare ai vari concorsi
in questa o quella materia in questo o quell'ateneo. Una scelta positiva, sulla carta. Ma seguita da una serie di
grane. Prime fra tutte, come i lettori ricorderanno, le
polemiche sulla definizione delle «riviste scientifiche»
(tra le quali vennero inseriti all'inizio perfino
settimanali diocesani e bollettini comunali) e il numero
esorbitante di concorrenti in certe materie. Vedi la
commissione di Letteratura italiana, per esempio, che
avrebbe dovuto esaminare entro il 30 giugno una tale massa
di lavori da imporre la lettura (almeno in teoria) di 1.610
pagine al giorno. Bene: tra i 54 aspiranti membri della commissione per
l'abilitazione in Storia moderna, c'è anche Angelo Sindoni,
ordinario di Storia moderna all'Università di Messina dal
1986. Ed è proprio lui, con Marina Formica di Tor Vergata,
Francesco Gui della Sapienza, Giuseppe Agostino Poli della
«Aldo Moro» di Bari e José Ignacio Fortea Pérez della
Università spagnola di Cantabria, ad essere sorteggiato per
l'incarico. Il curriculum è lungo lungo: 53 pubblicazioni
principali più altre cinque sotto la voce «altre
pubblicazioni». Poco dopo Natale, però, Saverio Di Bella, già docente
dell'Ateneo messinese, già senatore del Pds e massone
dichiarato (nel 1995 fece scalpore la sua presenza a una
marcia di «liberi muratori» sul Gianicolo), spedisce una
lettera velenosissima all'allora ministro Francesco Profumo:
quel curriculum è almeno in parte taroccato.
Contemporaneamente, diffonde la denuncia con tutti i
dettagli tra amici, conoscenti e colleghi. Finché Francesco
Margiocco, cacciatore curioso di «chicche» universitarie
(era suo anche lo scoop sul «giovane professore» sessantenne
fatto «rientrare» dalla Mongolia dove non insegnava affatto)
ne scrive su «Il Secolo XIX». La faccenda finisce nelle mani dell'Anvur, l'Agenzia
Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della
Ricerca. La quale, sia pure sospirando, non può che prendere
atto di come alcune pubblicazioni inserite nel curriculum
vitae del commissario Sindoni, effettivamente, non siano mai
state pubblicate. Nonostante fosse annotato nel documento
perfino il numero isbn (International Standard Book Number)
cioè di codice di 13 cifre usato internazionalmente per
classificare i libri e rintracciarli poi nelle varie
biblioteche. Un banale errore dovuto a un eccesso di vanità?
Dura da sostenere: l'inserimento di quei codici isbn
attribuiti all'editore Rubbettino dimostra infatti una
malizia difficile da spiegare con una leggerezza causata
dalla vanagloria. Che fare? Pensa e ripensa, l'Anvur decide di lasciare le
cose come stanno perché, in fondo in fondo, i titoli portati
da Angelo Sindoni a sostegno della propria candidatura
sarebbero stati sufficienti anche senza quelle pubblicazioni
fantasma. Risultato: sulla pagina web del ministero dove si
elencavano gli aspiranti commissari tra i quali furono
sorteggiati i 5 della commissione di Storia Moderna (http://abilitazione.miur.it/public/commissariEleggibili.php?settore=11/A2)
il nome del professor Sindoni è seguito da un asterisco che
in fondo alla pagina spiega: «Il presente curriculum vitae è
stato rettificato in base alla nota direttoriale n.12976 del
3 giugno 2013». Infatti ora è diverso da quello originale.
La data è la stessa: ore 19.19 del 28 agosto 2012. Ma i
documenti no: nel primo, l'originale taroccato, Sindoni si
vanta d'aver all'attivo 53 pubblicazioni principali più
altre 5 sotto la voce «altre pubblicazioni». Nel secondo, le
une e le altre scendono rispettivamente a 47 e a 5. Chi l'ha firmato, quel misterioso decreto direttoriale che
consente il ritocco postumo del curriculum taroccato? Boh…
Su internet non c'è verso di trovarlo, quel decreto, neppure
con l'aiuto di chi conosce link per link il sito
ministeriale. Che quella scelta di lasciare al suo posto il
commissario beccato a «gonfiare» le carte sia legittima non
vogliamo neanche metterlo in dubbio. Diamo per scontato che
sia tutto corretto e morta lì. Sarebbe, secondo gli esperti,
un «falso innocuo»: fosse stato determinante per la
promozione del nostro professore a commissario, sarebbe
stato un reato. Così, a quanto pare, no. Ma resta la domanda iniziale. Dopo decenni di sospetti e
polemiche su concorsi universitari troppe volte finiti con
la promozione di candidati stupefacenti era davvero il caso,
eticamente e politicamente, di imporre agli aspiranti
docenti di Storia moderna di farsi esaminare da un
professore che si è fatto beccare con le dita nella
marmellata? Cosa ne pensa il ministro Maria Chiara Carrozza
che faceva il rettore al Sant'Anna di Pisa dove i curriculum
sono una cosa seria? E siamo sicuri, come chiede una
interrogazione del Movimento 5 Stelle, che i curriculum
ritoccati non siano più di uno?
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Abbandono scolastico, lascia uno studente
su cinque
Quello della dispersione è un fenomeno dove
l’Italia ha un primato tristemente negativo. La conferma
arriva dagli ultimi dati del Ministero
Il Messaggero, del 08-07-2013, di Alessia
Camplone
LA RICERCA ROMA Vanno via in silenzio. Lasciano quasi sempre senza dire
nulla. I maschi abbandonano più delle donne. Lasciano al sud
più che al nord. Sono gli “early school leavers”, studenti
che abbandonano precocemente la scuola. Non studiano più. E
molto spesso nemmeno lavorano. Quello della dispersione è un
fenomeno dove l’Italia ha un primato tristemente negativo.
La conferma arriva dagli ultimi dati del Ministero dell’
istruzione, dell’università e della ricerca (il Miur).
Seguono di pochi giorni le statistiche dell’Ocse. I dati del
Miur, per il 2012, mettono il nostro Paese in quart’ultima
posizione in Europa. Dietro di noi paesi come Spagna e
Portogallo. Va meglio la Grecia. «Nella graduatoria dei
ventisette Paesi Ue – si legge nel rapporto del Miur –
l’Italia occupa ancora una posizione di ritardo». E lo
stesso ministro Maria Chiara Carrozza, nel presentare le
linee programmatiche davanti alle Commissioni riunite del
Senato e della Camera ha evidenziato la necessità di una
“politica di lungo respiro” per contrastare il fenomeno.
Rispetto all’anno precedente un lieve miglioramento c’è
stato. Ma non significativo. E l’Italia resta lontana dagli
obbiettivi Ue. LA COMMISSIONE EUROPEA La Commissione europea, infatti, ha richiesto che per il
2020 il tasso di abbandono scolastico vada sotto la soglia
del 10 per cento. E che sempre entro il 2020 il tasso di
studenti con la laurea salga sopra al 40. Quasi un alunno su
cinque, tra le medie e le superiori, lascia la scuola. La
dispersione, infatti, si attesta in Italia al 17,6% (18,2 %
nel 2011) contro una media Ue del 12,8% (13,5%). Il divario
con il dato medio europeo è più accentuato per i maschi
(20,5% contro 14,5%), in confronto a quello delle donne
(14,5% contro 11%). Guardando a livello regionale il quadro
appare eterogeneo. Il Molise è l’unica regione ad aver
raggiunto il target europeo, con un valore dell’indicatore
pari al 9,9%. Ma il fenomeno dell’abbandono scolastico è in
genere più sostenuto nel Mezzogiorno con punte del 25,8% in
Sardegna, del 25% in Sicilia e del 21,8% in Campania. Zone
in cui sono maggiormente diffuse le situazioni di disagio
economico e sociale. Tuttavia anche nelle aree più
industrializzate e sviluppate, nelle regioni caratterizzate
da un mercato del lavoro ad ingresso più facile e in cerca
di mano d’opera meno qualificata: è qui che una larga fetta
dei ragazzi trova più allettante la prospettiva di
rinunciare agli di studi per entrare subito nel mondo del
lavoro. Continue assenze, voti costantemente molto bassi,
cambiamenti ripetuti di istituto: i sintomi che molto spesso
portano alla dispersione. Un fenomeno che per gli esperti è
prevedibile. Secondo le stime dello stesso ministero
dell’istruzione nell’anno scolastico 2011/2012 il numero
degli alunni “a rischio di abbandono” è di circa 3.400
ragazzi per la scuola secondaria di I grado (pari allo 0,2%
degli alunni iscritti) e a quasi 31.400 per le scuole
superiori. Nelle scuole medie gli alunni “a rischio di
abbandono” sono iscritti al secondo e al terzo anno. ALLE SUPERIORI Ma è alle superiori che il fenomeno è più evidente.
Soprattutto tra il terzo e quarto anno di corso. Le scuole
dove è più facile lasciare? Negli istituti professionali,
tecnici e nell’area dell’ istruzione artistica. Molto spesso
alla base della dispersione c’è un disagio legato
all’ambiente familiare e sociale. Ma conta pure una scelta
degli studi sbagliata, poco vicina alle proprie
inclinazioni. Magari una scelta imposta dai genitori e dai
parenti.
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Tfa speciali, ancora tanti punti contesi
Secondo i sindacati permangono diverse
questioni aperte, oltre a quella della validità del 2012/13
tra i requisiti d’accesso
La Tecnica della Scuola.it, del 04-07-2013,
di A.G.
Secondo i sindacati permangono diverse
questioni aperte, oltre a quella della validità del 2012/13
tra i requisiti d’accesso: dal numero massimo di assenze
consentite, al momento solo il 10%, alla necessità di
chiedere le 150 ore di permesso studio, dalla possibilità di
scegliere la regione a quella di valutare i servizi prestati
nello stesso anno in insegnamenti diversi. Cambia la
denominazione dei corsi: d’ora in poi si chiameranno
“Percorsi Speciali Abilitanti”.Se l’approdo in Gazzetta
Ufficiale del decreto dirigenziale sull’attivazione dei Tfa
speciali è solo
questione di ore, lo
stesso non si può dire su alcune problematiche sullo stesso
tema ancora tutte da risolvere. Oltre alla validità
dell'anno in corso tra quelli utili al raggiungimento delle
tre annualità minime per accedere ai corsi, al momento non
prevista, i sindacati hanno fatto presente una serie di
punti su cui il Miur sarà ora chiamato a lavorare.
La Gilda
degli insegnanti,
ad esempio, ha “chiesto di consentire un massimo di assenze
giustificate del 20% (ora sono al 10%), che potranno essere
recuperate tramite attività on-line”. Inoltre, “non essendo
previsto alcun esonero dal servizio”, sempre il sindacato
autonomo ha “chiesto di riaprire i termini per la
presentazione delle domande del diritto allo studio (150
ore) o comunque di agevolare la frequenza ai corsi”. E,
infine, sempre la Gilda ha detto ai dirigenti
dell’amministrazione che è il caso “di dare libertà di
scelta della regione nella quale presentare la domanda” (al
momento viene assegnata d’ufficio quella dove si presta
servizio). La Uil Scuola, dal canto suo, ha fatto sapere che sino
all’ultimo si adopererà per “il riconoscimento dell'anno
scolastico in corso ai fini dell'accesso ai corsi. Su questo
aspetto – spiega il sindacato Confederale - il Miur ritiene
che si possa intervenire solo successivamente, in sede
legislativa, apportando le necessarie integrazione al
regolamento. Il Miur ritiene che, se saranno rispettati i
tempi di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, le domande
dovrebbero essere presentate a cavallo dei mesi di luglio e
agosto e i corsi potrebbero partire già dal mese di novembre
prossimo”. La Uil ha chiesto, inoltre, sempre “ai
rappresentanti del ministero di mettere in atto tutte le
procedure necessarie nei tempi più brevi possibili per
garantire l'attivazione dei corsi nei tempi più brevi
possibili”. Dopo aver preso atto con soddisfazione che nella bozza
finale del decreto sui Tfa speciali è prevista
“l'attivazione per tutti gli insegnamenti (inclusi gli ITP e
Strumento musicale) e l'eliminazione della prova
preselettiva paventata dal Ministro Profumo”, la Flc-Cgil ha
confermato che “dal momento della pubblicazione di questo
provvedimento decorreranno i 30 giorni per presentare al
domanda via web attraverso le
istanze on-line”. Il sindacato guidato da Pantaleo ha detto che però “restano
aperte le questioni relative all'inserimento dell'anno in
corso ai fini della partecipazione, della possibilità di
organizzare i corsi per un triennio (essendo saltato l'a.a.
2012/13) e la possibilità di valutare anche servizi prestati
nello stesso anno scolastico in più insegnamenti diversi”. Il sindacato di via Leopoldo Serra, inoltre, “ritene che per
parlare di formazione iniziale e reclutamento ci voglia la
materia prima: i posti per le stabilizzazioni. È necessario
perciò che ora che si apra al più presto col Ministero
l'interlocuzione sul sistema di reclutamento e sul piano di
stabilizzazioni per dare adeguata risposta alle legittime
aspettative sia di coloro che sono già nelle graduatorie (ad
esaurimento e concorsuali) sia di coloro che hanno
affrontato e affronteranno i percorsi di abilitazione
ordinari e speciali”. Un’ultima annotazione: d’ora in poi sarà anacronistico
chiamare questi corsi Tfa. All’interno del decreto in via di
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale vengono infatti definiti
Psa, che sta per Percorsi Speciali Abilitanti.
Da tutta Italia in tre scuole campane,
inchiesta e arresti
la Repubblica.it, del 03-07-2013, di Conchita
Sannino
NOLA — Un volo verso Capodichino, e un diploma. Un assegno
staccato da papà, e un “titolo di studio”. «Dai, lo sanno
tutti come funziona. No?». Ma sì, forse ha ragione il
rampollo ventisettenne di una famiglia veneta che, libero di
sfogarsi dopo il faccia a faccia con gli investigatori,
consegna la sua fotografia ad un amico che lo aveva
accompagnato per farsi una gita. «Quante domande, ma
facciamola finita... Io mi sono iscritto qui a Nola perché
da noi sappiamo che se ti iscrivi giù, al “Luca Pacioli”,
non hai problemi. Paghi. Seimila. Settemila euro. Qualche
povero cristo di qui mi ha confessato che pagava a rate. Non
ti fai vedere per un anno. Non frequenti. Nessuno ti rompe.
E alla fine dell’anno, arrivi, copi il compito, ti prendi il
tuo bel diplomino. Lo so io, e qui non lo sanno?». È andata così per almeno duemila studenti, negli ultimi due
anni, e solo in una ristrettissima area: il Nolano, ad alta
densità di scuole-bluff. Più che diplomifici, associazioni
per delinquere: perché i primi dovrebbero produrre diplomi, le altre solo denaro per sé e per gli altri carta
straccia, benché le si attribuisca un valore. Sono aziende
scolastiche in apparenza, e scatole vuote. Che, però, da
anni riescono a gabbare lo Stato, il ministero, l’Ufficio
scolastico regionale: grazie anche a sciatterie o autentiche
complicità ben pagate, come dimostrano gli arresti, ad
aprile, a carico di ispettori del Provveditorato. È andata così per troppo tempo, racconta l’inchiesta della
Procura di Nola, che ad aprile ha colpito con sequestri e
misure cautelari per 15 persone le scuole Luca Pacioli e
Vittorio Emanuele di Nola e la Achille Lauro di Torre
Annunziata. Va ancora così, è il sospetto nutrito dalle
indagini delle Fiamme Gialle di Torre Annunziata, anche in
altri presìdi-satelliti collegati: sia in Campania, sia nel
resto d’Italia. È un affare da 10 milioni di euro l’anno,
stima approssimata per difetto. La prova di una sostanziale
impunità è nel clamoroso blitz svelato da Repubblica: il colonnello Carmine Virno rimanda i finanzieri alla “Pacioli”,
l’altro ieri, e trova oltre 550 ragazzi che fanno l’esame di
maturità senza registri di classe, senza documentazione, in un clima definito di «diffusa illegalità». Com’è stato
possibile? Grazie al solito duello tra istituzioni. Doppio
pronunciamento: di segno opposto. L’Ufficio scolastico
regionale revoca subito la “parifica” a quell’istituto:
anche perché le carte mostrano falsi di ogni natura,
distruzione di atti. Ma il “Pacioli” fa ricorso al Tar del
Lazio che sospende lo stop. Così, tutto torna a posto. Benvenuti, ragazzi.
Addio incubi, zero notti passate a studiare. È una
passeggiata, la sfida con l’esame di Stato. Peccato che
stavolta ci siano gli uomini in divisa, nelle aule, a
complicare la gita. Così interviene anche il ministro dell’Istruzione, Maria
Chiara Carrozza. «La vicenda dell’istituto paritario
“Pacioli” di Nola è molto grave. Auspico che si faccia presto piena luce sul
caso, sul quale il ministero e l’Ufficio scolastico
regionale stanno facendo approfondite verifiche». Il
ministro annuncia anche che intende «rivedere la normativa
che disciplina questi istituti, prevedendo un regime
diverso, più restrittivo ». Eppure, basterebbero semplici
regole. Com’è pensabile che un allievo che risieda a Sassari o ad Aosta possa
frequentare sul serio, e con profitto, una scuola del Nolano?
Ma anche le analoghe, doverose, intenzioni dei predecessori
della Carrozza si sono dissolte nelle nebbie parlamentari. Per anni, sono state solo comitive rumorose e goliardiche di
ragazzi, quelle che invadevano con i vari dialetti l’area
del nolano. Erano portatori di “economia locale”. Si
sceglievano anche vetture con autista, andavano in cerca di
un po’ di fumo e qualche locale “carino”. Tutto nel
pacchetto diploma finto più esotica incursione. Tutto per
diecimila euro, compreso il viaggio. Una storia lunga, quella di diplomi e lauree, un tanto al
chilo. Radicata in ambienti di camorra: sia tra i promotori,
sia tra i destinatari. Dallo storico blitz al vecchio
Settembrini, lì dove Rosetta Cutolo, la sorella del
sanguinario padrino di camorra Raffaele, e altri camorristi
di rango avevano conseguito titoli di studio restando
inesorabilmente analfabeti, ai diplomifici riveduti e
corretti dove — fino a qualche anno fa — un osannato Nicola
Cosentino partecipava all’inaugurazione di nuovi e
prestigiosi “indirizzi”, in compagnia di un’ampia
rappresentanza istituzionale e di un delegato del Ministro. Oggi, il procuratore capo di Nola, Paolo Mancuso, evita
accuratamente ogni riferimento al merito dell’inchiesta, e
osserva: «C’è una normativa francamente incomprensibile, che
disciplina gli obblighi di presenza di esaminandi “esterni”
e degli “interni”. E questo favorisce un più agevole ricorso
all’illegalità. Un fenomeno in crescita. Non escludo ci
siano altri istituti “Pacioli” in giro per l’Italia».
STUDIO E FUTURO TUTT'INFORMATICI Nei paesi
"avanzati" si cominciano a intravvedere i pericoli di un
orientamento praticistico del sapere. Ovunque, ma non da noi
Il Fatto Quotidiano, del 03-07-2013, di di
Angelo d'Orsi
Nel giugno di 14 anni or sono (esattamente il
18-19), a Bologna, nella sede della più antica università
del mondo, la cosiddetta Alma Mater, si riunivano 29
ministri dell'Istruzione e siglavano un accordo, la
"Dichiarazione di Bologna", che avviava il processo che
avrebbe dovuto realizzare lo "Spazio Europeo dell'Istruzione
Superiore". Era un contributo all'unificazione del
continente. Ma quanti si resero conto delle conseguenze
negative che avrebbe avuto quel frettoloso documento?
Cominciava allora, in effetti, un gioco al ribasso della
qualità, che avrebbe condotto l'Italia nel tunnel del
famigerato "3+2", passando dalla "riforma" di Luigi
Berlinguer, agli interventi dei suoi epigoni e continuatori,
pur se di diversa appartenenza politica, fino alla
devastazione firmata dalla signora Gelmini e perfezionata
dall'ing. Profumo. NELL'ULTIMO suo libro,
Benvenuti in tempi
interessanti (casa editrice Ponte alle Grazie) quello
che è stato chiamato "il filosofo più pericoloso
d'Occidente", Slavojiek, ha scritto che da Bologna partì "un
attacco concertato a ciò che Kant chiamava `l'uso pubblico
della ragione-. Veniva, in prospettiva, cancellato il vero,
primo compito del pensare: che non è offrire solo soluzioni
ai problemi, ma innanzitutto riflettere sulla forma e la
natura di quei problemi. Si sostituiva, insomma, al sapere
critico, il sapere "utile", al pensiero libero, un pensiero
finalizzato: a cosa? Ai bisogni della società, ossia del
mercato, innanzitutto. Da allora in poi nelle università
europee, e nelle Scuole di istruzione superiore, secondo una
tendenza che attraversava l'Atlantico e si manifestava in
America, cominciò una vera e propria aggressione, mediatici
e politica, alle discipline umanistiche, e anche alle
scienze sociali e politiche. L'eliminazione o la riduzione
ai minimi termini di Storia dell'arte, o di Storia della
musica nelle scuole è stato un segnale inquietante passato
sotto silenzio. L'abrogazione o quasi degli insegnamenti di
Lettere classiche, la chiusura progressiva di discipline con
grandi tradizioni ma che apparivano "inutili" (Egittologia,
Sanscrito, Sumerologia, Indologia...), ma anche il drastico
ridimensionamento delle stesse cattedre di Letteratura
italiana (ricordava Alberto Asor Rosa, che alla Sapienza
sono passate da 12 a 2!), mentre altre discipline, a
cominciare dalla Sociologia in tutte le sue declinazioni
subivano un processo di vero e proprio imbarbarimento,
perdendo ogni sostrato di pensiero, tecnicizzandosi, in
senso economico. L'economia, a sua volta, si riduceva alla
mera dimensione numerica, mentre i corsi di Storia del
pensiero economico sono diventati merce rarissima, e
comunque considerati del tutto secondari, mentre un
approccio umanistico all'economia oggi è completamente
scomparso. La crisi economica ha accelerato il processo. I
giovani scelgono indirizzi di studio che sembrano garantir
loro un accesso al mondo del lavoro non soltanto più
rapidamente, ma con remunerazioni più alte. Che un dentista,
o un ingegnere, guadagnino di più di un professore di
Latino, lo sanno tutti. Ma che in prospettiva i laureati in
Ingegneria o in Medicina siano destinati a svolgere funzioni
direttive è tutto da dimostrare. DAVANTI a questa
situazione, che finalizza gli studi al mercato, che
considera "utile" soltanto il sapere "pratico", e che cerca
di cancellare la dimensione critica, ci sono reazioni; e che
in definitiva fa perdere ai giovani lo stesso piacere dello
studio (studium significa "passione"). Come si fa a formare
un cittadino senza la Storia? si stanno chiedendo ad Harvard
e in altre università statunitensi. Sembra che un moto di
protesta se non ancora di rivolta stia nascendo. Fra
vent'anni saremo tutti ingegneri informatici? Tutti
economisti? E sapremo dare un senso al nostro lavoro senza
avere idea di quel che le grandi civiltà ci hanno
consegnato? Potremo affrontare la vita senza la dimensione
della critica e lo sguardo aperto sui grandi orizzonti? Un
dibattito si è insomma avviato, e non solo negli Usa. In
Francia, Gran Bretagna, Germania e altrove, se ne discute. E
SI COMINCIANO a intravvedere i pericoli di un orientamento
tutto praticistico del sapere. Ma non da noi, ancora sotto
lo choc delle tre I berlusconiane (Industria, Informatica,
Inglese), tutto tace. E dire che da qualche tempo vedo
circolare l'espressione "nuovo umanesimo": articoli, libri,
associazioni, gruppi sulle reti sociali, e così via. Piccole
enclave di irriducibili, di vario orientamento, che
propongono un ritorno, quanto meno simbolico, all'essenza di
quella eccezionale stagione della storia, che ebbe il suo
motore propulsivo in Italia: ma l'Italia d'oggi quella
ufficiale, ma anche nella stragrande maggioranza della sua
popolazione non sembra preoccupata né tanto meno
interessata. È già troppo tardi per avviare un contrattacco?
La laurea perde il suo fascino. In Italia
record di tasse
ItaliaOggi, del 02-07-2013, di Emanuela
Micucci
Gli studenti attratti dall'università
diminuiscono. Eppure, con i laureati lo Stato ci guadagna.
L'ultimo rapporto Osce Education at a Glance 2'13,
pubblicato la scorsa settima (ww.oecd.org), mostra che i
15enni italiani che sperano di conseguire la laurea sono
diminuiti dell'11% tra il 2003 e il 2009, passando dal 52,1%
al 40,9%. Se i più giovani tendono ad avere un livello di istruzione
più elevato rispetto ai concittadini più anziani, appena il
15% dei 25-64enni è laureato rispetto al 32% della media dei
Paesi Ocse. E sono precipitati i tassi d'ingresso agli
atenei: -48% nel solo 2011, contro una media Ocse del 60%.
Sebbene all'inizio degli anni Duemila si fosse verificato un
aumento temporaneo: dal 39% del 2000 al 50% del 2002 e al
56% del 2006. In effetti, a leggere i dati sui livelli di
remunerazione tra laureati e diplomati 25-34enni, il
guadagno dei primi supera quello dei secondi solo del 22%
rispetto al 40% della media internazionale e rispetto a una
differenza del 68% nella fascia di età 55-64 anni (la media
Osce è del 73%). Difficilmente, quindi, i giovani dottori trovano un lavoro
adeguato. Ma anche aggiudicarsi un posto con la laurea in
tempi di crisi non segna grandi differenze rispetto ai
coetanei con il solo diploma: tra il 2008 e il 2011,
infatti, i 25-34enni disoccupati laureati sono aumentati del
2,1%, percentuale quasi in linea con il 2,2% della media
Osce, mentre i diplomati senza lavoro sono cresciuti del
2,9%. E lo Stato non agevola la scelta universitaria. Meno
del 20% degli studenti beneficia di interventi a sostengo
del diritto allo studio: borse di studio, prestiti ci
collocano agli ultimi posti nella classifica Osce. Non solo.
I Paesi che stabiliscono tasse universitarie più alte
dell'Italia, cioè USA, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova
Zelanda sono quelle in cui il finanziamento dell'ateneo è
per lo più privato e i giovani ricorrono ai prestiti d'onore
per coprire le spese universitarie. Mentre in Europa sono solo i Paesi Bassi ad avere tasse
universitarie maggiori dell'Italia. Anzi, negli ultimi anni
nel Belpaese si è assistito a un aumento delle tasse, tanto
che l'Italia è quarta per aumento della percentuale di spesa
privata con +10%, dopo il Portogallo e la Repubblica
Slovacca. Ma per spesa privata complessiva l'Italia è
seconda in Europa, preceduta solo dal Regno Unito sul quale
pesa l'incremento del 40% di tasse universitarie dovuto alla
riforma Cameron. Eppure, il rapporto Osce stima consistenti
benefici sociali del conseguimento di una laurea per lo
Stato: laureato italiano produce benefici pubblici 3,7 volte
maggiori dai costi pubblici, in linea con la media OCSE del
3,9; mentre una donna laureata ne produce 2,4 volte
maggiori, contro una media del 3. Si pensi, ad esempio, ai
maggiori introiti e contributi previdenziali dei laureati. Non solo per gli studiosi dell'Ocse questi benefici
superebbero i costi pubblici dell'istruzione universitaria,
ma anche quelli per l'istruzione primaria e secondaria. Non
trascurabili, poi, i ritorni economici di un dottore: quelli
pubblici sono pari a 169mila dollari per gli uomini e 70mila
per le donne, quelli individuali a 155mila dollari per i
laureati e 77.652 per le laureate. Ciononostante la spesa
pubblica per gli studenti di livello terziario, pari a 9.580
dollari, continua ad essere molto inferiore alla media Osce
di 13.528 dollari. Sebbene negli ultimi 15 anni sia
cresciuta del 39%, registrando un aumento superiore all'area
Osce del 15%. Aumento tuttavia ampiamente riconducibile,
spiega il rapporto, a quello dei finanziamenti provenienti
da fonti private.
Tirocini con credito per i ragazzi delle
quarte superiori
ItaliaOggi, del 02-07-2013, di Alessandra
Ricciardi
L'iniziativa nel decreto lavoro. I sindacati:
servono risorse. Il ministro prende tempo. Sparito il taglio al fondo per la valorizzazione della
professione docente (si veda ItaliaOggi di giovedì scorso),
il decreto legge sul lavoro uscito dal consiglio dei
ministri spinge sui tirocini formativi e sull'istruzione
tecnica e professionale come elementi chiave per contribuire
a dare la spallata alla disoccupazione. Misure che dovranno partire dal prossimo anno scolastico ed
essere pianificate su un arco temporale triennale. A
decidere le modalità operative sarà il ministro
dell'istruzione, Maria Chiara Carrozza, d'intesa con il
ministro dell'economia, Fabrizio Saccomanni. Intanto la
Carrozza ieri ha avuto il primo faccia a faccia ufficiale
con le sigle sindacale dopo il suo insediamento a viale
Trastevere. Davanti alle richieste di dare risposte
concrete, dal reclutamento al contratto, dall'edilizia
scolastica all'autonomia , avanzate dai segretari di
Flc-Cgil, Cisl e Uil scuola, Snals e Gilda, la Carrozza ha
preso tempo, ribadendo la volontà di ridare centralità
all'istruzione ma sottolineando anche la necessità di un
coordinamento e di un consenso generale nell'intero governo
perché dalle parole si possa passare ai fatti. Insomma, un
incontro interlocutorio, per ammissione di tutti. Il decreto lavoro, atteso in parlamento per la conversione,
dà 60 giorni di tempo alla Carrozza per definire i piani di
intervento, di durata triennale, per realizzare «tirocini
formativi in orario extracurriculare presso imprese, altre
strutture produttive di beni e servizi o enti pubblici,
destinati agli studenti della quarta classe delle scuole
secondarie di secondo grado, con priorità per quelli degli
istituti tecnici e degli istituti professionali». I criteri,
dice il decreto Letta, dovranno premiare «l'impegno e il
merito» del ragazzi. Con lo stesso decreto si dovranno
fissare i criteri per attribuire agli studenti tirocinanti i
crediti formativi spendibili nell'anno scolastico
successivo. In materia di istruzione e formazione
professionale è prevista anche una deroga all'articolo 5,
comma 3, lettera c) del decreto n. 87/2010: gli istituti
professionali statali potranno utilizzare, nel primo biennio
e anche nel primo anno del secondo biennio, «spazi di
flessibilità entro il 25% dell'orario annuale delle lezioni
per svolgere percorsi di istruzione e formazione in regime
di sussidiarietà integrativa» ovvero nei corsi regionali (IeFP)che
rilasciano le qualifiche professionali. Gli spazi di
flessibilità dovranno essere utilizzati «nei limiti degli
assetti ordinamentale e delle consistenze di organico
previsti, senza determinare esuberi di personale e ulteriori
oneri per la finanza pubblica». Spiega la relazione tecnica:
«É attualmente già prevista l'utilizzazione, per gli
istituti professionali, di spazi di flessibilità nella
misura del 25% del monte ore annuale (art. 5, co. 3, lett.
c), dpr n. 87/2010), ma solo per il primo biennio. I
percorsi di IeFP hanno invece durata triennale e pertanto,
ai fini di un efficace raccordo con gli stessi e al fine di
costruire percorsi statali che, nei primi tre anni, siano
compatibili con quelli IeFP, occorre garantire la medesima
flessibilità (nella misura del 25%) anche per il primo anno
del secondo biennio degli istituti professionali».
Il rapporto annuale Ocse «Education at a
Glange» punta il dito contro le scarse risorse che il nostro
Stato destina all’educazione
l'Unità, del 01-07-2013, di Benedetto
Vertecchi
Per molti anni la pubblicazione di Education
at a Glance (il rapporto annuale che l’Ocse dedica
all’educazione) è stata l’occasione che ha consentito a
troppi improvvisati soloni, e ad esperti ancora più
improvvisati, di tuonare contro gli sprechi di pubblico
denaro che sarebbero propri del modo di funzionamento delle
nostre scuole. Per altri versi, era sempre l’Ocse a
segnalare, tramite i rapporti periodici relativi alle
rilevazioni Pisa (Programme for International Student
Assessment) che i risultati mediamente conseguiti nelle
prove di apprendimento avevano raggiunto livelli
petroliferi, che ci vedevano solidamente attestati nelle
posizioni di coda per quel che riguardava aspetti
qualificanti del profilo culturale, come la capacità di
comprensione della lettura, le competenze matematiche e
quelle scientifiche. L’effetto combinato dei rilievi critici
presenti in Education at a Glance e dei bollettini di
Caporetto costituiti dai volumi di presentazione e commento
dei dati Pisa è stato di offrire la parvenza di un
fondamento di ricerca alle scelte malthusiane di politica
scolastica che hanno caratterizzato i governi che si sono
succeduti dall’inizio del secolo. In pratica, la scuola è
stata accusata di dilapidare risorse senza assicurare al
Paese la qualità attesa nell’educazione di bambini e ragazzi
(ricordo che le rilevazioni Pisa riguardano i quindicenni
scolarizzati: danno perciò un’idea riassuntiva del
repertorio di cultura che si osserva alla fine
dell’istruzione obbligatoria). L’edizione 2013 (che può
essere scaricata all’indirizzo www.oecd. org), pur
conservando un’impostazione teorica per la quale le scelte
educative sono considerate subalterne rispetto a quelle
economiche, giunge a conclusioni abbastanza diverse. Non
solo non si rilevano più gli sprechi ravvisabili nelle
condizioni di funzionamento in precedenza oggetto di più
severa attenzione (per esempio, il numero complessivo degli
insegnanti o il numero degli allievi per classe), ma si
segnala la limitatezza delle risorse che caratterizza
l’impegno pubblico per l’educazione. ZITTITI I SOLONI Non è un caso che alla pubblicazione del
rapporto 2013 abbia fatto riscontro un silenzio inconsueto
da parte dei soloni prima menzionati, e che, al contrario,
certi rilievi critici siano stati colti e apprezzati proprio
da quanti, in precedenza, rifiutavano associazioni troppo
semplici tra i dati relativi al funzionamento e quelli
descrittivi dei risultati. Non è un buon segnale quello che
deriva da un confronto che si sviluppa sulla conformità o
meno dei dati rispetto alle scelte contingenti di politica
scolastica, perché quella che emerge è solo la povertà delle
interpretazioni. Purtroppo, è quel che accade in Italia. Non
c’è stato quell’impegno per lo sviluppo della ricerca
educativa interna che avrebbe consentito sia di far
corrispondere il governo del sistema a ipotesi di sviluppo
sostenute dalla conoscenza dei fenomeni, sia di trarre reale
vantaggio dalla partecipazione alle rilevazioni e alle
comparazioni internazionali. È quindi accaduto, e continua
ad accadere, che quel poco di elementi descrittivi sul
funzionamento del sistema e sui risultati dell’attività
provengano da progetti che rispondono a logiche piuttosto
diverse da quelle che il nostro sistema scolastico dovrebbe
perseguire. Sono, infatti, soprattutto logiche tese a porre
in evidenza le ricadute in tempi brevi dell’attività
educativa, mentre il nostro sistema scolastico, al pari di
molti altri, è soprattutto orientato (o, almeno, lo era) a
favorire nei processi educativi la comune acquisizione dei
repertori culturali necessari per caratterizzare il profilo
dei cittadini nell’intero corso della vita. All’enfasi posta
sui risultati a breve termine si oppone l’impegno a favorire
processi di adattamento che continuino a dispiegarsi nel
corso della vita. L’aridità di una cultura immiserita dalla
rincorsa di un’utilità immediata finisce col sopraffare la
possibilità di sviluppare un disegno educativo volto ad
accrescere la comprensione. Bisogna superare la tendenza al
manicheismo che il più delle volte si manifesta quando si
affrontano questioni educative. I rapporti dell’Ocse non
sono, in sé, portatori d’interpretazioni, non importa se
positive o negative, ma sono occasioni per avviare una
riflessione sostenuta soprattutto da considerazioni che si
riferiscono ad aspetti specifici del funzionamento e della
cultura delle nostre scuole. Per esempio: si potrebbe
osservare che i livelli degli apprendimenti scientifici sono
migliori quando gli allievi hanno maggiori opportunità di
verificare tramite pratiche di laboratorio (reale, non
virtuale!) ciò che loro si propone di apprendere. In Italia,
è raro che ciò accada. Anzi, in troppe scuole le dotazioni
esistenti sono state dismesse. SCELTE IDEOLOGICHE È
difficile negare che si sia trattato di una scelta
ideologica: non c’era ragione per affermare che i vecchi
laboratori (che potevano essere aggiornati) dovessero essere
sostituiti da soluzioni alle quali si riconoscevano qualità
didattiche non dimostrate, ma accreditate per l’alone di
modernizzazione che le circondava. È evidente che se ci
fosse stata una ricerca interna di qualche dignità non si
sarebbe stati esposti, come si continua a essere, al
condizionamento esercitato da ideologie antagoniste della
cultura dell’educazione. E si avrebbero elementi per
cogliere la continuità tra l’evoluzione in atto nel nostro
sistema educativo e quella che parallelamente si riscontra
altrove. FRANCO ERNESTO Capitali coraggiosi Il salto
ecologico dell’industria chimica. IN QUESTI GIORNI È APPARSA LA NOTIZIA CHE NELL’ULTIMO
VENTENNIO CIRCA UN MILIARDO DI PERSONE NEL MONDO è uscito
dalla condizione di «estrema povertà» (meno di un dollaro al
giorno) e ben due miliardi sono entrate a far parte della
classe media. Quanto dovrebbe ancora crescere la produzione
manifatturiera per sopportare ritmi di sviluppo così
elevati? E quanto potrà essere sostenibile questa crescita,
cioè quanto sarà capace di lasciare alle generazioni future
le risorse di cui avranno bisogno? Potrà questa crescita
garantire ancora emancipazione sociale? Domande
difficilissime, alle quali l’Unione europea e i governi
nazionali sono chiamati a dare risposte in tempi brevi. Lo
sviluppo sostenibile è una parte cogente dei trattati che
rappresentano la Costituzione europea. Ma negli anni
passati, e ancora adesso, qualcuno predica la folle teoria
secondo cui la manifattura dovrebbe emigrare dall’Europa (e
magari dal mondo sviluppato!) per lasciare spazio ai soli
servizi, alla cultura, al turismo, all’assistenza. Tutte
attività nobili e ad alto valore aggiunto, certo, ma che, da
sole, senza le fabbriche, significano povertà garantita. Un
esempio, in Italia e in Europa, di crescita sostenibile
arriva dall’industria chimica, che rappresenta
un’avanguardia rispetto ad altri comparti manifatturieri,
come la meccanica e la siderurgia, che invece sono più
arretrati (tutti ricordano lo sciagurato caso dell’Ilva di
Taranto, ma purtroppo ce ne sono altri). La chimica italiana
genera 53 miliardi di fatturato, con un valore aggiunto per
9,7 miliardi. In Italia ci sono 1300 imprese chimiche, 800
delle quali investono costantemente in attività di ricerca,
sviluppo, innovazione su vari livelli. Questi investimenti
fanno sì che la chimica italiana abbia oggi un valore
aggiunto per addetto del 50% superiore alla media italiana.
Il prodotto chimico può essere considerato il bene
intermedio per eccellenza: il 72% della produzione viene
utilizzato da altri settori industriali. Questo significa
che l’innovazione di prodotto o di processo creata dalla
chimica si trasferisce ai settori utilizzatori, che possono
così offrire un prodotto migliore e più economico rispetto
alla concorrenza straniera, spesso avvantaggiata, purtroppo,
dal basso costo del lavoro e da oneri inferiori per la
tutela di salute, sicurezza e ambiente. Un altro dato
importante riguarda la chimica sostenibile e la chimica da
biomasse, settori in cui la chimica italiana è sulla
frontiera tecnologica e ha progetti industriali tra i più
rilevanti al mondo. Per quanto riguarda l’inquinamento, dal
1989 a oggi (gli anni Ottanta appartengono ancora all’era in
cui, non a torto, la chimica era ricordata come industria
«inquinatrice») le emissioni complessive in aria
dell’industria chimica sono diminuite di oltre il 90%.
Inoltre, come ricordato dal presidente di Federchimica
Cesare Puccioni, nel corso dell’ultima assemblea di questa
associazione industriale (Milano, 24 giugno scorso) la
chimica in Italia ha ridotto le emissioni di gas serra del
67% rispetto al 1990, superando già l’ambizioso obiettivo
fissato dall’Unione europea per il 2020. La chimica italiana
è seconda solo alla Germania per efficienza energetica, e
l’Europa è leader a livello mondiale. «Ancora più importanti
dice Puccioni sono le riduzioni di emissioni di gas serra
indotte da prodotti chimici. Questi fanno risparmiare in
media oltre due volte le emissioni di gas serra, e si potrà
salire a quattro volte nel 2030. In concreto, la chimica
oggi riesce ad evitare all’Italia emissioni di gas serra
pari a quelle derivanti dalla circolazione di 18 milioni di
automobili». Inoltre, il settore chimico è ampiamente
coinvolto nelle attività di bonifica. Certo, molti
stabilimenti insistono su aree caratterizzate da
contaminazioni lontane nel tempo e originate prima di ogni
normativa ambientale. Ma oggi, racconta Puccioni (e c’è
motivo di credergli, vista la collaborazione stretta con
Legambiente), «si stanno adottando nuove tecniche di
bonifica che permettono di trattare terreni e acque
contaminate direttamente nel sito in cui si trovano, per
evitare i notevoli impatti ambientali del trasporto e del
loro conferimento in impianti di smaltimento e discariche».
L'ipotesi si fa sempre più concreta.
Potrebbero essere tagliati personale all'estero, distacchi
per i collaboratori dei dirigenti scolastici e per
l'autonomia, organici delle segreterie scolastiche.
La Tecnica della Scuola, del 30-06-2013, di
R.P.
L’ipotesi di una nuova “spending review”
estiva sta tornando alla ribalta in queste ore e, a pensarci
bene, non sarebbe neppure una cosa tanto strana. Se non si possono aumentare le tasse, arrivate già a livelli
difficilmente sopportabili, se si vuole cancellare l’Imu o
perlomeno rinviarla di alcuni mesi, se non si intende
ritoccare l’Iva per evitare ulteriori effetti recessivi e se
neppure si vuole bloccare subito l’acquisto degli F35 (un
miliardo di euro è la spesa prevista per i primi tre aerei)
è ovvio che non ci sono molte altre strade: bisogna rivedere
la spesa pubblica, anche perché – ad essere pratici –
bisogna ammettere che la stessa lotta all’evasione non dà
risultati immediati. E invece le casse dello Stato hanno bisogno immediato (e
continuo) di liquidità per poter pagare gli interessi del
debito pubblico (a meno di non pensare che ad un certo punto
lo Stato dica ai detentori di buoni del tesoro o di altri
titoli: “Gli interessi ve li pagheremo appena possibile”). A questo punto, nel caso di una manovra sulla spesa, anche
la scuola dovrà, inevitabilmente, fare la propria parte. Ma come ? Il problema è che i margini sono ormai ridottissimi perché
il fondo del barile è già stato raschiato quasi tutto. Qualche piccolo rimasuglio c’è ancora, ma è davvero poca
cosa. Vediamo. La voce dalla quale si potrebbe ancora ricavare qualche
decina di milioni di euro riguarda il personale all’estero
che era già stato ridotto dalla spending review dello scorso
anno ma che potrebbe essere ulteriormente ridimensionato. Poi ci sono i distacchi per l’autonomia (ancora poche
centinaia di unità): quelli presso gli USR sono già stati
dimezzati, mentre presso il Ministero sono ancora al livello
di un paio di anni fa. Ma, soprattutto, ci sono i distacchi dei collaboratori del
dirigente che in una prima versione della spending review
del 2012 erano stati ampiamente ridotti ma che erano stati
salvati con un emendamento in extremis in fase di
conversione in legge del provvedimento. E, infine, ci potrebbe essere anche una revisione degli
organici del personale ATA: nell’anno in corso le scuole
oggetto di dimensionamento hanno ottenuto qualche posto con
l’organico di fatto; per il 2013/2014 potrebbe esserci un
giro di vite per impedire qualunque forma di ampliamento
dell’organico di diritto. E c’è chi teme che possano esserci restrizioni anche sullo
stesso organico di sostegno; è vero che in caso di ricorsi
da parte delle famiglie, il Miur sarebbe costretto a
riaprire i cordoni della borsa, ma prima che i ricorsi
vengano accolti passerebbero comunque alcuni mesi di
…”risparmio assicurato”. Per ora si tratta solo di illazioni e ipotesi, ma è bene che
la scuola si prepari. D’altronde la storia di questi anni dimostra che tutte le
manovre restrittive riguardanti il sistema di istruzione
sono state approvate durante l’estate.
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D’Alia: «Ecco le soluzioni per precari ed
esuberi Pa»
«In tre anni bisogna chiudere l’arretrato e
regolarizzare i vincitori dei concorsi»«Prepensionamento
possibile per il 40% delle 7.000 eccedenze, il resto in
mobilità»
Il Messaggero, del 30-06-2013, di Barbara
Corrao
IMMINENTE CONVOCAZIONE DI SINDACATI E ARAN
PER RIDISCUTERE LA PARTE NORMATIVA DEI CONTRATTI
L’INTERVISTA ROMA «I dipendenti pubblici hanno dato il loro contributo
alla spending review e alla riduzione della spesa pubblica,
è doveroso riconoscerlo ma il blocco delle retribuzioni nel
2014 non poteva essere evitato. Alcuni passi avanti ora li
possiamo fare». Il ministro della Funzione Pubblica
Gianpiero D’Alia si muove, come gli altri ministri del
governo Letta, lungo un sentiero stretto di risorse scarse.
Ma, in questa intervista al Messaggero, traccia il cammino
dei prossimi mesi e indica le tappe di un percorso possibile
e che sarà intenso da qui all’autunno. Dopo le misure di
sostegno sul lavoro privato, afferma, ora è il momento del
lavoro pubblico: «Nel giro di poche settimane il governo
varerà un proposta organica per chiudere definitivamente,
nell’arco di tre anni, con l’anomalia del precariato e
recuperare al normale reclutamento i vincitori dei concorsi
che è sono mai stati immessi in servizio». Al via la
convocazione di sindacati e Aran per l’inizio del negoziato
sulla parte normativa dei contratti. Pressing sui ministeri
per le piante organiche e, per la mobilità, dialogo aperto
con i sindacati sapendo però che «una decisione va presa,
rinviare non serve». Il blocco delle retribuzioni è stato esteso al 2014. Ancora
sacrifici per i dipendenti pubblici, quando finirà? «Non c’è alcuna volontà punitiva da parte del governo e
credo sia da rivedere una certa criminalizzazione dei
dipendenti pubblici che c’è stata in passato. Bisogna dare
atto al pubblico impiego di avere contribuito alla
razionalizzazione e al contenimento della spesa pubblica con
una contrazione di 300.000 unità e retribuzioni ormai
allineate a quelle del settore privato. Tuttavia, il blocco
non si poteva evitare perché per riaprire i contratti
servono 7 miliardi e non sono nella nostra disponibilità. La
situazione è oggettivamente difficile. Ma alcuni passi in
avanti li possiamo fare». Quali? «Prima dell’estate intendo convocare l’Aran e i sindacati
per aprire la contrattazione sulla parte normativa dei
contratti. Su questo vi è un ampio sostegno politico nella
maggioranza e anzi vi è un invito esplicito a farlo nel
parere con cui il parlamento ha dato il consenso al blocco
delle retribuzioni». E le risorse? Che spazi ci sono? «Penso che si possa sostenere e ampliare la contrattazione
di secondo livello. Lì è possibile recuperare risorse, dalle
procedure di spending review, per migliorare la produttività
partendo dalle amministrazioni centrali e poi allargando le
intese a livello locale. Inoltre è fondamentale riavviare un
circuito virtuoso di relazioni sindacali che il blocco dei
contratti, di fatto, ha finito per interrompere. Un percorso
di confronto e di consenso è necessario per attuare le
riforme». L’altro grande capitolo aperto è quello dei 250.000 precari.
Tolti i 130.000 della scuola, che fine faranno gli altri? «Il governo è già intervenuto con una proroga a fine anno.
Ora, con un confronto ampio con Parlamento, autonomie locali
e organizzazioni sindacali, dobbiamo risolvere
definitivamente, nell’arco di 3 anni, il problema del
precariato e, con la graduale ripresa del turn over,
recuperare i vincitori dei concorsi che non sono stati mai
immessi in servizio. Ne abbiamo già discusso nell’ultima
riunione del consiglio dei ministri. Sto lavorando ad una
proposta che il governo varerà nel giro di poche settimane e
comunque prima della chiusura estiva o si rischia di non
riuscire ad attuare le procedure entro fine anno». E la questione delle piante organiche nei ministeri? Ha
fatto passi avanti? «I ministeri dell’Economia, Università e Ricerca, Istruzione
e Presidenza del Consiglio sono più avanti. Le altre
amministrazioni stanno avviando la riorganizzazione e devono
allineare i servizi al taglio delle piante organiche. Certo,
il periodo delle elezioni e la nomina del nuovo governo
hanno in parte rallentato il processo. Ora si riparte. Due
settimane fa ho sollecitato i ministeri ad inviare le loro
risposte. Intanto ho sospeso le nomine dei dirigenti che la
spending review impone di ridurre del 20%. Quindi le
amministrazioni sanno che se non andranno avanti con il
lavoro, le nomine non arriveranno». Mobilità e piante organiche nella Pa. A che punto siamo? «Abbiamo oltre 7.000 esuberi rispetto alle nuove piante
organiche. Il 40% sarà assorbito attraverso i
prepensionamenti, il resto attraverso la mobilità che è
volontaria entro un certo limite perché chi non accetta di
essere ricollocato in altre amministrazioni, si avvia poi
verso la graduale procedura di uscita. Stiamo lavorando per
definire criteri di mobilità condivisi da sindacati e
dipendenti, ma poi bisogna decidere». Le semplificazioni da poco varate porteranno nuovi esuberi? «Il decreto del fare e il disegno di legge sulle
semplificazioni sono prioritariamente mirati a ridurre i
carico dei costi per le imprese: circa 500 milioni l’anno se
il decreto sarà integralmente attuato e 3 miliardi di
risorse in più per investimenti per effetto del Ddl. Ci
auguriamo che siano approvati in Parlamento tra luglio e
settembre».
Incentivi per giovani, ultracinquantenni,
disoccupati da oltre 12 mesi e disabili. Detassazione e fino
a 650 euro al mese per chi assume a tempo indeterminato gli
under 30 e mini-assegno agli studenti per il tirocinio.
Rassegna.it, del 27-06-2013
Via libera del Consiglio dei Ministri al
pacchetto lavoro. Il governo Letta ha varato un decreto che
prevede incentivi per chi assume a tempo indeterminato i
giovani, agevolazioni per i soggetti con più di
cinquant'anni di età, disoccupati da oltre dodici mesi e
disabili. Per questi provvedimenti sono stati
complessivamente stanziati 1,5 miliardi di euro. Ecco cosa prevede il decreto legge:
L'incentivo è istituito in via sperimentale
ed è destinato ai giovani di età compresa fra i 18 e i 29
anni. L'incentivo, si legge nel decreto, verrà corrisposto
"per un periodo di 12 mesi ed entro i limiti di 650 euro
mensili per lavoratore nel caso di trasformazione a tempo
indeterminato". Per poterne usufruire i giovani devono
rientrare in queste condizioni: essere privi di impiego
regolarmente retribuito da almeno sei mesi; essere privi di
un diploma di scuola media superiore o professionale, vivano
soli con una o più persone a carico.
Il bonus
viene creato, si legge, "al fine di promuovere forme di
occupazione
stabile di giovani" e "in attesa dell'adozione di ulteriori
misure da realizzare anche attraverso il ricorso alle
risorse della nuova programmazione comunitaria 2014-2020".
L'assunzione a tempo indeterminato di giovani tra 18 e 29
anni determina tra l'altro, “l'azzeramento totale dei
contributi per i primi 18 mesi' e per “12 mesi” nei casi di
trasformazione in tempo indeterminato.
Le
risorse, in attesa dell'adozione
di ulteriori misure da realizzare anche attraverso il
ricorso alle risorse della nuova programmazione comunitaria
2014-2020, ammontano complessivamente a 800 milioni di euro.
Le assunzioni a valere sulle risorse stanziate dal decreto
"devono comportare un incremento occupazionale netto e
devono essere effettuate a decorrere dal giorno successivo
alla data di entrata in vigore del presente decreto e non
oltre il 30 giugno 2015", si legge nella bozza entrata in
Consiglio dei Ministri.
Le
risorse ammontano per il Mezzogiorno
a 100 milioni per il 2013, 150 per il 2014, 150 per il 2015,
100 per il 2016. Per le altre Regioni 48 per il 2013, 98 per
il 2014, 98 per il 2015, 50 per il 2016. L'importo
complessivo destinato all'occupazione ammonterebbero a 1,5
miliardi.
L'incentivo è pari al 33% della retribuzione
mensile lorda complessiva, per un periodo di 18 mesi, ed è
corrisposto unicamente mediante conguaglio nelle denunce
contributive mensili del periodo di riferimento, fatte salve
le diverse regole vigenti per il versamento dei
contributi in agricoltura. Il valore mensile dell'incentivo
non può comunque superare l'importo di 650 euro per
lavoratore.
L'Inps
provvederà al monitoraggio
della spesa per la stabilizzazione dei giovani prevista dal
decreto lavoro, inviando relazioni trimestrali al ministero
del Lavoro e a quello dell'Economia. "In caso di
insufficienza delle risorse - si legge nel documento -
l'Inps ne fornisce immediata comunicazione ed esaurisce
le domande privilegiando quelle con data di assunzione più
risalente". Entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore
della disposizione, l'Inps adeguerà le proprie procedure
informatizzate allo scopo di ricevere le dichiarazioni
telematiche di ammissione all'incentivo e di consentire la
fruizione dell'incentivo stesso. Entro il medesimo termine
l'Inps, con propria circolare, disciplinerà le modalità
attuative dell'incentivo.
Non solo
giovani.
Il decreto legge sul lavoro prevede agevolazioni anche per i
soggetti con più di cinquant'anni di età, disoccupati da
oltre dodici mesi. In particolare, si legge nel
provvedimento, in via sperimentale per gli anni 2013, 2014 e
2015 è istituito presso il Ministero del lavoro e delle
politiche sociali un fondo con dotazione di 2 milioni di
euro annui per ciascuno degli anni 2013, 2014, 2015, volto a
consentire alle amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, "di corrispondere le indennità per la
partecipazione ai tirocini formativi". Nel pacchetto lavoro, poi, ci sono incentivi
per quegli imprenditori che assumono lavoratori disoccupati
in Aspi. L'incentivo alle imprese sarà finanziato con la
quota parte dell'Aspi non utilizzato dal lavoratore assunto
a tempo indeterminato. Saranno inoltre estese ai co.co.pro.
e alle altre categorie dei lavoratori le norme contro le
dimissioni in bianco.
Ad ogni
studente universitario
che abbia concluso gli esami, abbia una buona media e
rientri sotto una soglia del redditometro, tra l'altro, lo
Stato potrebbe riconoscere una specie di mini-assegno di 200
euro al mese qualora svolga un tirocinio della durata minima
di 3 mesi con enti pubblici o privati. Il Governo ha stanziato infine 22 milioni di euro per
incentivi all'assunzione di
disabili.
Una vecchia direttiva «limita» la presenza di
docenti solo ai casi più gravi. La ministra Carrozza: un
equivoco, inquadreremo 30 mila precari
L’Unità,
del 27-06-2013, di Luciana Cimino
Il primo grattacapo per il ministro
dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza arriva dalla questione
dei docenti di sostegno. A fine anno aveva fatto discutere
la direttiva ministeriale emanata dall’allora ministro
Profumo che forniva indicazioni operative e strumenti
d’intervento per gli alunni con Bes (bisogni educativi
speciali) seguita dalla circolare esplicativa n. 8 del 6
marzo 2013. Questa normativa si inseriva in un quadro di
continui tagli al personale di sostegno sui quali in passato
si era espressa anche la Corte Costituzionale dichiarando
illegittima la norma che poneva un limite per le cattedre in
deroga. A titolo d’esempio nelle scuole elementari di Roma e
provincia gli alunni diversamente abili iscritti all’anno
scolastico 2013-14 saranno 7.302, i docenti di sostegno
1.989, con un rapporto di un insegnante ogni 4 alunni.
L’attuale titolare del Miur ha deciso di rimettere mano alla
direttiva. Se applicata, gli insegnanti di sostegno
specializzati (cioè quelli che hanno seguito corsi mirati)
potrebbero essere assegnati solo agli alunni con disabilità
gravi. Nella categoria dei Bes rientrano i Dsa (disturbi
specifici di apprendimento), gli stranieri e chi proviene da
situazioni familiari e sociali svantaggiate. Il docente di
sostegno sarà chiamato ad intervenire solo nell’ipotesi di
una disabilità legata ad una menomazione che crea handicap.
La paura degli insegnanti di sostegno è di non essere dunque
più necessari perché sostituiti dai docenti curricolari, non
specializzati. Lo stesso timore delle associazioni dei
genitori che leggono il rischio che i bambini certificati
come «lievi» rimangano senza sostegno, per di più in classi
di 30 alunni dove è già difficile per l’insegnante
curricolare prestare la dovuta attenzione a ognuno.
L’associazione Genitori Tosti, formata da persone che hanno
figli con disabilità, ha già scritto una lettera al
Ministro: «Ricordiamo scrivono che l’inserimento scolastico
rappresenta il principio della partecipazione alla vita
sociale di ogni bambino, in difficoltà o meno. La direttiva
del dicembre 2012 rappresenta l’ennesimo episodio di
gestione poco oculata della scuola pubblica, con particolare
gravità essendo coinvolta una platea di persone che sommano
ad una condizione complessa un delicato momento della
propria crescita». Ieri un presidio di insegnanti precari e
genitori si è svolto sotto il Ministero di viale Trastevere.
Il 19 giugno scorso, invece, il Comitato Docenti di Sostegno
Precari si era dati appuntamento a Torino: «Come genitori e
docenti avevano dichiarato siamo preoccupati per questi
interventi che mettono in discussione il diritto allo studio
dei figli-alunni in situazione di handicap». Parla di
«tentativi continui di destabilizzare la scuola pubblica» il
Ciis (Coordinamento Italiano Insegnanti sostegno) mentre uno
dei sindacati di categoria, l’Anief, avvisa Viale
Trastevere: «non è possibile utilizzare la nuova normativa
sui Bes per operare un taglio di 11mila docenti. Affidare un
ragazzo con problemi di apprendimento, seppure non gravi, ad
un insegnante non specializzato comporta un’operazione
illegittima che i genitori possono facilmente impugnare». La
Flc Cgil ha invece chiesto un tavolo urgente al ministro.
«La riforma dei Bes in teoria è una cosa buona dice
Federica, insegnante di sostegno in una scuola media della
Capitale ma non si deve risolvere in un taglio del sostegno,
il sottosegretario Rossi Doria ci ha rassicurato che così
non sarà. Intanto ci riceveranno ancora a settembre». Dal
Miur intanto dicono che è un «equivoco, nessuno ha mai
pensato di tagliare niente, tutto questo è nato dalla
cattiva interpretazione di alcune parole del Ministro». Gli
11mila posti rimarrebbero cattedre in deroga, da assegnare a
personale precario, a fronte della trasformazione di 90mila
posti di sostegno in organico di diritto. Lo stesso ministro
Carrozza aveva nei giorni scorsi ribadito: «Il piano
triennale di immissione in ruolo prevede anche misure,
compatibilmente con le risorse disponibili, per
l’inquadramento in ruolo dei circa 30mila docenti di
sostegno che vengono utilizzati annualmente».
Se i Paesi del nord Europa non avessero
capito l’importanza della formazione continua per seguire i
cambiamenti e se non avessero dimezzato in cent’anni, da
3000 a 1500 ore, gli orari annui di lavoro, oggi avrebbero
tutti tassi di disoccupazione come quelli italiani
L’Unità,
del 27-06-2013, di Nicola Cacace
Per capire le soddisfazioni contenute insieme
alle proteste di chi voleva di più dal pacchetto lavoro,
dobbiamo guardare i dati dell’occupazione e le risorse
limitate. Confrontando il tasso di occupazione italiano con
quello medio europeo (il 56% contro il 64%) significa che in
Italia ci sono tre milioni di occupati in meno rispetto
all’Europa. È evidente che rispetto a questi dati i
provvedimenti Letta-Giovannini sono un pannicello caldo,
forse l’unico oggi possibile, limitati a un miliardo di euro
per sgravi fiscali per giovani sino a 29 anni, assunti in
aggiunta agli occupati in essere, oltre ad una serie di
provvedimenti «post-Fornero» come la riduzione degli
intervalli per passare da un contratto a tempo determinato
ad un altro, dai 2-3 mesi di oggi ai 10-20 giorni stabiliti
dalle nuove normative. Intanto va detto che le nuove norme
non peggiorano l’esistente come spesso è successo in
passato, ad esempio con la defiscalizzazione degli
straordinari considerati in tutta Europa norma anti
occupazione e tuttora valida solo in Italia. Se però
vogliamo lavorare per un futuro meno nero dell’attuale
quadro occupazionale italiano, allora dobbiamo alzare un po’
lo sguardo per imparare dalle buone pratiche straniere, che
non sono poche, maturate in Paesi culturalmente più avanzati
di noi. Faccio qui solo due esempi di comportamenti pro
occupazione: la formazione continua e l’orario di lavoro.
Quasi negli stessi mesi in cui in Italia si firmava (con
l’eccezione della Cgil) un importante accordo
interconfederale sulla produttività, in Francia se ne
firmava uno analogo ma distante anni luce dal nostro. Il
confronto tra l’accordo italiano e l’Accordfrancese è
impietoso. Mentre in entrambi è previsto l’intervento dello
Stato per finanziare i bonus di produttività aziendali,
nell’Accord sono individuati molti strumenti per la
competitività, tra cui un Comptepersonneldeformation(da 20 a
120 ore annue di formazione obbligatoria per tutti i
lavoratori) e la presenza di rappresentati del personale nei
consigli d’amministrazione della grandi aziende, sul modello
della cogestione tedesca. Nell’accordo italiano, dove si
parla di produttività ma mai del come realizzarla, si
menziona solo una serie di deroghe possibili ai contratti
nazionali, in materie delicate come orari, salari, turni,
mobilità professionale e geografica, senza alcuna garanzia
di vantaggi certi conseguenti alla crescita di produttività.
L’altro esempio è quello relativo alla Germania, che,
sostituendo gli straordinari con una banca delle ore e
utilizzando contratti di solidarietà a orario ridotto al
posto dei licenziamenti, hanno conseguito un doppio
miracolo, nel 2009 col Pil calato del 5,5% l’occupazione
rimase stabile, oggi, dopo 10 anni di crescita del Pil
inferiore all’1% medio, hanno un tasso di occupazione
superiore al 70% ed una disoccupazione giovanile del 7,5%.
Se l’Italia vuole invertire la disastrosa rotta in atto,
deve usare orizzonti più ampi di quelli che hanno guidato
Letta e Giovannini, rompendo antichi tabù antistorici come
quelli della formazione e dell’orario. Se i Paesi del nord
Europa non avessero capito l’importanza della formazione
continua per seguire i cambiamenti e se non avessero
dimezzato in cent’anni, da 3000 a 1500 ore, gli orari annui
di lavoro, oggi avrebbero tutti tassi di disoccupazione come
quelli italiani.
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L'estate porterà 15 mila nuove assunzioni
La promessa. Nel triennio successivo, liberi
44 mila posti
Italia Oggi, del 25-06-2013, di Antimo Di
Geronimo Entro l'estate il ministero dell'istruzione intende
immettere in ruolo 15mila precari tra docenti e Ata, contro
i 26mila dell'anno scorso e i 69mila del 2011/2012. Il
numero limitato di assunzioni è dovuto all'incidenza
preponderante dell'ultima riforma del sistema pensionistico
sulle cessazioni dal servizio al prossimo 1° settembre 2013.
É quanto emerge dalla lettura combinata della relazione
tenuta dal ministro dell'istruzione, Maria Chiara Carrozza,
davanti alle commissioni di camera e senato il 6 giugno
scorso e da una risposta ad un'interrogazione parlamentare
fornita, sempre dalla titolare del dicastero di viale
Trastevere, il 19 giugno alla camera. In particolare, le stime del turn-over del personale, per i
prossimi anni scolastici, sono di circa 44mila unità di
personale docente e Ata. Da tali dati emerge che l'entità
del personale che potrà essere assunto, in conseguenza
diretta del turnover, ammonta complessivamente a circa
59mila unità nel prossimo quadriennio. Per questo motivo è
allo studio la definizione di un piano triennale di
immissione in ruolo, 2014/2017, del personale precario, che
dovrebbe consentire di ridurre il numero di soggetti che
ancora prestano servizio nella scuola con contratti a tempo
determinato. E al tempo stesso introdurre, gradualmente e
compatibilmente con le risorse disponibili, l'organico
funzionale del sostegno e raggiungere la sostanziale
equivalenza tra organico di diritto e di fatto nel sostegno,
con l'inquadramento in ruolo dei circa 30 mila docenti di
sostegno. Che vengono utilizzati annualmente e, in prospettiva, avere
l'organico funzionale come nuovo metodo di gestione degli
organici. Le 15mila immissioni in ruolo previste per
quest'anno derivano dal piano triennale di assunzioni
disposto dall'articolo, comma 17 del decreto legge 70/2011. Piano con il quale sono stati coperti i posti vacanti e
disponibili a seguito del turn-over nel triennio di
riferimento, con l'aggiunta di quelli che erano
precedentemente vacanti e disponibili e di cui non era stata
data l'autorizzazione alla copertura con contratti a tempo
indeterminato. Nulla è cambiato per quanto riguarda i
criteri di scorrimento delle graduatorie dalle quali saranno
tratti gli aventi titolo alle assunzioni. Pertanto, il 50% sarà tratta prioritariamente dalle
graduatorie dei concorsi ordinari e il rimanente 50% dalle
graduatorie a esaurimento, fatte salve le quote riservate
agli invalidi e la priorità nella scelta della sede ai
portatori di handicap e ai loro assistenti.
Dirottavano finanziamenti verso imprese
amiche. Funzionari indagati
Corriere
della Sera.it, del 25-06-2013, di
Ilaria
Sacchettoni
ROMA — «Da anni opera al ministero della
Ricerca un'ampia associazione tra persone che, in concorso
fra loro, violano e forzano le norme per convenienze
personali, proprie o di imprese collegate. Leggete e fate
giustizia». Così iniziava il dossier anonimo (firmato da un
gruppo di lavoratori dell'Idi, l'ospedale al centro di
un'inchiesta per bancarotta) che ora ha portato,
indirettamente, alla scoperta di una nuova «cricca». Un
pugno di funzionari e imprenditori che, con un piede nelle
istituzioni e l'altro nel mondo delle consulenze aziendali,
dirotta fondi comunitari su poche (e paganti) imprese
fortunate. Un sistema quasi altrettanto «gelatinoso» di quello che per
un decennio lucrò sulle grandi opere dall'interno del
Provveditorato stesso (al tempo guidato da Angelo Balducci)
e che oggi sta arricchendo funzionari ministeriali
contornati da consulenti e imprenditori navigati. Nel
dossier oltre ai nomi e ai singoli curricula, sono indicati
anche i progetti «inquinati» eppure premiati. Si legge così
che denaro destinato alle aree disagiate finisce nelle
disponibilità di cooperative venete e imprese romane. Le
prime iscrizioni sul registro degli indagati sono già state
notificate dal pm Roberto Felici (lo stesso che ha lavorato
alle vicende della cricca di Balducci) che lo scorso
dicembre aveva indagato per truffa Ilaria Sbressa, autrice
di un programma multimediale copiato online ma «premiato»
dal ministero con 730 mila euro di finanziamento. E se il contenuto del dossier fosse interamente confermato,
allora gli indagati per reati che vanno dalla truffa
all'abuso d'ufficio e alla corruzione salirebbero a oltre
una decina. In qualche caso si tratta di consulenti
eternamente sulla breccia a dispetto di altre inchieste. Gli
investigatori stanno approfondendo, per esempio, il ruolo di
una cooperativa di Vibo Valentia che ha svolto un ruolo
nella truffa delle bonifiche fantasma a Grado (su cui ha
indagato la procura locale) e in seguito ha gestito per
l'Idi un finanziamento ministeriale in odore di raggiro
(tanto che il ministero ha già inviato una lettera per la
restituzione di circa cinque milioni di euro erogati). Anche
qui si tratterebbe di un gioco di sponda fra funzionari
pubblici e imprenditori con l'aiuto di consulenti esterni.
Un livello intermedio di funzionari ministeriali che, negli
anni, ha acquisito pratica e competenze nella richiesta di
accesso ai fondi europei (la prassi per accedere ai
cosiddetti piani operativi nazionali è tradizionalmente
complessa) e ora è in grado di compilare i formulari ed
eventualmente «aggiustarli». La svolta degli investigatori
coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Caporale
arriva 6 mesi dopo lo scandalo del ministero
dell'Agricoltura, dove un pugno di funzionari infedeli,
d'accordo con consulenti e imprenditori disposti a pagare
opportune «dazioni» aveva inquinato il sistema di accesso
«alla spesa pubblica». L'ex ministro Francesco Profumo aveva
annunciato un'inchiesta interna su quei funzionari
inamovibili che da anni si occupano di un settore delicato e
strategico come i bandi per l'assegnazione dei fondi
europei. Ieri l'attuale ministro Maria Chiara Carrozza ha
annunciato «massima trasparenza e disponibilità, ho fiducia
nella giustizia».
Cresce la protesta per la mancanza di risorse
e criteri, spunta l'ipotesi di uno slittamento
Italia Oggi, del 25-06-2013, di Alessandra
Ricciardi
A tutti i docenti capita di dover gestire
classi con alunni iperattivi o che non spiccicano una parola
di italiano. Alunni che non necessitano del supporto di un
docente di sostegno, visto che non si tratta assolutamente
di difficoltà mediche certificate, ma di un piano
personalizzato di studi sì. Da quest'anno le esigenze degli alunni devono essere tutte
schedate per rispondere alla rilevazione dei Bes, i bisogni
educativi speciali, strumentali al piano per l'inclusione e
alla successiva elaborazione di piani personalizzati che
dovranno coinvolgere il personale scolastico a vario modo in
servizio, dai docenti di sostegno, se ci sono, agli Ata. La
schedatura dovrà indicare le disabilità certificate, i
disturbi evolutivi specifici, come i disturbi
dell'apprendimento, ma anche eventuali situazioni di
svantaggio, da quella sociale ed economica a quella
linguistica e culturale, dal disagio del comportamento a
quello relazionale. A doverlo fare sono i collegi dei
docenti che, in base a quanto previsto dalla circolare
ministeriale n.8 del marzo scorso, e sulla scorta del lavoro
fatto da un gruppo interno ad hoc, dovranno stilare il piano
per l'inclusione e trasmetterlo alle direzioni regionali
entro il 30 giugno. Ma nelle scuole la protesta contro
questo nuovo adempimento sta crescendo. I docenti non
contestano l'opportunità di interventi didattici
personalizzati (da tempo già realtà) ma che si porti a
regime un sistema senza prevedere a monte le risorse
aggiuntive necessarie. Tanto che la stessa circolare
ministeriale prevede che il piano venga aggiornato a
settembre in base ai fondi effettivamente assegnati alle
scuole. Ma c'è anche una carenza di indicazioni, è la
lamentela che sta prendendo piede via web. Come si fa per
esempio a classificare il disagio socioeconomico? Basta la
sola segnalazione dei servizi sociali? E quando l'avere una
famiglia di origini straniere costituisce una difficoltà da
certificare? Ancora una volta, è l'accusa, i docenti sono
lasciati da soli e si rischia di tramutare una opportunità
nell'ennesimo adempimento burocratico. Sul piede di guerra
anche alcune associazioni di genitori, che temono che con i
Bes vengano distolte attenzioni agli alunni con disabilità.
Domani i vertici del ministero incontreranno i sindacati che
hanno chiesto chiarimenti e attività di accompagnamento e di
formazione adeguate per i docenti. La Flc-Cgil ha proposto
nel frattempo lo slittamento della scadenza del 30 giugno:
per dare tempo alle scuole di organizzarsi, magari avendo
anche un anno di prova per sperimentare le migliori
pratiche. La Uil scuola torna invece a battere sulla
necessità di introdurre l'organico funzionale. Lo
slittamento della scadenza di giugno è stato già deciso in
autonomia dal Piemonte: il piano può essere trasmesso entro
fine settembre. Mentre l'Emilia Romagna ha ricordato alle
proprie scuole che una sorta di piano per l'inclusione era
già previsto dalla legge n. 517/1977: nulla di nuovo sotto
il sole
L'andamento rilevato dai ricercatori del pisa:
innovare la valutazione
Italia Oggi, del 25-06-2013, di Emanuela
Micucci
Femmina, status sociale medio alto, buona
socializzazione. É l'identikit dello studente che riceve dai
professori voti più alti di quello che meriterebbe. A
disegnarlo è un recente Focus di PISA (n.26 www.oecd.org/pisa/pisainfocus),
che ha rilevato la tendenza dei docenti è assegnare voti più
alti alle ragazze e agli studenti con condizioni
socioeconomiche più elevate rispetto ai ragazzi e agli
alunni svantaggiati, nonostante vadano ugualmente bene a
scuola e abbiano atteggiamenti positivi simili verso
l'apprendimento. Una tendenza tanto diffusa dappertutto. E
che premia un profilo di studente simile all'alunno ideale
delineato da altri Focus. Eppure, la raccomandazione dei ricercatori PISA è promuovere
pratiche di valutazione che premino attitudini e
comportamenti che aiutano gli alunni a imparare, separando
conoscenze da comportamento. Anche perché, spiegano, «gli
studenti spesso basano le proprie aspettative sui loro studi
e sulle loro carriera lavorativa proprio sui voti scolastici
e gli stessi sistemi scolastici usano i voti per orientare e
selezionare verso corsi di studio superiori e per entrare
all'università». Così, analizzando i 17 Paesi partecipanti a
PISA 2009, hanno cercato di individuare come i diversi
sistemi educativi usano i voti e se li attribuiscono
correttamente. I risultati sono preoccupanti, appunto. Se il
95% degli studenti, tranne i coreani, frequenta istituti che
misurano i loro apprendimenti con prove preparate dai
docenti e ne esprimono la valutazione in voti, le modalità
con cui le scuole in ogni Paese usano le votazioni sono
diverse. Non solo. All'interno delle scuole di uno stesso
Paese cambiano i modi di assegnazione dei voti. Ancora di
più. Differiscono i modi usati dai diversi sistemi educativi per
indicare risultati negativi dell'anno scolastico o di una
materia. In Austria, Croazia, Ungheria, Polonia, Repubblica
Slovacca e Serbia le insufficienze sono indicate da un solo
voto, che non permette ai ragazzi di sapere quanto sono
lontani dalla sufficienza. Altrove, come in Italia, Belgio e
Singapore, si fissa la sufficienza alla metà della scala di
votazione, così da far comprendere quanto manca per
raggiungerla. Scala dei voti molto ampia in Irlanda (da 1 a
100) e Islanda. Ci sono Paesi poi che formulano giudizi
(sufficiente, buono, molto buono, eccellente): è il caso di
Austria, Polonia, Ungheria, Repubblica Slovacca. Non va meglio per il numero di alunni promossi o bocciati.
Infatti, le percentuali di insufficienze sono alte in
Italia, Singapore, Nuova Zelanda e Macao, dove almeno il 20%
degli studenti le ha ricevute. Al contrario sono scarse in
Austria, nel Belgio fiammingo, Islanda, Irlanda, Polonia, ma
anche Croazia, Ungheria, Repubblica Slovacca, Serbia: qui
meno del 5% merita insufficiente. Mentre l'oltre 30% di
insufficienze al I quadrimestre registrate in Portogallo è
coerente con l'ampio numero di ragazzi che ha ripetuto una
classe durante la carriera scolastica. Si differenziano cioè meglio, secondo gli studiosi, le
performance degli alunni in Paesi che hanno un sistema di
votazione con un numero limitato di voti e che usano
modalità di classificazione chiare come nel caso dei
giudizi. L'urgenza, però, «è allineare le politiche
sull'attribuzione di voti con framework generali di
valutazione».
La Repubblica.it, del 20-06-3013, di Marco
Lodoli
UNA vera prova di maturità, un vero confronto
con le paure e le speranze di una giovinezza che sta per
lasciare il porto quasi sicuro della scuola e avventurarsi
nel mare aperto e tempestoso della vita adulta: così mi
suonano queste tracce su cui i nostri diciottenni hanno
dovuto ragionare. UNA vera prova di maturità, un vero
confronto con le paure e le speranze di una giovinezza che
sta per lasciare il porto quasi sicuro della scuola e
avventurarsi nel mare aperto e tempestoso della vita adulta:
così mi suonano queste tracce su cui i nostri diciottenni
hanno dovuto ragionare. Di sicuro sono serviti i testi
scolastici, la preparazione di migliaia di ore passate in un
banco, le lezioni appassionanti o un po’ noiose degli
insegnanti, ma stavolta mi sembra che ai candidati sia stato
chiesto uno scatto di personalità, la dimostrazione di non
essere stati assenti o distratti mentre il mondo, in questi
anni, in questi mesi, produceva i suoi problemi e le sue
contraddittorie soluzioni. Bisogna aver studiato, ma bisogna
anche aver letto i giornali, le riviste, aver navigato sui
siti di informazione, aver discusso e litigato con gli
amici, aver sentito crescere una nuova consapevolezza.
Bisogna aver sentito che la giovinezza è pronta a caricarsi
di qualche responsabilità, che è finita la lunga epoca della
spensieratezza totale. La letteratura ci spiega che la vita
è un viaggio, e che è necessario essere pronti per
affrontarlo con gli strumenti e i sentimenti migliori:
Claudio Magris, grande conoscitore della letteratura
mitteleuropea, invita a comprendere che ogni scrittore è
anche un pellegrino, che ogni libro importante è
un’avventura conoscitiva, un viaggio verso l’ignoto. La vita
non è un villaggio- vacanze, un posto dove tutto è già
preordinato per organizzare al meglio la distrazione: è un
percorso accidentato, con molte salite e molti imprevisti.
Omero, Dante, Cervantes, Melville, Collodi, tanti
grandissimi scrittori hanno raccontato questa avventura
esistenziale, ognuno a modo suo ha rinnovato la meravigliosa
metafora del viaggio fuori e dentro di sé. Insomma, la
letteratura non è un giardinetto fiorito, ma un percorso che
sale e abbraccia sempre più mondo, un invito a partire, a
seguire la propria prua. Ma anche il tema sul rapporto tra l’individuo e la società
di massa mi appare ben pensato. Ogni ragazzo percepisce il
rischio dell’annichilimento dei propri talenti, dello
scioglimento della propria unicità nell’indistinto di un
gregge protettivo e infelice. È uno degli argomenti che più
viene dibattuto nell’adolescenza, perché la paura della
solitudine è pareggiata dal timore di non essere niente,
solo un numero in una statistica, solo un corpo che vaga in
un centro commerciale. La pressione del consumismo, delle
mode, dell’impersonalità è avvertita a volte come una
protezione e a volte come una minaccia, comunque come una
questione decisiva con cui confrontarsi. E naturalmente anche il tema del mercato e della democrazia
tocca nervi scoperti: ogni ragazzo ormai sa che l’economia
neoliberista lo scaraventerà prestissimo in mezzo a una
spaventosa compravendita di qualità. Sa che anche la
democrazia china il capo davanti all’onnipotenza del
mercato, che gli Stati sembrano subire quelle regole feroci.
C’è molto da ragionare sul rapporto difficile tra libertà e
produzione, tra speranze individuali e brutalità
finanziarie, tra vita e performance. Però, ripeto, bisogna
aver letto qualcosa in più rispetto alle belle antologie
scolastiche, bisogna dimostrare di aver tenuto gli occhi
aperti e la mente attenta alle trasformazioni veloci degli
ultimi anni. Non è scontato che in classe si sia affrontata
l’impetuosa crescita delle economie emergenti e il declino
altrettanto rapido delle nostre economie europee, basate
fino a ieri sulla difesa dei diritti dei lavoratori e oggi
costrette a rivedere crudelmente tutti i propri principi. Insomma, tanti argomenti di bruciante attualità, tante
proposte stimolanti. Speriamo che i nostri ragazzi in
quest’ultimo periodo abbiano non solo studiato a fondo i
programmi, ma abbiano anche allungato lo sguardo fuori dalle
finestre della scuola, su un paesaggio che rassicura poco,
in tumultuosa metamorfosi, nel quale già da domani dovranno
cominciare a camminare.
-
I giovani spiazzati fra metodi opposti
Il Messaggero, del 20-06-2013, di Giorgio
Israel
Ormai non ci sono dubbi: al ministero
dell’Istruzione c’è chi lavora per cancellare il tema di
maturità. Del resto è noto che questo proposito è vivo da
anni. Noi siamo invece più che favorevoli al tema, purché
offra allo studente l’opportunità di esprimersi in piena
autonomia e di dar prova delle sue capacità, su un argomento
circoscritto e correlato a temi approfonditi nel corso di
studi. La via infallibile per renderlo disgustoso, e
alimentare la spinta a cancellarlo, è assegnare come
argomenti quelli che Gentile chiamava “brevi cenni
sull’Universo”. “Stato, mercato, democrazia”, “Individuo e
società di massa”, “La ricerca scommette sul cervello”…
Nessuno si sognerebbe non dico di dare una tesi di laurea,
ma neppure una tesi di dottorato su temi del genere. Per dire qualcosa di sensato sul primo occorrerebbe
conoscere una mole di contributi teorici mai visti nelle
scuole, dalla contrapposizione tra pianificazione
collettivista e liberismo economico, tra keynesismo e “mainstream”,
al versante di teoria politica. Per il secondo tema
occorrerebbe aver letto qualcosa della letteratura sui
totalitarismi del ventesimo secolo. Dove? In una scuola in
cui raramente si arriva a studiare la Seconda guerra
mondiale? E che dire del terzo tema che apre l’immensa
tematica del rapporto-cervello? Ma c’è una via furbesca per
tenere in piedi l’approccio del tipo “brevi cenni
dell’Universo” in un contesto in cui non si sa più in che
secolo siano vissuti Adam Smith, Karl Popper e Hannah Arendt,
ammesso che si sappia chi siano. La via è quella di offrire
tracce molto terra terra, articoli di giornale, dietro cui
lo spessore dei temi è ridotto a formulette semplificate e
informazione, o è visibile solo a chi ne sa molto. Certo, i
brani su “Stato, mercato e democrazia” sono densi di temi
rilevanti, ma sono tanti e di complessità tale che l’unica
via è cavarsela con luoghi comuni sulla crisi. Va assai
peggio su “Individuo e società di massa”. Pasolini era un
letterato di valore, ma di certo non un maestro di teoria
sociale, soprattutto in un brano in cui la spara grossa:
«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha
fatto il centralismo della civiltà dei consumi». Visto che
la prima parte della traccia di Bodei è in consonanza, e che
le connessioni con le tracce letterarie sono esangui, c’è da
chiedersi se non sia un invito a confezionare un compitino
anticapitalista. Certo, si dirà che lo studente poteva andarsene per conto
suo ignorando i testi proposti. Ma, siamo seri, chi oserà
farsi beffe delle tracce ministeriali? Il risultato è che lo
studente - altro che autonomia e creatività - è stato messo
su binari atti solo a determinare risultati preconfezionati
e grotteschi. Ciò è ancor più evidente nel tema sulla
ricerca e il cervello. Qui, oltre a uno scritto di
Boncinelli - che contiene l’unica asserzione di merito sul
rapporto tra teorie del cervello e teorie della mente,
peraltro assai discutibile - si offrono solo articoli di
giornale che informano circa i progetti di simulazione
informatica del cervello. Su queste basi cosa scrivere se
non un panegirico del programma di Obama? In barba allo
spirito critico: da Marcuse allo scientismo è l’apoteosi del
conformismo. Quanto ai Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica)
non costituiscono un argomento se non di analisi economica,
visto che l’unico tratto comune di quei Paesi è l’incremento
del Pil. Lo sa anche l’estensore della traccia che invita a
sceglierne due a caso e dire qualcosa sulle loro vicende
politiche recenti. A parte la mediocrità della proposta è
roba mai vista a scuola. È un invito a navigare di soppiatto
con lo smartphone? Viene da pensare che chi ha preparato questi testi non abbia
mai messo piede in una scuola, non abbia figli e non abbia
la più pallida idea delle conoscenze che vi si acquisiscono,
che sono sempre più esili e frammentarie e che andrebbero
vigorosamente riqualificate. Ma già, è proprio quel che non
si vuole. L’ideologia che emerge è quella di una scuola che
da un lato invita a fabbricarsi a ruota libera i propri
cenni sull’Universo, dall’altro verifica le “competenze” con
test e quiz. In che modo il pensiero di Cartesio abbia
influenzato la visione moderna del rapporto mente-cervello
non ha alcun interesse. Dite quel che vi pare sul tema e
mettete una crocetta sulla risposta esatta: Renato Cartesio:
filosofo e scienziato francese o amministratore delegato
delle cartiere di Fabriano.
Corriere della Sera.it, del 20-06-2013, di
Giovanni Belardelli
Criticare i titoli per la prova di italiano
della maturità è diventata ormai un'abitudine, alla quale ci
si vorrebbe almeno per una volta sottrarre. Ma di fronte
alle tracce scelte quest'anno astenersi da ogni commento
appare quasi impossibile. Soprattutto se guardiamo allo
spirito complessivo che sembra aver guidato gli esperti
ministeriali: uno spirito improntato al più vieto culto
della contemporaneità, a un ostentato desiderio di essere, o
almeno di apparire, il più up to date possibile. Agli
studenti era richiesto, ad esempio, di analizzare un brano
di Claudio Magris, scrittore del quale molti di loro
difficilmente avevano sentito parlare nelle aule
scolastiche; oppure di conoscere avvenimenti come
l'assassinio di Aldo Moro, rimasti nove volte su dieci al di
fuori dai programmi di storia dell'ultimo anno di corso. O
ancora, nel caso del tema storico — e qui il culto della
contemporaneità è arrivato davvero a superare il ridicolo —
lo studente era invitato ad occuparsi dei Brics, l'acronimo
coniato una decina d'anni fa dall'economista Jim O'Neill per
indicare i Paesi un tempo in via di sviluppo e ormai ascesi
ai vertici della produzione mondiale. Gli esempi fatti sono solo i più evidenti di una ossessione
per la contemporaneità che percorreva un po' tutte le
tracce. Non sto dicendo, naturalmente, che il mondo
contemporaneo debba rimanere al di fuori delle mura
scolastiche. Assolutamente no. Ma una scuola che sembra
ostentare quanto sia moderna e al passo con l'attualità
rischia per ciò stesso di schiacciarsi sull'oggi e di non
rendere un buon servizio ai propri alunni e al Paese. In un
mondo nel quale i giovani vivono letteralmente dentro il
web, costantemente collegati attraverso i social network con
l'intero globo, la scuola dovrebbe essere piuttosto il luogo
in cui soprattutto coltivare o recuperare un rapporto meno
immediato con il qui e ora. Dovrebbe essere il luogo in cui
l'immersione totale nel presente che caratterizza sempre più
la cultura e la vita ai tempi della Rete possa interrompersi
almeno per alcuni momenti, per guardare «da fuori»
un'attualità in cui siamo tutti immersi (i giovani assai più
di chiunque altro) e magari poterla capire un po' meglio. Una scuola veramente al passo coi tempi, come usa dire,
dovrebbe forse mostrarsi capace di coniugare la
contemporaneità con una cosa che della scuola, in Italia e
non solo, è stata a lungo il fondamento ma che oggi è
diventata quasi indicibile: una tradizione culturale e i
valori a essa connessi, che nel tempo hanno fatto del Paese
ciò che è, con i suoi molti difetti ma anche qualche
indubbia qualità. A suo modo questa funzione la svolse la
scuola riformata novant'anni fa da Giovanni Gentile,
finalizzata allora alla costruzione di un linguaggio e di
una identità comuni per la classe dirigente italiana, come
ricordava ieri Gian Arturo Ferrari su questo giornale. Non
c'è dubbio che questa funzione di collegamento tra i
problemi dell'oggi e la nostra tradizione culturale è
diventata da tempo problematica. Ma se dovessimo giudicare
dalle scelte degli esperti ministeriali per la maturità
dovremmo mestamente concludere che la scuola italiana ha
deciso di non misurarsi più su questo terreno. Come se ormai
volesse procedere per un'altra strada, desiderosa di
digitalizzarsi non solo nella strumentazione tecnica ma
nella immersione totale nella contemporaneità globale.
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Si tagliano gli appalti di pulizia nelle
scuole per le università
La
ministra dell’istruzione Carrozza, per coprire le assunzioni
nelle università, taglierebbe 25 milioni di euro nel 2014 e
49,8 milioni a partire dal 2015, dai fondi destinati alle
pulizie degli istituti scolastici e ai servizi ausiliari
esternalizzati: rischiano 21mila lavoratori. I sindacati:
"Incontro urgente"
La Tecnica
della Scuola.it, del 19-06-2013, di
P.A.
La nuova ministra dell’istruzione, Maria
Chiara Carrrozza, ha proposto di ridurre e tagliare i fondi
destinati alle pulizie degli istituti scolastici e ai
servizi ausiliari esternalizzati, non tenendo conto che in
questi ultimi 5 anni i 21mila lavoratori Ex LSU e dei c.d.
“Appalti Storici” hanno già pagato pesantemente tale dazio.
E' quanto si apprende da una nota. Per garantire
le assunzioni all’università e agli
enti di ricerca, elevando dal 20 a 50% il turn-over,
ovvero il limite di spesa consentito a rispetto alle
cessazioni dell'anno precedente in modo da assumere 1500
ordinari e 1500 nuovi ricercatori” di tipo B, per una spesa
prevista di 25 milioni nel 2014 e 49,8 nel 2015, si andrebbe
a ridurre i fondi per gli appalti delle pulizie e che
comunque le scuole dovranno rinnovare a un costo inferire
anche per realizzare le economie previste dal decreto e fare
in modo che i maggiori risparmi rimangano alle scuole:
sbrigatevela da voi, insomma, sembra dire la ministra. In ogni caso 25 milioni per il prossimo anno e quasi 50 dal
successivo devono andare alle università, smentendo per
certi versi le dichiarazione fatte dalla ministra che aveva
chiesto maggiori finanziamenti per la scuola minacciando
perfino le dimissioni. Il comma 5 dell'articolo 54, dice infatti che a decorrere
dal prossimo anno scolastico le scuole “acquistano, ai sensi
dell'articolo 1, comma 449, della legge 27 dicembre 2006, n.
296, i servizi esternalizzati per le funzioni corrispondenti
a quelle assicurate dai collaboratori scolastici loro
occorrenti nel limite di spesa che si sosterrebbe per
coprire i posti di collaboratore scolastico accantonati ai
sensi dell'articolo 4 del decreto del presidente della
repubblica 22 giugno 2009” Quasi 11 mila posti subiscono
quindi un impoverimento o una riduzione. Fra l’altro nell’audizione al Parlamento del 6 giugno
scorso, dove sono state presentate dalla ministra le linee
guida programmatiche per la gestione del proprio dicastero,
è stato dichiarato che sul piano di sostegno finanziario per
la realizzazione dell’autonomia scolastica sarà innalzato il
budget per il funzionamento ordinario delle scuole,
aumentando la quota procapite per alunno, utilizzando, però
“le economie derivanti dai nuovi appalti per i servizi di
pulizia nelle scuole”. E infatti i sindacati dicono che “le risorse per l’acquisto
dei servizi di pulizia rientrano nel fondo per il
funzionamento ordinario delle scuole e di conseguenza se si
vuole aumentare la quota procapite per alunno vuol dire che
anche per i servizi di pulizia va speso di più e non meno.” Pensare di scaricare ancora i risparmi dell’amministrazione
scolastica su questi lavoratori rigettandoli nella
precarietà, rimettendoli in capo alla spesa sociale
generale, a fronte di scuole più sporche e meno sicure non è
una soluzione per dare risposta ai bisogni della Scuola
stessa e nemmeno per migliorare le economie ministeriali. Per questi motivi Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltrasporti
Uil hanno inviato una richiesta di incontro urgente al
ministro dell’Istruzione e procederanno ad assumere tutte le
iniziative politiche utili per tutelare i lavoratori
coinvolti
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Per le nuove scuole soldi e idee. Era ora
L’Unità,
del 19-06-2013, di Luigi Berlinguer
ESULTO ED ESALTO. REAGISCO COSÌ, PROPONENDO
DUE EPSILON ALLA NOTIZIA che finalmente un governo si occupa
di scuola per dare e non per tagliare o per sottrarre.
Merito di Chiara Carrozza e di Enrico Letta. Che finalmente
si capisca che l'education non è spesa ma investimento
produttivo? In particolare, ciò avviene in un settore
delicato come quello dell'edilizia scolastica. L'Italia ha
bisogno di rinnovare il proprio patrimonio, di uscire dalla
tristezza di tante, troppe scuole (in particolare nel sud
del Paese) ospitate in appartamenti o in edifici inadatti,
insalubri. Cento milioni di euro nel triennio 2014-2016 oggi
sono indubbiamente tanti. Possono essere volano di altri
investimenti di altre istituzioni, a cominciare da quelle
locali. E la notizia può (finalmente) attirare l'attenzione
su come andranno riadattati o costruiti ex novo gli edifici
scolastici, che dureranno decine di anni e pertanto dovranno
fin d’ora essere costruiti diversamente «La mente assorbente
del bambino si orienta nell'ambiente; per cui si devono
prendere speciali precauzioni affinché l'ambiente offra
interesse e attrattive a questa mente che deve nutrirsene
per la propria costruzione». Così Maria Montessori, una
delle più grandi italiane di tutti i tempi, aveva bollato la
cultura espressa dalla vecchia aula e da quei banchi, «neri
catafalchi», secondo un'altra sua nota definizione. Ecco la
sfida anche di oggi: creare un ambiente non costrittivo,
capace al contrario di sollecitare e accogliere coloro che
si stanno formando. Nel mondo si è affermata l'educational
architecture, una corrente che ha abbandonato i tristi
edifici anonimi composti da lunghi corridoi e da aule tutte
uguali. I parametri sono stati rovesciati. Esempi se ne
trovano ormai ovunque, dalla Danimarca all’Austria: gli
edifici si compongono di grandi e di piccole aree, di spazi
di varia foggia e di varia ampiezza per favorire la
diversità nella didattica delle varie materie e metodologie
di insegnamento. Questa rivoluzione comincia a prendere
corpo anche in Italia. Con una differenza rispetto ai Paesi
evoluti. Fuori dai confini nazionali tali scelte sono
fortemente determinate dalla volontà politica, mentre in
Italia sono frutto di iniziative dal basso, in primo luogo
volute da presidi e insegnanti. Posso fare gli esempi: la
scuola elementare di Fauglia (Pisa) dove non c'è più l'aula,
dove non ci sono più i banchi e le cattedre, ma gruppi di
tavolini suddivisi in aree per studiare, ripetere, leggere a
voce alta, discutere. Una scuola elementare che hanno voluto
chiamare «scuola senza zaino» perché probabilmente troppe
giovani schiene sono state inutilmente curvate in passato. E
la scuola di Montemignaio (Arezzo) dove alle aule si
sostituisce un’atra serie di spazi, compresa l’agorà. Sono
esempi che evidenziano il cambiamento del modello educativo
che i riformatori perseguono e che ancora tarda ad
affermarsi. La riforma profonda della scuola di oggi deve
fondarsi sulla centralità dell'apprendimento, ha bisogno di
spazi che consentano la grande articolazione delle diverse
discipline. Perché un conto è proporre una lezione di storia
a 30 alunni, altro è fare un esperimento di fisica, altro
ancora è suonare uno strumento musicale. Gli spazi devono
essere flessibili. Ecco perché è una gran buona notizia
quella arrivata dal Consiglio dei ministri. Nonostante il
periodo di carestia si può iniziare a cambiare. Ho saputo
che nel ministero si parla di linee-guida sugli edifici da
costruire fondate sui modelli appena citati. Il mio auspicio
è che l'inversione di rotta finanziaria si sposi con quella
pedagogico-educativa
É Estate,
irreperibili Gli esperti necessari a ultimare le prove
Italia Oggi, del 18-06-2013, di Mario D'Adamo
Nelle
regioni Piemonte e Toscana danno forfait le commissioni
giudicatrici di alcuni concorsi a posti di insegnante e i
rispettivi uffici scolastici regionali, nell'impossibilità
di garantire i tempi inizialmente previsti, rinviano le
prove orali a dopo l'estate, compromettendo l'immissione in
ruolo dei vincitori fin dal prossimo primo settembre. Sul
finire dell'era Profumo e sull'onda di un parossismo
tecnologico – informativo in grado di superare ogni
finitezza, un comunicato del 3 marzo scorso del ministero
dell'istruzione, rispondendo alle perplessità avanzate anche
da ItaliaOggi sulla possibilità di finirle per tempo, aveva
assicurato che tutte le operazioni concorsuali da poco
avviate sarebbero state contenute in una durata massima
complessiva di tre mesi. I tre mesi passano e il 12 giugno
scorso sul sito dell'ufficio scolastico regionale compare
uno sconfortato avviso urgente, con il quale Giuliana
Pupazzoni, direttore generale, annuncia il rinvio a dopo il
periodo estivo delle prove orali dei concorsi di scuola
dell'infanzia e primaria. I candidati, che hanno superato
con esito positivo gli scritti e che si stavano preparando a
sostenere le prove orali, si devono mettere in stand-by e
attendere che sia loro inviata la mail di convocazione per
l'orale almeno venti giorni prima della data in cui devono
sostenerlo (art. 11, sesto comma, del bando, con
involontaria ironia richiamato nell'avviso). Le cause
dichiarate del rinvio sono da individuare nelle difficoltà
riscontrate dall'ufficio scolastico regionale «nel reperire
i componenti da aggregare alle commissioni giudicatrici che,
nelle prove orali, devono procedere all'accertamento delle
conoscenze informatiche e delle lingue straniere». Mancano
gli esperti, insomma, che per quattro soldi non rinunciano
al riposo estivo. E se in Piemonte sono solo due i concorsi
sospesi, anche se contano il maggior numero di concorrenti
(più di quattrocento ciascuno), lo stesso 12 giugno si
apprende da un avviso, senza firma, che in Toscana sono solo
due i concorsi che proseguono, quello di laboratorio
tecnologico per l'edilizia, classe C430 (29 candidati
ammessi all'orale), e quello di francese, classi A245/246
(42 candidati).Tutti gli altri sono sospesi «causa il
protrarsi dei lavori di correzione degli scritti», a sua
volta “dovuto a numerose dimissioni dall'incarico di
commissario, alla quantità ed alla eterogeneità dei membri
delle commissioni”. Sembra di capire, dato l'elevato numero
di commissari dimessi, che sia diventato difficile trovarne
altri e che quelli rimasti, provenienti dai più diversi
settori della scuola, dell'amministrazione e
dell'università, difficilmente riescono a coordinare i
rispettivi impegni, i cui tempi sono di fatto inconciliabili
tra loro per l'eterogeneità delle rispettive provenienze.
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Assunzioni e inidonei fermi al palo
Per gli Ata arrivano dal ministero risposte
ancora evasive
Italia Oggi, del 18-06-2013, di
Franco Bastianini
Ancora in alto mare la soluzione delle tre
principali questioni che interessano il personale
amministrativo, tecnico ed ausiliario: le immissioni in
ruolo per l'anno scolastico in corso per tutti i profili e
su tutti i posti vacanti e disponibili, come previsto dal
piano triennale di assunzioni di cui al decreto
interministeriale del 3 agosto 2011; il pagamento delle
posizioni economiche già assegnate e l'atto di indirizzo per
il compenso ai Dsga, i direttori amministrativi, affidatari
di scuole sottodimensionate. Al termine dell'ennesimo incontro svoltosi l'11 giugno con
la direzione del personale del Miur, le organizzazioni
sindacali del comparto scuola hanno infatti manifestato
preoccupazione e insoddisfazione per la mancanza di risposte
certe sui problemi da tempo sottoposti all'attenzione
ministeriale. Pur prendendo atto della volontà politica del ministero di
voler risolvere le problematiche attraverso una
interlocuzione continua con il ministero dell'economia e
delle finanze, i rappresentanti sindacali di Flc-Cgil, Cisl
scuola, Uil scuola, Snals e Gilda hanno anticipato la
mobilitazione del personale, qualora dovessero verificarsi
ulteriori rinvii e ritardi. Quella della mancata immissione
in ruolo degli oltre cinquemila collaboratori scolastici e
degli assistenti amministrativi e tecnici sui posti liberi e
vacanti dopo l'accantonamento sull'organico di diritto delle
unità da assegnare ai docenti inidonei rimane comunque la
questione più delicata da risolvere a causa delle notevole
resistenze da parte del ministero dell'economia e delle
finanze. Sulle problematiche connessa al passaggio tra il
personale Ata dei docenti dichiarati permanentemente
inidonei per motivi di salute all'esercizio delle funzioni,
ma idonei ad altri compiti, il ministero ha comunicato alle
organizzazioni sindacali una forte determinazione del
Parlamento a cancellare la norma sul transito forzoso di
questo personale nei profili Ata, come previsto dall'art.14,
commi 13, 14 e 15 del decreto legge 6 luglio2012, n.95,
riconoscendo nel contempo che per l'operazione saranno
necessari tempi più lunghi dovuti all'iter legislativo cui
potrebbe andare incontro un apposito disegno di legge
presentato al Senato il 26 marzo 2013.
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Carrozza, arrivano i primi tagli
Il ministro finanzia le assunzioni nelle
università con i soldi degli appalti per le pulizie. Tolti
alle scuole 25 milioni nel 2014 e 50 dal 2015
Italia Oggi, del 18-06-2013, di Alessandra
Ricciardi
Il primo atto finanziario del ministro
dell'istruzione, università e ricerca, Maria Chiara
Carrozza, è arrivato. Per coprire le maggiori assunzioni nel
settore universitario (1500 docenti e altrettanti
ricercatori), le scuole perderanno 25 milioni di euro nel
2014 che diventano 49,8 milioni a partire dal 2015. L'operazione è contenuta all'articolo 54 della bozza di
decreto legge, il cosiddetto decreto del fare, approvato
sabato scorso dal consiglio dei ministri. Tra le varie
misure si prevede un innalzamento della copertura del turn
over per le università. Che è controbilanciato dalla
riduzione dei fondi per gli appalti delle pulizie, che le
scuole dovranno rinnovare a un prezzo più basso, fino a
realizzare almeno le economie individuate dal decreto. Nel
caso di maggiori risparmi, questi resteranno alle scuole. Ma
fino a 25 milioni per il prossimo anno e quasi 50 dal
successivo, non c'è niente da fare, si reinveste
sull'università. Un'uscita, quella del ministro che aveva
chiesto maggiori finanziamenti per la scuola («altrimenti mi
dimetto»), che ha lasciato sconcertati i sindacati. Le
scuole, precisa il comma 5 dell'articolo 54, a decorrere dal
prossimo anno scolastico «acquistano, ai sensi dell'articolo
1, comma 449, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, i
servizi esternalizzati per le funzioni corrispondenti a
quelle assicurate dai collaboratori scolastici loro
occorrenti nel limite di spesa che si sosterrebbe per
coprire i posti di collaboratore scolastico accantonati ai
sensi dell'articolo 4 del decreto del presidente della
repubblica 22 giugno 2009». Si tratta di quasi 11 mila posti
che non sono coperti con assunzioni a tempo indeterminato
perché i relativi servizi offerti sono stati affidati
all'esterno. Ora il governo prevede che il costo non possa
sforare quello che lo stato avrebbe sostenuto per assumere
in proprio gli Ata per gli stessi servizi. Un'operazione che
dunque punta a una razionalizzazione della spesa, i cui
proventi però non sono destinati a rifinanziare il sistema.
«Mi pare un'operazione finanziaria incerta, ma, ammesso che
riesca, è improprio che i fondi siano destinati altrove»,
attacca Massimo Di Menna, numero uno della Uil scuola, «e di
certo non è questo il primo atto di investimento che ci
aspettavamo dal nuovo ministro». Le maggiori assunzioni
nelle università sono uno dei cavalli di battaglia della
Flc-Cgil, che però giudica «inaccettabile» la copertura
finanziaria trovata dal governo. Spiega il segretario Mimmo
Pantaleo: «Così si penalizzano i lavoratori delle ditte di
pulizie, che non potranno essere tutti confermati, e gli Ata
già in servizio, che dovranno lavorare di più a parità di
stipendio». Rino Di Meglio, coordinatore nazionale Gilda,
evidenzia come «dopo tanti annunci, si continua con la
politica dei tagli». Il testo «deve essere modificato»,
chiede lo Snals-Confsal di Marco Paolo Nigi. «Si mette in
piedi una guerra tra bisognosi», commenta il segretario
della Cisl scuola, Francesco Scrima, «se ci sono risparmi
fattibili nella scuola devono essere reinvestiti nel sistema
di istruzione, non si può continuare a togliere a chi ha già
perso tanto». Il decreto prevede anche una borsa di mobilità
(si veda ItaliaOggi di sabato) che consentirà a giovani
diplomati con risultati eccellenti (voto minimo 95 su 100)
di scegliere una regione differente da quella di residenza
per l'università. Inoltre, gli istituti che necessitano di
interventi di ristrutturazione potranno contare nel prossimo
triennio su 100 milioni.
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Scuola, class action vinta: a 24 istituti
due milioni di euro
Sembrava impossibile che una piccola
associazione di Bordighera, “Facciamo scuola insieme”,
composta da insegnanti, genitori e studenti potesse vincere
la battaglia contro Roma, contro i ministeri della Pubblica
Istruzione e dell’Economia
Il Fatto Quotidiano, del 18-06-2013,di
Alex Corlazzoli
Per una volta,
come nella Bibbia, ha vinto Davide contro Golia. Sembrava
impossibile che
una piccola associazione
di Bordighera,
“Facciamo
scuola insieme”,
composta da insegnanti, genitori e studenti potesse vincere
la battaglia contro Roma,
contro i ministeri della
Pubblica Istruzione e dell’Economia
per recuperare i
crediti
che quest’ultimi dovevano e devono nei confronti di 24
scuole della provincia di Imperia:
oltre due milioni di euro.
E invece ce
l’hanno fatta grazie ad una
class action
che ha visto in prima linea la professoressa Paola Rottino:
i due Ministeri dovranno controllare la situazione
creditizia delle scuole coinvolte entro il 30 settembre 2013
e
entro il 30 dicembre del
2013 dovranno liquidare
i soldi spettanti a ciascuna scuola. E’ una storia
anomala questa in un Paese dove la gente perde sempre, dove
nessuno più trova la forza di fare una battaglia contro
Roma. La class action era stata aperta con una richiesta di
messa in mora dei due ministeri nel maggio del 2011. A
fronte di un sostanziale nulla di fatto al termine dei 90
giorni prescritti per legge dopo l’invio della
messa in mora,
l’associazione ha deciso di procedere con ricorso al Tar.
Una battaglia senza precedenti che ha visto genitori,
studenti e insegnanti per la prima volta insieme. Paola,
l’avevo conosciuta nel 2010 alla trasmissione “Articolo
3”
di Maria Luisa Busi, chiusa troppo presto da una fin troppo
solerte direzione Rai. Era la fase della raccolta firme,
dell’avvio della class action: un lavoro lungo, meticoloso,
pacchi di carta da raccogliere e inviare al Ministero per la
diffida. Non avrei mai creduto che un giorno mi avrebbe
telefonato per annunciarmi la clamorosa notizia.
Inutili anche le
eccezioni ai ricorrenti
da parte dell’Avvocatura di Stato che ha sollevato questioni
in merito alla “carenza di dimostrazione della posizione
legittimante dei ricorrenti”: il
Tar di Genova
ha risposto che “si tratta di soggetti che versano in una
situazione di classe essendo tutti accomunati dal medesimo
interesse sostanziale all’ottimale funzionamento della
comunità scolastica cui appartengono, cui è strumentalmente
collegata la pretesa di ottenere la regolare erogazione dei
finanziamenti previsti”. Per i Ministeri,
che potranno comunque appellarsi, si tratta di una sconfitta
che ci si augura possa essere un favorevole precedente per
chi in questo Paese non si arrende. A
Imperia,
di fronte alla mancanza di fondi negli istituti necessari al
funzionamento delle scuole, hanno alzato la testa e hanno
vinto.
In Italia è ancora
possibile.
Loro ce l’hanno dimostrato.
l'Unità,
del 16-06-2013, di Mila Spicola
Un'insegnante è stata presa a
schiaffi da un genitore per avergli bocciato il figlio, -
no, non il figlio, per esser stato bocciato, l'insegnante.
C'è qualcosa di cui ha bisogno adesso l'Italia più del pane
e sono il rispetto collettivo per ciò che siamo come paese e
ciò che siamo lo dobbiamo anche alla scuola, nel bene e nel
male. Non è possibile affatto che in un angolo del Paese,
fosse anche il più remoto, un genitore prenda a schiaffi
un'insegnante nell'esercizio delle sue funzioni pubbliche.
Chi l'ha permesso? Abbiamo alle spalle anni di logorio
sociale e di attacco mediatico e politico a una professione
inattaccabile e la responsabilità è di chi ha favorito tutto
ciò, confondendo pericolosamente responsabilità individuali,
- che possono e devono essere individuate e sanzionate, ma
nessuno lo fa -, che ci sono statisticamente in ogni
professione, e ruolo collettivo, - che non può essere mai
messo in discussione e invece lo fanno tutti, persino i
premier-. L'Europa ha chiesto all'Italia, tra i diktat per
toglierla dal procedimento d'infrazione, di ridare ruolo
sociale e di riqualificare il lavoro dei docenti, non è una
richiesta peregrina: è un obiettivo strategico fondamentale.
La nuova geografica del lavoro mondiale coincide con la
geografia dei saperi, lo hanno capito tutti nel mondo,
tranne l'Italia, che si barcamena in ricette improbabili per
combattere la crisi rimanendoci sull'orlo perché non è
capace di comprendere quello che serve: innovazione, saperi
qualificati e sguardo lungo. Per innovare e guardare lontano
si devono promuovere alti livelli medi di conoscenza nella
popolazione, e non lo fai attaccando un docente, ma
migliorando le condizioni del sistema che deve promuoverli.
A parole tutti lo desiderano nei fatti non sanno metterlo in
atto, semplicemente perché ci vogliono azioni efficaci e
competenti decise da chi di problemi complessissimi come
l'innalzamento dei livelli medi si occupa da anni. Quasi
tutti i rapporti relativi ai sistemi d'istruzione
individuano come motore vero dell'innovazione dei sistemi
d'istruzione e dunque dei paesi l'esercito degli insegnanti,
non le strumentazioni da fornire agli insegnanti, o la
valutazione dei docente, ma la formazione, la selezione e la
qualificazione continua degli insegnanti. Qualcuno ha
confuso la riqualificazione dei docenti con la valutazione
dei docenti, quello è l'ultimo anello della catena. Non
cambi il risultato in un sistema se ti limiti alla
valutazione delle variabili dipendenti (l'operato dei
docenti, i livelli cognitivi degli studenti), devi agire
sulle cause dì quelle variabili. Tre sono i passi. Il primo:
riqualificare la formazione universitaria. Diventi
insegnante chi ha nel proprio bagaglio formativo non solo le
conoscenze disciplinari (accade oggi) ma anche un bagaglio
di «attrezzi del mestiere» che sono discipline come la
pedagogia, la docimologia, la psicologia infantile e
adolescenziale, la gestione e il management scolastico. Il
secondo passo: la selezione dei docenti. Concorsi seri e
veri. Che accertino non solo le conoscenze con batterie
ridicole di test (spesso sbagliati, spesso oggetto di
ricorsi, spesso abbonati a tutti per non incorrere in
procedimenti d'infrazione) ma che prevedano prove che
accertino anche le competenze necessarie per diventare
insegnanti, comprese le predisposizioni psicoattitudinali a
un mestiere difficilissimo. Il terzo passo. Rivoluzionare la
professione. Un docente torni ad essere un intellettuale:
deve studiare, deve avere il tempo di farlo e deve avere il
riconoscimento perché lo fa. 'È un lavoro intellettuale, che
va praticato e riconosciuto come lavoro intellettuale,
perché ciò accada bisogna, semplicemente porre in essere le
condizioni affinché sia così. Non è peregrino immaginare che
almeno ogni 4 anni un docente possa trascorrere sei mesi
fuori dalle classi, a rotazione, per fare ricerca, dentro e
fuori la scuola, per qualificarsi, studiare, partecipare a
convegni, produrre sperimentazione, effettuare lavoro di
supporto, organizzazione e produzione di saperi e attività
dentro la sua scuola. Altro che tablet degli alunni. Tra 4
anni i tablet saranno obsoleti, la testa e il modo più
adatto per usare qualunque strumento, prima di esserne
usati, no. Studiare vuol dire coltivare parole, coltivare
pensieri, discernere per agire e trasferire queste capacità
agli alunni: è la qualità della democrazia, la pregiudiziale
del lavoro. Altro che schiaffi
Circa tremila
nuovi posti nel Decreto del Fare e poi risorse per ricerca,
edilizia e borse di studio
La
Stampa.it, del 17-06-2013, di
Flavia Amabile
La notizia è questa, nelle
università si assume di nuovo. Ci sono circa tremila posti
nuovi di zecca per ordinari e ricercatori che il governo
annuncia di aver creato con il Decreto del Fare. E' la prima
volta dopo anni di rigore e tagli, vedremo che cosa accadrà,
come questo si tradurrà in bandi di concorso e chi ne
beneficerà, ma con i tempi che corrono è positivo che ci
siano tremila persone che avranno una possibilità.
Ecco il dettaglio dei
provvedimenti sulla scuola e sull'università approvati dal
consiglio dei ministri.
EDILIZIA SCOLASTICA
Un investimento straordinario
di edilizia scolastica, finanziato dall'INAIL fino a 100
milioni di euro per ciascuno degli anni 2014-2016,
nell'ambito degli investimenti immobiliari previsti dal
piano di impiego di propri fondi. Il piano verrà adottato
sulla base della Programmazione Miur-Regioni-enti locali
dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, d'intesa con il
ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e
con quello delle Infrastrutture e dei Trasporti.
- SBLOCCO DEL TURN OVER AL 50%
PER UNIVERSITÀ ED ENTI DI RICERCA DAL 2014
Si ampliano le facoltà di
assumere delle università e degli enti di ricerca per l’anno
2014, elevando dal 20 a 50% il limite di spesa consentito a
rispetto alle cessazioni dell’anno precedente (turn over).
Le singole università potranno quindi assumere nel rispetto
delle specifiche disposizioni sui limiti di spesa per il
personale e per l’indebitamento senza superare, a livello di
sistema, il 50% della spesa rispetto alle cessazioni. Con
questo provvedimento si libereranno posti per 1500 ordinari
e 1500 nuovi ricercatori in tenure track sul Ffo nel 2014
Spesa prevista 25 mln nel 2014; 49,8 nel 2015 - Copertura
mediante taglio spese esternalizzazione servizi per le
scuole
- BORSE DI MOBILITÀ PER
STUDENTI CAPACI E MERITEVOLI
5 mln per il 2013 e 2014, 7
mln per il 2015 da iscrivere sul Fondo di finanziamento
ordinario delle università per l’erogazione di “borse per la
mobilità” a favore di studenti che, avendo conseguito
risultati scolastici eccellenti, intendano iscriversi per
l’anno accademico 2013-2014 a corsi di laurea in regioni
diverse da quella di residenza. Le risorse saranno suddivise
tra le regioni con decreto del Ministro dell’istruzione,
dell’università e della ricerca, sentita la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano. Le borse saranno
attribuite sulla base di una graduatoria adottata da
ciascuna Regione per le università site nel proprio
territorio.
- RENDERE PIÙ FLESSIBILE IL
SISTEMA DI FINANZIAMENTO DELLE UNIVERSITÀ E SEMPLIFICARE LE
PROCEDURE DI ATTRIBUZIONE DELLE RISORSE
Per questo si unificano in
unico fondo le risorse attualmente destinate al
finanziamento ordinario delle università (FFO) alla
programmazione triennale del sistema, ai dottorati, e agli
assegni di ricerca. Nello stesso provvedimento si decide di
sottoporre all’Agenzia nazionale di valutazione del sistema
universitario e della ricerca (Anvur) la valutazione dei
servizi delle università e degli enti di ricerca per
semplificare il sistema di valutazione attualmente in
vigore.
- INTERVENTI STRAORDINARI A
FAVORE DELLA RICERCA
Il Ministero favorirà
interventi diretti al sostegno e allo sviluppo delle
attività di ricerca fondamentale e di ricerca industriale,
mediante la concessione di contributi alla spesa nel limite
del 50% della quota relativa alla contribuzione a fondo
perduto disponibili sul Fondo per la ricerca applicata
(FAR). Si tratta di utilizzare il fondo rotativo, che si
alimenta con i rientri del credito agevolato, che contiene
anche risorse da destinare a contributi a fondo perduto. Gli
interventi da finanziare riguardano principalmente lo
sviluppo di start up innovative e di spin off universitari,
la valorizzazione di progetti di social innovation per
giovani con meno di 30 anni, il potenziamento del rapporto
tra il mondo della ricerca pubblica e le imprese, il
potenziamento infrastrutturale delle università e degli enti
pubblici di ricerca.
Da Milano a Palermo, gli over 70 chiedono di
rinviare la pensione. Ed è polemica
La Repubblica.it, del 13-06-2013, di Luca De
Vito
MILANO
I professori universitari chiedono di poter
continuare a lavorare anche oltre l’età della pensione. E
scoppia di nuovo la guerra dell’età. Negli atenei di tutta
Italia le richieste arrivano a decine: da Milano a Palermo,
tra gli ordinari nati nel 1943 è partita la corsa per
usufruire del bonus di due anni di lavoro in più. Cosa che,
chiaramente, farà slittare in avanti gli ingressi dei
giovani ricercatori in attesa di un contratto. A stabilirlo
è stata una sentenza della Consulta che ha dichiarato
incostituzionale un articolo della Legge Gelmini e che ha
ristabilito la possibilità di rimanere in servizio per due
anni oltre la soglia dei 70. Adesso, chi è vicino all’età
della pensione può compilare una richiesta motivata e
presentarla in ateneo: sarà il senato accademico, in ultima
istanza, a decidere se il docente potrà rimanere in servizio
o meno. Nella maggior parte delle università, l’orientamento è
quello di respingere al mittente le richieste. Al Politecnico di Torino i vertici accademici stanno
prendendo posizione per non consentire la proroga, mentre
all’Alma Mater di Bologna è esplosa una polemica tra giovani
ricercatori e prof, con il rettore Ivano Dionigi che ha
invitato il corpo docente ad avere una maggiore «attenzione
alle attese delle nuove generazioni ». E se all’università
di Palermo le domande — arrivate principalmente da
Giurisprudenza e Lettere — verranno con buona probabilità
cassate, alla Bicocca di Milano lo stop sarà automatico per
motivi di organico: «Queste trattenute in servizio — ha
spiegato il rettore Marcello Fontanesi — prevedono l’impegno
di un punto in organico: ovvero, vengono parificate a nuove
assunzioni. E noi non abbiamo la possibilità di farlo». C’è
poi chi ha deciso di non bloccare del tutto questa
possibilità inserendo dei criteri stringenti. Al Politecnico
di Milano potrà proseguire chi ha avuto un riconoscimento
come il premio Nobel, chi ha una capacità di portare
finanziamenti e chi rimane come unico riferimento del
proprio settore disciplinare. Paletti precisi verranno
inseriti anche all’Università degli studi di Firenze. Uno dei rischi legati all’arrivo di questa valanga di
richieste è quello di affievolire ulteriormente le speranze
dei giovani in attesa di un posto: per loro già adesso vale
la regola per cui solo uno diventa ordinario ogni cinque che
escono. «Ci avevo provato — ha commentato Maria Stella
Gelmini, ex ministro dell’Istruzione che nella sua riforma
aveva abolito la proroga — così si blocca il ricambio
generazionale: adesso chi sta fuori rimane precario ancora
un po’». Molti ricercatori sono già sul piede di guerra. «I
giovani hanno pagato per 15 anni, ora basta », ha detto
Loris Giorgini rappresentante nel Cda di Bologna. «Con
l’università governata tutta da ordinari e un sistema di
valutazione che fa acqua da tutte le parti — ha aggiunto
Piero Graglia ricercatore della Rete 29 Aprile — il rischio
è che si perpetui una categoria che non splende per
correttezza ». Dal canto loro però, i rappresentanti della
vecchia guardia non si fanno troppi problemi. Giancarlo
Roviaro, ordinario di Chirurgia alla Statale di Milano, ha
già fatto richiesta: «Tirarmi indietro mi sembrava scorretto
— ha spiegato — come se volessi negare la mia professione
portata avanti in questi anni. L’ho fatto per spirito di
appartenenza istituzionale, ma se rifiutano la mia domanda
non farò ricorso». Conciliare la perdita dell’esperienza con la necessità di un
ricambio generazionale non è cosa semplice, soprattutto in
un periodo di ristrettezze economiche. «Accettare le
proroghe comporta un impegno economico troppo gravoso — ha
spiegato Luca Vago rettore della Statale di Milano,
università in cui nei prossimi due anni saranno 62 i prof
70enni — . Ma questo non vuol dire rinunciare per forza alle
elevate competenze di alcuni colleghi vicini alla pensione».
-
Maturità, i nuovi bonus Il punteggio
massimo solo a chi prende la lode
Soglie definite in base ai voti dell'anno
Corriere della Sera.it, del 13-06-2013, di
Mariolina Iossa
ROMA — A una settimana dall'inizio degli
esami di maturità, con la traccia di italiano fissata per il
19 giugno, mentre impazza sul web il toto-tema e Ungaretti,
Svevo, Pirandello, Quasimodo e Montale sono, pensano i
maturandi, certamente in pole position per la traccia di
letteratura, si è chiusa ieri, almeno per quest'anno, la
vicenda dei contestatissimi «bonus maturità». I 10 punti,
cioè il massimo, saranno concessi soltanto a chi prende
anche la lode. Da uno a nove punti di «bonus» andranno
invece a chi avrà ottenuto, alla maturità, da 80 a 100,
secondo la tabella che è pubblicata nel grafico a destra. Il
voto deve anche essere non inferiore all'80esimo percentile
della distribuzione dei voti della propria commissione
d'esame assegnati quest'anno. L'aveva promesso il ministro Maria Chiara Carrozza che entro
mercoledì avrebbe firmato un decreto per rendere «più equo»
il bonus, ovvero quel punteggio extra che gli studenti delle
superiori più meritevoli potranno aggiungere al punteggio
ottenuto ai test d'ingresso alle facoltà a numero chiuso. E
così è stato: ieri è arrivato il decreto, che oltre a
rivedere il bonus, rinvia le date dei test di ammissione
alle università a numero programmato: non più a luglio come
deciso dal predecessore Profumo, ma di nuovo a settembre, il
3 per veterinaria, il 4 per le professioni sanitarie, il 9
per medicina e odontoiatria e il 10 per architettura. Il rinvio era necessario, ha spiegato il ministro, proprio
per rendere più equo il «bonus maturità», introdotto nel
2008 da un decreto legislativo del governo Prodi ma sempre
rinviato, di anno in anno, finché Profumo quest'anno ha
deciso di attuarlo, nell'ottica di una
scuola più
meritocratica. Così come Profumo lo aveva concepito,
tuttavia, agli studenti era subito saltato agli occhi che
avrebbe prodotto molte disparità di trattamento, e ai
rettori che avrebbe causato una valanga di ricorsi. Il decreto Profumo, infatti, stabiliva che il calcolo dei
percentili dovesse avvenire sulla base dei voti attribuiti
in quella scuola
nell'anno scolastico precedente, con la conseguenza,
protestavano gli studenti, che nel 20 per cento delle scuole
sarebbe stato impossibile prendere il massimo, anche
ottenendo i 100/100 e per contro, in alcune scuole, un 5 per
cento del totale, sarebbe bastato diplomarsi con 80 per
avere i 10 punti. Ieri Daniele Grassucci, del portale
Skuola.net, che per primo aveva fatto notare l'ingiustizia
di quel criterio, ha detto che il decreto firmato da
Carrozza, «che assegna il 10 solo a chi prende la lode e
corregge il sistema non riferendosi all'anno precedente ma a
quello in corso, è una novità assolutamente positiva». Il ministro comunque ha detto che il bonus «verrà
sicuramente modificato per il futuro» e che rinvio delle
date dei test e «bonus maturità» così come sono decisi nel
decreto firmato ieri, varranno soltanto per quest'anno. Dal
prossimo si cambierà di nuovo. Carrozza vuole continuare
sulla strada dell'anticipo dei test per l'ingresso alle
facoltà a numero programmato, secondo l'idea del suo
predecessore. Non a luglio, per non farli coincidere con gli
esami di maturità ma ad aprile, ancora lontani dall'esame di
Stato. In questo caso, tuttavia, è evidente che anche il
bonus dovrà essere completamente modificato, di sicuro non
potrà più essere legato al voto di maturità e quindi
probabilmente sarà legato al curriculum di tutto il percorso
superiore. Per decidere quale strada intraprendere, Carrozza
ha insediato «una commissione che, alla luce della prima
esperienza applicativa, formuli delle proposte operative, al
fine di garantire un sistema di accesso ai corsi a numero
programmato che sia equilibrato e in grado di valorizzare le
potenzialità dei candidati».
-
Alla Camera 4 ore di dibattito sulla
scuola
Respinte le mozioni di M5S, Lega e SEL. Alla
fine PD e PdL convergono su una mozione congiunta che viene
approvata dall'aula a larghissima maggioranza. Tutti
d'accordo sulla necessità di restituire risorse alle scuole.
Ma adesso ci vogliono provvedimenti concreti.
La Tecnica della Scuola.it, del 12-06-2013,
di RP
Nella seduta dell’11 giugno la Camera ha
dedicato almeno 4 ore ad esaminare numerose mozioni
concernenti misure a sostegno della scuola, dell'università
e della cultura. Il dibattito che si è sviluppato in aula ha fornito non
pochi elementi di riflessione anche perché gli interventi
sono stati davvero molti, una ventina nella sessione
mattutina e altrettanti in quella pomeridiana. Alla resa dei conti le forze che sostengono il governo hanno
votato compatte una mozione presentata da Elena Centemero (PdL)
e da Maria Coscia (PD) in cui si sottolinea la necessità di
varare un piano straordinario a sostegno del sistema
scolastico italiano. Persino l’onorevole Centemero è intervenuta per
stigmatizzare il fatto che negli ultimi anni le risorse
assegnate alle scuole sono state progressivamente ridotte
(dimenticando forse che tale riduzione è stata realizzata
proprio quando a viale Trastevere sedeva il ministro PdL
MariaStella Gelmini). Respinte invece le mozioni Gallo (M5S), Giordano (SeL) e
Buonanno (Lega). Sulle mozioni Gallo e Giordano è intervenuto il
sottosegretario Marco Rossi Doria per esprimere il parere
sfavorevole del Governo con la motivazione che le proposte
in esse contenute sono di fatto irrealistiche in quanto
prevedono il ripristino delle risorse in un arco di tempo
troppo breve. Molti parlamentari intervenuti hanno evidenziato la
necessità di assumere iniziative risolutive del problema del
precariato, mentre il tema dell’edilizia scolastica è stato
un leit-motiv generale e ricorrente. Particolarmente soddisfatto si è dichiarato Rossi Doria che
ha osservato come il dibattito in aula sia stato
perfettamente coerente con quanto già detto dal ministro
Carrozza nel corso della sua audizione di qualche giorno fa. Tutti d’accordo, insomma, sulla centralità della scuola e
sulla necessità di aumentare le risorse destinate al sistema
di istruzione. Per il momento l’accordo è sulle dichiarazioni e sulle
parole, adesso è importante che l’accordo si sposti sui
fatti.
-
Under 16, l’esercito di lavoratori
fantasma
In 30 mila rischiano lo sfruttamento
L’occupazione più diffusa: ristorazione
La
Stampa.it, del 12-06-2013, di Flavia Amabile (Roma)
In Italia un minore su 20 lavora. E’ un volto
molto diverso degli adolescenti quello denunciati da Game
Over, il dossier realizzato dall’Associazione Bruno Trentin
e da Save the Children. Non ci sono i soliti ragazzetti
viziati, i bulli e nemmeno quelli che vivono appesi a
Facebook e allo smartphone. Dei 260 mila under 16 che lavorano nel nostro Paese, 30 mila
sono a rischio di sfruttamento, fanno un lavoro pericoloso
per salute, sicurezza o integrità morale. Lavorano di notte
e lo fanno ogni giorno, o quasi, sacrificando la scuola, gli
studi e persino il riposo e la possibilità di stare con gli
amici. Ad essere cancellata è di sicuro la scuola anche prima del
termine dell’obbligo scolastico l’«offerta formativa viene
percepita generalmente distante dalle necessità di
sviluppare competenze professionali richieste dal mercato
del lavoro». In molti casi è anche la famiglia a spingere i
minori ad abbandonare gli studi. Il ragazzo non sembra
particolarmente portato per la scuola. A quel punto
l’alternativa è la strada e alcuni genitori preferiscono non
ostacolare l’inizio di lavori anche se a volte sono a
rischio. , non ostacolare l’inserimento in attività
lavorative precoci anche se a volte sono rischio. A lavorare e ad essere sfruttati sono maschi e femmine,
senza troppe differenze: il 46% dei 14-15enni che lavorano
sono femmine. Il dossier sottolinea che la presenza dei
giovani lavoratori è concentrata al Sud e nelle isole, in
particolare in Sicilia. Spesso si tratta di lavori
occasionali (40%) e in ambito familiare (41%). Ma c’è anche
un 14% di minori che lavora fuori dalla cerchia familiare.
L’occupazione più diffusa è nella ristorazione (18,7%);
segue vendita ambulante e stanziale, allevamento e lavoro in
cantiere per l’1,5%. Le attività più continuative sono
proprio nella ristorazione, seguono il lavoro di cura e le
attività artigianali e domestiche. Un altro aspetto ben evidenziato nel dossier è il fatto che
lo sfruttamento sul lavoro può spingere il giovane a entrare
nella criminalità, perché può essere percepita «non troppo
distante nelle modalità di relazione tra chi comanda e chi
esegue un lavoro». Oltretutto e attività illecite sono
legate alle «amicizie» o ai «legami» presenti nel quartiere,
e quindi possono essere considerate l’unica possibilità per
chi si trova in situazioni di disagio di guadagnare tanto e
con poche ore di lavoro».
-
Bonus maturità legato ai voti medi della
classe ecco le nuove regole per i test a numero chiuso
Il ministro Carrozza dopo le polemiche cambia
i criteri: dieci punti solo a chi si diploma con 100 e lode
la Repubblica.it, del 12-06-2013, di Salvo
Intravaia
ROMA
—
Il bonus-maturità continua a far discutere.
Il ministero cerca di renderlo un po’ equo, ma restano
perplessità per un sistema che ancora non convince del
tutto. Oggi viale Trastevere pubblicherà l’ultimo decreto
sui test universitari a numero chiuso nazionale che contiene
il nuovo criterio di calcolo del bonus. Provvedimento che
“Repubblica” è oggi in grado di anticipare nei suoi
contenuti più importanti. Il nuovo bonus — per coloro che
tenteranno di entrare a Medicina e Odontoiatria, Veterinaria
e Architettura — partirà da un punto e non più da quattro
come quello pensato dall’ex ministero dell’Istruzione,
Francesco Profumo. E continuerà di punto in punto fino a
dieci, che verrà assegnato esclusivamente ai cervelloni con
100 e lode. Ma soprattutto, come aveva anticipato il
ministro Maria Chiara Carrozza, cambia il criterio di
assegnazione, che dipenderà dalla distribuzione dei voti della singola
commissione. Un meccanismo che farà comunque corrispondere
allo stesso voto bonus diversi non solo da scuola a scuola
ma anche all’interno dello stesso istituto:
—
da commissione a commissione. Per chiarire
meglio le cose basterà un esempio. Un certo voto (90
centesimi) peserà molto meno — dando luogo a un bonus più
basso — in una commissione dove fioccano i cento e parecchio
di più in una dove i voti si manterranno bassi. Resta
l’obbligo, per accedere al bonus, di conseguire il diploma
con almeno 80 centesimi e viene introdotto un meccanismo,
che prima mancava, per assegnare il punteggio anche a coloro
che si sono diplomati negli anni precedenti e vorranno
tentare di entrare a Medicina quest’anno. Questo si sommerà
ai punti del test di ammissione, espressi in novantesimi, ma
soltanto per coloro che arriveranno almeno a 20. I voti
dell’esame di stato, che consentiranno di attribuire il
bonus, verranno pubblicati sul portale www.universitaly. it
entro il 30 agosto 2013.
—
Ma, soprattutto, gli oltre 96mila studenti
che si sono già iscritti dovranno ripetere l’intera
procedura perché il decreto che esce oggi sostituisce quello
precedente. Le date, prima previste a luglio, sono state
spostate a settembre: il 3 per architettura, il 4 settembre
per le Professioni sanitarie, il 9 settembre per Medicina e
Odontoiatria e il 10 per Veterinaria. La graduatoria per
Medicina e le altre facoltà a numero chiuso resta nazionale.
Molte le contraddizioni: come si farà ad attribuire il bonus
il prossimo anno quando i test di Medicina si svolgeranno ad
aprile? E cosa accadrà se un ragazzo, dopo avere sostenuto
il test, verrà bocciato?
L'assessore all'istruzione della provincia di
Milano ai presidi: didattica su 5 giorni e non 6
Italia Oggi, del 11-06-2013, di Mario D'Adamo
Dal prossimo anno scolastico a Milano e
provincia orario settimanale delle lezioni distribuito su
cinque giorni anche nelle scuole superiori, licei e istituti
tecnici e professionali. Non si tratta di una prescrizione
che le scuole devono osservare ma di un pressante invito
rivolto da Marina Lazzati, assessore all'istruzione della
provincia di Milano, a dirigenti scolastici, consigli
d'istituto, collegi dei docenti e consulta degli studenti
con una lettera del 3 giugno firmata congiuntamente con
Francesco de Sanctis, direttore dell'istruzione della
regione Lombardia, sul contenuto della quale ci sarebbe
l'accordo pieno anche dell'assessorato all'istruzione
regionale. L'assessore, che motiva l'invito con l'esigenza di contenere
i consumi del riscaldamento, si aspetta di ricevere entro il
30 giugno prossimo le delibere sulla scansione settimanale
dell'orario delle lezioni che saranno adottate dalle scuole.
A Milano e provincia gli istituti interessati sono
centosessanta circa e il risparmio ipotizzato è di un paio
di milioni di euro. Nella lettera non si individuano quali
saranno le cinque giornate nelle quali le lezioni
continueranno a essere svolte ma è logico ritenere che
dovranno essere le stesse per tutte le scuole come la stessa
dovrà essere la giornata di chiusura, il sabato molto
probabilmente. Altrimenti, risolta una questione, quella del riscaldamento,
se ne apre un'altra, quella della gestione dei trasporti.
L'introduzione della settimana corta, affermano assessore e
direttore regionale, dovrebbe essere facilitata dalla
riforma degli ordinamenti delle scuole superiori, nelle
quali la riorganizzazione degli orari, che il prossimo anno
scolastico interesserà ormai tutte le classi con l'eccezione
delle quinte, comporta un impegno settimanale di 27-30 ore
con punte di 32 solo per alcuni corsi di studio. Assessore e
direttore regionale si spingono a sostenere, un po'
apoditticamente, che la decisione di distribuire su cinque
giorni consentirà, oltre a una migliore gestione dei tempi
di riposo e delle attività sportive dei giovani, «anche una
più ottimale organizzazione del lavoro del personale Ata»
(assistenti amministrativi, ausiliari e tecnici). Sui tempi
di riposo sarebbe opportuno sentire gli studenti e quanto
alle attività sportive, attualmente gli allenamenti si
svolgono tutti i giorni, in orari pomeridiano-serali.
Difficilmente si può prevedere una concentrazione nei giorni
di sabato e domenica, nei quali oltre agli allenamenti si
svolgono anche le gare. E quanto all'organizzazione del
lavoro del personale Ata i dirigenti scolastici dovranno
vedersela con le organizzazioni sindacali con le quali
dovranno essere sottoscritti i relativi contratti
d'istituto, che prevedano le diverse modalità di
articolazione dell'orario di lavoro tra le quali il
personale Ata può scegliere. La decisione di articolare su
un determinato numero di giorni l'orario delle lezioni, non
meno di cinque recita il regolamento sull'autonomia
scolastico n. 275 del 1999, spetta sicuramente ai dirigenti
ma può essere adottata solo dopo che consigli d'istituto e
collegi dei docenti avranno deliberato, nell'ambito delle
rispettive competenze, criteri e proposte, artt. 7 e 10 del
decreto legislativo n. 297 del 1994. Non sarà una
passeggiata, se si considera che siamo in chiusura d'anno
scolastico, quando gli impegni delle scuole sono rivolti
soprattutto a esami e scrutini. È difficile quindi che entro
la fine di questo mese di giugno possano essere pronte le
delibere che l'assessore richiede, se si considera anche che
i dirigenti scolastici dovranno incontrarsi tra loro per la
necessità di coordinare le iniziative delle rispettive
scuole, oltre che presiedere le commissioni di maturità. La
lettera dell'assessore è rivolta solo alle scuole superiori,
poiché la provincia è proprietaria, ai sensi della legge n.
23 del 1996, degli edifici scolastici che le ospitano ed è
tenuta a provvedere alle spese per il riscaldamento, le
utenze elettriche e telefoniche e alla provvista di acqua e
gas. In molte scuole dell'infanzia e del primo ciclo,
primaria e secondaria di primo grado, di proprietà comunale,
il tempo scolastico è già distribuito, con soddisfazione
delle famiglie secondo l'assessore, su cinque giorni. Circa la soddisfazione di studenti, personale e famiglie
delle superiori, si registrano pareri favorevoli e opinioni
contrarie. Alcune voci si spingono a denunciare che
l'introduzione della settimana corta nelle superiori è una
molestia didattica, perché ridurrebbe i tempi per lo studio
domestico giornaliero, creando affaticamento, e
comporterebbe disordini alimentari negli studenti,
costretti, per l'assenza delle mense scolastiche, a mangiare
panini o differire il pranzo. Le scuole devono stare aperte
di più, afferma infine la Cgil, non di meno. Maggiore
apertura delle scuole che fa parte anche del piano del
governo Letta contro la dispersione.
-
Pensioni, Fornero al palo
Si muove la camera, in attesa della consulta
Italia Oggi, del 11-06-2013, di Franco
Bastianini
Quella che inizierà il 17 giugno sarà una
settimana di passione per le migliaia di docenti e di
personale Ata della scuola per i quali la riforma Fornero
aveva escluso dalla possibilità di poter fare valere, ai
fini dell'accesso al trattamento pensionistico, i requisiti
anagrafici e contributivi richiesti dalla previgente
normativa perché non posseduti alla data del 31 dicembre
2011. L'ufficio di presidenza della commissione lavoro della
camera ha posto all'ordine del giorno dei lavori la proposta
di legge n. 249, presentata il 15 marzo 2013, primo
firmatario Manuela Ghizzoni (Pd). E un impegno a risolvere
il problema è stato espresso anche dal ministro Carrozza,
nel suo intervento programmatico davanti al parlamento. La
proposta di legge, costituita di soli due articoli, prevede
che le disposizioni in materia di requisiti per accedere al
trattamento pensionistico di anzianità e/o di vecchiaia e di
regime delle decorrenze vigenti prima dell'entrata in vigore
dell'art. 24, comma 14 del decreto legge 201/2011 (per la
pensione di anzianità non meno di sessanta anni di età e
trentasei di contribuzione, o indipendentemente dall'età
anagrafica, quaranta anni di contribuzione; la pensione di
vecchiaia sessantacinque anni di età per gli uomini e
sessantuno per le donne, unitamente a non meno di venti anni
di contribuzione), devono essere estese anche al personale
della scuola che ha maturato tali requisiti entro l'anno
scolastico 2011/2012. Quanto alla copertura finanziaria di
tale estensione, è indicata in un contributo di solidarietà
dell'1 per cento sulla parte di reddito superiore al limite
di 150.000 euro lordi annui. Sulla base dei dati contenuti nell'anagrafe del ministero, i
docenti e il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario
interessati al provvedimento dovrebbero essere tra i 3.500 e
i 4.000. Se la proposta dovesse diventare legge, gli
interessati avrebbero tempo fino al 2015, salvo
l'autorizzazione alla permanenza in servizio oltre i 65anni,
per accedere al trattamento pensionistico con i requisiti
richiesti e posseduti al 31 agosto 2012. Intanto la Corte
Costituzionale ha fissato al prossimo 19 novembre l'udienza,
su ricorso della Cisl scuola davanti al giudice del lavoro,
per accertare l'eventuale incostituzionalità della norma
Fornero.
Non basta solo insegnare. Presidi, spazio ai
collaboratori
Italia Oggi, del 11-06-2013, di Alessandra
Ricciardi
Trovare risorse, è il mantra. Per la
sicurezza degli edifici, per un nuovo piano triennale di
assunzioni, per la formazione dei docenti, per l'innovazione
della didattica. Per i contratti di tutto il personale che
conta quasi un milione di dipendenti. A voler sommare i vari
capitoli di spesa del programma di governo della Carrozza,
comunicato in questi giorni alla camera e al senato,
servirebbe una Finanziaria ad hoc, visto che solo per
mettere in sicurezza le scuole il dipartimento della
Protezione civile aveva stimato una spesa di circa 13
miliardi di euro. Insomma, anche a voler utilizzare al massimo i fondi europei
e a voler sbloccare gli investimenti rispetto al patto di
stabilità, l'impresa del ministro dell'istruzione, Maria
Chiara Carrozza, si annuncia ardua. Un patto con le forze
sociali per evitare lo stallo o peggio ancora il muro contro
muro diventa allora una strada quasi necessaria. Inevitabile
soprattutto su un tema delicato come quello delle politiche
per il personale. Il blocco dei contratti pubblici, e nella
scuola anche degli scatti di anzianità, è difficilmente
superabile nell'attuale congiuntura finanziaria, ha spiegato
ai sindacati il ministro della Funzione pubblica, Gianpiero
D'Alia. Ma questo non vuol dire che non si possa operare un
confronto per una revisione normativa del rapporto di
lavoro, utilizzando magari risorse interne al sistema. In
questo senso la stessa Carrozza, che ha sgombrato il campo
da eventuali dubbi su quale siano per lei le priorità: non
dare aumenti a tutti sullo stipendio tabellare, ma
valorizzare la «capacità innovativa dei singoli e di
lavorare in team». E poi, dare «un chiaro riconoscimento
economico delle posizioni organizzative particolari della
scuola, tanto nei riguardi del personale docente ed
educativo che di quello amministrativo, tecnico e
ausiliario; un altrettanto chiaro e palese riconoscimento
tanto delle posizioni organizzative che di tutte le figure
di supporto alla attività didattica (che contribuiscono al
raggiungimento degli obiettivi di apprendimento e alla
radicalizzazione dell'istruzione sul territorio) in sede di
progressione di carriera». Insomma, se gli aumenti ci
saranno, andranno alle figure di sistema, organizzative e
per singoli progetti. Per i futuri dirigenti, spunta anche
una corsia preferenziale per chi è già stato collaboratore
del preside, figura scelta discrezionalmente dallo stesso
dirigente, che potrebbe sfociare anche in un concorso
riservato: «Tuttavia, già da subito, le posizioni
organizzative e le figure di sistema potrebbero essere
valorizzate, in misura da stabilire, nelle procedure di
selezione dei dirigenti scolastici e dei direttori dei
servizi (dal minimo riconoscimento in termini di punteggio
aggiuntivo nella valutazione dei titoli ad un riconoscimento
più sostanziale in termini di riconoscimento dei predetti
servizi quali titoli di accesso, uniti ai requisiti minimi
di legge quali il possesso di laurea ed il servizio prestato
nei ruoli della scuola)». Tra gli interventi a diretto impatto sulla scuola, il
rifinanziamento del fondo di istituto, che dovrebbe
ritornare ai livelli di 10 anni fa, ovvero 20-25 euro per
alunno contro gli attuali 8 euro a testa. Uno strumento
previsto a sostegno dell'autonomia didattica, questo, che
dovrebbe essere finanziato almeno in parte grazie alle
«economie derivanti dai nuovi appalti per il servizio di
pulizia delle scuole».
Verso il sì al decreto di blocco
Italia Oggi, del 11-06-2013, di Antimo Di
Geronimo
La scorsa settimana la commissione affari
costituzionali del senato ha esaminato lo schema del decreto
bloccagradoni. Ma le riunioni si sono risolte con un nulla
di fatto e l'esame è stato rinviato. Durante l'ultima
seduta, però, il relatore Zanettin (Pdl) ha proposto un
parere favorevole, con alcune osservazioni. Parere nel quale
non si fa alcuna menzione della scuola e che non è stato
ancora posto in votazione. Il provvedimento in esame prevede
il blocco della contrattazione per il 2013 e il 2014, il
blocco degli adeguamenti retributivi legati all'indennità di
vacanza contrattuale e la cancellazione del 2013 ai fini dei
gradoni. Il blocco della contrattazione dovrebbe,
semplicemente, impedire la crescita della spesa pubblica per
gli stipendi dei dipendenti statali, scuola compresa. Mentre
dal blocco dell'indennità di vacanza contrattuale lo stato
dovrebbe ricavare un risparmio nel 2014 nell'ordine di 801
milioni di euro. Questo per quanto riguarda il pubblico
impiego nel suo insieme. Quanto alla scuola, i risparmi sui
gradoni sono stimati nell'ordine di 300 milioni l'anno dal
2014 al 2016. In buona sostanza, dunque, per il blocco della
contrattazione e dell'indennità di vacanza contrattuale i
dipendenti pubblici andranno incontro ad una mera perdita
del potere di acquisito dei salari, per i lavoratori della
scuola il blocco degli scatti si tradurrà in una perdita
salariale in senso stretto. Perché i meccanismi di
progressione economica del comparto sono legati ad una
diversa graduazione degli importi retributivi legati proprio
all'anzianità di servizio.
-
Addio carriera legata all’anzianità,
arriva il "cursus professionale"?
Il progetto è stato annunciato dal ministro
dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, durante la
presentazione delle linee programmatiche del suo dicastero
alle commissioni Istruzioni e Cultura
La Tecnica della Scuola.it, del 07-06-2013,
di A.G.
Il
progetto è
stato annunciato dal ministro dell’Istruzione, Maria Chiara
Carrozza, durante la presentazione delle linee
programmatiche del suo dicastero alle commissioni Istruzioni
e Cultura: serve un nuovo riconoscimento ai docenti
meritevoli. Presto l’avvio del confronto coi sindacati. Che
anche su questo punto si presenteranno spaccati.
Il testo
dell'audizione
Dopo gli annunci, condotti per un paio di
mesi, il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza,
entra nel dettaglio di cosa intende per “incentivi” agli
insegnanti. Durante la presentazione delle linee
programmatiche del suo dicastero davanti alle commissioni
Istruzioni e Cultura di Camera e Senato, il nuovo
responsabile del Miur ha annunciato la volontà di introdurre
una nuova "carriera per gli insegnanti, avviando un sistema
di valutazione delle prestazioni professionali collegato a
una progressione di carriera svincolata dalla mera anzianità
di servizio". Per raggiungere questo obiettivo, il ministro Carrozza,
ritiene che è necessario dare "il giusto riconoscimento ai
docenti meritevoli costruendo un vero e proprio 'cursus
professionale'". L’occasione per realizzare il progetto sulla valutazione del
personale scolastico, in particolare quello docente, ma
anche gli Ata, sarà quindi l’avvio della contrattazione per
la stipula del nuovo contratto. Una parte dei sindacati più
rappresentativi, ma non la Flc-Cgil, si sono già espresse
favorevolmente verso un confronto che mandi in soffitta la
distribuzione a “pioggia” degli aumenti, per fare spazio ad
una somministrazione legata a prestazioni effettive. Rimane
da capire quali saranno le variabili da valutare per far
determinare gli aumenti stipendiali. E non sarà facile.
Pantaleo (Flc-Cgil): condividiamo l’impegno
su precari, edilizia, organici, mancano certezze sui
finanziamenti
La Tecnica della Scuola.it, del 07-06-2013,
di Alessandro Giuliani Di Menna (Uil): progetto ambizioso, ora niente colpi di mano
sul contratto. Scrima (Cisl): discorso credibile, preludio
al confronto sui grandi temi innovazione, qualità, merito.
Pantaleo (Flc-Cgil): condividiamo l’impegno su precari,
edilizia, organici, mancano certezze sui finanziamenti.
Pacifico (Anief): le assunzioni da fare sono 130mila, non
44mila, e il mutamento della carriera può passare solo se si
sbloccano gli scatti e si adegua lo stipendio all’area Ocde. Ha destato interesse e diverse reazioni la lunga
esternazione del ministro dell’Istruzione, Maria Chiara
Carrozza, tenuta il 6 giugno nel corso
dell’audizione
in commissioni Istruzioni e Cultura in occasione della
presentazione delle linee programmatiche del suo dicastero.
Carrozza ha affrontato argomenti a tutto campo: turn over,
precariato, progressioni di carriera, edilizia,
l’immancabile edilizia scolastica ed anche qualche accenno
alla semplificazione normativa. Alcune delle esternazioni della Carrozza,
bisogna dirlo, hanno sorpreso in positivo. Come l’entità
delle assunzioni, che seppure in numero sempre ridotto
rappresentano un passaggio indispensabile verso la
stabilizzazione dei precari e il proseguimento del turn over
fisiologico. Alcune aperture non sono sfuggite ai sindacati. Massimo Di
Menna, segretario generale della Uil Scuola, parla di “un
progetto ambizioso”, ma chiede anche di “non partire col
piede sbagliato bloccando contratto e retribuzioni”. Anche per Francesco Scrima, segretario generale della Cisl
Scuola, quello di Carrozza è "un discorso credibile, su cui
si può aprire senz'altro una proficua stagione di confronto
attivo coinvolgimento sui grandi temi dell'innovazione,
della qualità, del merito". Come, sempre per il leader della
Cisl, sono "molto importanti i segnali dati sul versante del
contrasto alla precarietà, con la proposta di un nuovo piano
triennale di assunzioni, l'obiettivo di un organico
funzionale e la proposta di consolidamento dei posti di
sostegno in organico di diritto, così come l'impegno a
ricercare soluzioni al problema dei docenti inidonei e dei
pensionamenti negati". Scrima si dice soddisfatto, inoltre, per l’intenzione di
avviare un "'tempo scuola' più ricco" e di valorizzare il
"ruolo da assegnare al sistema di valutazione, strumento
indispensabile per la crescita di qualità ed efficacia del
sistema", sempre a patto che rimanga "fuori da ossessioni
premial-punitive". Decisamente più moderato è il giudizio di Mimmo Pantaleo,
segretario generale Flc-Cgil, che ha trovato alcuni passaggi
dell’audizione “apprezzabili e condivisibili a partire
dall’impegno sul personale precario, edilizia scolastica,
stabilizzazione degli organici, Anvur e governance di enti
di ricerca e università, quando le stesse si
concretizzeranno in un cronogramma che tenga insieme
priorità, obiettivi e risorse”. Pantaleo ritiene, tuttavia,
che Carrozza sarebbe dovuta partire da una “lettura critica
delle politiche che hanno devastato scuola, università,
ricerca e afam con i tagli epocali e il tentativo di andare
verso una privatizzazione dei saperi”. Il sindacalista
Flc-Cgil individua, inoltre, nelle “risorse il punto debole
degli obiettivi programmatici esposti dalla Ministra: (…).
Serve perciò avere certezze di finanziamenti, a partire da
quelli che servono per rinnovare i contratti nazionali di
lavoro del personale della scuola, università, ricerca, Afam
bloccati dai precedenti governi”. Anche perché Pantaleo
annuncia che il sindacato “si opporrà a qualunque intervento
su orari e carriere del personale docente che avvenga fuori
dal contratto nazionale e senza risorse aggiuntive a ciò
destinate”. L’audizione della Carrozza è stata commentata con parziale
apprezzamento dal presidente dell’Anief, Marcello Pacifico,
secondo cui “l’annuncio fatto oggi in Parlamento va
apprezzato, però il numero di immissioni in ruolo che
andrebbero attuate entro il 2017 sono 130mila e non 44mila.
Via libera dal sindacato anche al progetto di revisione
della carriera degli insegnanti, a patto che sblocchi gli
scatti e adegui lo stipendio a quelli dell’area Ocde” e
“alla realizzazione di nuovi testi unici per superare
l’attuale giungla normativa attualmente esistente”.
-
Statali. Stop a rinnovi e indennità persi
6 mila euro in cinque anni
I conti, nelle tasche dei dipendenti
pubblici, li hanno fatti i sindacati. E sono conti al
ribasso, aggiornati dal blocco dei contratti, peraltro
ribadito dal ministro della Funzione Pubblica, Giampiero D’Alia.
Il Messaggero, del 05-06-2013, di Luciano
Costantini
LA DENUNCIA
ROMA I conti, nelle tasche dei dipendenti
pubblici, li hanno fatti i sindacati. E sono conti al
ribasso, aggiornati dal blocco dei contratti, peraltro
ribadito dal ministro della Funzione Pubblica, Giampiero D’Alia.
Seimila euro persi in cinque anni per mancati aumenti di
stipendio. Gli anni che vanno dal 2010 al 2014, cioè quelli
relativi a tutto il periodo di stop della contrattazione e
delle indennità. Come dire che in un lustro, i tre milioni
di statali, dovranno rassegnarsi a veder ridotte le proprie
retribuzioni di 240 euro al mese. Secondo le organizzazioni
sindacali, alla fine del prossimo anno mancheranno
all’appello almeno 10 punti di potere di acquisto.
I CONTI
Un conto salatissimo pagato alla crisi e alla
spending review, ma che potrebbe risultare ancora più
pesante se solo si prendesse in esame, più in dettaglio, la
dinamica contrattuale. Vero è che lo stop riguarda il
quinquennio 2010-2014, ma in effetti il blocco si prolunga
almeno dal 2008-2009, biennio in cui avvennero gli ultimi
rinnovi. Aggiungere i due-tre anni, ai cinque di blocco in
atto, significa arrivare a quota otto. Non è finita. Secondo
l’Istat, quindi l’istituto principe che si occupa di
statistiche, i tempi medi per rinnovare i contratti nel
pubblico e nel privato variano tra i ventiquattro e i trenta
mesi. L’ultima promessa - anzi, una speranza - del ministro,
Gianpiero D’Alia, parla di un possibile sblocco dei
contratti per il 2015. Ma la firma potrebbe non arrivare
prima del 2017-2018. Risultato finale: i dipendenti statali
rischiano di ritrovarsi con i nuovi contratti e quindi i
nuovi aumenti (se ci saranno) a distanza di dieci anni dalla
firma sui vecchi. Prospettiva assolutamente non
incoraggiante per una categoria che, a torto o a ragione, si
è sentita spesso bistrattata. Comunque presa di mira per
inefficienza e scarso attaccamento al servizio. I sindacati sentono che la platea degli iscritti è
irrequieta. E hanno deciso di riaprire il confronto con il
governo, per ora con un atteggiamento soft, ma non è escluso
che la possibile indisponibilità dell’esecutivo (conseguenza
della mancanza di risorse) possa far maturare prese di
posizione via via più rigide. Fino a sfociare in aperto
conflitto. Nelle settimane scorse era stato il leader della
Cisl, Raffaele Bonanni, a preannunciare la volontà ferma di
riaprire con il nuovo esecutivo il tema del blocco dei
contratti pubblici: «E’ una delle nostre priorità». Che
tocca anche quella degli organici. Sventato, al momento, il
pericolo dei tagli, è un fatto che il personale è continuato
a calare negli anni, a partire dal 2008. Tra il 2008,
appunto, e il 2011 gli impiegati statali sono diminuiti di
quasi 154.000 unità (circa il 5%) passando da 3.436.000 a
3.247.000. E nel 2012 la cura dimagrante è proseguita.
Facile immaginare che il trend proseguirà.
I DIPENDENTI
Il settore più numeroso è quello della scuola
con un milione di dipendenti, seguito da quello della sanità
con oltre 600.000. Poi Regioni e autonomie locali (488.000).
Più di 300.000 gli uomini delle forze dell’ordine, quasi
120.000 quelli delle forze armate. Nella magistratura sono
impiegate 10.000 persone, nelle università circa 90.000,
nella ricerca 20.000. E’ la Lombardia la regione con il
maggior numero di dipendenti pubblici: 406.000. Al secondo
posto il Lazio con 401.000. Ma proprio il Lazio ad avere il
maggior numero di impiegati (12,35% ).
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Pubblico impiego, resta il blocco Niente
aumenti per tutto il 2014
Giovannini: dopo l’estate correttivi alle
pensioni, ora la semplificazione
Corriere della Sera.it, del 05-06-2013
ROMA — Un tavolo per affrontare la questione
dei precari della pubblica amministrazione «che dovranno
diventare un’eccezione e invece oggi sono la regola», mentre
sul blocco degli stipendi esteso fino al 2014 non ci sono
margini di manovra. Il ministro della Pubblica
amministrazione, Giampiero D’Alia, incontra i sindacati di
categoria, ascolta le loro richieste ed evita di prendere
impegni che non sarebbe facile mantenere. Il problema è
sempre quello, i soldi: per i 110 mila contratti a termine
del settore il governo ha reso possibile la proroga fino
alla fine dell’anno ma a patto che le singole
amministrazioni abbiano i soldi per farlo. Mentre sul blocco
della contrattazione, partito nel 2010 e prorogato fino al
2014 dal governo Monti con un decreto ancora in Parlamento
per il parere delle commissioni, D’Alia ha fatto capire che
la decisione spetta a chi controlla i conti pubblici. Per
questo diventa possibile un nuovo incontro, stavolta con il
presidente Enrico Letta e il ministro dell’Economia Fabrizio
Saccomanni. Prudenti ma non soddisfatti i sindacati.
Cgil, Cisl e
Uil considerano «inderogabile necessità di una discontinuità
delle politiche nel lavoro pubblico». Mentre la Confsal
parla di «risposte non adeguate» e promette «azioni di
lotta». Oggi D’Alia sarà di nuovo in Parlamento per
illustrare il suo programma, come stanno facendo in questi
giorni tutti i ministri. E dovrebbe dire qualcosa di più su
due misure allo studio fin dai primi giorni del suo
incarico. La prima riguarda i tempi, lentissimi, della
burocrazia italiana. Con l’ipotesi di fissare dei limiti
temporali precisi per ogni singolo procedimento con la
possibilità di introdurre anche dei meccanismi di natura
indennitaria, cioè dei risarcimenti, in caso di sforamento.
La seconda, più in generale, riguarda la semplificazione
delle procedure burocratiche. Si dovrebbe partire dalle «100
procedure più complicate da semplificare» coinvolgendo anche
i cittadini e chiedendo loro consigli e suggerimenti su cosa
cambiare. Il modello sarà quello della consultazione
pubblica via Internet, già utilizzato dal governo Monti sia
per la spending review sia per l’abolizione del valore
legale del titolo di studio.
Dovrebbe essere espresso nella seduta del 5
giugno dalla Commissione Affari Costituzionali dove però,
nella giornata del 4, è stata ventilata la possibilità di
una rinvio.
La Tecnica della Scuola.it, del 05-06-2013,
di R,P,
La vicenda del Regolamento sul blocco dei
contratti e degli stipendi pubblici potrebbe subire una
battuta di arresto: in Commissione Affari Costituzionali del
Senato sta infatti emergendo l’ipotesi di chiedere al
Governo una proroga di qualche giorno per la formulazione
del parere finale. Il ritardo sarebbe dovuto soprattutto al fatto che la
Commissione Bilancio non si è ancora espressa, ma forse al
Senato si stanno anche facendo i conti con un diffuso
malessere politico perché nessuno, in questa fase, vuole
assumersi la responsabilità diretta di prorogare di un anno
i contratti e gli stipendi pubblici. Per dovere di cronaca va anche detto che nella seduta del 4
giugno, in Commissione Affari Costituzionale sono stati già
presentati due pareri sul provvedimento, uno contrario del
M5S e uno favorevole (per la precisione “non ostativo”) del
relatore di maggioranza Pierantonio Zanettin (PdL). La Commissione, nello schema di parere,
“auspica che
la presente proroga del blocco della contrattazione e degli
automatismi stipendiali costituisca l'ultimo intervento di
contenimento di spesa a discapito di una categoria sociale -
quella dei dipendenti pubblici - già fortemente colpita da
un progressivo processo di oggettivo impoverimento”.
E invita il Governo
“ad attivarsi
affinché, ove vi siano le condizioni finanziarie
compatibili, con il primo avanzo utile di bilancio, provveda
a revocare tale regime”. Il tono appare quello della
rassegnazione e della ineludibilità della decisione, anche
se nel corso del dibattito il senatore Pagliari (PD) ha
invitato i colleghi a tenere conto delle osservazioni
fortemente critiche formulate dalla Commissione Istruzione. Nella giornata del 5 giugno la Commissione Affari
Costituzionali dovrebbe prendere una decisione, ma è
possibile che i tempi slittino, in attesa di trovare un
accordo solido.
Operativo il
sistema informativo dell'istruzione aggiornato con nuove
funzioni
ItaliaOggi, del 04-06-2013, di Antimo Di Geronimo
Al via il
riconoscimento dei gradoni nelle ricostruzioni di carriera.
A partire dal 22 maggio scorso, infatti, il sistema
informativo dell'istruzione (Sidi) è stato aggiornato con
delle nuove funzioni che consentono di applicare il
contratto del 13 marzo. E cioè, l'accordo che dispone il
recupero dell'utilità del 2011 ai fini della progressione di
carriera. Lo ha fatto sapere il ministero dell'istruzione, con una
nota emanata il 22 maggio scorso (AOODGSSSI n.1211). Il
provvedimento è stato inviato alle scuole, perché le
ricostruzioni di carriera rientrano tra gli adempimenti a
carico delle istituzioni scolastiche (tra le tante, si veda
la circolare 9 maggio 2001, n.86). Fatte salve le
ricostruzioni le cui domande siano state presentate prima
del 1°settembre 2000. Per tutte le altre la competenza è
delle scuole. Che devono provvedere direttamente a
determinare gli importi derivanti dal riconoscimento dei
servizi per il ruolo. E cioè dei servizi prestati dai
lavoratori interessati prima dell'accesso al ruolo di
appartenenza. Riconoscimento che determina, a sua volta, la
collocazione nella classe stipendiale corrispondente al
numero di anni di servizio effettivamente prestati, anche se
non di ruolo. Questi ultimi, però, non vengono valutati per intero: i
primi 4 valgono al 100%, gli altri valgono 2/3. Per essere
considerati valutabili i servizi pre-ruolo devono essere
stati prestati in possesso del titolo di studio previsto per
l'accesso alla qualifica e il periodo di riferimento non
deve essere stato inferiore a 180 giorni. È prevista però un'eccezione: se il servizio è stato
prestato ininterrottamente dal 1° febbraio fino al termine
delle operazioni di scrutinio finale, ai sensi dell'art. 11,
comma 14, della legge 3 maggio 1999, n. 124, il periodo
viene comunque considerato valido, come se si trattasse di
un intero anno di scuola. Il beneficio viene attribuito a
domanda del lavoratore interessato. Il diritto al riconoscimento dei servizi e, dunque, alla
ricostruzione di carriera, si prescrive in 10 anni. Il
diritto agli eventuali arretrati decade invece dopo 5 anni.
Nell'imminenza del decorso del termine è opportuno
presentare una diffida ad adempiere con costituzione in
mora, che ha l'effetto di interrompere il termine della
prescrizione. Che decorrerà nuovamente a far data dalla
presentazione della diffida. Quanto agli effetti in busta
paga, l'accordo del 13 marzo comporta il recupero del 2011.
In soldoni: 1000 euro in più a testa a regime e circa 4mila
sulla cosiddetta liquidazione. Che spettano a tutti, ma la
cui applicazione varia da persona a persona, a seconda
dell'anzianità di servizio. I gradoni, infatti, vengono maturati al compiersi di
determinati periodi di anzianità, attualmente corrispondenti
alle seguenti fasce stipendiali: 9, 15, 21, 28, 35. Il
numero a cui fa riferimento la fascia corrisponde al
superamento di un traguardo individuato in un determinato
numero di anni di servizio. Per esempio, il lavoratore che è
in fascia 21 è un soggetto che ha superato i 20 anni di
servizio e a tale anzianità corrisponde anche un determinato
importo dello stipendio. Importo che varia e a seconda della
qualifica: più alto per i docenti, più basso per gli Ata
(con la sola eccezione dei direttori dei servizi generali e
amministrativi, che mediamente guadagnano più dei docenti). Resta il fatto, però, che l'art. 9, comma 23, del decreto
legge 31 maggio 2010, n. 78 ha disposto che: «Per il
personale docente, amministrativo, tecnico ed ausiliario (Ata)
della scuola, gli anni 2010, 2011 e 2012 non sono utili ai
fini» dei gradoni. Il 2010 è stato recuperato con il decreto
interministeriale n. 3 del 14/01/2011. Decreto con il quale
il governo ha destinato parte dei risparmi dovuti ai tagli
agli organici degli ultimi anni a rifinanziare i gradoni. E
il 2011 è stato recuperato con l'accordo del 13 gennaio, che
utilizza i rimanenti soldi dei tagli e una parte dei soldi
del fondo di istituto. Dunque, il 2012 non è stato ancora
recuperato.
Lo chiede la
commissione istruzione del Senato nel parere al Dpr sulla
contrattazione. La scuola è stata utilizzata come luogo di
prelievo forzoso
ItaliaOggi, del 04-06-2013, di Antimo Di Geronimo
No al
blocco della contrattazione, dei gradoni e dell'indennità di
vacanza contrattuale. La scuola è stata utilizzata troppo
spesso «come luogo di prelievo forzoso di risorse». E un
altro blocco degli incrementi stipendiali finirebbe per
aggravare ulteriormente la sofferenza di un comparto, che
negli ultimi anni è stato già duramente colpito dai tagli. Il monito viene dalla VII commissione istruzione del Senato,
presieduta dal PD Andrea Marcucci, che lo ha formalizzato in
un parere approvato il 29 maggio scorso. Le osservazioni del collegio senatoriale riguardano lo
schema di decreto del Presidente della Repubblica, recante
il regolamento in materia di proroga del blocco della
contrattazione e degli automatismi stipendiali per i
pubblici dipendenti. E sono state trasmesse alla commissione
affari costituzionale di palazzo Madama. Che esaminerà la
bozza di provvedimento oggi dalle 14.30 in poi con eventuale
prosieguo domani alla stessa ora. La commissione istruzione ha fatto presente, inoltre, che il
governo dovrebbe riqualificare le spese per tutto il
comparto pubblico della conoscenza, tenuto conto che,
secondo le conclusioni del Consiglio europeo del 28-29
giugno 2012, esse sono da considerarsi quali investimenti in
capitale umano. Quanto allo specifico del provvedimento, se l'ipotesi di
regolamento andrà in vigore così com'è, l'effetto sarà
quello di un'ulteriore perdita del potere d'acquisto degli
stipendi dei dipendenti pubblici. In modo particolare per la
scuola. Per questo comparto, infatti, oltre al blocco della
contrattazione collettiva e degli incrementi dell'indennità
di vacanza contrattuale per il 2013 e il 2014, è prevista
anche la cancellazione dell'utilità del 2013 ai fini della
progressione economica di carriera (i cosiddetti gradoni). E gli effetti più devastanti si avrebbero soprattutto per
quest'ultima previsione. Il perché è presto detto. Il blocco
della contrattazione collettiva per altri due anni avrebbe
come effetto immediato la preclusione dell'adeguamento delle
retribuzioni al costo della vita nel biennio. Ma tale
effetto verrebbe, per così dire, «attutito»
dall'applicazione dell'indennità di vacanza contrattuale.
Che consente di recuperare annualmente circa la metà del
tasso di inflazione programmata. E comunque, eventuali rinnovi contrattuali, per quanto
tardivi, non precluderebbero il recupero totale, di fatto,
di quanto è andato perduto finora. Perlomeno in via
meramente teorica. Anche il blocco del ricalcolo
dell'indennità di vacanza contrattuale, in seguito, potrebbe
essere comunque sanato. Non così, invece, per la cancellazione dell'utilità del
2013, che comporterebbe un ulteriore ritardo di un anno
nella maturazione della progressione stipendiale. Il tutto
con danni strutturali nell'ordine di circa 1000 euro
mensili, circa 4mila euro in meno sulla liquidazione ed
effetti sull'importo della pensione. Va detto, inoltre, che sebbene governo e sindacati abbiano
già trovato una soluzione per la reintegrazione dell'utilità
del 2010 e del 2011, la strada per il recupero del 2012
appare tutta in salita. E la cancellazione del 2013
complicherebbe ulteriormente le cose. Tanto più che saremmo
di fronte ad una progressiva decontrattualizzazione
dell'unica materia che non era stata rilegificata dal
governo Berlusconi con la legge 15/2009 e con il decreto
Brunetta. La cancellazione dell'utilità del quadriennio 2010-2013 ai
fini dei gradoni (il triennio 2010-2012 con il decreto legge
78/2010 e il 2013 con il regolamento al vaglio del senato)
costituisce, infatti, una vera e propria riduzione
dell'importo delle retribuzioni. Perché nel comparto scuola
la progressione economica di carriera non corrisponde a
mutamenti di qualifica. Quanto, invece, ad una diversa
quantificazione degli importi stipendiali diretta a
valorizzare l'esperienza accumulata sul campo.
Bloccare i gradoni significa,
quindi, ridurre i fondi complessivamente spettanti
all'intera categoria e, di conseguenza, ridurre l'importo
delle retribuzioni dovute secondo il contratto attualmente
in vigore. Il tutto lasciando intatti i fondi destinati
all'accessorio. In altre parole, il governo, anziché ridurre
i fondi da destinare alla copertura del lavoro
straordinario, che per loro natura sono previsti per la
copertura finanziaria di prestazioni solo eventuali, ha
tagliato e sta per tagliare risorse necessarie ad onorare
debiti retribuitivi derivanti dall'erogazione del lavoro
ordinario. E cioè derivanti dall'adempimento della
prestazione obbligatoria ordinariamente connessa alla
realizzazione della funzione
Serviranno
a combattere la dispersione scolastica e favorire la
mobilità sociale. Tra le misure immediate rimane quella di
aprire gli istituti il pomeriggio
La Tecnica della Scuola.it, del 03-06-20
Serviranno a combattere la dispersione
scolastica e favorire la mobilità sociale. Tra le misure
immediate rimane quella di aprire gli istituti il
pomeriggio. Per un quadro più dettagliato sui progetti del
nuovo responsabile del Miur bisognerà attendere il 6 giugno,
quando di fronte alle commissioni Cultura di Camera e Senato
presenterà le linee programmatiche del suo dicastero Le buone intenzioni del ministro Carrozza cominciano a
scontrarsi con la dura realtà. Composta da un Governo
particolare, decisamente a corto di fondi e tutto proteso a
far quadrare i conti. "Stiamo lavorando per reperire fondi
per l'istruzione e la ricerca, ma i tempi per un
provvedimento specifico sono ancora incerti", ha detto il
ministro dell'Istruzione a margine della
consegna
della Costituzione
ai diciottenni a Buti (Pisa). Per poi aggiungere una frase, stavolta
indicativa sul programma del nuovo responsabile del Miur.
"Faremo squadra con gli altri ministri - ha sottolineato
Carrozza - per reperire fondi per le misure
sull'occupazione, ma anche per sfruttare quelli sulla
coesione per combattere la dispersione scolastica e favorire
la mobilità sociale, oltre a utilizzare una parte di
spending review finalizzata a sfruttare risorse per la
ricerca e non nell'ottica di spremere sempre la scuola". In termini pratici, quanto detto dal ministro dovrebbe
innanzitutto concretizzarsi nella possibilità di aprire
maggiormente le scuole al territorio: da mattina a sera.
Anche il sabato pomeriggio, visto che la stessa Carrozza si
è compiaciuta di questo evento visitando sabato 1° giugno un
istituto scolastico nel pisano. Ei fondi di cui parla
servirebbero principalmente a sovvenzionare il personale
(docenti e Ata) chiamato a rimanere in servizio in orario
extra-curricolare.
Per avere un quadro più dettagliato sulle
strategie del nuovo Ministro bisognerà attendere ancora
qualche giorno: giovedì 6 giugno, presso le commissioni
Cultura di Camera e Senato, sono previste, da parte sua,
delle comunicazioni “sulle linee programmatiche del suo
dicastero”: l’inizio della presentazione dell’intervento è
fissato alle ore 13,30.
-
Bonus maturità, interviene il ministro
“Rischio caos, correggerò il sistema”
Carrozza dopo le proteste: il metodo che
attribuisce i punti per i test di accesso alle università va
semplificato
la Repubblica.it, del 03-06-2013
Il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara
Carrozza, ferma i “bonus maturità”, che regaleranno (secondo
l’impostazione del suo predecessore Francesco Profumo) da
quattro fino a dieci punti a chi si iscriverà alle facoltà
universitarie a numero chiuso (medicina e architettura, le
più importanti). Ieri a Buti, provincia di Pisa, nel corso
della consegna della Costituzione ai diciottenni, il
ministro ha detto: «Sui bonus maturità ci sono molte
discussioni, ma il mio obiettivo è quello di semplificare la
normativa rispettando i principi». Resisteranno, quindi, ma
andranno rivisti nel calcolo e nell’applicazione. Repubblica ha dimostrato ieri, con un’analisi che ha toccato
diverse città da Nord e Sud e singole scuole all’interno
della stessa città, che per ottenere il bonus (per esempio
10 punti) in alcuni istituti è necessario prendere 100
centesimi alla maturità, in altri basta un 90, in altri
ancora un 85. In generale, saranno penalizzati i licei
(classici e scientifici) in favore dei tecnici e degli
istituti privati. Ha detto ancora la Carrozza: «Ho ereditato
il provvedimento e sto ricevendo appelli e lettere. Il
ministero dell’Istruzione è pieno di ricorsi, ai quali si
risponde superando i cavilli e provando a rendere il sistema
molto più semplice». L’Unione degli universitari e la Rete degli studenti hanno
sottolineato come i bonus incideranno sul punteggio finale
del test: «Non solo serve un voto da 80 a 100 centesimi, ma
il voto di diploma va equiparato alla media dei voti presi
nell’anno accademico precedente». Per il 2013 il test
d’accesso universitario — molto selettivo — è stato
anticipato al 23 luglio. Il ministro Profumo aveva varato il
“bonus maturità” negli ultimi giorni di reggenza cercando di
porre rimedio alla storica disparità tra i voti di maturità
presi nelle scuole del Sud (alti) e quelli presi al Nord
(più bassi). La taratura fin qui trovata è ancora lacunosa
L'ultima istantanea sul laureato italiano è
in Rete ed è stata presentata ieri a Milano
Corriere della Sera.it, del 30-05-2013, di
Federica Cavadini
L'ultima istantanea sul laureato italiano è
in Rete ed è stata presentata ieri a Milano. Intanto. È più
giovane: rispetto a dieci anni fa un paio d'anni in meno, il
titolo arriva a 25, non più a 27. E meno frequentemente è un
fuori corso. Gli studenti in regola con tempi ed esami, che
erano una minoranza, appena uno su dieci, sono diventati il
40%. Queste le buone notizie. Il contesto è quello
denunciato dal consiglio universitario nazionale nei mesi
scorsi: poche immatricolazioni, fuga dagli atenei («mancano
all'appello quasi sessantamila studenti», denunciò il Cun).
«Oggi i diciannovenni che si immatricolano sono soltanto tre
su dieci», è stata la premessa anche ieri, alla
presentazione dell'Identikit dei laureati 2012, rapporto
confezionato annualmente dal consorzio interuniversitario
Almalaurea. Il messaggio. «Pensando ai 400 mila giovani e alle loro
famiglie che stanno decidendo se continuare gli studi,
vorremmo ribadire che con una formazione superiore si lavora
meglio e di più: le opportunità per i laureati oggi, con la
crisi, sono il 14% in più», ha detto Andrea Cammelli,
direttore del consorzio, prima di raccontare con i numeri i
nuovi laureati. Lo studio è stato realizzato su 227 mila studenti delle 63
università nel consorzio, che significa l'80% del totale.
Non hanno aderito la maggioranza degli atenei milanesi e
lombardi. E a questo proposito da Milano è stato rilanciato
l'appello ai rettori, dal Politecnico alla Statale, da
Bocconi a Bicocca. «Almalaurea oggi ha un'anagrafe dei
laureati con un milione e ottocentomila curriculum
disponibili anche in inglese per le imprese di tutto il
mondo, un peccato non avere una banca dati completa». Poi la riflessione sull'identikit del laureato. Da notare
che per la maggioranza dei neodottori (71%) la pergamena
entra per la prima volta in famiglia: «Questo vale
soprattutto per le triennali introdotte con la riforma del
2004, si scende al 53% se si considerano i corsi a ciclo
unico». E c'è il dato nuovo sulla regolarità negli studi,
con il numero dei fuori corso in netto calo. E sulla
frequenza alle lezioni, che cambia a seconda dei percorsi,
più alta per Ingegneria, Architettura e professioni
sanitarie, più bassa per l'area giuridica. Un altro numero da leggere: la crisi incide sulle esperienze
di lavoro durante gli studi, dopo un periodo di crescita
calano dal 77 al 71%. Mentre sono sempre più diffusi
tirocini e stage: più della metà dei neodottori ha avuto
un'esperienza di lavoro in azienda. Prima della riforma del
2004, gli studenti che avevano questa opportunità erano un
terzo. Poi, le esperienze all'estero, a partire da Erasmus,
anche queste in crescita: siamo al 14% e il numero sale fra
i laureati magistrali. A proposito di studenti globali e
internazionalizzazione, la capacità attrattiva dei nostri
atenei è ferma al 3,5% di iscritti stranieri. Mentre i
nostri studenti sono pronti a partire. «Nonostante i luoghi
comuni è diffusa la disponibilità a effettuare trasferte
frequenti di lavoro, è pari al 31%». E al trasferimento di
residenza direbbero sì il 44% dei laureati. Un no è stato
dichiarato soltanto dal 3%. Più disponibili e flessibili i
nuovi laureati anche su lavori part time e contratti a tempo
determinato. E adesso disponibili prima. L'età media della
laurea nel 2004 era 26,8 anni, adesso il diploma di primo
livello arriva a 23,9, di laurea magistrale a 25,2 e a ciclo
unico a 26.
di Benedetto Vertecchi,
l'Unità, del 30-05-2013
PREMETTO CHE CONSIDERO L‘EDUCAZIONE CIVICA UN
ASPETTO DELL’ATTIVITÀ DELLE SCUOLE AL QUALE SAREBBE
NECESSARIO RIVOLGERE UN’ATTENZIONE ben più ampia di quanto
il più delle volte accada. Ma, proprio per questo, mi chiedo
se le condizioni politiche e sociali in cui la scuola opera
siano le più favorevoli a costituire uno sfondo di
riferimento. Non si può ignorare, infatti, che l’educazione
civica, anche più di quanto non avvenga per altri aspetti
dell’educazione scolastica, rischia di produrre effetti
controproducenti nel profilo di bambini e ragazzi se la
proposta di cui è portatrice si presenta contraddittoria
rispetto alla sua traduzione empirica, ovvero al modo in cui
determinati principi sono concretamente attuati, o inattuati,
nell’esperienza quotidiana. In breve, non si può continuare
a dire a bambini e ragazzi che la Repubblica è fondata sul
lavoro, se poi non ci si preoccupa di superare le angosciose
incertezze che segnano la condizione di vita di milioni di
lavoratori o di giovani in cerca di occupazione. Non si può
spargere moralità sociale se si consente che una parte
consistente del reddito sfugga al prelievo fiscale. Non si
può affermare l’uguaglianza dei cittadini se le leggi non
sono uguali per tutti, e ce ne sono di formulate per un uso
personale. Si potrebbe continuare, ma sarebbe inutile,
perché si dovrebbe stilare un elenco noto a tutti. Inoltre,
da un punto di vista educativo, sarebbe moralistico
riproporre tale elenco senza tentare un’interpretazione che
contenga anche un’ipotesi per il superamento dei limiti
indicati. Quel che si deve valutare è se proporre principi
manifestamente contraddetti dai comportamenti di individui o
gruppi più o meno consistenti di cittadini non abbia come
effetto la sostituzione dei principi politici e di
convivenza civile che sono alla base dell’educazione civica
con un insieme di valori empirici, volti a rendere legittimo
un successo che consista nell’acquisizione di vantaggi
personali. Non è questa un’interpretazione peregrina.
Bambini e ragazzi sono sommersi di stimoli nei quali il
messaggio più ricorrente è ottenere denaro o condizioni di
favore col minimo sforzo, senza troppo guardare per il
sottile sulle implicazioni che possono derivarne. Spesso il
successo è associato all’apprezzamento di atteggiamenti
mentali caratterizzati dalla ristrettezza dell’orizzonte
interpretativo (in altre parole, dalla furbizia). Bambini e
ragazzi non sono orientati a considerare il trascorrere del
tempo (è sicuro che ciò che al momento appare un vantaggio
per chi lo consegue continui a esserlo nel tempo?), e
neanche le conseguenze sugli altri del vantaggio privato che
riescono a conseguire. È una morale sociale centrata
sull’avvelenamento dei pozzi quella che non fa considerare
come i vantaggi da furbizia siano pagati da altri. Se
l’intento dell’educazione civica è di creare una cultura
comune di riferimento per ciò che riguarda i diritti e i
doveri dei cittadini e le regole che disciplinano la vita
sociale, bisogna prendere atto che tale intento non può che
essere conseguito per l’effetto convergente dell’educazione
formale assicurata dalla scuola (cui spetta di fornire gli
elementi conoscitivi) e di quella informale, che si
acquisisce attraverso le esperienze che si compiono, giorno
dopo giorno, nelle famiglie, tramite le interazioni sociali,
per effetto delle suggestioni esercitate dai sistemi di
condizionamento prevalentemente attivi attraverso i mezzi
per la comunicazione sociale. La scissione tra i principi
della convivenza (quelli espressi dalla Costituzione) e i
valori empirici ossessivamente enfatizzati come segni della
capacità di affermazione individuale rappresenta una
manifestazione non marginale della crisi che il nostro Paese
(ma non è il solo) sta attraversando. Quel che in Italia è
più grave è un effetto di mitridatizzazione, che sta minando
la capacità di stabilire un rapporto corretto tra le
aspirazioni e i comportamenti individuali e quelli sociali.
C’è da chiedersi se, al momento, le proposte che la scuola
rivolge attraverso l’educazione civica non siano percepite
da bambini e ragazzi come una forma di ipocrisia. Certi
principi possono apparire esibizioni esortative che la
società adulta si guarda dall’accogliere. Un’educazione
civica così praticata è un’offesa per la Costituzione:
meglio sarebbe sospenderne l’insegnamento. L’alternativa a
una simile amputazione consiste in un’assunzione collettiva
di responsabilità: si può insegnare l’educazione civica se
si contrasta la disoccupazione, se non si considerano furbi
ma criminali gli evasori fiscali, se non si approvano (e
neanche si propongono) leggi ad personam, se tutti fruiscono
di un’istruzione di qualità elevata, se non si devasta il
territorio e via seguitando. La scuola può rendere
sistematico l’apprendimento, ma i valori sui quali si fonda
l’educazione civica non possono che costituire il riflesso
delle scelte prevalenti nella società.
Più studiosi e più disponibili a lavorare
lontano da casa.
La
Stampa.it, del 30-05-2013, a cura di
Stefano Rizzato (Milano)
Spinti forse dalla crisi, in pochi anni i
giovani universitari sono diventati più zelanti. E riescono
a strappare il titolo sempre prima. Lo rivela il
quindicesimo «Profilo dei laureati italiani», presentato
ieri dal consorzio interuniversitario AlmaLaurea. In che
senso sono diventati più studiosi? Oggi gli universitari frequentano molto di più di qualche
anno fa, si laureano più giovani e vanno decisamente meno
fuori corso. Considerando solo chi s’immatricola subito dopo
la scuola, l’età alla laurea è passata dai 26,8 anni dei
laureati 2004 ai 24,9 anni del 2012. Oggi servono in media
23,9 anni per prendere la triennale, 25,2 per la laurea
magistrale 3+2, e 26,1 per la magistrale a ciclo unico. Sono dati che variano in base alla facoltà? I più giovani a finire la triennale sono i laureati in
lingue (24,5 anni), insieme a quelli di ambito
economicostatistico e agli ingegneri (entrambi 24,6 anni).
Ci mettono di più gli aspiranti insegnanti (28,2 anni) e
soprattutto i laureati in giurisprudenza, che in media
ottengono il titolo a 30 anni. In questo campo, influisce
molto la tendenza a lavorare durante gli studi: non a caso,
ad avere un’occupazione a tempo pieno prima della laurea è
meno del 5% di linguisti e ingegneri. E per quanto riguarda i fuori corso? Anche per quest’aspetto i dati sono confortanti. Nel 2001, a
laurearsi nei tempi canonici erano poco meno del 10% degli
studenti, mentre oggi sono il 41%. Particolarmente motivati
e regolari sono i laureandi magistrali: il 48,5% di loro
conclude gli studi in corso e un altro 32% lo fa al massimo
con un anno di ritardo. Quanti sono i laureati triennali che scelgono di proseguire
gli studi? Sono il 76%: 61 su 100 scelgono di fare una specialistica, 9
optano per un master, 6 per un altro percorso. Il dato di
chi continua dopo il primo ciclo di studi è però in lieve
calo rispetto a qualche anno fa. «È il prezzo pagato alla
crisi - dice il professor Andrea Cammelli, direttore di
AlmaLaurea -. Tra chi prosegue gli studi sta diminuendo
proprio la quota di chi viene da famiglie meno agiate». È per questo motivo che c’è stato anche un calo delle
immatricolazioni? Non solo. È vero che in Italia sono andati persi quasi 60
mila immatricolati in meno di dieci anni, ma è accaduto per
un insieme di fattori. «C’è prima di tutto una ragione
demografica: oggi i 19enni italiani sono il 37% in meno di
25 anni fa - spiega Cammelli -. Però solo il 30% di loro si
iscrive all’università e in questo senz’altro influiscono la
crisi e il disagio delle famiglie a livello economico». In tempi di disoccupazione giovanile galoppante, il nostro
sistema non sforna già troppi laureati? Tutto il contrario: per livello di formazione siamo in
grande ritardo rispetto a gran parte dei Paesi sviluppati.
Nel totale degli italiani tra 25 e 34 anni, i laureati sono
solo il 21%, contro il 38% di media delle nazioni Ocse. «In
questo paghiamo un ritardo storico - chiarisce Cammelli -.
In Italia il 37% dei cosiddetti manager non ha più della
scuola dell’obbligo. In Germania, il Paese con il quale
tendiamo a fare i confronti, questa quota è del 7%. Eppure
s’insiste a voler risparmiare sulla spesa per l’università». Dove bisognerebbe investire? Guardando il rapporto AlmaLaurea, si capisce che c’è molto
da migliorare nel diritto allo studio, cioè in tutti i
servizi che dovrebbero supportare gli studenti nel loro
percorso universitario. A parte le mense, usate dal 55% di
loro, e il prestito dei libri (sfruttato dal 39%), è solo
una piccola minoranza degli universitari ad avere accesso al
diritto allo studio. Le borse di studio riguardano il 22%
degli studenti e gli alloggi universitari solo il 4%. Anche
per questo, tre quarti dei ragazzi italiani finiscono per
laurearsi nella stessa provincia in cui sono nati o in una
provincia limitrofa. Per quanto riguarda il lavoro, i laureati sono davvero
troppo schizzinosi come disse l’ex ministro Elsa Fornero? I dati dicono che i giovani hanno smesso da un po’ di essere
«choosy», come disse appunto Fornero. Forse anche per questo
quella dichiarazione fece così tanto discutere. Il rapporto
mostra che c’è un’apertura sempre maggiore alla flessibilità
lavorativa e il 44% di chi si è laureato nel 2011 si è detto
pronto a trasferirsi pur di lavorare. Il 31% è disponibile a
compiere trasferte frequenti per lavoro (31%). E aumentano
anche la disponibilità per lavori part-time e contratti a
tempo determinato. Gli stage servono a qualcosa? Sembrerebbe di sì: a parità di condizioni, il tirocinio
aumenta la probabilità di trovare un’occupazione di ben il
12%. Tra i giovani freschi di laurea, ben il 56% ne ha
potuto inserire uno nel curriculum. Tra chi si è laureato
con l’ordinamento pre-riforma, nel 2004, la quota arrivava
appena al 20%.
Relazione di Puglisi in Commissione Cultura:
"Provvedimento inevitabile, ma per valorizzare la
professionalità docente bisogna usare lo strumento
contrattuale" De Giorgi (PD) chiede che la Commissione voti
un parere contrario
La Tecnica della Scuola.it, del 29-05-2013,
di R.P.
Nella seduta del
29 maggio la Commissione Cultura del Senato dovrebbe
approvare il parere definitivo sullo schema di regolamento
sul blocco dei contratti pubblici. Nel pomeriggio del 28 la Commissione ha iniziato ad
esaminare il provvedimento dopo la relazione introduttiva di
Francesca Puglisi (PD). Nel suo intervento, Puglisi ha sottolineato con
soddisfazione il fatto il regolamento
“fa comunque salva per la
scuola la destinazione del 30 per cento dei risparmi per
valorizzare il personale scolastico, secondo quanto previsto
dall'articolo 64 del decreto-legge n. 112 del 2008”. Peraltro, ha precisato la relatrice,
“la certificazione di
quel 30 per cento di cosiddetto risparmio e' stata ogni anno
oggetto di discussione con la Ragioneria dello Stato”. Francesca Puglisi ha comunque ribadito che il regolamento
stabilisce in modo inequivocabile che
“per il periodo 2011-2014
non e' quindi utile ai fini della maturazione delle classi e
degli scatti di stipendio e le eventuali progressioni di
carriera nello stesso quadriennio hanno effetti solo
giuridici”. La Puglisi ha però anche detto che
“è essenziale avviare la
discussione del nuovo contratto nazionale, per essere pronti
poi, quando le risorse saranno disponibili, ad inserire gli
adeguati incrementi stipendiali”.
“Solo attraverso la
contrattazione
- ha chiarito la senatrice del PD -
e non certo la via
legislativa, è possibile valorizzare compiutamente la
professionalità docente e introdurre percorsi chiari di
carriera”. Ma cosa significa “valorizzare” la professionalità docente ?
Puglisi ha dato una sua risposta:
“La valorizzazione deve
essere legata all’impegno orario e agli incarichi
aggiuntivi, prevedendo l’individuazione di alcune figure di
sistema in ogni scuola (sul modello delle funzioni
strumentali) con compiti organizzativi e di coordinamento
didattico, con un orario potenziato, la cui retribuzione non
deve gravare sul fondo di istituto ma su risorse ad hoc”. Nel dibattito che è seguito il senatore Bocchino (M5S) si è
espresso in modo nettamente contrario al provvedimento,
mentre la senatrice Giannini (Scelta Civica) ha sottolineato
che la questione della spesa scolastica potrebbe essere
riconsiderata tenuto conto che anche l’Unione europea
concorda sul fatto che essa debba essere considerato un vero
e proprio investimento. In conclusione di seduta la senatrice del PD Di Giorgi è
intervenuta per richiedere alla collega Puglisi di
predisporre un parere contrario sullo schema di regolamento. Difficile fare previsioni sulla conclusione della vicenda,
tenuto anche conto del fatto che il parere della Commissione
Cultura è di fatto di scarsi rilievo dal momento che a
riferire al Governo dovrà essere la Commissione Affari
Costituzionali che avrà tempo per terminare i propri lavori
fino al 7 giugno
Il ministro D'Alia: «Spero nello sblocco dal
2015 ma adesso le risorse non ci sono». Contrari i sindacati
che chiedono l'intervento del Parlamento. Per i pubblici una
perdita media di 4.100 euro
l'Unità, del 29-05-2013, di Laura Matteucci
Come i sindacati temevano, per gli statali il
blocco dei rinnovi contrattuali viene prorogato anche nel
2014. E per il 2015 si vedrà: tutto dipende da come andrà
l'economia del Paese. A confermare la linea d'austerità nei
confronti degli statali è il ministro della Funzione
pubblica Giampiero D'Alia: «Il blocco dei rinnovi
contrattuali - dice - dobbiamo prorogarlo perché non ci sono
risorse». Aggiunta: «In un periodo di crisi è più giusto
tutelare chi il lavoro l'ha perso» e questo «dobbiamo farlo
capire ai sindacati e ai nostri lavoratori». Parole che
trovano la netta contrarietà dei sindacati, con la Cgil che
chiede al Parlamento di esprimere parere negativo sulla
proroga del blocco e dei meccanismi di adeguamento
salariale, e al governo «di assumere le iniziative
necessarie ad avviare la stagione dei rinnovi contrattuali a
partire dal 2011'. Il ministro D'Alia prosegue nel suo
ragionamento: «Dobbiamo responsabilizzare il sindacato, oggi
il tempo delle rivendicazioni è finito'', dice, e aggiunge
che il blocco degli stipendi «non toglie che al tavolo con i
sindacati, la prossima settimana, si possa discutere anche
di questo per cercare un percorso che possa introdurre
novità sul rinnovo. Possiamo cominciare a discutere della
parte normativa del contratto». Altre parole che suscitano
un coro di no da parte dei sindacati: «Risulta del tutto
incomprensibile l'apertura al dialogo del ministro, se poi
lo stesso annuncia alla stampa lo stop al contratto'', gli
rispondono Rossana Dettori, Giovanni Faverin, Giovanni
Torluccio e Benedetto Attili - segretari generali di Fp-Cgil,
Cisl-Fp, Uil-Fpl e Uil-Pa. «Ringraziamo il ministro -
continuano - per averci informato che la fase delle
rivendicazioni è finita. Ma sappia che all'incontro del 4
giugno, annunciato anche questo a mezzo stampa come il
blocco dei contratti del pubblico impiego, pretenderemo
impegni concreti in direzione opposta». «Siamo perfettamente
coscienti della difficile fase economica - aggiungono i
sindacalisti - ma non possiamo accettare che questa
congiuntura sia pagata ulteriormente da lavoratori che hanno
già subito una perdita di reddito pesantissima. Il ministro
D'Alia non può pretendere un atteggiamento collaborativo
senza dimostrare rispetto nei confronti dei lavoratori e
delle organizzazioni che li rappresentano. Sul tema del
riordino istituzionale, come sul precariato e sul rinnovo
del contratto, siamo disponibili a un confronto senza
pregiudizi. Ma a patto che dal governo - è la conclusione -
ci sia la stessa disponibilità».
PERSI
3MILA EURO
I conti delle perdite salariali dei dipendenti pubblici li
aveva fatti poche settimane fa la Cgil: circa mille euro
l'anno dal 2010 fino a tutto il 2012 ma, con il congelamento
delle buste paga anche per il 2013 e 2014, i 3 milioni e
mezzo di dipendenti statali dovranno affrontare una perdita
complessiva di 4.100 euro medi lordi. I sindacati già
temevano la proroga del blocco degli stipendi, che fino al
31 dicembre 2014 era stato inserito dal governo Monti in una
bozza di decreto. Il nuovo governo, dunque, non fa altro che
ratificare una decisione già presa in precedenza. «Continua,
in maniera ossessiva, la scelta del governo di ridurre il
trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti
pubblici», affermano il segretario confederale della Cgil
Nicola Nicolosi, e i segretari generali di Fp e Flc, Rossana
Dettori e Mimmo Pantaleo. Dopo le decisioni del governo
Berlusconi, aggiungono i dirigenti sindacali, «ora siamo
ancora alla riproposizione del blocco dei contratti, avviata
da Monti e fatta propria dal governo Letta. Ancora una volta
- concludono - si evince un accanimento nei confronti dei
pubblici che non potrà che vedere una nostra risposta
articolata e ferma».
La commissione istruzione di palazzo madama
proroga lo stop agli automatismi stipendiali
www.flcgil.it,
del 28-05-2013,
Antimo Di
Geronimo
I gradoni rientrano dalla finestra ed escono
nuovamente dalla porta. Tra oggi e domani è previsto il via
libera della VII commissione del senato allo schema di
decreto del Presidente della repubblica, che prevede la
proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi
stipendiali nel pubblico impiego (n.9). Dopo di che la bozza
di provvedimento sarà posta al vaglio della I commissione,
affari costituzionali. E a seguito del placet di
quest'ultima l'istruttoria dello schema di regolamento potrà
dirsi conclusa. Fermo restando che prima di dispiegare
effetti, diventando un vero e proprio provvedimento, dovrà
essere sottoscritto dal Presidente della Repubblica e
pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Salvo ulteriori
ripensamenti in sede politica. In ogni caso, se l'ipotesi di regolamento andrà in vigore
così com'è, l'effetto sarà quello di un'ulteriore perdita
del potere d'acquisto degli stipendi dei dipendenti
pubblici. In modo particolare per la scuola. Per questo
comparto, infatti, oltre al blocco della contrattazione
collettiva e degli incrementi dell'indennità di vacanza
contrattuale per il 2013 e il 2014, è prevista anche la
cancellazione dell'utilità del 2013 ai fini della
progressione economica di carriera (i cosiddetti gradoni). E
gli effetti più devastanti si avrebbero soprattutto per
quest'ultima previsione. Il perché è presto detto. Il blocco della contrattazione collettiva per altri due anni
avrebbe come effetto immediato la preclusione
dell'adeguamento delle retribuzioni al costo della vita nel
biennio. Ma tale effetto verrebbe, per così dire, «attutito»
dall'applicazione dell'indennità di vacanza contrattuale.
Che consente di recuperare annualmente circa la metà del
tasso di inflazione programmata. E comunque, eventuali
rinnovi contrattuali, per quanto tardivi, non
precluderebbero il recupero totale, di fatto, di quanto è
andato perduto finora. Perlomeno in via meramente teorica. Anche il blocco del ricalcolo dell'indennità di vacanza
contrattuale, in seguito, potrebbe essere comunque sanato.
Non così, invece, per la cancellazione dell'utilità del
2013, che comporterebbe un ulteriore ritardo di un anno
nella maturazione della progressione stipendiale. Il tutto
con danni strutturali nell'ordine di circa 1000 euro
mensili, circa 4mila euro in meno sulla liquidazione ed
effetti sull'importo della pensione. Va detto, inoltre, che sebbene governo e sindacati abbiano
già trovato una soluzione per la reintegrazione dell'utilità
del 2010 e del 2011, la strada per il recupero del 2012
appare tutta in salita. E la cancellazione del 2013
complicherebbe ulteriormente le cose. Tanto più che saremmo
di fronte ad una progressiva decontrattualizzazione
dell'unica materia che non era stata rilegificata dal
governo Berlusconi con la legge 15/2009 e con il decreto
Brunetta. La cancellazione dell'utilità del quadriennio
2010-2013 ai fini dei gradoni (il triennio 2010-2012 con il
decreto legge 78/2010 e il 2013 con il regolamento al vaglio
del senato) costituisce, infatti, una vera e propria
riduzione dell'importo delle retribuzioni. Perché nel comparto scuola la progressione economica di
carriera non corrisponde a mutamenti di qualifica. Quanto,
invece, ad una diversa quantificazione degli importi
stipendiali diretta a valorizzare l'esperienza accumulata
sul campo. Bloccare i gradoni significa, quindi, ridurre i
fondi complessivamente spettanti all'intera categoria e, di
conseguenza, ridurre l'importo delle retribuzioni dovute
secondo il contratto attualmente in vigore. Il tutto
lasciando intatti i fondi destinati all'accessorio. In altre parole, il governo, anziché ridurre i fondi da
destinare alla copertura del lavoro straordinario, che per
loro natura sono previsti per la copertura finanziaria di
prestazioni solo eventuali, ha tagliato e sta per tagliare
risorse necessarie ad onorare debiti retribuitivi derivanti
dall'erogazione del lavoro ordinario. E cioè derivanti
dall'adempimento della prestazione obbligatoria
ordinariamente connessa alla realizzazione della funzione.
http://questioni.wordpress.com/2013/05/24/la-professione-degli-insegnanti-fuga-dal-reale/,
del 27-05-2013, di Benedetto Vertecchi
Strano paese è il nostro. Si afferma con
uguale convincimento tutto e il suo contrario, all’unica
condizione che si tratti di aspetti del tutto marginali nel
quadro complessivo dell’educazione. Così, per esempio, non
si risparmiano riconoscimenti ad alcune figure da tempo
dimoranti sull’Olimpo della scuola perché si è ben
consapevoli che si tratta di modelli che è improbabile
possano essere replicati. Mario Lodi, Albino Bernardini o
Alberto Manzi (il mio maestro quando frequentavo la scuola
elementare) sono grandi figure di educatori, alle quali si
continua a guardare con ammirazione, ma che si è consapevoli
di quanto siano lontani dal modo in cui si svolge oggi la
professione degli insegnanti. Se si dovesse, infatti, collocare su una scala i tre maestri
appena ricordati, non c’è dubbio che dovrebbero essere
posti, anche se per ragioni diverse, nella posizione più
alta. Ma è altrettanto certo che sarebbe difficile
immaginare personaggi che possiedano ln una misura
intermedia le loro caratteristiche: in altre parole, Lodi,
Bernardini o Manzi hanno onorato al meglio la loro
professione, ma è difficile considerarli modelli di
riferimento per quella grande maggioranza degli insegnanti
che nella scala ipotizzata si colloca in una posizione meno
elevata, anche se di poco. Paradossalmente, sarebbe più
agevole utilizzare la triade che occupa l’estremità positiva
della scala per definire l’estremità opposta, quella
negativa, dove potrebbero collocarsi (è una eventualità che
si può prendere in considerazione senza che nessuno abbia a
pendersela a male, considerando che si sta parlando di una
professione praticata da molte centinaia di migliaia di
persone) quanti sono in più evidente contraddizione con i
profili – culturali, sociali e affettivi – dei personaggi
presi a riferimento. Eppure, non dovrebbe sfuggire a nessuno che il livello al
quale una determinata professione è esercitata si definisce
a partire dal modo in cui essa è praticata più di frequente.
Le eccezioni, se positive, sono da considerarsi alla stregua
di prototipi, importanti ma di scarsa utilità fino a quando
non si trova il modo di replicarli in condizioni correnti.
D’altra parte, se si tratta di eccezioni negative, ci si
trova di fronte a limiti nella definizione dell’identità
professionale, che si possono associare a difetti di
creatività e di motivazione. La retorica corrente sulla professione degli insegnanti fa
un uso sostanzialmente moralistico di figure come quelle
Lodi, Bernardini o Manzi. Implicitamente, si rimprovera agli
insegnanti di non dimostrare la stessa capacità di curvare i
percorsi educativi in una direzione desiderata. Ma sarebbe
come rimproverare agli architetti di non essere tutti al
livello di Gae Aulenti (è questa un’occasione per rendere
omaggio alla sua memoria) o Renzo Piano (al quale auguro
sempre nuovi successi). È un moralismo che serve a
nascondere a ricacciare sugli insegnanti responsabilità che,
invece, debbono essere addebitate all’inadeguatezza delle
scelte politiche relative sia all’assetto generale del
sistema scolastico e agli intenti da esso perseguiti, sia
alle omissioni, o all’ignavia (è l’ipotesi peggiore), che
hanno caratterizzato le decisioni riferibili
all’accumulazione conoscitiva e alla predisposizione delle
strutture di contorno che sarebbero state necessarie per
consentire di esercitare la professione di insegnante al
livello richiesto dalle trasformazioni culturali, sociali ed
economiche delle società contemporanee. L’eccesso di personalizzazione nel confronto sui profili
professionali potrebbe far pensare al permanere di modelli
d’insegnamento basati soprattutto sull’interazione fra
insegnanti e allievi, e che tale interazione continui a
essere perseguita anche quando si mostri di non essere del
tutto convinti dei risultati che possono essere conseguiti.
Ma non è così. La medesima enfasi si ritrova nel modo in cui
si addita nella modernizzazione strumentale la via d’uscita
dalla crisi che il sistema educativo sta attraversando. Si
può pensare che, almeno in parte, il ricorso a modelli
freddi sia una conseguenza della caduta di tensione ideale
che in altre fasi dello sviluppo del nostro sistema
educativo aveva favorito l’emergere di grandi figure di
insegnanti, ma una simile interpretazione non giustifica la
disinvoltura con la quale si stanno sostituendo al vertice
della scala manifestazioni di creatività soggettiva con
risorse che sono espressione di una razionalità reificata. Anche in questo caso, non si tiene in conto la realtà
costituita dalle condizioni in cui si svolge l’attività
quotidiana degli insegnanti (è del tutto da dimostrare che
una razionalità reificata possa offrire riferimenti per la
pratica comune dell’insegnamento, così come si era rilevato
nel caso delle figure dei grandi maestri), ma si colloca
nella posizione più elevata una nozione astratta
dell’attività educativa. E si tratta di una nozione astratta
non solo perché prescinde dalle contraddizioni che comunque
si presentano nelle situazioni reali in cui si pratica
l’educazione scolastica, ma perché non può dar luogo, anche
se lo si volesse, all’iterazione delle proposte nel tempo,
per la semplice ragione che la validità del macchinario e
dei contenuti che si vogliono comunicare tramite la sua
utilizzazione è sempre più breve e, in ogni caso, non
dipende da scelte effettuate in modo autonomo da posizioni
dominate da preoccupazioni culturali e educative, ma solo da
interessi economici. Non si può neanche dire che nella
sostituzione delle risorse si segua la logica dei progressi
conseguiti dalla ricerca tecnologica, perché quelli proposti
alle scuole sono mezzi già del tutto maturi dal punto di
vista merceologico: le scuole li acquisiscono quando stanno
per essere sostituiti, vanificando così gran parte
dell’impegno di quanti si adoperano per integrare il nuovo
strumentario con le altre opportunità di promuovere
l’istruzione che la didattica è venuta accumulando
attraverso il tempo. C’è da chiedersi quanto sia responsabile disperdere nelle
scuole il tempo e l’intelligenza di bambini e ragazzi per
produrre apprendimenti caduchi e di minimo spessore, senza
preoccuparsi di rilevare quanto e come si stiano modificando
i loro profili culturali di medio e lungo periodo. Può anche
darsi che le tendenze in atto siano da preferire agli
scenari di immobilità che l’educazione troppe volte ha
fornito. Ma si deve anche avere il coraggio di affermare che
gli usi linguistici sempre più sciatti, la distanza
crescente fra il pensiero e l’azione, la perdita di
autonomia nella possibilità di effettuare operazioni mentali
siano da considerare una prospettiva di progresso e, in ogni
caso, siano la prospettiva verso la quale si vuole muovere.
Se non c’è chiarezza sugli intenti da perseguire per il
lungo termine non ci può essere neanche chiarezza sulle
soluzioni da introdurre nell’immediato. Nel profilo degli
insegnanti non potrà che prevalere l’incertezza che ha
condotto a definire percorsi di studio per la preparazione
all’insegnamento che sono un miscuglio di argomentazioni
parenetiche e di saperi filiformi. L’infelice sortita del governo sull’orario di lavoro degli
insegnanti ha riaperto il dibattito sul profilo
professionale degli insegnanti. C’è da augurarsi che sia un
dibattito senza fughe dalla realtà, che non si limiti a
bruciare granelli d’incenso per celebrare questo o quel
talento eccezionale o che eluda i problemi reali cercando
rifugio dietro i nuovi totem strumentali. Non entro in
questioni che riguardano aspetti formali dei rapporti di
lavoro nelle scuole. Altri possono farlo con una competenza
certamente maggiore. Non posso, invece, passare sotto
silenzio l’offesa implicita nella proposta. Le melasse
ideologiche sulla rilevanza sociale dell’educazione hanno
mostrato di essere quello che sono: espedienti per rendere
tollerabile il declassamento della professione.
I dati Istat: busta media alleggerita di 355
euro. Fra gli svantaggi, non ci sono scatti di anzianità
La
Stampa.it, del 26-05-2013, di Luigi Grassia
Sempre più precario e sempre meno pagato. È
così che sta diventando il lavoro in Italia, dove lo
stipendio di un dipendente a termine si ferma in media a
poco più di mille euro, inferiore di circa il 25% a quello
di chi ha un posto fisso. A certificarlo sono i numeri
raccolti dall’Istat nel Rapporto annuale sulla situazione
del Paese. Nel 2012, dice il rapporto, la retribuzione mensile netta di
chi ha un contratto a tempo determinato è stata di 355 euro
inferiore alla media: uno dei tanti «contro» dei rapporti di
lavoro flessibili, su cui poi incombe anche l’incertezza per
il futuro. Che le buste paga dei precari siano più leggere
non è scontato; anzi, secondo logica la precarietà potrebbe
essere compensata da qualcosa di più un busta (all’estero
succede). Il confronto dell’Istituto di statistica è limitato ai
dipendenti full time, senza contemplare i rapporti ancora
più deboli come i part time. Ma già così per il lavoratore a
scadenza la perdita è di un quarto dello stipendio che nel
2012 si è fermato a 1.070 euro medi. Il divario a svantaggio dei precari è dovuto a più ragioni,
anche se ormai può essere considerato una costante. In parte
la distanza deriva da aspetti legati all’età o alla
professione. Ma l’Istat osserva che «le differenze
permangono anche a parità di caratteristiche» e aumentano
fino ad arrivare a quasi 400 euro «al crescere
dell’anzianità lavorativa», visto che il tempo determinato
non prevede scatti di anzianità. Resta vero che in tempi di crisi pur di trovare un impiego
si è disposti ad accettare retribuzioni più basse, basti
pensare che i cosiddetti atipici nel 2012 hanno superato
quota 2 milioni 800 mila. Il problema è che, spiega sempre
l’Istat, «la crescita dei lavoratori a tempi determinato e
dei collaboratori si accompagna a una diminuzione della
probabilità di transizione verso lavori standard e a un
aumento delle transizioni verso la disoccupazione». In
parole povere chi lascia il lavoro precario finisce più
facilmente disoccupato che occupato a tempo pieno. È interessante notare che il gap che separa i dipendenti a
tempo determinato da quelli con posto fisso sia quasi lo
stesso che passa tra un lavoratore straniero e uno italiano
(-25,8%, 968 euro a fronte di 1.304 euro). La retribuzione
mensile netta per gli stranieri - prosegue il Rapporto - è
diminuita a confronto con il 2011, ma non è andata molto
meglio agli italiani, che l’hanno aumentata di soli 4 euro.
Il nodo occupazione
Il
Messaggero,
del 26-05-2013, di
Francesco Grillo
Fa bene Enrico Letta a fare della lotta alla
disoccupazione giovanile una questione morale di primo
ordine. Nel 2012 sono stati un milione e trecentomila i
giovani che in Italia erano fuori da qualsiasi impegno di
studio o di lavoro: è un dato che la crisi economica ha reso
ancora più drammatico, raccontando di milioni di esistenze
che rischiano di perdere senso. In realtà però, anche nel
2007, prima della grande crisi, l’Italia era il Paese che
faceva registrare quella che era, di gran lunga, la più alta
percentuale di persone tra i 15 e 24 anni completamente
inattivi. Per reagire non è sufficiente aspettare la
crescita, e, neppure, appaiono risolutivi gli interventi
sulle regole che disciplinano il mercato del lavoro. La
priorità, che certamente Enrico Giovannini ha ben presente,
è costruire meccanismi in grado di avvicinare in maniera
sistematica ed efficiente le competenze degli individui (non
solo quelli giovani) alle richieste delle imprese. In effetti, il fatto che, dovunque, in Europa e nel mondo,
la disoccupazione giovanile è significativamente più alta di
quella relativa alla popolazione nel suo complesso
costituisce un paradosso doloroso che gli economisti non
riescono ancora a spiegare: in teoria le persone giovani
dovrebbero avere una flessibilità maggiore e un bagaglio di
conoscenze maggiormente adatto per inserirsi in un mondo del
lavoro dominato dalle tecnologie. Così non è, e, forse, il dato sulla disoccupazione giovanile
suona anche come atto di accusa a un apparato produttivo
che, nel suo complesso, appare privilegiare la continuità
sull’innovazione, nonostante la richiesta continua di
flessibilità che viene dal mondo delle imprese. Ma il numero
ancora più drammatico è, come si accennava, quello dei
giovani che non lavorano e neppure studiano (not in
employment, education or training): in Italia un giovane su
cinque si trova in questa situazione, una percentuale
superiore a quella della Spagna che è la pecora nera della
zona Euro per ciò che concerne la disoccupazione; nel nostro
Paese si trovano, peraltro, più di un quarto dei cinque
milioni di giovani inattivi che si contano nell’intera zona
Euro. Un primato triste che è, come abbiamo detto, solo in
parte conseguenza della crisi e che, anzi, rischia di
compromettere per generazioni la capacità del Paese intero
di ricominciare a crescere: studi condotti in Paesi diversi
quanto lo possono essere Stati Uniti o Brasile, confermano
che persone restate fuori dal mercato del lavoro e dello
studio negli anni più critici della propria formazione,
hanno minori probabilità di trovare lavoro, tendono a
perdere fiducia nei propri mezzi e a sentirsi meno inseriti
nella propria comunità. Ma cosa mettere in cima alle priorità di un ministro che
provi con pochissime risorse ad affrontare il problema in un
momento così grave? Di sicuro la qualità della
regolamentazione può aiutare. Tuttavia, tale nozione non
corrisponde sempre al concetto di flessibilità e i dati
dimostrano che non sempre un intervento sui contratti è
sufficiente: anche se l’Inghilterra e gli Stati Uniti hanno,
secondo il World Economic Forum, un vantaggio competitivo su
questo aspetto, ciò non toglie che la percentuale di giovani
completamente inattivi era superiore in questi due Paesi
(attorno al 14% secondo l’Oecd) rispetto alla Francia (12)
e, ancora di più, rispetto alla Germania (9). Ed, in
effetti, ciò che conta – e conta soprattutto per un giovane
– non è solo di entrare in azienda, ma anche di avere un
periodo di addestramento sufficientemente lungo che gli
consenta di acquisire competenze trasferibili al prossimo
lavoro. In effetti, più della crescita e della rigidità dei
contratti, i giovani europei e, in particolar modo, quelli
italiani, appaiono fortemente penalizzati da un altro
fattore: il forte disallineamento tra le richieste delle
imprese e le competenze individuali che i giovani europei
maturano a scuola e nel proprio ambiente formativo. Per
cinque milioni di giovani che – nella sola zona Euro - non
hanno assolutamente nulla da fare, ci sono – come dimostrano
studi di McKinsey - centinaia di migliaia di posizioni di
ingresso nelle aziende europee che non sono occupate. Ciò,
secondo alcuni, sembra mettere in discussione la capacità
che i giovani europei veramente hanno di adattarsi a un
mondo che è molto cambiato rispetto a quello dei propri
genitori e che continua a farlo. Ma soprattutto esige un
investimento da parte dello Stato - e della Commissione
Europea che dovrà farlo per aumentare l’efficienza dei
finanziamenti comunitari da spendere nei prossimi sette anni
- nel rafforzamento e riqualificazione dei meccanismi di
formazione professionale e degli altri servizi che
dovrebbero far incontrare domanda e offerta di lavoro. Qui
però c’è un buco nero disegnato dall’esperienza degli ultimi
anni: perché se è vero che bisogna investire di più in
questi strumenti e altrettanto vero che – come ebbe modo di
dire il governatore della Campania, Bassolino, qualche tempo
fa – la formazione spesso serve solo a pagare lo stipendio
dei formatori. La ricetta è, in teoria, semplice: pagare chi forma sulla
base del numero e della qualità dei posti di lavoro
generati; privilegiare fortemente i progetti al cui costo
contribuiscano le imprese presso le quali la formazione si
svolge; dare agli stessi beneficiari degli interventi la
possibilità di spendere il proprio capitale formativo
(voucher) presso l’agenzia che garantisce i risultati
migliori. Anche in questo caso ci sono interessi (economici)
che producono resistenza al cambiamento; la crisi, il suo
contenuto drammatico che la disoccupazione giovanile
rappresenta così efficacemente, rende, tuttavia, il compito
del ministro Giovannini meno arduo e il cambiamento
inevitabile.
La Repubblica.it, del 23-05-2013, di Chiara
Saraceno
LA PERSISTENZA della crisi, con i suoi
effetti sui consumi, l’incertezza rispetto al futuro,
l’aumento delle disuguaglianze e della povertà, sta
indebolendo la qualità della vita complessiva delle persone.
Solo il 32% degli italiani si è dichiarato molto soddisfatto
della propria vita. I dati sono del 2012 e riguardano la
popolazione italiana dai 14 anni: la percentuale del 36%
registra una discesa vertiginosa, stante che un anno prima
era del 45,8%, ed è dovuta pressoché esclusivamente alla
diminuzione di chi è molto (o anche solo abbastanza)
soddisfatto delle proprie condizioni economiche. È quanto emerge dal rapporto annuale 2013 dell’Istat. Per
altro, va osservato che è dal 2001, quindi da prima della
crisi, che la soddisfazione per le proprie condizioni
economiche è in diminuzione, al contrario di quanto avviene
per altri aspetti della vita (salute, relazioni famigliari e
amicali, tempo libero) che invece rimangono stabili o in
aumento. In particolare e un po’ contro-intuitivamente, è
aumentata la soddisfazione per le relazioni famigliari.
Quasi che la maggiore dipendenza dalla solidarietà
famigliare sperimentata da molti, specie i più giovani, la
necessità di serrare le file e di condividere risorse e
sacrifici, lungi dall’accentuare le tensioni in famiglia, le
abbia viceversa ridotte. Questa tenuta delle relazioni
famigliari è indubbiamente un dato positivo. Ma non si può
ignorare che non tutti hanno una famiglia che funziona ed è
solidale, o che, pur essendo solidale, ha le risorse
necessarie per esserlo efficacemente. Inoltre, poter contare
solo sulla propria famiglia presenta molti vincoli alla
autonomia individuale, oltre ad essere una delle cause della
intensità della riproduzione intergenerazionale delle
disuguaglianze nel nostro Paese. Nel generale fenomeno di una diminuzione della soddisfazione
per le proprie condizioni economiche, rimangono e si
acuiscono le differenze territoriali, in relazione sia alle
diverse condizioni di partenza antecedenti la crisi, sia
alla diversa incidenza della stessa, in termini di perdita
di occupazione. È avvenuto, infatti, a livello territoriale
quanto è avvenuto a livello di famiglie e di singoli: le
condizioni economiche sono peggiorate per le regioni più povere e per gli individui più poveri.
Non è un caso, quindi, che siano gli operai non solo ad
esprimere maggiore insoddisfazione per le proprie condizioni
economiche, ma a manifestare il calo maggiore tra i
soddisfatti: sono loro ad aver sperimentato in maggior
misura la perdita o la riduzione dell’occupazione e quindi
anche del reddito e a vivere con più ansia la propria
vulnerabilità sul mercato del lavoro. L’insoddisfazione per
le condizioni economiche diviene anche sfiducia rispetto al
futuro prossimo, proprio e del Paese nel suo insieme. Una
percentuale crescente di persone ritiene che non ce la farà
a mantenere il livello di consumi, per altro già ridotto
nell’ultimo periodo, cui è abituata e che ritiene
indispensabile per il proprio sentimento di adeguatezza. E
quanto più si è pessimisti rispetto a sé, tanto più lo si è
anche rispetto alla tenuta economica del Paese. Si innesta
così un circolo vizioso non solo sul piano pratico – se
diminuiscono i consumi si indeboliscono anche le aziende che
producono quei beni e diminuisce l’occupazione – ma anche su
quello del clima culturale e politico complessivo. Per
fortuna, nonostante siano tra le categorie più colpite dalla
crisi, i più ottimisti sono proprio i giovani fino a 34
anni, che hanno un orizzonte temporale più lungo davanti a
sé. Gli ottimisti diventano tuttavia meno di un terzo tra
chi ha i 35-44 anni, per diminuire ulteriormente nelle fasce
di età successive. Ciò conferma che è giusto e opportuno
investire nel miglioramento delle opportunità dei più
giovani, per impedire che perdano la speranza, o per farla
riacquistare a quelli che sembrano aver già gettato la
spugna, ingrossando l’impressionante esercito dei Neet, i
giovani — uno su quattro — che né lavorano né studiano. Ma
occorre anche guardare con preoccupazione alla sfiducia e al
pessimismo di chi è oggi nelle età centrali e non vede
nessuna prospettiva di miglioramento. Anche perché sono loro
a fronteggiare il peso dei bisogni insoddisfatti dei più
giovani e dei più vecchi e della preoccupazione, non solo
per il proprio futuro, ma anche per quello dei loro figli.
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Secondo l’ultimo rapporto Istat, i giovani
continuano a essere il segmento di popolazione più colpito
dalla crisi. In aumento anche la quota di Neet, in misura
maggiore rispetto agli altri Paesi
La Tecnica della Scuola, del 23-05-2013, di
Lara La Gatta
In Italia il rendimento dell’investimento in
istruzione risulta ancora basso e questo che si riflette nel
numero di studenti, rimasto sostanzialmente stabile intorno
ai 4 milioni, pari al 41,5 per cento della popolazione di
età compresa tra 15 e 29 anni. A dirlo è l’Istat, nell’ultimo Rapporto annuale 2013 “La
situazione del Paese”,
presentato oggi 22 maggio, nel quale vengono presi ad esame,
in quattro capitoli, il quadro macroeconomico e sociale, il
sistema delle imprese italiane, il mercato del lavoro tra
minori opportunità e maggiore partecipazione e il punto di
vista dei cittadini. I giovani continuano a rappresentare il
segmento di popolazione più colpito dalla crisi, tanto che
le opportunità di ottenere o conservare un impiego si sono
significativamente ridotte. Dal 2008 al 2012, ben 727 mila
giovani hanno perso il lavoro, con una percentuale maggiore
nel Sud Italia. In pratica, nel giro di quattro anni, il tasso di
disoccupazione giovanile è cresciuto di dieci punti e di ben
cinque punti solo nell’ultimo, interessando maggiormente chi
ha un titolo di studio più basso. La laurea si sta rivelando lo strumento migliore contro le
crescenti difficoltà del mercato del lavoro, mentre il
possesso del solo diploma non garantisce più un lavoro
stabile e sicuro. In aumento anche la quota di Neet, quei giovani che non
lavorano e non studiano. La percentuale è aumentata in
misura maggiore degli altri paesi europei, raggiungendo il
numero di due milioni e 250 mila: il 24 per cento del totale
dei 15-29enni.
La Repubblica.it, del 19-05-2013, di
Marco Lodoli
Il tragitto tra casa e scuola, cento metri o
chilometri, in una città tranquilla o in un paesaggio
difficile, per ogni ragazzino è comunque un viaggio
meraviglioso. Noi italiani siamo purtroppo spaventati da
tutto, vediamo a ogni angolo siringhe e pedofili, temiamo la
furia delle macchine e i rapimenti, la nostra immaginazione
si è distorta e le preoccupazioni hanno spazzato via ogni
fiducia, così imbacucchiamo i nostri figli, portiamo giù per
le scale del palazzo i loro zaini perché sono troppo
pesanti, e poi quasi sempre si sale in macchina per fare
prima, perché è sempre tardi, perché quel viaggio è un puro
e semplice spostamento. Pensiamo che in ogni bambino c’è un
Pinocchio, pronto a deviare dal suo tragitto obbligato verso
scuola e a imboccare le traverse oscure del rischio, della
disobbedienza, della catastrofe. Così facendo, neghiamo ai
nostri figli un’esperienza formativa, quel senso di libertà
che educa lo sguardo, il ritmo dei passi, la responsabilità.
Eppure il bambino sa che deve andare a scuola, lo sa e in
fondo gli piace, quello è il suo posto, lì ci sono gli
amici, le maestre, il cortile, i libri su cui imparare cose
nuove. In tutto il mondo ogni mattina milioni di bambini
compiono quel viaggio, traversano il bosco incantato della
realtà, si rinforzano sulla strada. Queste fotografie raccontano bene la bellezza e la volontà,
il desiderio di diventare grande che ogni scolaro ha dentro
di sé. La casa è la protezione assoluta, a scuola ci sono
regole precise, banchi e lavagne, orari e compiti: in mezzo
c’è un percorso obbligato eppure libero, una sequenza di
rettilinei e di svolte, di abitudini e piccole sorprese che
sono già un insegnamento. Ai miei studenti romani del primo
anno faccio sempre scrivere un componimento su quella minima
odissea quotidiana, da Tor Bella Monaca o da Giardinetti o
da Torre Gaia fino all’edificio scolastico di via Olina, a
Torre Maura. Sono chilometri macinati su autobus
affollatissimi, tramvetti, e poi a piedi, dall’ultima
fermata fino alla classe, sono pagine e pagine di un diario
interiore, è un ago che traversa un pagliaio. «Professore,
ma è sempre la stessa cosa — mi rispondono —. Tutti i giorni
è la solita fatica, non c’è niente da raccontare». Io però
insisto, so che ogni giorno è diverso dall’altro, che quel
viaggio è già un viaggio di conoscenza del mondo e di se
stessi. E così gli studenti iniziano a prestare più
attenzione a quanto accade sull’autobus, alle immagini che
si srotolano fuori dal finestrino, agli incontri
occasionali, ai pensieri che piovono insieme alla pioggia e
al sole. Sono resoconti bellissimi, cronache che valgono
quanto quelle dei grandi viaggiatori, di Marco Polo o
Chatwin. C’è la fatica dell’andare ma anche la
determinazione di raggiungere la meta, perché nonostante gli
sbuffi e le proteste ogni bambino sa che la scuola è la
fabbrica di una vita migliore, che vale sempre la pena
partire per arrivare fino a qui. La casa è un laghetto, la
scuola è il mare: in mezzo scorre il fiume del viaggio. Come nelle favole, ogni mezzo è buono per raggiungere il
castello, perché in fondo è la voglia di arrivare il vero
motore: in queste fotografie vediamo bambini dell’Alaska che
vanno a scuola con la motoslitta, zingari che in Francia
prendono la metro, studenti thailandesi in risciò e
brasiliani sul mulo, e bambini africani che coprono a piedi
lunghe distanze. Il peso dei libri paradossalmente
alleggerisce il viaggio, sono ali che rendono più lieve il
cammino. In Italia il problema dell’abbandono scolastico è
terrificante soprattutto nelle zone più depresse
economicamente: quante volte mi è capitato di provare a
convincere studenti disamorati,avviliti, demotivati, di
spiegare loro che la scuola è la possibilità più grande che
hanno per trasformare la vita. E spesso questi ragazzini mi
hanno risposto che alzarsi la mattina alle sei o alle cinque
e mezza, per lavarsi, vestirsi e poi affrontare un viaggio
fatto di mezzi pubblici che non arrivano, e che quando
arrivano sono stracarichi di persone, e poi di chilometri a
piedi, di ansie e ritardi, è una impresa insopportabile. E
allora io cerco di rigirare la frittata: ogni fatica
rafforza, ogni sacrificio prepara un futuro migliore, ogni
autobus scassato e stracolmo può contenere una scoperta.
Sono discorsi da professore, che non sempre riescono a
persuadere. Contano di più la mia Vespa scassata e i venti
chilometri che anche io ogni mattina mi cibo per raggiungere
la scuola. Sono fatti, non chiacchiere vuote. Pioggia,
tempesta o solleone, io parto e arrivo, la strada è sempre
la stessa, ma il viaggio cambia ogni mattina. Mi piace
traversare la città, lasciare il mio quartiere e trovarne un
altro, lontano. Mi piace il baretto in cui mi fermo per un
caffè, l’edicola dove compro il giornale. Il mondo si
schiude attorno a un percorso, questo i ragazzi lo capiscono
e lo apprezzano. E qualcuno allora mi dice: «Va bene,
professò, domani ci riprovo, domani vediamo se ce la faccio
a venire a scuola».
-
Blocco dei contratti: il Senato decide in
settimana
C'è attesa
per la relazione di maggioranza in Commissione Cultura,
affidata alla senatrice PD Francesca Pugliesi
La Tecnica
della Scuola.it, del 19-05-2013, di R.P.
I prossimi giorni di lavoro al Senato si preannunciano
decisamente interessanti. La I Commissione Affari Costituzionali, infatti, dovrà
formulare il proprio parere sulla bozza di Regolamento che
prevede il blocco della contrattazione fino al 31/12/2014. Sulla bozza si è già espressa (favorevolmente) la Camera e
adesso si aspetta appunto cosa ne diranno i senatori. Prima di esprimere il proprio parere la I Commissione dovrà
ricevere i pareri della Commissione V (Bilancio) e della VII
(Cultura). Ed è proprio il parere di quest’ultima Commissione quello
più atteso perché la relazione dovrà essere presentata dalla
senatrice del PD Francesca Puglisi. Vedremo dunque
se la senatrice PD rimarrà fedele a quanto aveva dichiarato
a fine febbraio ad Huffington Post:
“Gli insegnanti meritano quel prestigio sociale che i
governi prevedenti hanno negato, anche attraverso un nuovo
contratto nazionale che attribuisca una retribuzione più
alta per chi decide di svolgere a scuola nel pomeriggio le
attività svolte oggi a casa come la correzione dei compiti,
la preparazione delle lezioni, la formazione, ecc..”
Ma la sensazione del momento è che sarà difficile
abbandonare la linea del rigore per non mettere a rischio la
tenuta del Governo. Va ricordato che lo schema di Regolamento ha già superato lo
scoglio della Camera e quindi è facile prevedere che anche
al Senato tutto filerà liscio. Non bisogna però dimenticare che - volendo - dopo aver
acquisito i pareri delle Commissioni parlamentari il Governo
potrebbe anche decidere di soprassedere e di accantonare il
provvedimento, almeno per qualche tempo.
In Italia il
grado di istruzione dei genitori pesa ancora sulle scelte
dei figli
www.flcgil.it del
15-05-2013, di
Silvia Favasuli
È il primo step in cui le
diversità sociali, anziché appianarsi, si consolidano. Ecco
come Stella (tutti i nomi sono di fantasia
ndr) ha 14 anni e siede
a un banco della Scuola media Ardadia del Gratosoglio,
estrema periferia Sud di Milano. «L’anno prossimo andrò al
Liceo Scientifico. Mi piacciono matematica e scienza e da
grande voglio lavorare come guardia parco, oppure
veterinaria». La professoressa di Lettere Rosa Donatacci,
che ha coordinato le attività di orientamento della scuola,
spiega invece che il consiglio orientativo per Stella, mamma
baby sitter a ore e papà impiegato con la licenza media, era
diverso. «Noi insegnanti e la mamma di Stella avremmo
preferito piuttosto un liceo delle scienze umane all’Agnesi.
Stella è brava ma è anche molto empatica, e quella è la
stessa scuola frequentata da sua madre».
Nella classe della scuola
media del Gratosoglio, su 16 ragazzi presenti,
quasi tutti figli di operai, artigiani, casalinghe e
commercianti, solo cinque frequenteranno l’anno prossimo lo
scientifico, nessuno il classico, tre il linguistico, altri
tre un istituto tecnico e cinque una scuola di formazione
professionale (Cfp). Luca, figlio di due ingegneri, andrà
allo scientifico. Romina, papà idraulico, mamma al lavoro in
una mensa, farà il Cfp.
Piazza Ascoli, non troppo
distante da Porta Venezia, Milano. Al terzo piano
della Scuola Tiepolo, tra i banchi di una delle terze c’è
anche Carlo. Ha la stessa età di Stella, ma genitori
entrambi architetti con uno studio in proprio. «Carlo»,
racconta la professoressa di Lettere Silveria Schiavo, «non
studia molto, spesso non fa i compiti o dimentica il
materiale. Per questo, di fronte alla preferenza dei
genitori per un liceo classico, abbiamo piuttosto
consigliato un liceo delle scienze umane». E invece, l’anno
prossimo Carlo andrà al Parini, lo storico liceo classico
milanese. «I miei genitori mi dicono che pone le basi, apre
molte strade, dà più sbocchi professionali. Quando loro
devono scegliere i tirocinanti preferiscono quelli che hanno
fatto il classico o lo scientifico perché hanno più
preparazione».
Su 28 ragazzi in aula,
quasi tutti figli di professionisti, insegnanti universitari
e dirigenti, 23 si divideranno tra classico e
scientifico, due hanno scelto il linguistico, solo tre
faranno un istituto tecnico, uno il professionale. Caterina
ad esempio farà ragioneria. «I suoi genitori hanno una
grossa pasticceria, e potrà dare una mano
nell’amministrativo», spiega l’insegnante.
A 14 anni i giovani
italiani di domani si preparano ad entrare nel terzo ciclo
di istruzione scolastica. Finite elementari e
medie, devono decidere a quale ciclo di scuola superiore
iscriversi. Ed è in questo primo snodo che l’Italia misura
la sua capacità di offrire pari opportunità educative agli
studenti e fare della scuola un luogo in cui appianare le
disparità sociali.
Ma basta entrare in una
qualsiasi terza media del centro o una della
periferia milanese per accorgersi che ancora oggi, nella
maggior parte dei casi, «il destino scolastico futuro degli
alunni viene progressivamente segnato dalle origini sociali,
delle quali non portano alcuna responsabilità». È il
commento del professor Daniele Checchi, Docente di Economia
politica dell’Università degli studi di Milano a margine di
una delle numerose ricerche
dedicate al tema, con cui ha mostrato, tra le altre cose,
che gli insegnanti sono i primi a farsi influenzare dalla
classe sociale di appartenenza del ragazzo nei consigli
orientativi. Il tutto in un sistema di istruzione secondaria
diviso per indirizzi ben distinti tra loro e dove la scelta
della “filiera”, come la definisce Checchi, (generalista,
accademica e professionale) avviene tra i 13 e i 14 anni,
«un’età in cui l’influenza dei genitori è ancora forte».
Nel 2008 ha studiato un
campione di studenti lombardi di terza media. E ha
analizzato l’influenza di tre fattori sulla scelta della
scuola superiore: background familiare, competenze e voti,
contesto sociale. Lo ha fatto in tutte e tre le fasi della
scelta: il momento dell’orientamento scolastico, la
preiscrizione (ora non c’è più) e l’iscrizione definitiva.
Si è accorto, ad esempio, che già nella fase di
orientamento, «gli insegnanti nel formulare i loro consigli
non si limitano ad una valutazione delle risultanze
scolastiche oggettive dei ragazzi (come risulterebbe dai
voti e dai test attitudinali), ma tengono anche conto della
famiglia di provenienza». Cioè, sono gli stessi insegnanti
ad essere per primi sensibili «alle pressioni direttamente o
indirettamente provenienti dall’ambiente circostante». Del
fenomeno, Checchi propone due letture. Una positiva, che
vede gli insegnanti «preoccupati che le famiglie non
riescono fornire il supporto economico necessario a
intraprendere carriere più lunghe e rischiose», l’altra,
negativa, è che gli insegnanti assecondano troppo le
aspirazioni dei genitori.
-
Scuola, le proposte
indecenti di Michele Boldrin
Micromega
blog, del 15-05-2013, di Marina Boscaino e Giorgio Tassinari
Uno degli innumerevoli
“inconvenienti” che l’ondata neo-liberal ha determinato nel
nostro Paese è l’incursione di personaggi arrembanti e
fastidiosi come il saccente ed eccessivamente scanzonato
Michele Boldrin, che giovedì scorso – dagli studi di Santoro
– ci ha propinato pillole di trito, imbarazzante e
aggressivo economicismo parlando di scuola.
È singolare che, in una delle
poche puntate dedicate a un tema che, di fatto, riesce a
suscitare l’interesse dei media solo dopo che, a fronte di
un faticosissimo lavoro di più di anno, dopo la raccolta di
quasi 13mila firme, i cittadini bolognesi hanno raggiunto un
obiettivo meritevole e significativo (la celebrazione di un
referendum consultivo, che si celebrerà il 26 maggio nel
capoluogo emiliano) si recluti un simile personaggio.
È curioso che, nonostante
illustri giuristi, primo tra tutti Rodotà, presidente del
Comitato art. 33; nonostante capaci economisti; nonostante
tanti insegnanti – militanti e non – che sul tema scuola
pubblica-scuola privata avrebbero potuto esprimere posizioni
equilibrate e informate, anche se non necessariamente a
favore del finanziamento destinato alle scuole pubbliche, si
sia scelto di interpellare un così esplicito avversario non
solo del principio costituzionale del “senza oneri per lo
Stato”, ma della scuola pubblica in particolare e della
scuola italiana in generale. L’intervento di Boldrin è stato
infatti intercalato da una serie di chiose, tra il serio e
il faceto, animate da un esplicito disprezzo per la scuola e
per gli insegnanti. (assenteisti, fankazzisti, ravanando nei
più vieti luoghi comuni della poetica del fannullone
inefficiente, che tanto attrae esimi intellettuali di casa
nostra).
Non ci soffermeremo
sull’atteggiamento da chi ha formule certe e verità in tasca
che ha caratterizzato l’intervento dell’altra sera. Boldrin
non è nuovo a interventi a gamba tesa sulla scuola.
Il 3 settembre 2010, in piena
tempesta-precariato e con un inizio di anno scolastico
bollente di fronte (stava per entrare surrettiziamente in
vigore la contro-riforma Gelmini), dalle colonne del “Fatto
Quotidiano” ci propinava la sua ricetta per risolvere i
problemi della scuola italiana, dopo aver sparato a zero,
nella prima parte dell’articolo, sul corporativismo dei
sindacati, sull’indisponibilità a determinare cambiamenti
nell’organizzazione del lavoro (sulla quale, c’è da
giurarci, Boldrin si sarebbe/sarà schierato a favore della
proposta indecente delle 24 ore di lezione frontale a parità
di salario nella famosa querelle dello scorso autunno).
“Ecco
gli ingredienti in ordine sparso. Decentralizzare per
davvero le decisioni di assunzione e impiego del personale
lasciando completa autonomia contrattuale ai provveditorati.
Trasformare ogni scuola in una cooperativa d’insegnanti a
cui lo Stato dà in concessione a tempo indeterminato (a un
prezzo che copra l’ammortamento) le strutture fisiche. Chi
assumere (e a che condizioni), chi promuovere, premiare o
licenziare, lo decide la cooperativa. O, al massimo, il
provveditore. E che il migliore, se vuole, venda i propri
servizi a un prezzo (regolato) maggiore. Gli insegnanti di
qualità costano, come i luminari della medicina. E i soldi?
Buoni scuola uguali per tutti gli studenti, finanziati con
le imposte e spendibili nella scuola di propria scelta. Ciò
che conta è il finanziamento pubblico dell’istruzione,
fattore di progresso economico e uguaglianza sociale, non la
sua gestione diretta. Che, come l’esperienza dimostra, porta
spesso a inefficienze e assurdità. E i programmi? E la
qualità dell’insegnamento? Ci pensa il ministero. Programmi
minimi e uniformi a livello nazionale, con aggiunte
volontarie locali e qualità dell’insegnamento testata con
esami nazionali (basta con regioni dove le lodi si
regalano). A questo si dovrebbe dedicare il ministero che,
con questa riforma federalista, si svuoterebbe di migliaia
di inutili funzionari, liberando risorse per chi
l’insegnamento lo produce davvero. Ossia gli insegnanti
capaci e volenterosi, in collaborazione con alunni e
famiglie”.
Il professore della Washington
University in Saint Louis ci spiega in queste righe come
disfarsi arrogantemente del dettato costituzionale e
abbattere una volta per tutte il fastidioso principio
dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale come
garanzia dell’interesse generale e dell’esercizio del
diritto di uguaglianza per tutti i cittadini. A suon di
cooperative che esercitano senza controllo prerogative quali
il reclutamento degli insegnanti e di buoni scuola per
garantire la “libertà di scelta”, ecco cancellati in un
colpo solo articoli 33 e 34 della Costituzione e la natura
interclassista, solidale ed inclusiva della scuola statale.
Come direbbe Karl Marx, un
palmare caso di materialismo volgare. D’altra parte la
scuola di pensiero a cui Boldrin si ispira, quella di von
Hayek e Milton Friedman, ha sempre pensato che in caso di
conflitto tra mercato e democrazia dovesse prevalere il
mercato (come in Cile).
Marina Boscaino e
Giorgio Tassinari
(professore Ordinario di Statistica Economica università di
Bologna).
-
E allora diciamo qualcosa
di destra
pavonerisorse.it, del 15-05-2013, di Stefano Stefanel e
Aluisi Tosolini* (dirigenti scolastici)
http://www.pavonerisorse.it/scuolaoggi/qualcosa_di_destra.htm
Visto che c’è qualche
difficoltà a dire qualcosa di nuovo di sinistra cerchiamo di
arrivare da qualche parte dicendo qualcosa di destra:
-
abolizione del valore
legale del titolo studio;
-
abolizione degli esami di
stato;
-
abolizione delle
bocciature.
In teoria queste tre
abolizioni dovrebbero essere “di sinistra”, ma così non
pare. Il valore legale del titolo di studio viene difeso a
spada tratta dai sindacati e dalle forze di sinistra, come
argine contro il neo-liberismo. Mentre per la sinistra
l’eliminazione delle bocciature farebbe perdere ulteriori
posti di lavoro e l’abolizione degli esami di stato farebbe
perdere ancora più unitarietà al sistema scolastico
nazionale.
Tutto questo poi farebbe
affiorare immediatamente la meritocrazia, vista dalla
sinistra come il drago che sputa fuoco sull’uguaglianza. E
la meritocrazia, che dovrebbe essere il cavallo di battaglia
di un’equità cara alla sinistra, è diventato in Italia un
tema “di destra”. La sinistra non vuol selezionare ma vuol
continuare a bocciare (perché così si è rigorosi). La destra
vuole bocciare perché così i migliori hanno dei vantaggi e
anche su questo la sinistra non medita: perché il vantaggio
dei migliori deve aumentare a spese dei così detti peggiori
(stranieri, disagiati, deprivati, fannulloni, ecc.)? Così la
destra che vuole bocciare poi alla fine lo fa solo in
teoria. Insomma ci pare che tutta la questione abbia
ribaltato i valori e che la destra difenda posizioni che
dovrebbero essere di sinistra e viceversa.
L’abolizione del valore legale
del titolo di studio toglierebbe illusioni, eliminerebbe le
università telematiche e i diplomifici in quanto nessuno se
ne farebbe più niente di un titolo di studio che viene
considerato acquisibile solo con i soldi, mentre
comincerebbero a prevalere certificazioni e percorsi. A
questo punto non servirebbe a nulla bocciare e far ripetere
tutte le materie dell’anno a chi non ce l’ha fatta. Si
eviterebbero le disparità tra sezioni e docenti per cui ci
sono classi in cui con una prestazione si prende cinque e
classi in cui con la stessa prestazione si prende sette: chi
ha dei debiti dovrebbe seguire percorsi diversi da chi non
li ha. E così alla fine ci sarebbe chi esce con 100 e chi
con 21. E chi esce con 21 potrà solo esibire la
testimonianza che è stato lì fino alla fine. Tutto questo
richiede di personalizzare e questo la sinistra non lo vuol
fare, perché personalizzando i percorsi li si differenzia in
modo irreversibile e si ritiene che questo determini un
sistema scolastico non unitario.
Il nostri sistema scolastico
però non è già unitario e i risultati Ocse-Pisa e Invalsi
sono lì a testimoniarlo. Solo che la sinistra italiana ha
regalato alla destra anche le valutazioni di sistema, che
servono proprio ad intervenire sulle ingiustizie. E lo ha
fatto accusando ogni sistema di valutazione di essere il
cavallo di Troia del neo-liberismo. Così per opporsi alle
valutazioni e al loro uso ci si richiama alla Costituzione e
all’uguaglianza, quasi che nella nostra Costituzione ci sia
il socialismo e non anche la spinta verso l’equità, ma
soprattutto facendo finta che la società italiana attenda
uguaglianza, mentre invece al massimo cerca un po’ equità
(il più bravo ottiene il posto per il solo fatto di essere
il più bravo).
Stabilito, dunque, che certi
temi sono ascritti alla destra credo sia necessario
nominarli e confrontarsi con loro, anche se ci si richiama
alla sinistra. L’Ocse ci dice che ogni studente bocciato ci
costa 28.000 euro, l’esperienza ci dice che difficilmente
riusciamo a recuperarlo. Quindi buttiamo dei soldi e
facciamo perdere tempo alla gente. Cosa c’è da difendere in
tutto questo? In base a quale logica i più bravi sono
penalizzati dal fatto che quelli meno bravi non vengano
bocciati? Si scambia merito con selezione, ma poi si
seleziona ritenendosi democratici e costituzionali.
Tutto questo appare
ingigantito in quella enorme farsa di stato che sono gli
esami finali, alibi per le didattiche più retrive e
conservatrici. Se si elimina il valore legale del titolo di
studio le scuole possono strutturare prove d’uscita che
completino i percorsi, definiscano la valutazione finale e
siano coerenti con i percorsi didattici, soprattutto con
quelli personalizzati. E’ di destra tutto questo? E allora
cominciamo a dire cose di destra.
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*) questo intervento –
volutamente provocatorio sin dal titolo - necessita di una
contestualizzazione “genealogica”. Sabato 11 maggio Aluisi
Tosolini ha moderato – a Udine ed entro la manifestazione
chiamata
vicino-lontano – un
dibattito in cui è stato presentato l’ultimo numero della
rivista di filosofia
Aut
Aut dedicato proprio alla scuola. Il dibattito –
cui hanno partecipato Pier Aldo Rovatti, Beatrice Bornato e
Raoul Kirchmayr - è stato molto interessante ed in altro
momento verrà presentata una approfondita recensione del
numero della rivista. Poco prima del dibattito Stefano Stefanel si è avvicinato al
palco per salutare Aluisi Tosolini: i due (noi due) pur
essendo entrambi friulani e scrivendo spesso sugli stessi
argomenti ed anche sugli stessi siti non ci eravamo infatti
mai incontrati. A dibattito concluso ci siano incontrati per salutarci e,
quasi scherzando, ci siamo detti che forse è giunta l’ora di
dire qualcosa di destra, citando proprio le tre abolizioni
che aprono questo nostro intervento comune. Ovviamente questa posizione (per non dire della “destra”)
non ha nulla a che vedere con il dibattito sulla scuola
impossibile di aut aut.
Anche se certo l’incontro ed il dibattito di
aut aut ha costituito
l’occasione per riassumere in tre frasi pensieri che ci
accomunano. E che noi non crediamo essere di destra (sempre che
destra/sinistra voglia ancora dire qualcosa…).
A tanto
ammonta il taglio previsto per la scuola dal decreto legge
35/2012 che la Commissione Bilancio ha cancellato. Ma forse
il sistema scolastico avrebbe bisogno di ben altro
La
Tecnica della Scuola.it, del 15-05-2013, di
Reginaldo Palermo
Nel corso dell’esame del
decreto legge n. 35 sul pagamento dei debiti delle pubbliche
amministrazioni la Commissione Bilancio ha approvato un
emendamento che da molte parti è stato interpretato come un
segnale di apertura e attenzione nei confronti del mondo
della scuola.
Ma vediamo con precisione di
cosa si tratta.
Il decreto 35 prevede il
trasferimento alle Amministrazioni periferiche dei fondi
necessari per onorare impegni di spesa già assunti nei
confronti di privati e imprese.
La copertura finanziaria
verrebbe in larga misura dalla emissioni di nuovi titoli di
debito pubblico (20miliardi di euro) e in misura molto
marginale (poco più di mezzo miliardo) con una riduzione
lineare degli stanziamenti per i diversi Ministeri previsti
dalla legge finanziaria 228 del dicembre scorso.
Il decreto prevede per il
Ministero dell’Istruzione una “sforbiciata” di 64,5 milioni
euro per il 2014, 22milioni dei quali già predeterminati da
altre norme: quindi il taglio effettivo previsto è pari a
42,5 milioni, così suddivisi: 26milioni per il settore
istruzione, 16milioni per l’università e mezzo milione di
euro per la ricerca.
L’emendamento approvato dalla
Commissione Bilancio stabilisce molto semplicemente la
cancellazione di questa sforbiciata (che, per dire la
verità, è cosa modesta se soltanto si pensa che – giusto per
fare un paragone – i 26milioni di euro riferiti
all’istruzione rappresentano il 2% dell’intero ammontare
delle risorse per il fondo di istituto).
Non c’è dunque nessuna
restituzione di risorse alle scuole e men che meno un
incremento delle stesse. Insomma, l’emendamento, pur
apprezzabile in questi tempi difficili, rappresenta più che
altro un intervento a costo quasi zero per raffreddare un
po’ le polemiche e le proteste. Per dare un po’ di ossigeno alle scuole occorre ben altro
che impedire un ulteriore taglio di 26milioni di euro.
Un'ultima annotazione: per ora
è stato approvato soltanto un emendamento in Commissione,
l'intero decreto legge dovrà ancora essere esaminato dalle
Assemblee di Camera e Senato e quindi non è neppure detto
che, alla fine, venga accolto dal Parlamento.
-
E gli ispettori di Sua Maestà finiscono
sotto processo
Un
rapporto svela: le valutazioni alterano i rapporti nella
scuola. Che è sempre meno equa
ItaliaOggi, del 14-05-2013, di Giovanni
Brusio
La valutazione degli ispettori di Sua maestà
intossica la scuola. Fa discutere in Inghilterra uno studio
presentato da Demos sull'accountability del sistema di
istruzione, intitolato Detoxifying school accountability
(http://www.demos.co.uk/files/Detoxifying_School_Accountability_-_web.pdf?1367602207).
Sono vent'anni che è a regime oltremanica la
rendicontazione sociale dei risultati di apprendimento delle
scuole, attraverso i test standardizzati del curriculum
nazionale e le visite degli ispettori dell'Offsted in
classe. Risultati poi pubblicati all'interno delle league
tables, dati sull'accountability delle scuole che servono
agli utenti per farsi un'idea della scuola dove iscrivere i
propri figli o che questi già frequentano. Non si tratta di
una critica tout court al sistema della valutazione esterna,
però. A scriverla è James Park, autore dello studio e
presidente della fondazione Progress, che presenta anche un
proprio modello di accountability (www.progress-hse.org).
Park spiega che è dal 1992 che vengono apportate una serie
revisioni al curriculum nazionale. Le scuole hanno sempre
più difficoltà a sedimentare il cambiamento e a
riprogrammarsi in vista del successo formativo. È vero,
sostiene James Park, che diversi docenti hanno anche
beneficiato del ruolo propulsivo degli ispettori, ma per lo
più si è trattato di adottarne pedissequamente i
suggerimenti, vivendo più da ospiti che da protagonisti la
pedagogia da vivere in classe con i propri studenti. Il
sistema così, secondo Park, entra in stallo. Sta di fatto
che le scuole inglesi sembrano praticare sempre meno equità
educativa: più del 77% della varianza dei risultati ai test
Ocse Pisa degli studenti inglesi è spiegata da differenziali
socio-economici del background di provenienza
(http://www.oecd.org/pisa/46624007.pdf). Il regime di
accountability, secondo Park, produrrebbe un corso di
riforma permanente sostenuto dal clima di gossip innescato
ogni volta che i giornali pubblicano le league tables. Un meccanismo perverso, spiega Park, che alla fine risulta
più utile agli interessi dell'elettorato passivo, preso a
rispondere agli appetiti di quello attivo, appetiti che essi
stessi avrebbero contribuito a stimolare. Poco o niente si
legge, afferma Park, su cosa pensano gli studenti della
propria scuola, come pure sul loro giudizio dell'intervento
degli ispettori in classe. Ecco perché per disintossicare la scuola serve valorizzarne
l'autonomia, si legge nello studio, facendo sentire gli
attori che la vivono tutti i giorni i suoi veri
protagonisti. Ma serve anche che agli studenti, alla fine di
cicli strategici come quello primario e secondario di primo
grado, non venga imposto il test di apprendimento esclusivo,
ma sia data loro la possibilità di scegliersi i test di
competenza da sostenere in base anche a quelle che sono le
proprie vocazioni, i propri interessi e attitudini, rispetto
ai campi disciplinari e degli indirizzi di studio da
intraprendere nella vita.
Aumenti di
carriera a rischio restituzione dal 2011
ItaliaOggi, del
14-05-2013,
Franco Bastianini
Sul personale amministrativo, tecnico ed
ausiliario in servizio nelle scuole statali starebbe per
abbattersi un altro taglio alla retribuzione nonostante sia
già la più bassa tra i lavoratori del pubblico impiego.
Questa volta il taglio riguarderebbe il compenso percepito
dal 2011 dal personale che ha avuto accesso, a decorrere
appunto dal 2011, alla prima o seconda posizione economica,
come espressamente previsto dall'art. 50 del contratto
collettivo nazionale di lavoro in vigore e dagli specifici
contratti nazionali integrativi. Per accedere a tali posizioni i collaboratori scolastici e
il personale amministrativo di ruolo hanno dovuto
frequentare, con esito favorevole, un apposito corso di
formazione e, successivamente, hanno svolto compiti
qualitativamente e quantitativamente superiori a quelli
previsti dall'apposito mansionario. Il rischio che possa essere chiesto al personale interessato
la restituzione delle somme percepite in quanto titolari di
una delle due posizioni economiche nasce principalmente dal
parere negativo formulato dal Dipartimento per la Funzione
Pubblica all'ipotesi di accordo intervenuto tra il ministero
dell'istruzione e le organizzazioni sindacali del comparto
scuola proprio sulle attribuzioni delle posizioni economiche
previste dal contratto scuola in vigore. Un parere negativo,
quello del ministero guidato da Gianpiero D'Alia, motivato
dalla considerazione che l'accordo non rispetta il disposto
dell'art. 9 del decreto legge n. 78/2010. La norma in
questione disponeva che, per gli anni 2011, 2012 e 2013, il
trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici
non superasse quello in godimento nell'anno 2010. L'altro
punto del parere negativo deriva dalla tesi sostenuta dal
Dipartimento secondo la quale l'attribuzione di una
posizione economica equivarrebbe ad una progressione
economica di carriera, progressione esclusa appunto
dall'art. 9 citato. Alcune organizzazioni sindacali (si
conoscono al momento le opinioni di Cgil e Uil) ritengono
tuttavia che una eventuale richiesta di recupero della somme
sarebbe una pretesa inaccettabile sia perché le somme sono
state percepite «in buona fede dal personale», sia perché
non sarebbe costituzionalmente corretto: le somme in
questione sono state percepite quale corrispettivo di una
attività lavorativa regolarmente svolta.
Secondo
una stima della Cgil, il mancato rinnovo pesa sugli stipendi
dei lavoratori per circa 200 euro al mese
ItaliaOggi, del 14-05-2013, di Alessandra
Ricciardi
É approdato nelle commissioni cultura e
istruzione di camera e senato, presiedute rispettivamente da
Giancarlo Galan (Pdl) e Andrea Marcucci (Pd), il decreto del
governo Monti che proroga per due anni il blocco dei
contratti in tutto il pubblico impiego. Nella scuola si
rinnova anche il congelamento degli scatti di anzianità, che
in virtù di una complessa vicenda negoziale i sindacati sono
riusciti a recuperare finora per due annualità su tre. I partiti si sono mossi per sbloccare, anche parzialmente, i
contratti: secondo una stima della Cgil, il mancato rinnovo
pesa sugli stipendi dei lavoratori per circa 200 euro al
mese. Ma una richiesta parlamentare di modifica al governo
del dpr, prima della firma finale, resterebbe lettera morta
senza l'indicazione delle dovute coperture. Il ministero
dell'economia sotto la guida di Vittorio Grilli aveva
evidenziato che la mancata proroga delle misure restrittive
sul pubblico impiego per il 2013-2014 avrebbe prodotto un
buco nel bilancio di 2,7 miliardi. Il governo ora non è più tecnico ma politico, seppure
l'Economia sia stata affidata alle cure di Fabrizio
Saccomanni. Ma il problema delle coperture resta lo stesso.
-
Pubblici e scuola: «Ora i contratti»
La
protesta della CGIL
Il manifesto, del 14-05-2013
Fp e Flc Cgil si preparano a scendere in
piazza, dopodomani, per i contratti e la stabilizzazione dei
precari. Le due categorie riuniranno i direttivi in una
assemblea dove interverrà anche la segretaria generale Cgil
Susanna Camusso, giovedì alle 10 presso il Centro congressi
Roma Eventi Fontana di Trevi; alle 14,30, delegati e
sindacalisti si sposteranno a Piazza Montecitorio. «I
lavoratori pubblici sono una risorsa per il Paese: è
inaccettabile che il loro contratto di lavoro, scaduto da
quattro anni, non venga rinnovato e si paventi la
possibilità di ulteriori proroghe - dicono in una nota
congiunta i segretari Rossana Dettori (Fp) e Mimmo Pantaleo
(Flc) - Occorre dare risposte certe e immediate, definendo
le priorità: rinnovare i contratti nazionali e stabilizzare
i lavoratori precari della pubblica amministrazione,
subito». «I risultati negativi delle politiche economiche e
sociali sviluppatesi negli ultimi anni attraverso i tagli
all'istruzione e formazione e aí servizi pubblici sono
evidenti - continuano i due segretari Cgil - Si è
determinato un impoverimento economico e culturale del
nostro Paese e la mortificazione delle aspettative di
quanti, in particolare tra le nuove generazioni, vorrebbero
poter progettare il proprio futuro. Perciò è necessario: 1)
garantire servizi pubblici, istruzione e formazione pubblica
di qualità reinvestendo risorse ; 2) avviare un progetto di
riforma e di riorganizzazione degli assetti istituzionali;
3) valorizzare il ruolo del "pubblico", qualificando il
lavoro; 4) attribuire alla cittadinanza un ruolo
partecipativo».
l’Italia
migliore che c’è e non si vede, un’Italia sana, bella e
forte che reagisce”.
TuttoScuola, del 14-05-2013
“Lasciare
la scuola comprometterebbe il vostro futuro. Sarebbe come
segnare il vostro destino”.
A dirlo il presidente della Camera, Laura Boldrini,
rivolgendosi agli alunni della scuola Sarria Monti, nel
quartiere San Giovanni a Teduccio, zona orientale di Napoli,
prima tappa di una lunga giornata nel capoluogo campano. “L’istruzione
è fondamentale per creare il vostro futuro
- ha aggiunto -
gli insegnanti sono gli
eroi del nostro tempo, l’Italia migliore che c’è e non si
vede, un’Italia sana, bella e forte che reagisce”. Il presidente
della Camera ha poi spiegato di aver ricevuto, in questi
primi due mesi, nei quali riveste la terza carica dello
Stato, numerose missive: “Circa
12mila lettere in queste otto settimane da presidente della
Camera
- ha spiegato -
tra cui quelle di mamme
preoccupate perché i figli lasciano la scuola”.
La
denuncia è della Cgil: dal 2010 ai dipendenti pubblici sono
stati sottratti circa 3mila euro lordi. Ed altri 600 circa
si perderanno nel 2013
La Tecnica della Scuola.it, del 13-05-2013
La denuncia è della Cgil: dal 2010 ai
dipendenti pubblici sono stati sottratti circa 3mila euro
lordi. Ed altri 600 circa si perderanno nel 2013. Inoltre,
se il blocco fosse confermato nel 2014 sfumerebbero
ulteriori 500 euro. Ci sono poi blocco del turn over e calo
del personale. La scuola sinora ha ridotto i danni
mantenendo gli scatti fino al 2011, ma pagando di tasca
propria. Sta assumendo proporzioni più che visibili lo stop agli
aumenti stipendiali imposto negli ultimi tre anni ai
dipendenti statali. Il 12 maggio Michele Gentile,
responsabile settori pubblici Cgil, ha reso pubblico uno
studio realizzato dal sindacato Confederale: ebbene, a
partire dal 2010 i dipendenti pubblici hanno perso in tre
anni nel complesso circa 3mila euro lordi. Ed altri 600
circa si perderanno nel 2013. Inoltre, se il blocco fosse
confermato nel 2014 sfumerebbero ulteriori 500 euro. In termini mensili, a regime le retribuzioni, sempre secondo
il sindacalista della Cgil, perderanno a fine 2013 in
termini reali (a causa del mancato adeguamento rispetto
all'inflazione in questi anni) circa 200 euro. In
particolare, tra il 2010 e il 2012 le retribuzioni dei
“travet” non hanno recuperato l'8,1% di aumento dei prezzi
che si è registrato nel periodo (insieme allo scarto tra
inflazione programmata e reale che c'é stato nel biennio
precedente). La stima per il costo del lavoro tra il 2011 e
il 2014 è di un calo di sette miliardi con il passaggio da
169 a 162 miliardi. "E' ora - dice Gentile - di dare forti segnali di
discontinuità nelle politiche relative al lavoro pubblico.
Parlare di semplificazione e di snellimento delle pubbliche
amministrazioni senza affrontare e rimuovere
contemporaneamente i gravi effetti distorsivi delle
politiche sin qui seguite verso il lavoro pubblico,
significa non voler occuparsi veramente di riforma". Ma i dipendenti pubblici non hanno affrontato solo un
sacrificio in termine di buste paga reali più leggere. Nel
periodo, gli statali hanno fatto i conti anche con il blocco
del turn over e quindi con il calo del personale (ne sa
qualcosa la scuola). Tra il 2007 e il 2011, secondo i dati
del Conto annuale della Ragioneria generale dello Stato i
dipendenti pubblici sono diminuiti di 150.000 unità (da 3,43
milioni a 3,28 milioni) con un -4,3%. Ma la diminuzione
dovrebbe essere ancora più consistente negli anni successivi
con una stima della Cgil di 400.000 lavoratori pubblici in
meno tra il 2007 e il 2014. Resta irrisolto inoltre il problema del precariato con circa
200.000 tra contratti a termine, lsu, interinali e
collaborazioni nel complesso delle amministrazioni. "Chiediamo al Governo - dice Gentile - di congelare il
decreto con il quale si proroga il blocco della
contrattazione nazionale al 2014 e di riaprire su questo
tema un confronto con i sindacati per far ripartire la
stagione contrattuale. Chiediamo misure urgenti sul
precariato nelle pubbliche amministrazioni che impediscano
la perdita del lavoro alla scadenza dei contratti ; nuove e
mirate politiche di assunzione nelle amministrazioni con le
quali affrontare anche il problema dei tanti giovani
vincitori di concorsi pubblici che ancora non hanno lavoro;
la riapertura di una stagione contrattuale nella quale
affrontare il problema delle retribuzioni e di progetti
mirati di nuova qualità del lavoro e misure che favoriscano
i processi di riforma garantendo il lavoro". E la scuola? Certo, è un discorso a parte. Anche se
numericamente limitati, i concorsi ci sono stati. E pure gli
scatti automatici, pur tra tante difficoltà e trovando parte
dei fondi all’interno dello stesso comparto, alla fine sono
arrivati (quelli del 2010 e di recente per il 2011). Pure
per docenti e Ata, comunque, le buste paga si sono
“alleggerite”: il mancato rinnovo del contratto e il ritarda
di attuazione degli stessi aumenti stipendiali automatici
cominciano a farsi sentire. Quel che preoccupa è che la
situazione di stallo potrebbe protrarsi: il Consiglio di
Stato, tranne che per lo stop all’indennità di vacanza
contrattuale, ha già dato il suo via libera. Ora si attende
il parere delle Camere.
E poi la decisione finale sarà, comunque, del Governo Letta.
Non è escluso che la “palla” verrà girata agli stessi
Ministeri: se vorranno evitare il blocco stipendiale,
dovranno arrangiarsi da soli sottraendo risorse in seno allo
stesso comparto. La Scuola è già abituata: l’anno scorso
sono saltati i fondi destinati al merito, quest’anno il 25%
del Miglioramento dell’offerta formativa. Probabilmente
sarebbe il male minore: gli scatti stipendiali sono un
incentivo importante e bloccarli creerebbe non pochi
scompensi nella categoria
Duri interventi dalla Federazione dei
Cavalieri del Lavoro, che quest'anno si sono concentrati su
“Una scuola più europea”.
La Tecnica della Scuola.it, del 13-05-2013,
di Alessandro Giuliani
Duri interventi dalla Federazione dei
Cavalieri del Lavoro, che quest'anno si sono concentrati su
“Una scuola più europea”. Per il leader Giorgio Squinzi, in
altri Paesi si tagliano spese inutili o improduttive e si
investe in formazione e ricerca, puntando su valutazione e
offerta più qualificata. Pietro Marzotto: assegniamo la metà
dei titoli rispetto alla media Ue, e la crisi non vale come
scusa perché gli altri Paesi nonostante ciò hanno saputo
progredire. L’Italia sembra proprio essere diventato uno di quei Paesi
dove l’istruzione è l’ultimo dei problemi. Stavolta
l’allarme è lanciato Fondazione Cini di Venezia, nel corso
dell'incontro annuale della Federazione dei Cavalieri del
Lavoro chiamati a parlare di "Una scuola più europea per la
competitività ed una cittadinanza attiva". Tutti i relatori si sono detti d’accordo nel classificare
l’attuale sistema scolastico italiano come tra quelli meno
in grado di affrontare le complesse esigenze formative delle
nuove generazioni. Davvero impietoso il quadro tracciato dall'imprenditore
Pietro Marzotto, che ha rilevato come "quasi la metà della
popolazione italiana attiva possiede al massimo la licenza
media mentre la media Ue è del 25%, il tutto con conoscenze
effettive possedute che tocca il 35% dei soggetti contro una
media dei Paesi più avanzati che oscilla dal 50% al 70%". E non finisce qui, perché, ha continuato Marzotto, "solo il
15% degli italiani raggiunge una preparazione universitaria
- ha aggiunto - quando nell'Ue è oltre il 28% con la
formazione secondaria che è anche in questo caso più
performante rispetto al nostro Paese". "Siamo rimasti fermi, se non addirittura arretrati, e la
crisi non vale come scusa - ha concluso l’imprenditore -
perché gli altri Paesi nonostante ciò hanno saputo
progredire" nonostante l'investimento in formazione,
rispetto al Pil, non registri differenze. La risposta, secondo gli intervenuti al convegno, è che la
soluzione al problema formativo italiano va trovata in
risorse economiche. Ma soprattutto nel superamento dello
sterile dialogo a due tra politica e docenti, soprattutto
poi quando su quasi un milione di insegnanti che ci sono in
Italia, un numero terribilmente alto è composto da precari. Secondo Claude Thelot, esperto francese in 'education', in
Italia si paga anche lo “scotto” di un sistema
"conservatore" "Il successo della scuola - ha sottolineato
il transalpino- è il successo formativo di tutti gli
studenti (da qui uno dei limiti italiani)i". Ma quella dell’esperto francese è sembrata una voce fuori
dal coro. Secondo Giorgio Squinzi, presidente di
Confindustria, che ha concluso l'incontro nazionale dei
Cavalieri del Lavoro quest’anno dedicato al tema della
scuola. "I nostri vicini e i competitori - ha ricordato
Squinzi - tagliano spese inutili o improduttive e investono
in formazione e ricerca per creare quella creatività e
flessibilità culturale necessarie per pensare il nuovo".
Basta quindi "con tanta scuola parlata", sì invece alla
"valutazione e qualificare dell'offerta e alla difesa del
merito". "La crisi del lavoro e l'emorragia di imprese – ha
continuato il leader degli imprenditori - rischia di minare
il modello sociale del nostro Paese e di sottrarci energie
vitali. Per questo ai giovani chiediamo sempre più
adattabilità, mobilità, e apertura internazionale, combinate
con i nuovi saperi tecnici". Per Squinzi solo così "potremo fermare questa nuova ondata
migratoria dei giovani migliori verso Paesi che danno loro
non più garanzie ma più fiducia e senso del futuro".
Nonostante sia cresciuta la scolarizzazione, per
l’imprenditore, è venuta meno "una maggiore reattività del
cambiamento" sia della società che della scuola tanto che
"siamo via via scivolati sempre più in basso nei ranking
internazionali". Serve, quindi, una svolta. Peccato che, probabilmente, anche
il Governo Letta è intenzionato a rimandarla. Secondo il
ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, infatti, il
Governo non sembra proprio intenzionato a finanziare il
comparto: come tutti gli altri, dovrà essere in grado di
garantirsi gli investimenti da solo.
Quali
ragioni ci sono per introdurre le nuove tecnologie nella
scuola? Non certo e non più il bisogno di colmare il digital
divide
Rete
Scuole, del 13-05-2013
Il colonialismo digitale è un'ideologia che
si riassume in un semplice principio, un condizionale. Si
può, quindi tu devi. Se è possibile che una certa cosa o
attività migri verso il digitale, allora deve migrare. I
coloni digitali si adoperano per introdurre le nuove
tecnologie in ogni settore della vita delle persone, dalla
lettura al gioco, dal supporto alla decisione
all'insegnamento, dalla comunicazione alla pianificazione,
dalla costruzione di oggetti all'analisi medica; la tesi
colonialista è data per scontata dai coloni, che ne
apprezzano la semplicità: è assolutamente generale, dato che
si applica a qualsiasi cosa o attività in modo
indifferenziato. Facile da ricordare, difficile da
contrastare. Chi si oppone al colono digitale viene
rapidamente incasellato nella categoria dei luddisti, dei
distruttori di macchine, di quelli che non sanno stare al
passo con i tempi. Il dibattito, secondo i coloni, non
dovrebbe neanche iniziare. In realtà, negare una tesi condizionale è prendere una
posizione più debole, negoziale. Chi si oppone al
colonialismo non per questo dice che le cose e le attività
non digitali non devono mai compiere la migrazione digitale.
Invoca il principio di precauzione; dice semplicemente che
la migrazione non è un obbligo che discenderebbe dalla
semplice possibilità della migrazione; e che deve essere
accompagnata, perché tende a essere troppo invadente. Non
basta mostrare un libro elettronico che funziona per imporre
il libro elettronico. L'anticolonialista ha quindi tutti i
diritti di rivendicare un atteggiamento positivo e
costruttivo: la legittimità della migrazione dev'essere
valutata caso per caso. In alcuni casi la digitalizzazione
ha liberato, in altri no; e lo sappiamo già. A un estremo
sappiamo che la fotografia si è affrancata ed è diventata,
grazie al digitale, quello che avrebbe dovuto essere da
sempre, un modo di prendere appunti visivi. A un altro
estremo, sappiamo che il voto elettronico, e in particolare
il voto online, presenta dei rischi imparabili di controllo
sociale e manipolazione, e dovrebbe essere bandito per
sempre dalle istituzioni democratiche. Ma entro questi
estremi c'è uno spazio negoziale molto ampio in cui i casi
particolari meritano una discussione; discussione che è del
tutto assente e quando c'è viene mortificata dalla
ripetizione ossessiva del mantra colonialista. La
geolocalizzazione crea enormi possibilità ma queste non si
accompagnano a enormi rischi per la sicurezza individuale?
La condivisione immediata e senza riflessione della propria
vita privata gratifica ma non espone i cittadini a forme
sottili di aggressione commerciale e politica? L'educazione
può trarre giovamento dalle nuove tecnologie o distrugge il
capitale di tempo e di attenzione strutturata che la scuola
dovrebbe invece faticosamente proteggere? Le nostre scelte
individuali non sono sempre più condizionate da quanto ci
propongono degli algoritmi? Il semplice fatto che queste
domande possano essere sollevate indica che non si accetta
l'ideologia colonialista; non certo che non si accetta il
digitale. Non essere colonialisti non significa essere
luddisti. I coloni e i colonialisti che offrono loro una
sponda intellettuale hanno pronta una batteria di risposte a
chi nega il «si può, quindi devi»; la ridda vorrebbe
frastornarci ma dovrebbe venir vista per quello che è, un
tentativo di parare con la quantità degli argomenti
l'assenza di qualità degli stessi. Nell'ordine: le nuove
tecnologie avrebbero poteri quasi magici per risolvere
vecchi problemi sociali, in primis politica (M5S, ma anche
Diebold) ed educazione (Prensky, Ferri); sono divertenti in
sé e comunque più divertenti dei loro antenati (Google
Mail); creano prodotto interno lordo e occupazione
(ex-ministro Profumo); permettono misure oggettive dei
risultati (Commissione europea); fanno tutti così, e chi sei
tu per opporti (amici e colleghi che deplorano la vostra
assenza da Facebook); e, ultima spiaggia, funzionano
benissimo, nel senso che abbiamo riparato tutti i bug.
Post-ultima spiaggia, se poi non funzionano, possiamo sempre
trovare il modo di ripararle. La hybris non risparmia il
lessico: vengono coniati termini come «multitasking» e
«nativo digitale» che danno un'aura di scientificità agli
argomenti. Non basta quindi lavorare caso per caso, ma su ogni caso si
devono soppesare questi molti e diversi argomenti.
Prendiamo, tanto per fare un esempio, la scuola, e mettiamo
da parte il «si può, quindi devi». Quali ragioni ci sono per
introdurre le nuove tecnologie nella scuola? Non certo e non
più il bisogno di colmare il digital divide: i ragazzi hanno
più tecnologia a casa di quanta la scuola possa mai averne.
Ma quale ragione, allora? La ridda riparte: «Ci sono delle
attività educative incredibili che puoi fare con il
computer; i ragazzi d'oggi sono così e bisogna adattarsi
alla loro forma mentis; dobbiamo dare un accesso totale
all'informazione totale; ha funzionato benissimo nel settore
bancario, perché non deve funzionare nella scuola?». Ma sono
argomenti ideologici. Bisognerebbe chiedere se esistono dei
dati per giustificare gli investimenti in tecnologia. Per
esempio dei dati sul rendimento scolastico. Certamente
questi dati non c'erano (per definizione!) nel momento in
cui le tecnologie sono state introdotte: la loro
introduzione era un esperimento alla cieca, che la dice
lunga sulla qualità delle decisioni pubbliche. Uno studio recente di Marco Gui del l'Università di Milano
Bicocca fa il punto su un esempio tra i tanti, il rapporto
tra la frequenza d'uso dei media digitali e i livelli di
apprendimento, andando a scavare nei dati del sesto volume
del rapporto Pisa Ocse 2011, che coprono una popolazione di
450mila studenti quindicenni da 65 Paesi. L'analisi di Gui è
quantomai interessante: le nuove tecnologie si associano
positivamente all'apprendimento fintantoché se ne fa un uso
modico. Non appena le tecnologie diventano invasive e
colonizzano il tempo, il rendimento scende, a livelli
inferiori a quelli che si hanno senza tecnologie. Vale la
pena di fare un'osservazione metodologica: si tratta di
associazioni e non di rapporti direttamente causali, per il
momento, dato che l'identificazione di questi ultimi
necessiterebbe di studi sperimentali. Tuttavia è più che
abbastanza per farci venire il sospetto (il rapporto Pisa
vede gli stessi dati, ma è più elusivo sulle conclusioni).
Gli unici vantaggi (minimi) si hanno per quella che il
rapporto Pisa chiama subdolamente «lettura digitale», un
altro dei termini dalla semantica dubbia che fanno la gioia
dei colonialisti, e che io renderei piuttosto con «spippolamento».
A guardare da vicino, la «lettura digitale» è l'abilità di
andare in giro per ipertesti, fare copia e incolla, cliccare
per dire «mi piace» e cose simili. Ci sarebbe da stupirsi se
almeno queste "competenze" non migliorassero almeno un po'
con un uso accanito del computer, e comunque a usarlo troppo
anche queste regrediscono! Ma il punto principale è che le
altre competenze, ben più serie: lettura, matematica e
scienze, ne soffrono.
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-05-12/scuola-digitale-082823.shtml?uuid=AbXBuAvH
L’unione
Province: «Con il nuovo anno scolastico molte strutture
inagibili»
LaStampa.it, del
10-05-2013, di Flavia Amabile
Quattrocento scuole potrebbero anche non poter riaprire
all’arrivo del prossimo anno scolastico, è il grido
d’allarme del presidente dell’Unione province italiane,
Antonio Saitta. Ci sono sempre meno soldi, l’assistenza e la
manutenzione degli edifici dove sono collocate le scuole
superiori è sempre più difficile, ha spiegato. Le cause sono molto chiare secondo il rappresentante dell’Upi:
«Molti istituti non potranno inaugurare nel prossimo autunno
le attività a causa del patto di stabilità e dei tagli
imposti dalla spending review». Secondo una rilevazione
effettuata dalle Province sul piano programmatico delle
opere scolastiche, gli enti nel 2013 avevano definito gli
impegni di spesa per gli investimenti nelle scuole per oltre
727,9 milioni di euro. Ma, «a causa dei tagli imposti e degli obiettivi del patto
di stabilità, che - ha sottolineato il presidente dell’Upi
Antonio Saitta stanno azzerando la capacità di
programmazione in opere e infrastrutture, le Province sono
state costrette a ridurre gli impegni di 513,2 milioni di
euro». Pertanto, ha concluso il presidente dell’Upi, «potranno
essere realizzate nel corso di quest’anno opere per un
ammontare complessivo di soli 212 milioni di euro». Quindi,
solo un terzo delle spese programmate per le opere nelle
scuole superiori potrà essere realizzato. Il grido d’allarme ha ancora maggiore rilievo se si
considera che proprio la neo-ministra dell’Istruzione, Maria
Chiara Carrozza, ha indicato l’edilizia scolastica come il
primo tema di cui occuparsi. Ma di qui a parlare di apertura
a rischio è diverso. Dal Miur, infatti, ridimensionano le
parole delle province considerandole un «allarme eccessivo».
Il regolare avvio delle lezioni «dipende dal personale della
scuola e quello lo assegniamo noi». Del resto, aggiunge, «la
situazione di 400 istituti non mette in pericolo la normale
apertura dell’anno scolastico e l’avvio delle lezioni». A sostenere la battaglia delle province, invece, ci sono i
dirigenti scolastici. «Quello delle Province è un grido
d’allarme assolutamente fondato e opportuno», spiega il
presidente dell’Associazione nazionale presidi, Giorgio
Rembado. I dati dell’Upi parlano chiaro: a rischio ci sono 400
istituti sparsi lungo tutto lo stivale che avrebbero bisogno
di interventi di manutenzione da realizzare durante
l’estate. In mancanza di disponibilità immediata di fondi i
lavori non verranno effettuati. Dal 2008 al 2012 - ricorda
Saitta le Province hanno destinato alle scuole 10,4 miliardi
di cui 8 per il funzionamento e 2,4 per investimenti in
nuovi edifici, messa in sicurezza ed interventi strutturali.
Dal governo, invece sono arrivati «zero euro» alle scuole e
il 24% di tagli alle spese delle province per il
funzionamento mentre l’Upi ha continuato a destinare «il 18%
dei propri bilanci alle funzioni per le scuole».
Le
critiche di nozionismo. «No, rivelano competenze concrete»
Corriere della Sera.it,
del 10-05-2013, di Paolo Conti
ROMA — Nelle scuole
primarie italiane oggi secondo appuntamento con l'Invalsi,
il Sistema nazionale di valutazione della macchina educativa
italiana. Toccherà alle classi II e V per la prova di
matematica. E anche quest'anno le polemiche accompagnano
l'appuntamento. La Federconsumatori ha chiesto al nuovo
ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza, la
sospensione dei test. Il sindacato Unicobas ha parlato del
20% dei docenti che martedì 7 maggio avrebbe scioperato
nelle II e V classi per la prova di italiano. Il ministero
ha replicato parlando di scioperi limitati allo 0,69% per le
II classi e allo 0,62% per le V e di prove non sostenute
complessivamente nello 0,82% dei casi per le II e nello
0,75% per le V. In più c'è stato l'attacco del professor
Luciano Canfora intervistato da www.ilsussidiario.net: «Le
prove Invalsi sono una mostruosità, una cosa senza alcun
senso, che può servire se mai a premiare chi è dotato di un
po' di memoria più degli altri, non chi ha spirito critico.
La miglior cosa è eliminare i test». Sempre per Canfora
«l'Invalsi e tutta la quizzologia di cui siamo circondati»
sarebbero lo strumento per ottenere «un pappagallo parlante
dotato di memoria e nulla più, suddito e non un soggetto
politico» sottraendo ai ragazzi negli anni della formazione
«l'abito alla critica, alla capacità di comprendere e di
studiare storicamente, di distinguere». I responsabili dell'Invalsi (le prove sono scelte
selezionando proposte avanzate da circa 150 docenti sparsi
per l'Italia) respingono le accuse. A partire da Paolo
Sestito, commissario straordinario Invalsi e dirigente
dell'area ricerca e relazioni internazionali della Banca
d'Italia, economista studioso anche di sistemi educativi:
«Le nostre prove sono quanto di più lontano dal nozionismo,
dall'automatismo dei test, dal Rischiatutto. Il nostro scopo
è l'esatto contrario: misurare le competenze dei ragazzi e
la qualità dell'insegnamento, calandole nella vita concreta.
Assicuriamo alle scuole uno strumento di auto-conoscenza».
Conferma Giorgio Bolondi, docente di Matematiche
complementari all'università di Bologna, che coordina la
predisposizione delle prove: «Abbiamo incontrato migliaia di
insegnanti e registrato molte comprensibili prevenzioni. C'è
un malinteso: non intendiamo esprimere giudizi, ma informare
ragazzi, insegnanti e scuole sulla qualità
dell'apprendimento. Ogni domanda è legata agli obiettivi di
legge per i diversi gradi dell'istruzione. Nemmeno un
quesito punta su memoria o formule: ciò spetta agli
insegnanti, non all'Invalsi». Giudizio condiviso dal linguista Luca Serianni, che ha
analizzato le prove: «L'Invalsi funziona come le analisi del
colesterolo per un adulto. Servono al medico come indice
importante per stilare una diagnosi dopo aver studiato altri
parametri. Trovo le prove realizzate con intelligenza per
tarare le competenze a seconda della fascia d'età. Non hanno
nulla del quiz né vedono il nozionismo come valore. Possono
aiutare le scuole a conoscersi meglio e a mettere in atto i
meccanismi per migliorarsi» A difendere l'Invalsi a spada tratta è Enza Ugolini, fresca
ex sottosegretario all'Istruzione nel governo Monti (insegna
storia e filosofia ed è preside del liceo «Malpighi» di
Bologna), che negli anni ha lavorato sul tema della
valutazione (in modo politicamente trasversale) con i
ministri Luigi Berlinguer, Letizia Moratti, Giuseppe
Fioroni, Mariastella Gelmini e Francesco Profumo: «Il primo
scopo è aiutare le scuole ad avere un punto di vista esterno
per capire come si lavora al proprio interno e nelle singole
classi. I dati Invalsi sugli apprendimenti non sono solo
"numeri" (percentuali, pesi, tassi di difficoltà,
coefficienti di validità) che riducono la reale portata
educativa della scuola. Anzi proprio perché i risultati sono
tratti da prove concrete, gli esiti di queste prove
finiscono con l'aiutare i singoli insegnanti, i consigli di
classe, i dipartimenti, i collegi docenti, a fare una
diagnosi anche a livello didattico». Enza Ugolini contesta
l'autoreferenzialità di una certa scuola: «Uno dei nemici
nella valutazione è la parzialità, quella abitudine che
porta a non cercare in modo costante di tener conto di tutti
i fattori della realtà. Non c'è solo la "tua" scuola, il
"tuo" alunno, la "tua" classe con i "suoi" "livelli medi":
esiste il mondo... Ogni scuola e ogni classe ha uno specchio
col quale confrontarsi». E conclude, per sostenere la bontà
del sistema, ricordando le disparità: «In II e V primaria la
situazione, specie in matematica, nel Nord è pari alla media
nazionale, mentre il Sud ha mediamente +2,5 punti. Già nella
prima classe della scuola secondaria di primo grado la
situazione si capovolge e mentre il Nord supera di oltre 6
punti percentuali la media, nel Sud si va sotto la media,
per arrivare fino a oltre -15 punti nella classe terza del
Sud-Isole... Mi sembra essenziale saperlo, per rimediare».
Stavolta il
primo “inquilino” di viale Trastevere si rivolge ai colleghi
del ministero dell’Economia: non si può parlare di scuola
moderna quando ad alcune strutture manca il tetto per
ripararsi dalla pioggia, confido nella loro collaborazione.
La
Tecnica della Scuola.it, del 09-05-2013, di A.G.
Stavolta il primo “inquilino”
di viale Trastevere si rivolge ai colleghi del ministero
dell’Economia: non si può parlare di scuola moderna quando
ad alcune strutture manca il tetto per ripararsi dalla
pioggia, confido nella loro collaborazione. Ha ragione il
premier Letta: i responsabili dei dicasteri farebbero bene
ad incontrarsi il prima possibile...
Ha ragione il premier Enrico
Letta: i ministri della XVII legislatura farebbero bene ad
incontrarsi il prima possibile. Il confronto, finalmente a
quattr’occhi, sarebbe indispensabile per chiarire una volta
per tutte quali sono le strade da intraprendere. Sia per
tenere a freno la spesa pubblica, sia per fronteggiare le
emergenze. In tale occasione, si parla del prossimo week
end, il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza,
potrebbe finalmente capire che aria tira. Se le ambizioni di
messa a norma delle scuole a rischio, dei progetti di
informatizzazione della macchina scolastica e sulla
valorizzazione dei prof possono essere effettivamente
supportate da un piano straordinario di finanziamenti. In caso contrario, quel che conta sono le norme approvate.
Che, ancora una volta, prevedono per la scuola un
ridimensionamento delle spese. Le quali rispetto al Pil sono
destinate a ridursi anche nei prossimi due anni. Per ora la
Carrozza, arrivata a viale Trastevere da pochi giorni, non
ha mai parlato dei tagli previsti. Anzi, si è sempre detta
ottimista, inviando messaggi ai colleghi di Governo, ad
iniziare dal premier concittadino, orientati al bisogno di
crescita (implicitamente anche dei fondi) da assegnare alla
scuola. "Intervenire sull'edilizia scolastica e migliorare il
rapporto tra pubblico e privato sono le priorità", ha
ribadito il neo ministro del Miur in un'intervista (di cui è
stata anticipata una sintesi) a Sette, in edicola da venerdì
10 maggio, che dedica uno speciale allo stato della cultura
e dell'istruzione in Italia. Per realizzare il primo punto, necessario perché "non si può
parlare di una scuola moderna quando ad alcune strutture
manca il tetto per ripararti dalla pioggia", Carrozza
confida "nella collaborazione con i colleghi dell'Economia e
delle Infrastrutture e nelle parole di Letta che ha detto
che l'università e la scuola sono settori da cui ripartire". Il Ministro si conferma poi più a suo agio quando parla
degli atenei. Stavolta spiega come dovrebbero essere gestiti
i rapporti dell’università con privati: secondo il ministro,
"gli atenei dovrebbero smetterla di pensare che avere
rapporti con i privati equivalga a vendere l'anima e
potrebbero cominciare a studiare anche secondo le linee di
indirizzo delle imprese mentre le imprese dovrebbero
abbandonare l'illusione che finanziare l'università
equivalga a espandere la propria linea di produzione". A
parere di Maria Chiara Carrozza la premessa per una
collaborazione virtuosa è che l'università sia solida e
abbia una buona reputazione: "A questa condizione le imprese
che ne finanziano i progetti non proveranno mai ad
approfittarsene. Se invece un'università è alla fame,
accetterà anche pressioni da parte delle imprese”.
-
Test Invalsi, è proprio
valutazione?
l'Unità, del
09-05-2013, di Benedetto Vertecchi
LA CAMPAGNA DI RILEVAZIONI CHE
SI STA AVVIANDO NELLE SCUOLE ITALIANE CONTIENE NON POCHI
ELEMENTI DI AMBIGUITÀ. Proprio da tali ambiguità hanno
origine sia gli atteggiamenti critici di tipo complessivo,
sia gran parte delle obiezioni sollevate sulle scelte
tecniche e organizzative effettuate. Cercherò di definire
qui i principali aspetti della questione valutativa, al fine
di affermare, almeno sul piano concettuale, riferimenti
corretti. Per cominciare, è difficile considerare valutativa
un'attività che consiste nel rilevare sull'intera
popolazione la capacità di soddisfare un certo numero di
consegne. Un conto è, infatti, che un numero limitato di
allievi (una classe, una scuola) sia sollecitato a
dimostrare le conoscenze di cui dispone, altro conto che la
medesima operazione sia compiuta sui grandi numeri. In una
classe, o in una scuola, gli insegnanti possono avvertire
l'esigenza di fondare le scelte ulteriori su un quadro
meglio definito di quello già disponibile e che, se si
avverte tale esigenza, è presumibile che non soddisfi
pienamente. Quella che viene compiuta è un'operazione di
verifica (o di misurazione) che è solo parte di una
strategia valutativa che si fonda sulla considerazione del
modo in cui si distribuiscono tre principali gruppi di
variabili. Il primo gruppo riguarda le caratteristiche dei
singoli allievi, il secondo quelle del contesto
socioculturale che fa da contorno alla scuola e il terzo le
scelte organizzative e didattiche cui si conforma l'attività
educativa. Ciascun gruppo di variabili dev'essere
considerato per la maggiore o minore prossimità degli
effetti che può indurre sia nel tempo breve sia, a maggior
ragione, nei tempi lunghi. In altre parole, le
caratteristiche degli allievi sono da collegare alle
esperienze e alle interazioni della vita quotidiana, ma
anche ai condizionamenti di provenienza remota, per esempio
quelli consumistici e valoriali derivanti dall'esposizione
ai messaggi della comunicazione sociale. È evidente che le
scuole incontrano maggiori o minori difficoltà nello
svolgere il loro compito educativo se la cultura informale
degli allievi converge con quella formale. Ci sono due modi
per interpretare i dati che si riferiscono a questi due
gruppi di variabili: si può operare un taglio sincronico nel
fluire dell'attività, o si può cercare di coglierne
l'evoluzione attraverso il tempo. Il taglio sincronico (è
come dire la fotografia della condizione esistente) ha una
sua utilità didattica, ma può portare a stabilire inferenze
improprie se si tentano interpretazioni che riguardano il
processo educativo, e quindi i cambiamenti che è possibile
rilevare nei due gruppi di variabili menzionati. Una
prospettiva temporale estesa è dunque la condizione per
valutare l'attività educativa. Ed è su questa valutazione
che le scuole possono fondare le decisioni che riguardano le
scelte organizzative e didattiche (terzo gruppo di
variabili). Le considerazioni appena esposte hanno senso se
riferite a situazioni non troppo diverse le une dalle altre.
Ne hanno molto meno quando il quadro di riferimento
presenta, come nel sistema scolastico italiano, livelli
elevati di dispersione nella distribuzione delle variabili
tra le aree geografiche, le tipologie di territorio, i
diversi insediamenti della popolazione, le attività
produttive, la qualificazione culturale dei contesti. È da
notare che queste condizioni sono note da decenni, e sono
state rilevate, su basi campionarie con procedure definite
nell'ambito d'istituzioni internazionali, già una quarantina
d'anni fa. Il fatto è che dai dati allora raccolti, così
come da quelli rilevati in occasioni successive, una volta
scontato l'effetto emotivo del momento, non sono state
tratte conseguenze. Le misurazioni sono rimaste misurazioni
e le valutazioni, che avrebbero comportato una qualche
assunzione di responsabilità, non ci sono state. Si
comprende, di conseguenza, l'atteggiamento negativo che si è
prodotto nei riguardi di una misurazione della quale sono
troppo poco definiti gli intenti per offrire un riferimento
attendibile al dibattito sullo sviluppo del sistema
educativo e, considerando gli orientamenti che hanno
prevalso nella politica scolastica di questo inizio di
secolo, si capisce anche perché non pochi sospettino che
l'intento perseguito non sia quello di migliorare il
sistema, ma di riversare la responsabilità di ciò che non
soddisfa sulle scuole e sugli insegnanti. Non è facile
tuttavia indicare che cosa soddisfi e che cosa non soddisfi.
Sono stati troppi e contraddittori i segnali rivolti alle
scuole circa gli intenti da perseguire con la loro attività.
Siamo tutti sensibili ai livelli scadenti della capacità di
comprensione della lettura o delle competenze matematiche e
scientifiche, ma non si capisce per quale ragione non si sia
posto impegno nella riorganizzazione della lettura pubblica
o delle biblioteche scolastiche e si siano lasciati andare
in malora, quando esistevano, i laboratori per le esperienze
e le dimostrazioni scientifiche. Al contrario, sono stati
agitati lustrini sostitutivi con l'unico effetto di ridurre
ancora di più le risorse utilizzabili dalle scuole per
proporre esperienze di apprendimento valide per tempi
estesi. Le reazioni di rifiuto indotte da comportamenti
improvvidi rischiano di disperdere anche quel poco di
sistematica valutativa che, molto faticosamente, si era
affermata nella scuole: per esempio, la distinzione tra le
varie funzioni della valutazione, l'individuazione delle
possibilità e dei limiti delle diverse soluzioni strumentali
ecc. Non contribuisce a creare un clima favorevole l'enfasi
che è stata posta sulle misure per individuare comportamenti
impropri (cheating: ma perché dirlo in inglese? La parola
italiana imbroglio è forse meno densa di significato?). C'è
bisogno di ricostruire un clima di fiducia, senza il quale
nessuna valutazione è possibile. Occorre chiarezza
nell'indicazione degli intenti, oltre a una competenza
valutativa che non derivi da semplice imitazione di quanto
avviene altrove, ma da una accumulazione originale di
conoscenza quale può fornire solo un serio impegno per lo
sviluppo della ricerca educativa.
Retescuole,
del 09-05-2013, di Giorgio Israel
Caro
direttore, il dottor Paolo Sestito risponde molto civilmente
alle critiche rivolte all’Invalsi (1), dichiarandosi aperto
a discutere anche quelle più severe, e di ciò va
ringraziato. Ma la sua replica non risponde affatto alle
questioni di fondo, anzi, le elude, dando per scontati
concetti che sono proprio quelli su cui occorre portare la
discussione.
La risposta
del dottor Sestito mette in evidenza il peccato originale
dell’Invalsi che, se non corretto, può condurre a effetti
sempre più devastanti. Questo peccato consiste nel fatto che
l’Invalsi non è più soltanto un ufficio operativo, ma un
vero e proprio ufficio studi, anzi un centro ideologico che
opera sulla base di un serie di assiomi dati per scontati e
che sono invece altamente opinabili. È come se l’Invalsi si
fosse arrogato un diritto che nessun centro di ricerca si è
mai permesso: risolvere in modo definitivo e apodittico
questioni centrali e controverse dell’epistemologia della
conoscenza e della filosofia della scienza. Per questo esso
considera al di sopra di ogni discussione il suo operare; e
ne trae la legittimazione per condurre una vera e propria
opera di “formazione quadri” (valutatori).
Giorni fa è
venuta dai vertici dell’Invalsi la seguente
autogiustificazione: noi non misuriamo le conoscenze, bensì
le competenze. E il dottor Sestito ribadisce e precisa il
compito dell’ente: «misurare le competenze intese come
capacità di usare le conoscenze in contesti diversi e non
scolastici».
Mi limito qui
a richiamare una serie di punti che ho discusso più
dettagliatamente in un dibattito sulle competenze comparso
su Scuola Democratica (2) poco più di un anno fa.
1) “Misurare”.
Permetterà il dottor Sestito, ma questo uso disinvolto del
termine “misurare” applicato a entità immateriali è a dir
poco perturbante per chi si occupa di storia ed
epistemologia della scienza da decenni. Esiste una
letteratura sterminata su questa tematica e anche i più
arditi sostenitori dell’applicabilità delle metodologie
quantitative in uso nelle scienze esatte fuori dal loro
campo, hanno sempre ammesso la non misurabilità dei concetti
che intervengono nel dominio delle proprietà immateriali.
La domanda è
semplice: “qual è l’unità di misura in gioco?” (nella
fattispecie l’unità di misura delle competenze).
Evidentemente non esiste. Persino von Neumann che si spinse
a introdurre l’idea di “utile” come unità di misura
dell’utilità fece macchina indietro dichiarando che l’inconfrontabilità
delle “misure” ottenute per soggetti diversi rende
impossibile parlare di “misurazione”. So bene che esiste una
letteratura pseudo-scientifica che tenta di avallare l’idea
che si possa “misurare”, dichiarando “superato” il problema
dell’unità di misura. Ma è opportuno parlare di cose serie e
seriamente. Difatti, quando ho posto questo problema non ho
mai avuto risposta salvo due volte: la prima affermando che
l’unità di misura delle competenze sarebbero i test; l’altra
quando si è obiettato che anche quando si attribuisce un
voto si “misura”.
Sono risposte
assurde. Evidentemente il test non è un’unità di misura di
alcunché. Il test è formulato da persone, secondo criteri
soggettivi, discutibili, non a caso accesamente discussi.
Pretendere che i test siano unità di misura è come
immaginare che un gruppo di persone si affolli attorno a un
tavolo per misurarne i lati, ciascuna col suo metro
personale, litigando su quale sia il più corretto e
affidabile. Il punto è che sventolare la parola “oggettivo”
come troppo spesso si fa dall’Invalsi, è inaccettabile: la
valutazione è un’attività che ha un’ineliminabile componente
soggettiva e cercare di nasconderla è come gettare la
spazzatura sotto il tappeto. Al signore che mi disse che
quando attribuisco un voto a un esame “misuro”, risposi che
“non misuro un bel niente”, bensì fornisco “una stima
numerica, con un sistema convenzionale, del mio giudizio
soggettivo del candidato”.
Certo, siamo
tutti d’accordo nel voler perseguire valutazioni il più
possibile condivise, ma lasciamo perdere una volta per tutte
i termini “misurare” e “oggettivo” e parliamo dell’esigenza
di perseguire valutazioni il più possibile “equanimi”,
“imparziali” e “condivise”. In fondo, per questo esistono i
consigli di classe e la discussione tra insegnanti. La
cultura è discussione interminabilmente aperta. La
valutazione è un processo culturale e volerla ridurre a una
tecnica di misurazione come la misurazione di un’intensità
di corrente o di una lunghezza è assurdo – vorrei usare
termini assai più forti, ma mi limito a dire “assurdo”. Si
può pretendere su simili fragili basi di costruire una
misurazione di Stato?
2)
“Competenze”. Il dottor Sestito dovrebbe sapere che non
esiste affatto una definizione condivisa di competenza.
Dovrebbe sapere che sono stati convocati persino congressi
per arrivare a una definizione condivisa e che non si è
arrivati da nessuna parte. Esistono centinaia di definizioni
diverse di competenze.
Egli propone
la sua – «capacità di usare le conoscenze in contesti
diversi e non scolastici» – del tutto opinabile e alquanto
fumosa. Che vuol dire esattamente “diversi” e “non
scolastici”? Per esempio, non è chiaro affatto che cosa
sarebbe l’uso di conoscenze matematiche in contesti non
scolastici. Ma il dottor Sestito non ha colpa perché il
concetto di competenza è vasto e inafferrabile e proprio per
questo è ancor più assurda l’idea che lo si possa misurare.
Piuttosto la colpa del dottor Sestito è di lasciar credere
che questo sia possibile, quando gli specialisti più seri di
docimologia ammettono che soltanto a livelli molto
elementari è possibile una stima numerica (rifuggo dal
termine “misurazione”) della capacità di usare conoscenze,
mentre è del tutto impossibile quando intervengono aspetti
relazionali, il che accade sia nei contesti scolastici che,
ancor più, in quelli non scolastici).
Il punto è che
è vero proprio il contrario di quel che asseriscono i
vertici dell’Invalsi. In misura assai limitata è possibile
stimare numericamente “le conoscenze” di una persona, anche
con test a risposta chiusa: posso verificare se uno studente
conosce o no il teorema di Pitagora, l’algoritmo della
divisione con resto o la legge commutativa dell’addizione;
posso controllare la sua conoscenza delle regole basilari
dell’ortografia, della grammatica e della sintassi. Ma è
velleitario, se non grottesco, pretendere di stimare
numericamente le sue “competenze”, quale che ne sia la
definizione.
Tempo fa feci
l’esempio di un’esperienza realmente effettuata su bambini
della primaria ponendo loro un semplice problema matematico
derivante da una situazione reale. Le soluzioni furono molto
diverse: c’è chi seguì una via aritmetica (di puro
conteggio), chi propose un’impostazione che conteneva idee
di tipo algebrico, chi tradusse il problema in termini
geometrici. Come valutare le competenze? Personalmente,
considero di gran lunga più interessante ed espressione di
una mentalità creativa l’approccio geometrico; ma sono certo
che altri colleghi, ispirati a una visione matematica più
astratta, preferirebbero l’approccio algebrico, indicativo
di una mentalità già strutturata dal punto di vista logico.
E vi potrebbero essere molti altri punti di vista su cui
confrontarsi, che dipendono da visioni culturali che non
possono certo essere standardizzate da un’ideologia di
Stato.
L’unico
approccio culturalmente sensato e aperto è affidare la
riflessione a un insegnante, che oltretutto conosce i
soggetti in gioco; magari un insegnante che ha posto a
confronto la sua visione con quella di altri colleghi o in
un processo continuo di formazione in servizio, anche a
contatto con l’università. Già un gran passo avanti sarebbe
istituzionalizzare un rapporto culturale tra insegnanti
nelle scuole. Ma non voglio deviare il discorso. Resta il
fatto che è raccapricciante l’idea che una classifica di
competenze tra diverse soluzioni di un problema (come nel
caso citato) sia affidata a un gruppo di “valutatori” che
procede secondo schemi standardizzati e stabiliti una volta
per tutte.
D’altra parte,
come può pretendere l’Invalsi di possedere le competenze (è
il caso di dirlo!) per stabilire procedure standardizzate di
valutazione di questioni e situazioni tanto variate e tanto
complesse?
Si rassegni il
dottor Sestito: i principi della cultura, della conoscenza e
delle capacità non si definiscono e non si standardizzano,
tanto meno in un ente di Stato.
In un commento
alla mia lettera aperta al ministro Carrozza (3), un lettore
de ilsussidiario.net ha ricordato come, in un recente
seminario, la dott.ssa Bertocchi abbia osservato che per i
«tre aspetti fondamentali della competenza linguistica –
interazione orale, analisi e comprensione di un testo
scritto e riflessione metalinguistica, produzione di un
testo scritto – solo per il secondo siamo in grado di
mettere in campo un test di misurazione». La massima stima
per la dott.ssa Bertocchi, ma forse dovrebbe rassegnarsi a
non presentarsi come una sintesi di Saussure, Cassirer e
Chomsky: lasci perdere la definizione dei “tre” (e perché
non quattro, sei o tredici?) aspetti fondamentali della
competenza linguistica; è troppo anche per lei.
Sono queste
pretese che rendono antipatico l’Invalsi. Siamo grati che si
sia almeno ammesso che per il primo e terzo aspetto non si
sappia come “misurare”. Ma affermare che sia possibile
mettere in campo test di misurazione per il secondo aspetto,
non è solo inaccettabile, ma è una pretesa che aggiunge
all’antipatia l’irritazione. Per favore, non ci prendete
tutti per scemi: abbiamo studiato anche noi e sappiamo cosa
sia un testo letterario. La ricchezza di un testo letterario
(di valore) consiste proprio nella multiformità e
inesauribile ricchezza dei suoi significati e delle
possibili interpretazioni. Altrimenti l’esegesi e la critica
letteraria non esisterebbe o sarebbe riducibile a un
prontuario (compilato da un ufficio).
Non esiste
un’interpretazione univoca di un testo e spesso lo studente
più intelligente è proprio quello che vorrebbe apporre più
di un crocetta sulle varie alternative di risposta, o non ne
vorrebbe apporre alcuna perché nessuna corrisponde all’idea
che si è fatta del senso del testo. Ho esemplificato in vari
casi l’assurdità di certi test di comprensione di un brano
letterario e non ho avuto alcuna risposta, se non la vaga
difesa che si trattava di verificare soltanto la
comprensione testuale. Ma non è così, e non soltanto perché
i test mirano a ben altro, ma anche perché l’intento è molto
più ambizioso: “analisi” del testo e addirittura
“riflessione metalinguistica”.
Come definire,
se non molto severamente, l’idea che ci sia un gruppo di
persone che si arroga il diritto di sentenziare qual è il
significato dei primi versi della “Ginestra” di Leopardi o
quali sono i sentimenti dell’Innominato, e su questa base di
valutare i candidati?
Ripeto: è
l’ergersi a centro dispensatore di precetti apodittici che
riguardano nientemeno che i pilastri dei processi di
conoscenza, che rende francamente insopportabile l’agire
dell’Invalsi per chiunque creda ancora nell’autonomia
intellettuale e nella libertà di pensiero (e, di
conseguenza, nella libertà d’insegnamento). Con quale
diritto ci si costringe a sentir parlare certi consulenti
dell’Invalsi di “matematica argomentativa”, di “advanced
mathematical thinking” (l’inglese è un passaporto per tutto)
o di consimili idee strampalate offerte come verità
stabilite per decreto legge?
Questa è
cultura di Stato, roba che può affermarsi soltanto in un
paese che non ha interiorizzato una visione liberale e
aperta della cultura e che è ancora oppresso da un dirigismo
di stampo bottaiano. Si richiede un po’ più di riflessione e di cautela e,
soprattutto, un po’ più di modestia.
(1) Paolo
Sestito (Invalsi) risponde alle critiche – 7 maggio 2013 http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2013/5/7/SCUOLA-Test-classifiche-esame-di-Stato-Sestito-Invalsi-risponde-alle-critiche/390308/ (2) Sulla questione delle competenze – giugno 2011 https://sites.google.com/site/gisrarticles/Dibattitocompetenze.pdf?attredirects=1 (3) Lettera aperta al ministro Carrozza – 2 maggio 2013
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2013/5/2/SCUOLA-Israel-non-saranno-i-test-a-salvarla-Lettera-aperta-al-ministro-Carrozza/388820/
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2013/5/9/SCUOLA-Israel-ecco-il-peccato-originale-dei-valutatori-di-professione/391219
La difesa del
sottosegretario Marco Rossi Doria: “Prove di intelligenza”
la
Repubblica.it, del 08-05-2013, di C.Z.
ROMA
— Il sottosegretario Marco
Rossi Doria è l’unico politico dell’Istruzione sopravvissuto
all’era Profumo, il ministro che ha spinto sui test Invalsi
e sul principio di valutazione delle scuole italiane.
Reinsediatosi in viale Trastevere, Rossi Doria, già maestro
di strada, dice convinto: «I grandi paesi e quelli in via di
sviluppo hanno modalità di valutazione. Tutti. Si valutano
alunni, insegnanti, scuole. In Germania e negli Stati Uniti,
in India, in Brasile, in Corea. Perché mai il sistema
scolastico italiano, che promuove o boccia milioni di
ragazzi ogni anno, non dovrebbe essere valutato?».
Corretto. Ma i quiz sono il
modo migliore?«Non sono quiz, sono prove di conoscenza e di
intelligenza prodotte da insegnanti che per decenni si sono
cimentati a scuola, spesso nelle condizioni più difficili. I
test Invalsi sono criticati da intellettuali che pensano
alla centralità del voto in italiano, come nei Sessanta.
Oggi servono prove strutturate. E poi, anno dopo anno,
questi test sono migliorati».
A cosa servono davvero i test
Invalsi?
«A farci capire i punti di
forza e di debolezza del nostro sistema, offrono una
quantità di dati straordinaria. In Puglia hanno fatto
aumentare le ore di italiano e matematica nelle scuole, e
oggi certifichiamo un miglioramento ».
Molti insegnanti protestano. «Si sentono costretti a un lavoro ulteriore non
riconosciuto. Bisogna pagare meglio maestri e professori,
questo è il punto».
Maestre in
sciopero, famiglie in rivolta: “Sono difficili e frustranti”
la
Repubblica.it, del 08-05-2013, di Corrado Zunino
ROMA
— Non ci sono gli studenti arrabbiati del 2011, arriveranno
più avanti con i test Invalsi da somministrare alle
superiori. E la Cgil, comunque critica sulla valutazione
scolastica in base ai quiz, non ha scioperato togliendo
batterie di fuoco al “Boikot Invalsi” versione 2013,
iniziato ieri insieme alle prove per le scuole elementari
(seconde e quinte). I Cobas, alfieri della protesta con
balli e bandiere sotto il ministero, parlano del 20 per
cento di maestri in sciopero. Gli organizzatori dell’Invalsi
replicano che su 2.914 classi campione le prove non sono
state effettuate nello 0,82% delle seconde e nello 0,75%
delle quinte. La distanza dei dati è in linea con le dichiarazioni degli
ultimi tre anni, ma va sottolineato come il ministero
consideri solo le classi campione quando, invece, gli
scioperi ci sono stati anche nelle aule in cui i test non
diventeranno prova statistica. In diverse scuole italiane,
in realtà, i docenti si sono astenuti, alcuni genitori non
si sono scientemente presentati e i presidi sono dovuti
correre ai ripari ammassando alunni in una sola aula. Tra
l’altro, la cifra delle classi vuote offerta dal ministero è
tripla rispetto al 2011, a dimostrazione che, almeno tra gli
insegnanti, il “no” ai test resta forte e motivato. Gli strateghi dell’Invalsi non retrocedono dalla loro
posizione: «Le prove Invalsi stanno migliorando la scuola
italiana». I Cobas invece, attraverso il leader Piero
Bernocchi, definiscono il test a risposta multipla «una
vergognosa scheda sugli alunni che spinge a giudizi sommari
e discriminatori su attitudini e personalità e attua una
rilevazione di censo». Restando un po’ più sul pezzo, le
maestre della Regina Margherita di Roma fanno sapere che le
domande Invalsi «sono fuori dal contesto di un anno di
lavoro e incapaci di cogliere la preparazione, tanto più la
crescita ». All’Iqbal Masih di Roma molti genitori hanno
fatto entrare i figli in ritardo scrivendo sulla
giustificazione “causa Invalsi”. All’istituto Parini di
Ostia sono saltate le prove in 4 quinte su 5. Da Pavia le
insegnanti del Vallone ora sostengono: «Gli Invalsi sono
frustranti per i bambini con un rendimento medio-basso, i
quesiti troppo difficili. Si misura solo l’eccellenza,
all’americana. Il test è diventato un addestramento e per le famiglie un nuovo
fattore ansiogeno». Un’insegnante genovese conferma: «Le
prove sono difficili, hanno una taratura molto alta». A
Genova, ecco, l’elementare Ada Negri è rimasta chiusa perché
tutti i bidelli hanno aderito allo sciopero. Alla Anna Frank
dieci maestri si sono rifiutati di somministrare i test. Quest’anno alcuni intellettuali (Moni Ovadia) si sono
schierati contro la valutazione con la crocetta. Il filologo
e storico Luciano Canfora ha firmato l’appello Cobas e ha
definito la prova «una mostruosità che può servire a
premiare chi è dotato di buona memoria, non chi ha spirito
critico. È il trionfo postumo di Mike Bongiorno. Se tolgo
allo studente che si sta formando l’abito alla critica, lo
trasformo in un pappagallo dotato di memoria, un suddito ».
Roberto Ricci, responsabile dell’area prove Invalsi, difende
la sua opera: «Quest’anno abbiamo dato più spazio a domande
aperte, che in matematica consentono risposte più ricche.
Vogliamo capire il ragionamento compiuto dallo studente per
dare la risposta, individuare il lettore più competente non
quello erudito. Per far bene le prove Invalsi bisogna aver
fatto bene la scuola». E per la prima volta il presidente
del Consiglio d’istituto, un genitore, potrà visionare i
risultati ottenuti dalla sua scuola.
di Mimmo
Pantaleo segretario Flc-Cgil
ItaliaOggi, del 07-05-2013
Occorre un radicale cambio di
rotta rispetto alle scelte politiche degli ultimi anni in
tutti i comparti della conoscenza. L'ex ministro Profumo ha
continuato l'opera di demolizione dell'istruzione pubblica,
iniziata dalla Gelmini, nel nome dell'austerità e della
riduzione del perimetro dell'intervento pubblico.
Ora bisogna ripartire dalla
Costituzione per superare le enormi disuguaglianze e le
iniquità che i tagli di questi anni hanno determinato
nell'accesso al sapere e nelle condizioni di lavoro.
Al nuovo ministro chiediamo di
esplicitare subito le linee sulle quali intende procedere.
L'ambizione dovrebbe essere quella di dare una effettiva
centralità ai temi della conoscenza e del lavoro, nel
ricomporre culturalmente una società fortemente frantumata e
nel garantire libertà vera ad ogni persona attraverso
l'accesso al sapere. La prima condizione è ripristinare la
democrazia nelle scuole e nelle università basata realmente
sulla partecipazione dei lavoratori, degli studenti e delle
famiglie superando i modelli autoritari e gerarchici imposti
in questi anni. Per questa ragione, serve una larga
consultazione nazionale che individui i terreni fondamentali
di intervento per ridare valore sociale all'investimento in
istruzione. Riteniamo che serva prima di tutto ridare
effettiva autonomia alla funzione di governo del Miur sempre
più residuale rispetto alle compatibilità finanziarie e dei
controlli decisi unilaterlamente dal Mef. Nei primi cento
giorni di governo rivendichiamo maggiori risorse da
finalizzare all'edilizia scolastica, alla messa in sicurezza
degli edifici scolastici, alla valorizzazione dell'autonomia
scolastica, all'aumento degli organici, al superamento del
precariato, al rinnovo dei contratti nazionali e
all'affermazione di un nuovo obbligo scolastico a 18 anni e
l'apprendimento in tutto l'arco della vita. In più, la
revisione del regolamento sulla valutazione del tutto
inefficace e confuso perché troppo «Invalsi dipendente» e la
cancellazione della odiosa norma sui docenti inidonei.
Misureremo la volontà di cambiamento dagli atti concreti e
dalle modalità con le quali si affronteranno le tantissime
emergenze rimaste in sospeso per l'incapacità e la debolezza
dimostrata dal Miur e da Profumo
La FLC CGIL
chiede al Ministro di fermare l’inutile deriva dei test e
modificare il Regolamento sul sistema nazionale di
valutazione. Appello per avviare una capillare raccolta di
firme
La
Tecnica della Scuola.it, del 07-05-2013, di
P.A.
La FLC CGIL chiede al
Ministro di fermare l’inutile deriva dei test e modificare
il Regolamento sul sistema nazionale di valutazione. Appello
per avviare una capillare raccolta di firme. Carente per la Flc-Cgil le norme per gli allievi con
bisogni educativi speciali, per i quali sarà il dirigente
scolastico a valutare caso per caso e decidere se l’alunno
svolgerà la prova separatamente, in altro locale, con
l’ausilio dei docenti o meno. Se è carente l’approccio sull’integrazione, le promesse
dell’Invalsi, dice Flc-Cgil, appaiono poco convincenti: • prevede di restituire i risultati delle prove alle scuole
già all’inizio di settembre, • contrasterà il cosiddetto cheating (l’alterazione
scorretta degli esiti delle prove da parte degli allievi e/o
della scuola) • comincerà a restituire informazioni atte a consentire alle
scuole una comparazione con il proprio passato • avvierà la costruzione di un archivio ragionato con le
principali esperienze di utilizzo dei dati • fornirà alle scuole un format nel caso volessero rendere
pubblici i propri risultati.
E ancora:
• si
intende lavorare a prove inseribili in un esame di stato
riformato fin dal 2015 e adoperabili ai fini di orientamento
e selezione nei successivi percorsi universitari (fin dal
2014) • si definiranno prove per la lingua inglese e le competenze
scientifiche nelle scuole del primo ciclo • si transiterà verso l’uso del computer • verrà pubblicata una “banca prove” a disposizione delle
scuole per compiere proprie autonome valutazioni (e chi
meglio dell’invalsi stesso potrebbe fornire i materiali del
teaching to test?) • si ripenserà la scansione temporale delle prove nel ciclo
complessivo degli studi.
E di
fronte a tante promesse, rimane un atteggiamento autoritario
(il regolamento è stato approvato da un governo a fine
mandato)
•
un’impostazione parziale e riduttiva: tutto viene ridotto
alle prove e, come se non bastasse, le prove hanno grossi
limiti. Al tempo stesso, il ruolo dell’Invalsi si dilata in
modo invasivo a coprire ambiti non propri, ma spettanti a
chi ha ruolo politico e non tecnico, oltre a svilire
progressivamente dell’immagine stessa dell’autonomia
scolastica • nessuna risorsa al sistema scolastico per avviare reali
processi di valutazione e autovalutazione • un silenzio sprezzante sull’aggravio di lavoro per il
personale docente e di segreteria che deve essere
riconosciuto economicamente • un’apertura sostanziale all’utilizzo “selvaggio” degli
esiti delle prove in funzione di improprie e deleterie
competizioni tra scuole (il cosiddetto format
onnicomprensivo ci sembra una vera foglia di fico) • si nega che le prove servano alla valutazione degli alunni
mentre si mantiene la prova d’esame per il primo ciclo (che
ne altera e stravolge gli esiti) e si procede con la sua
introduzione anche nel secondo ciclo.
Non è
davvero questa la direzione che serve alla scuola, dice la
Flc, e a tal fine ha deciso nel proprio Comitato direttivo
di predisporre un appello, che verrà pubblicato nei prossimi
giorni, per avviare una capillare raccolta di firme tra il
personale della scuola, tra gli studenti le famiglie e la
cittadinanza e di proseguire il confronto con le
associazioni professionali, studentesche e dei genitori che
hanno sottoscritto il documento sul Regolamento sul sistema
nazionale di valutazione per definire una grande iniziativa
pubblica e aperta che costituisca il preludio ad una
consultazione nazionale. Su tale tema verrà chiesto con
urgenza un incontro con il nuovo Ministro dell’Istruzione
-
Università, l’appello
delle associazioni per i "Primi 100 giorni" di Governo
La situazione
è gravissima, serve una gestione democratica, più diritto
allo studio, un rafforzamento del valore legale delle
lauree, uno straordinario reclutamento dei prof, la
valorizzazione del dottorato e del ruolo svolto dai
tecnico-amministrativi
LaTecnicadellaScuola.it, del 07-05-2013, di A.G.
Le organizzazioni di docenti,
ricercatori, personale e studenti chiedono d'incontrare
Carrozza: la situazione è gravissima, serve una gestione
democratica, più diritto allo studio, un rafforzamento del
valore legale delle lauree, uno straordinario reclutamento
dei prof, la valorizzazione del dottorato e del ruolo svolto
dai tecnico-amministrativi. Poi rivedere il ruolo dell'Anvur
e finanziamenti in linea Ue. L’impegno appare improbo. Ma
già invertire la tendenza sarebbe importante.
Si allunga la lista delle
associazioni e delle rappresentanze che operano nel campo
dell’istruzione e che attraverso le loro esternazioni
tentano di incidere sulla politica del nuovo ministro Maria
Grazia Carrozza. Stavolta a dire la loro, chiedendo anche un
incontro urgente con il responsabile del Miur, sono le
organizzazioni rappresentative di docenti, ricercatori,
tecnico-amministrativi, dottorandi, precari e studenti
universitari: attraverso un documento unitario (firmato da
ADI, ADU, ANDU, CIPUR, CISL-Università, CNRU, CNU,
COBAS-Pubblico Impiego, CoNPAss, CSA-CISAL Università, FLC
CGIL, LINK, RETE29Aprile, SNALS-Docenti, SUN, UDU,
UGL-INTESA FP, UIL RUA, USB-Pubblico Impiego), le
rappresentanze accademiche chiedono a Carrozza “di poterla
incontrare al più presto”: l’obiettivo è illustrargli “un
gruppo di richieste per i ‘Primi 100 giorni’, la cui
accettazione e attuazione dipendono direttamente dallo
stesso Ministro”.
Nella missiva, le associazioni
ricordano alla Carrozza che negli ultimi tempi l’università
italiana “è stata ridotta in una situazione gravissima”. Nel
documento unitario, le organizzazioni universitarie hanno,
tra l'altro, “fortemente auspicato che il nuovo Parlamento e
il nuovo Governo, a differenza dei precedenti, non ascoltino
soltanto coloro che hanno interesse allo smantellamento
dell’Università statale. La forte domanda di cambiamento che
emerge anche dall'Università, certamente porterà il nuovo
Governo e il nuovo Parlamento a considerare seriamente
l'alta formazione e la ricerca come prime emergenze del
Paese e, quindi, ci si aspettano immediati atti legislativi
e ministeriali che - come richiesto dalla stragrande
maggioranza del mondo universitario - rendano democratica la
gestione degli Atenei, assicurino il diritto allo studio e
rafforzino il valore reale e legale delle lauree, prevedano
uno straordinario reclutamento nel ruolo della docenza da
rendere unico, valorizzino il dottorato di ricerca,
riconoscano maggiormente il ruolo svolto dai
Tecnico-amministrativi, rivedano radicalmente il ruolo e la
composizione dell'ANVUR, prevedano un finanziamento che sia
non inferiore alla media europea”.
Molte delle richieste appaiono
condivisibili. E anche già chiare al Ministro, visto che
proviene da un contesto accademico. Resta da capire quante
delle istanze saranno recepite. E, soprattutto, se vi
saranno la volontà (bipartisan, vista la composizione del
Governo) e i finanziamenti (elemento imprescindibile ma
tutt’altro che sicuro) per condurli in porto.
Le
controriforme della Gelmini, la legge Brunetta e la
privatizzazione dei saperi devono essere cancellati aprendo
una stagione nuova per scuola, università e ricerca. Così
Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, in un
comunicato stampa
LaTecnicadellaScuola.it, del 07-05-2013, di A.G.
Per questa ragione la FLC
CGIL, dice Pantaleo, propone di investire 4 miliardi di euro
annui per allineare la spesa per istruzione e ricerca alla
media europea. Le priorità per Flc-Cgil sono:
più occupazione
• superamento della precarietà
• investimenti in
infrastrutture
• rinnovo del contratto
nazionale
• liberare la contrattazione
decentrata dai vincoli assurdi della legge Brunetta
• obbligo d'istruzione per
tutti a 18 anni
• diritto allo studio
• miglioramento qualitativo
dei sistemi di formazione, istruzione e ricerca pubblici.
Chiediamo alla Ministra
Carrozza, continua Pantaleo, di aprire una larga
consultazione pubblica, mentre centrale risulta la piena e
buona occupazione.
Ora si vada ai fatti, conclude
il segretario, la mobilitazione continuerà e si allargherà
perché questi anni hanno insegnato che senza lotte e senza
autonomia del sindacato non ci possono essere risultati
concreti.
Secondo
l'Istat in 200mila restano senza impiego nonostante il
famoso "pezzo di carta". Un record negativo rispetto alla
media europea.
la
Repubblica.it, del 06-05-2013, di Christian Benna
Milano. L’
università della vita boccia i dottori. Succede in Italia
dove il pezzo di carta rimane nelle tasche di 200mila
laureati fermi al palo della disoccupazione. Il record
negativo è certificato dall’Istat: nel 2011 il numero di
giovani a spasso con titolo di studio conseguito in un delle
facoltà della Penisola è aumentato del 27%. Non stupisce
quindi che nella nuova ondata migratoria, 100 mila italiani
in fuga solo lo scorso anno, uno su tre possiede almeno una
laurea. La crisi degli atenei, va a braccetto, in un valzer
sul Titanic, con la crisi dell’economia e del lavoro. Le
università italiane negli ultimi dieci anni hanno perso 58
mila studenti; con calo delle matricole pari al 17% sul
totale della popolazione universitaria. Come se in un
decennio — quantifica il Consiglio universitario nazionale —
fosse scomparso un ateneo come la Statale di Milano.
Un’emorragia che si traduce in tracollo nelle classiche Ocse
in quanto a percentuali di laureati tra 30 e 34 anni:
l’Italia scivola al 34esimo posto su 36 paesi, a quota 19%
contro una media europea del 30%. Si riducono anche i
professori, del 22% dal 2006 a oggi, i corsi di laurea
(1.195 in meno in sei anni) e i dottorati (6.000 in meno
rispetto agli standard europei. Come invertire la rotta? Se
la demografia italiana non aiuta, se il valore del pezzo di
carta incomincia ad ingiallire, i prossimi passi
suggeriscono da più parti gli esperti — devono essere fatti
proprio in direzione del lavoro.
Il vicepresidente di
Confindustria con delega all’Education Ivanohe Lo Bello, ha
ribadito la necessità di «percorsi formativi all’interno
della scuola che si devono incrociare con quelli delle
aziende». E spiega: «Il Paese ha bisogno di un’università
che crei più occupazione. Abbiamo bisogno di giovani più
competitivi e in grado di innovare il sistema produttivo.
L’università, in collaborazione con le imprese, deve offrire
una formazione più concreta e aperta al mondo del lavoro.
Come fare? Puntare sulle lauree triennali
professionalizzanti; diffondere tirocini nelle facoltà
tecnico-scientifiche; valorizzare i nuovi Its; utilizzare lo
strumento dell’alto apprendistato che permette di svolgere
il dottorato in partnership con le aziende». Intanto bisogna
ridurre il gap tra lavoro e formazione. Nel 2011, infatti,
il tasso di disoccupazione tra i 25 e i 29 anni raggiunge
per i laureati il 16%, un livello superiore sia a quanto
registrato dai diplomati nella stessa fascia d’età (12,6%)
sia alla media dei 25-29enni (14,4%). Andrea Cammelli
direttore di Almalaurea, invita a guardare i numeri con
spirito critico. «Se si arriva alla conclusione che la
laurea non serve più a nulla, affermiamo una sciocchezza che
risulta pericolosa per il futuro del paese». Dati alla mano,
Cammelli riconosce che l’avviamento al lavoro per i nostri
neo — laureati è piuttosto problematico. Circa l’11% dei
giovani a un anno dalla laurea non ha lavoro. Quota che però
scende al 6% nel periodo successivo. «Nei primi anni di
lavoro i coetanei non laureati hanno in media redditi più
alti. È del tutto normale, perché si tratta di giovani che
sono entrati molto prima nel mercato del lavoro. Nel tempo
però non c’è partita. Studiare conviene». Secondo i dati di
Almalaurea chi possiede un titolo di studio di un Ateneo
italiano arriva a guadagnare nel corso della vita fino al
50% in più rispetto a un diplomato. L’università italiana,
secondo Cammelli, deve sapere interpretare questi fenomeni,
costruendo ponti con il mondo del lavoro, ma anche le
aziende devono sapersi rinnovare. E dice: «La gran parte dei
manager europei, 34 su cento, ha una laurea, in Germania la
percentuale sale a 44. In Italia siamo appena a 15. Questo è
uno spread educativo che dovrà essere colmato». Le
università italiane che sfornato laureati con posto
“assicurato” sono le solite note: medicina, economia e
ingegneria. Sorprendono invece quelle in fondo alla
classifica, chimica e geologia biologia. Se i risultati in
termini di occupazione non sono buoni, a monte il mondo
delle università appare ancora cristallizzato alle dinamiche
del secolo scorso. La maggior parte dei laureati, il 49%, ha
studiato nella propria città di appartenenza. Solo il 26% è
di estrazione operaie. E appena l’8,4% ha completato gli
studi lavorando. Andrea Lenzi, presidente del Cun, Consiglio
universitario nazionale, «servono soldi veri e investimenti
per garantire al diritto allo studio, borse di studio e
college per studenti, spese senza le quali è difficile
immaginare una ripresa». Il taglio di 400 milioni di euro al
Fondo di finanziamento ordinario per l’anno 2013 ha
indebolito le risorse delle Università, già in calo
programmato del 5% annuo dal 2009. Tuttavia «ben consapevole
delle ristrettezza economiche, almeno dobbiamo prendere dei
provvedimenti per migliorare la qualità dello studio e
dell’accesso all’università ». E spiega: «L’orientamento è
uno dei pilastri dell’insegnamento. In Italia è quasi del
tutto assente. Invece bisogna spiegare ai giovani delle
scuole secondarie il loro futuro. E questo a partire da due
argomenti: il primo è la conoscenza delle possibilità di
studio, quando oggi ci si iscrive all’università spesso
quasi per caso. E il secondo è dire chiaro hai ragazzi le
opportunità di lavoro che una determinata facoltà offre. Il
placement andrebbe scritto a fianco del nome del corso di
laurea». Nel 2011 il numero dei giovani a spasso con titolo
di studio conseguito in un delle facoltà della Penisola è
aumentato del 27% per cento Il taglio di 400 milioni di euro
al Fondo 2013 ha indebolito le risorse delle Università.
Il ministro:
precari e ricerca, pronti alla sfida
Il
Mattino, del 06-05-2013, di Adolfo Pappalardo
«La nostra priorità è il Sud»,
dice subito, senza tanti giri di parole, Maria Chiara
Carrozza appena insediatasi sulla poltrona più alta del
ministero dell'Istruzione e Ricerca scientifica che pesa le
parole ma chiarisce come occorre ridare speranza agli
insegnanti precari: «Un problema enorme. Ma chi ha tenuto in
piedi per anni la formazione non può essere buttato via».
Ministro domani sarà a Napoli. A Città della Scienza e nella
scuola media di Forcella per iniziare un tour. «Giusto
partire da Napoli, un luogo simbolico del Mezzogiorno su cui
occorre un'attenzione particolare. A cominciare da Città
della Scienza dopo tutto quello che è avvenuto: il mio
obiettivo è fare di tutto affinché ci sia una ripartenza
della attività ma in questo momento occorre, soprattutto, la
mia vicinanza e quella del governo alla comunità
scientifica-accademica di Napoli. Questa visita è un modo
simbolico per ricominciare a parlare di progetti concreti».
Poi a Forcella, un quartiere disagiato di Napoli, come però
ve ne sono diversi al Sud. «Ne sono consapevole. Voglio
essere presente, parlare con i docenti, con gli alunni e
capire cosa c'è che non va. A Napoli, poi a Bari a Palermo
e, via via, risalire verso Nord per visitare le realtà di
tutto il Paese: occorre una ricognizione di quello che tutti
gli esponenti pensano dello stato attuale dell'università e
di quello che c'è da fare. Alla fine del percorso di
incontri definiremo le priorità in accordo con il Governo.
Ma la mia priorità è il Sud del Paese». Consapevole del gap
enorme, dal punto di vista dell'istruzione, che esiste tra
le due aree del Paese? «Intanto preferisco vedere i dati e
studiarli: preferisco non parlare per luoghi comuni
altrimenti sono tutti discorsi che non servono a nulla». La
riforma Gelmini non è stata da tutti digerita. «Già detto
che la riforma del mio predecessore ha alcuni punti che
probabilmente necessitano di un cambiamento. Ma vediamo: non
è questa la mia priorità ora». Di certo la scuola sembra
andare verso un sistema di valutazione, vedi Invalsi, di
tipo statistico. Troppo, forse. Lei asseconderà o intende
frenare? «Sicuramente occorre fare una riflessione: è sempre
importante una valutazione ed io l'ho sempre fatto da
rettore e da professore ma non ci si può abbandonare solo ai
numeri. Qualche giorno fa Giorgio Israel, in una lettera
pubblica, spiega che sia meglio non rimuovere questo sistema
ma operare una riflessione. Ecco, ho avuto l'impressione,
che la scuola sia divisa su questo punto». Anche sul voto
alla maturità che da ora avrà un peso determinante sui
punteggi per accedere alle università a numero chiuso. Con
il paradosso che potrebbe essere privilegiato chi ha
studiato in un diplomificio... «Sono contraria, da docente,
a dare un voto sulla base di un altro conseguito in un'altra
scuola. Il voto della maturità può essere utilizzato per i
test universitari ma in minima parte. Io personalmente in
questo caso non lo utilizzerei ma, tendenzialmente, se deve
avere un peso che lo abbia in maniera limitata. Perché al di
là dei voti noi abbiamo il dovere di dare ai giovani la
possibilità di migliorarsi, non sbarrargli la strada». AI
palo è l'Agenda digitale. Qualcuno sostiene che la rincorsa
verso l'elettronica può essere dannosa per la scuola. Senza
contare che il Mezzogiorno ha un digital divide più
accentuato. «Occorre non abbandonare l'agenda digitale. La
scuola, ma anche la ricerca sono temi trasversali che
uniscono il Paese. C'é un'ampia convergenza sul fatto che
ricerca e innovazione siano fondamentali per il futuro
dell'Italia e non bisogna averne paura perché il mondo, e
quindi la scuola, vanno verso una complessità. Ma questo
deve essere uno strumento più ampio per portare a tutti
internet e, quindi, servizi della pubblica amministrazione.
Senza correre il rischio che qualcuno sia marginalizzato a
causa della mancata copertura del territorio di internet. La
digitalizzazione dei servizi può rendere tutto più
trasparente e fruibile. Per abbattere costi e rispettare i
diritti dei cittadini serve una struttura tecnologica
adeguata. E solo così si potrà superare il gap tra le due
parti del Paese». L'ultimo concorso, ancora in fieri, arriva
dopo 13 anni. E non assorbirà tutti i precari. Il suo
sottosegretario Rossi-Doria propende per una precedenza ma
così si rischia di sbarrare un giovane che vuole insegnare..
«Quello dei precari è un problema enorme. Per anni hanno
tenuto sulle loro spalle la scuola senza avere alcuna
certezza sul proprio futuro. Ora non possiamo abbandonarli,
abbiamo un dovere morale verso di loro ma è chiaro che deve
essersi un bilanciamento anche per i giovani. Il punto
fondamentale è lo stesso: ci sono pochi ingressi nel mondo
della scuola e dell'università frontare questo pro Una
ricerca della Federico II è impietosa: meno del 30per cento
dei laureati lavora al Sud. Si spendono ingenti risorse per
la formazione ma poi si fugge: cosa si può fare? «Occorre
farlo, anzitutto. E concordo che dobbiae la priorità è
afblema ». Aumentare le occasioni di lavoro agli under 24
Basta con la politica dei tagli mo investire su questo, per
aumentare l'attrattività e le occasioni di lavoro ma
purtroppo occorrono investimenti enormi. L'obiettivo c'è, il
mio lavoro andrà in questo senso per cominciare ad invertire
la tendenza ma non garantisco la rivoluzione». Magari anche
colpa dei concorsi vinti dai soliti noti: da qui l'Anvur che
ora prevede criteri bíbliometrici. Sono da cambiare? «Anche
qui si è fatto un lavoro enorme per un sistema con punti di
forza e debolezza che non si può liquidare su due piedi. Di
certo, e l'ho già detto, occorre dire basta con le regole
assurde: introdurre troppi livelli significa
deresponsabilizzare chi sceglie». Servono risorse ma
l'Italia è il Paese che per la ricerca investe di meno, in
rapporto al pil, rispetto al resto d'Europa. S'invertirà la
rotta? «Il mio obiettivo è aumentare le risorse. Di più non
si può tagliare» "Il nostro sistema accademico è destinato
al collasso": parole sue del settembre 2010. Da ministro
cosa ha trovato? «Un mondo molto vivo che ha voglia di
ripartire. E deve ripartire».
-
La rivoluzione INVALSI
per cancellare i copioni. Domande diverse in aula
Flc-Cgil ha
chiesto al ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza,
di rivedere il regolamento sul sistema di valutazione
«troppo centrato sul test Invalsi» perché «diciamo da tempo,
ma non siamo certo i soli, che le prove Invalsi sono
inefficaci -
LaStampa.it, del 06-05-2013, di Flavia Amabile (Roma)
Tempi duri per chi copia
agli Invalsi. Da quest'anno i fascicoli per gli alunni sono
in 5 versioni diverse, con domande in diversa sequenza. Chi
li distribuirà dovrà consegnare ai vicini di banco versioni
diverse dei fascicoli. Sarà facile individuarle perché sulla
copertina ci sarà scritto il numero di ogni versione. Non
solo le domande saranno poste in ordine diverso, e quindi
quella che è la domanda numero due di una studentessa o di
uno studente potrà essere la numero 23 di un altro. Ma anche
le risposte multiple avranno una diversa successione. In
questo modo nessuno potrà dire alla vicina o al vicino la
risposta giusta né qualcuno in difficoltà potrà sperare di
cavarsela sbirciando sul foglio dei compagni. I
somministratori dovranno comunque dopo la distribuzione dei
fascicoli, controllare che effettivamente chi è vicino di
banco abbia versioni diverse, altrimenti dovrà effettuare
degli spostamenti dei posti. E la risposta dell'Invalsi alle
polemiche nate dopo i test dello scorso anno al secondo anno
di superiori. Era capitato di tutto: messaggi via Twitter e
via Facebook scritti dagli studenti durante i test persino
con foto inviate sui social network. Il giro di vite
riguarda tutti i test Invalsi, sia quelli di italiano che
quelli di matematica, per tutti gli ordini di scuole in cui
si svolgono le prove, dalla seconda elementare alle
superiori. Nel manuale del somministratone diffuso
dall'Invalsi a chi farà svolgere le prove, l'Invalsi chiede
di scrivere sulla lavagna l'ora di inizio e di fine della
prova e, poi, di girare «costantemente » tra i banchi «per
assicurarsi che gli alunni lavorino in completa autonomia,
con impegno e senza fermarsi». D'altra parte, secondo un
sondaggio del sito Skuola.net nelle ore immediatamente
successive ai test dello scorso anno il 40,5% degli studenti
delle superiori aveva copiato. E i122% ha svelato che i loro
professori hanno preso nota del codice degli alunni per
mettere il voto: enorme irregolarità. Intanto proseguono le
polemiche da parte dei sindacati, che non hanno mai
accettato le prove. I Cobas hanno proclamato sciopero
durante i giorni dei test e a Flc-Cgil ha chiesto al
ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza, di rivedere
il regolamento sul sistema di valutazione «troppo centrato
sul test Invalsi» perché «diciamo da tempo, ma non siamo
certo i soli, che le prove Invalsi sono inefficaci - spiega
il segretario generale Mimmo Pantaleo - sbagliato partire da
prove che testano l'apprendimento dell'italiano e della
matematica per costruire un sistema di valutazione che è
cosa complessa ». Anche la Flc-Cgil continuerà «ad
appoggiare le iniziative promosse nelle scuole e nei
territori».
Reso noto il
parere del Consiglio di Stato sullo schema di Regolamento
approvato il 21 marzo scorso dal Governo che proroga di un
altro anno il blocco degli scatti stipendiali già previsto
dal decreto legge 78 del 2010.
LaTecnicadellaScuola.it, del 01-05-2013, di R.P.
Sull’ulteriore blocco degli
stipendi dei dipendenti pubblici previsto da un decreto
legislativo approvato in via preliminare dal Governo il 21
marzo scorso si è espresso pochi giorni fa il Consiglio di
Stato con un parere sostanzialmente favorevole.
Il provvedimento del Governo è
di fatto un regolamento già previsto dal decreto legge 98
del 2011che a suo volta riprendeva la disposizione dell'art.
9, comma 23, del decreto legge n. 78/2010 che aveva
introdotto il blocco dei 'gradoni' stipendiali dei pubblici
dipendenti.
Lo schema di Regolamento
stabilisce che l’azzeramento degli anni 2010, 2011 e 2012 ai
fini della progressione di carriera si estende anche
all’anno 2013.
Lo stesso provvedimento
precisa anche che l’importo dell’indennità di vacanza
contrattuale (si tratta peraltro di una somma molto modesta
che non supera i 15-20 euro lordi mensili) non potrà essere
aggiornato.
Per poter diventare legge, lo
schema del 21 marzo dovrà passare nuovamente in Consiglio
dei Ministri e non è detto che non subisca qualche modifica,
anche perché, ovviamente, la protesta nei confronti dei
provvedimento è già piuttosto ampia.
Proprio in queste ore, per
esempio, l’Anief ha diramato un bellicoso comunicato con il
quale minaccia di portare la questione davanti alla Corte
Costituzionale con l’intenzione di seguire la strada che era
stata seguita dai magistrati e dai super-dirigenti statali
che aveva subito blocchi retributivi a seguito della
applicazione del decreto legge 78/2010.
In effetti è vero che la Corte
Costituzionale aveva dato ragione ai magistrati, ma è anche
altrettanto vero che le motivazioni addotte non sembrano
potersi estendere a tutto il pubblico impiego.
La Consulta, infatti, aveva
argomentato che la retribuzione dei magistrati non può
essere legata a meccanismi di natura contrattuale che
rischierebbero di mettere in forse la stessa indipendenza
del potere giudiziaria sancita espressamente dalla
Costituzione.
Tuttavia se si legge con
attenzione la sentenza della Consulta (la n. 223 del 2012)
si scopre che anche l’eccessiva durata di una misura
eccezionale come per esempio il blocco degli scatti potrebbe
essere considerata illegittima.
La partita, dunque, è aperta e
per capire come si concluderà è bene aspettare almeno le
decisioni del nuovo Governo.
Tra le
priorità il precariato nella scuola. «I soldi? Letta mi
aiuterà»
Il
Giorno, del 02-05-2013, di Guglielmo Vezzosi (Pisa)
DALLA Scuola Superiore
Sant'Anna, dove fino a pochi mesi fa era rettore di una
delle istituzioni simbolo dell'eccellenza italiana, alla
guida del dicastero di viale Trastevere. Maria Chiara
Carrozza, pisana, 48 anni, ordinario di bioingegneria e
robotica, eletta a febbraio alla Camera come capolista del
Pd in Toscana, concittadina e amica del premier Enrico
Letta, si è insediata ieri al Ministero dell'Istruzione e
dell'Università. In serata il rientro a Pisa, in treno, per
lo stop del primo maggio.
Dunque ministro, come è
andato passaggio delle consegne con Francesco Profumo?
«Molta emozione. Ho pensato subito alle tante personalità
che si sono succedute in quelle stanze. Voglio studiare bene
chi erano i miei predecessori».
Sono stati giorni intensi.
«Sì, ma non per la vita che cambia all'improvviso.
Soprattutto per lo sgomento dovuto alla sparatoria di
domenica, mentre il governo giurava al Quirinale. Siamo
stati informati solo più tardi, al brindisi. Sono scossa: è
un po' come se quei carabinieri avessero preso i proiettili
al posto nostro».
Veniamo all'Università:
qual è il modello vincente della Scuola Sant'Anna
esportabile a livello nazionale'? «Senza dubbio la
collegialità. L'idea che si è tutti parte di un'unica
squadra e non si fanno mai le cose da soli, ma insieme».
Ma per valorizzare ricerca,
competenze e merito servono risorse. E tante... «E
ancora collegialità. Anche nel governo. I problemi della
scuola e dell'università non saranno solo del mio Ministero,
ma di tutto l'esecutivo. Se ragioniamo così riusciremo ad
affrontare le difficoltà e a fare, spero, qualcosa di
utile».
Di cosa è malata
l'Università italiana? «Sconta i troppi tagli di
questi anni, continui e pesantissimi. Il blocco del turn
over del personale ha inoltre avuto come conseguenza il
mancato rinnovamento della classe docente. Così l'università
è invecchiata e si è impoverita».
Riforma Gelmini da buttare
o cambiare? «Da riformare a sua volta. Ha
introdotto troppa burocrazia. Va semplificata».
Giovani e accesso alla
carriera universitaria: solo un miraggio? «E un
momento difficile, è vero, ma sono motivata a creare le
condizioni per favorire il reclutamento nell'Università, che
va assolutamente ringiovanita. Saranno però determinanti
voglia, motivazione e qualità: chi prende questa strada
sappia che dovrà essere disponibile a spostarsi e a fare
esperienza in Italia e anche all'estero».
Stesso discorso vale per la
scuola, che fa i conti col precariato... «Lo so
bene, abbiamo ricevuto anche raccomandazioni a livello
europeo per risolvere il problema. Non voglio fare annunci,
preferisco dire le cose una volta fatte».
Un ministro donna e per di
più giovane. Un bel segnale. «Il premier Letta è
andato nella giusta direzione, la presenza femminile nel
governo c'è. Ma si poteva fare anche di più: le donne non
sono mai abbastanza».
PARTONO LA
PROSSIMA SETTIMANA: INTERESSATI 2,2 MILIONI DI STUDENTI
Da
quest’anno più spazio a risposte aperte Ma i Cobas danno
conferma dello sciopero
Dalla
prossima settimana test Invalsi per 2,2 milioni di
studenti
La
Stampa.it, del 03-05-2013, di Flavia Amabile (Roma)
Dalla
prossima settimana 2,2 milioni di studenti torneranno ad
affrontare le tanto temute - e anche un po’ contestate -
prove Invalsi. I primi a cominciare saranno il 7 e il 10
maggio gli alunni della primaria (seconda e quinta
primaria). Il 14 maggio sarà la volta degli studenti della
prima media e il 16 di quelli della seconda classe delle
superiori. Il 17 giugno, infine, toccherà ai circa 600mila
studenti di terza media per i quali il test è
particolarmente impegnativo e decisivo: viene svolto
all’interno dell’esame di Stato e vale un sesto del voto
d’esame complessivo. Ci sono alcune novità rispetto agli anni precedenti.
«Intanto sul piano organizzativo tutti i dati saranno
raccolti elettronicamente - ha spiegato Roberto Ricci,
dirigente di ricerca Invalsi - poi, è stato maggiore spazio
a domande aperte, sia in matematica sia in italiano,
insistendo su aspetti di competenza più che di conoscenza
per capire il ragionamento compiuto dallo studente nel dare
le risposte». Altre novità arriveranno dal prossimo anno. Si sta mettendo
a punto una prova per l’ultimo anno delle superiori che sarà
effettuata su pc tra gennaio e febbraio del 2014. Potrebbe
essere la base di una nuova prova da inserire in
un’ipotetica riforma della maturità di cui si parla da
tempo. E dal 2016 si vorrebbe aggiungere anche una prova in
inglese. Solo in alcune scuole campione e non ogni anno, a
partire dal 2013-14 dovrebbero partire delle prove per
l’accertamento della lingua inglese al termine dell’ultimo
anno della primaria e della terza media. E poi anche per le
materie scientifiche. Infine, è in programma la pubblicazione in rete, dai primi
mesi del 2014, di una «banca prove» da mettere a
disposizione delle singole scuole per compiere proprie
valutazioni anche nel corso dell’anno. Nemmeno l’introduzione di un maggior numero di risposte
aperte ha placato la protesta dei Cobas. Confermato lo
sciopero: l’astensione del personale è prevista in
corrispondenza delle prime prove di ogni livello scolastico:
7, 14 e 16 maggio. Previste anche manifestazioni in numerose
città e, a Roma, il 7 e il 16 sit-in davanti al ministero
dell’Istruzione. In queste settimane - ricordano i Cobas -
contro i quiz si sono pronunciate centinaia di assemblee e
convegni di docenti e Ata», ed è stato lanciato un appello,
«che ha raccolto già molte migliaia di firme» in cui si
denuncia che «i quiz standardizzati avviliscono il ruolo dei
docenti e della didattica, abbassando gravemente la qualità
della scuola». Le verifiche - risponde l’Istituto - propongono stimoli
cognitivi e non quiz nozionistici, non possono e non
vogliono essere il metro di giudizio sul singolo alunno» e
anche nel caso della prova di terza media, «il suo peso è
solo parziale». La restituzione delle prove con i risultati alle singole
scuole avverrà quest’anno prima del solito, all’inizio di
settembre mentre il Rapporto nazionale sarà presentato l’11
luglio.
Nominati anche
il bolognese Gianluca Galletti (Udc) e il fiorentino
Gabriele Toccafondi (PdL).
La
Tecnica della Scuola.it, del 03-05-2013, di R.P.
Con una convocazione a
sorpresa, decisa dal premier Letta nel pomeriggio del 2
maggio, si è riunito in serata il Consiglio dei Ministri.
All’ordine del giorno le
nomine dei sottosegretari.
Al Ministero dell’Istruzione è
stato riconfermato Marco Rossi Doria e sono stati nominati
Gabriele Toccafondi e Gianluca Galletti.
Toccafondi, fiorentino e
classe 1972, è deputato del PdL dal 2008 e nella precedente
legislatura è stato membro della Commissione Bilancio.
Il motto con cui si è
presentato alle recenti elezioni è molto chiaro: “Al
servizio di tutti, servo di nessuno”.
Gianluca Galletti, bolognese
classe 1961, di professione commercialista, è stato deputato
dell’Udc nelle ultime due legislatura.
In questa tornata elettorale
non è stato confermato.
Di Marco Rossi Doria già si
conosce il percorso in quanto è stato sottosegretario del
ministro Francesco Profumo.
E' quanto
emerge dai dati sulle iscrizioni online chiuse il 28
febbraio scorso: le 40 ore settimanali richieste in oltre
196mila casi. Ma solo una parte riuscirà a ottenerla
Repubblica.it,
del 03-05-2013, di Salvo
Intravaia
Famiglie italiane all'assalto
del tempo pieno a scuola. Ma soltanto una parte riesce ad
ottenerlo. Gli altri devono accontentarsi delle altre
formule previste dall'ordinamento scolastico italiano: 27 e
30 ore a settimana. E le 24 ore, inaugurate dalla riforma
Gelmini col palese obiettivo di tagliare più cattedre
possibile, anche quest'anno sono state gettonate da una
minoranza. Le prime iscrizioni online, lanciate dall'ex
ministro dell'Istruzione Francesco Profumo, hanno decretato
la netta preferenza, almeno all'elementare, per le 40 ore di
lezione settimanali: mattinata di studio, pausa pranzo e
pomeriggio di attività didattiche meno impegnative per gli
scolari. Alla scuola media invece i genitori preferiscono
che i figli tornino a casa dopo un'intera mattinata di
studio a scuola.
I dati messi a disposizione
dal ministero dell'Istruzione dopo la chiusura delle
iscrizioni, lo scorso 28 febbraio, parlano chiaro. Su cento
famiglie che hanno iscritto i figli in prima elementare
nella scuola statale ben 38 hanno segnato la casella del
tempo pieno. Oltre 196mila famiglie vorrebbero che i propri
figli rimanessero a scuola per otto ore giornaliere e che a
fine giornata avessero anche svolto almeno una parte della
valanga di compiti che i bambini della scuola primaria si
ritrovano sul groppone ogni pomeriggio. Ma quest'anno sono
soltanto 176mila i bambini delle statali che frequentano la
prima elementare a tempo pieno. Se quindi l'organico dovesse
essere confermato almeno 20mila famiglie rimarranno delusi.
E se - per permettere alle
attuali prime
di diventare il prossimo anno
seconde a tempo pieno - l'organico si dovesse contrarre, le
famiglie che dovranno rinunciare al tempo lungo saranno
ancora di più. Quelle che hanno invece optato per la formula
con 30 ore a settimana sono 31 su cento e 28 su cento quelle
che si accontentano di 27 ore di lezioni settimanali. La
prima opzione - le 24 ore a settimana, che si tradurrebbero
in 4 ore di lezione al giorno oppure in una più comoda
settimana corta senza scuola il sabato - non è neppure presa
in considerazione dalle mamme e dai papà italiani: l'ha
scelta appena il 2,7 per cento delle famiglie.
Ma la richiesta di tempo
pieno, con tutta probabilità, è superiore a quel 38 per
cento emerso dalle iscrizioni dello scorso mese di febbraio.
Perché l'opzione era presente soltanto nelle scuole dove
funzionano già alcune classi a tempo pieno. In quelle in cui
questa modalità non è stata attivata non è possibile
sceglierla. E se una famiglia ha iscritto il proprio figlio
in una scuola elementare dove manca del tutto il tempo pieno
dovrà accontentarsi di 30 o 27 ore a settimana di lezione.
Le oltre 24 mila famiglie che
hanno iscritti i propri figli in un istituto non statale
preferiscono invece evitare il tempo pieno: lo scelgono 18
su cento, contro le 53 che optano per le 30 ore e le 23 che
preferiscono 27 ore a settimana. Il tempo prolungato - di 36
o 40 ore settimanali - alla scuola media è stato indicato
soltanto dal 16 per cento delle famiglie italiane. Per tutte
le altre, cinque ore di lezione al giorno e a casa
Il
Mattino, del 30-04-2013,
di Salvo Sapio
Tanti diciottenni del 2013 avranno un’estate
da raccontare. Libri, ansie e sogni: le veglie per studiare
raddoppieranno, infatti, per chi dovrà sostenere oltre alla
maturità anche i test per l’ammissione alle facoltà a numero
programmato (Medicina, Odontoiatria, Veterinaria e
Architettura). Tante notti prima degli esami con le angosce e le speranze
di chi ha 18 anni e due prove decisive da affrontare. La
maturità come trampolino ai test d’ammissione, con il voto
di diploma che può pesare tanto per l’ammissione. Un rapido
calcolo: il 100 alla maturità varrà 10 punti, lo scorso anno
con 40/50 punti si entrava nel gruppo degli eletti. Il
massimo alla maturità conterà eccome. «Ma quest’anno c’è un altro elemento da tener presente -
aggiunge il rettore della Sun Francesco Rossi, docente di
Medicina - la graduatoria nazionale è più giusta ma
aumenterà i costi per le famiglie. Un ragazzo del sud
ammesso in una facoltà del nord peserà inevitabilmente sui
propri genitori. D’altro canto è come un investimento sul
futuro dei propri figli. Per i test, poi, avere pochi giorni
per prepararsi potrebbe essere davvero uno svantaggio».
«Anche perché - aggiunge Gennaro Marino, ex preside della
facoltà di Biotecnologia alla Federico II - chi iniziasse a
studiare adesso sarebbe già in ritardo rispetto alla
complessità dei test che l’aspetta. Penso ai quesiti di
chimica: la preparazione nelle scuole superiori non è certo
adeguata alle prove che verranno proposte. Ma per prepararsi
bene serve tempo e applicazione». Ma resta una questione di metodo. Il voto alto alla maturità
può essere raggiunto più facilmente da chi frequenta un
istituto superiore meno severo di altri. «È una possibile
disparità - commenta Roberto Vona, docente di Economia alla
Federico II - ma può servire a dare importanza alle scuole
superiori. I ragazzi che arrivano all’università in questi
anni non sono abituati ad impegnarsi e a studiare a fondo e
stimolarli con l’obiettivo di un voto alto può essere
corretto. Se poi si ritiene che si possa essere disparità
allora si potrebbe pensare ad un diverso sistema di
valutazione per ottenere il bonus maturità. Ci sono attualmente i test Invalsi, si potrebbero
organizzare a livello nazionale delle prove standard a
livello nazionale per gli studenti del quinto anno». Se il mondo accademico vede comunque favorevolmente i test a
luglio e il bonus maturità, sono invece presidi e docenti
delle superiori ad avere delle riserve. Con dei casi limite
nati proprio per questa riforma. «È successo - racconta
Luigi Romano, preside del liceo scientifico «Mercalli» - che
alcuni studenti bravi, con una discreta media, si siano
ritirati dal nostro istituto per iscriversi a scuole private
dove più facilmente potranno raggiungere il massimo dei
voti. È una situazione assurda ma è alimentata dalla logica del
bonus maturità per i quiz d’ammissione. In alcune scuole
superiori si richiedono prestazioni importanti e, d’altro
canto, le famiglie dovrebbero comprendere che è importante
un figlio preparato piuttosto che un semplice voto alto».
Dallo scientifico al classico la situazione non cambia. «I
ragazzi sono molto preoccupati e quello dei voti è un tema
molto sentito - conclude Ennio Ferrara, preside del liceo
«Umberto» - alcuni genitori mi hanno spiegato che secondo
loro i professori dovrebbero tener conto di questo aspetto.
Logicamente non è possibile, anche se il voto della maturità
peserà di più. I test a luglio, poi, mi lasciano molto
perplesso. Si aumenta la pressione e non c’è il tempo
necessario per recuperare nozioni utili».
Le
priorità del neoministro, Carrozza: edilizia e reclutamento.
Sfida sui sottosegretari
Italia
Oggi, del 30-04-2013,
di Alessandra Ricciardi
Ecco quanto costa rimettere in sesto 57 mila
istituti Scuole sicure, reclutamento, ricerca. Nelle prime uscite da
ministro dell'istruzione, università e ricerca, Anna Maria
Carrozza ha indicato i temi su cui indirizzerà l'azione di
governo del suo dicastero. Pisana, ex rettore del Sant'Anna,
ordinario di Bioingegneria industriale, e da poche settimana
parlamentare del Pd, la Carrozza vanta ottimi rapporti sia
con Pier Luigi Bersani, che l'aveva già indicata nella
squadra di un suo possibile governo di centrosinistra, che
con il neopremier, Enrico Letta. Passandole il testimone di viale Trastevere, Francesco
Profumo, che ritornerà a insegnare al Politecnico di Torino,
ha invocato «continuità, perché la scuola non si può
permettere stop and go». E uno dei temi della continuità
potrebbe essere quello della messa in sicurezza degli
edifici. «Sicuramente vorrei portare impulso alla scuola,
partendo dall'edilizia scolastica, dal reclutamento dei
docenti, dai rapporti con le aziende, e dalla ricerca», ha
detto a caldo la Carrozza. Impegni che però richiedono
risorse: solo sul fronte dell'edilizia l'ex capo
dipartimento della protezione civile, Guido Bertolaso, a
seguito della tragedia della scuola di Rivoli, denunciò in
parlamento che per la messa in sicurezza di 57 mila edifici
scolastici servirebbero 13 miliardi di euro. Una manovra
finanziaria di medie dimensioni. E dunque anche a voler stare con i piedi per terra, a voler
cominciare dalle cose concrete come la sicurezza delle aule
in cui studiano 7 milioni di ragazzi e lavorano un milione
di dipendenti, servono risorse, quelle che finora sono
sempre arrivate con il contagocce (l'ultimo bando per il
cofinanziamento dell'edilizia scolastica è di 38 milioni di
euro). Quando sono arrivate. Perché negli anni invece la
scuola è stata terreno privilegiato dei tagli alla spesa
pubblica (8 miliardi di euro con il decreto legge
n.112/2008). Risorse servono anche per la stabilizzazione
dei precari e il reclutamento di nuove leve, altro cavallo
di battaglia del Pd. Insomma, pur in un clima di diverso
respiro, in cui si punta ad allentare con l'Unione europea i
vincoli del patto di stabilità, i margini di manovra sono
ridotti. Ridurre la dispersione scolastica, aprendo le
scuole anche di pomeriggio, incentivare l'apprendistato,
innalzare il numero dei laureati rispetto alle origini delle
famiglie, sono gli altri punti qualificanti per l'istruzione
annunciati ieri da Letta alla camera. In queste ore Pd, Pdl
e Scelta civica definiranno la squadra dei sottosegretari:
per il Pdl, che attende un riequilibrio politico, c'è in
lizza il nome di Elena Centemero, per Scelta civica si parla
della riconferma dell'attuale sottosegretario Elena Ugolini.
Per il Pd Francesca Puglisi, responsabile scuola del
partito, e l'ex viceministro del governo Prodi Mariangela
Bastico. Dovrebbe restare a capo del gabinetto Luigi
Fiorentino, esperto di diritto amministrativo ed ex
segretario dell'Antitrust. Molti cambiamenti sono invece
attesi per gli incarichi dirigenziali di prima fascia.
Tramonta
il progetto autonomista di Pdl e Lega Nord
ItaliaOggi, del
30-04-2013, di
Antimo Di Geronimo
La Consulta ha bocciato la legge regionale
lombarda: solo lo stato può reclutare i docenti Le scuole non possono indire concorsi per il reclutamento
dei docenti. Nemmeno se è una legge regionale a prevederlo.
Il reclutamento degli insegnanti, infatti, è riserva di
legge dello stato. Lo ha ricordato la Corte costituzionale
con una sentenza depositata il 24 aprile scorso (76/2013). E sulla base di questo principio la Consulta ha cancellato
con un colpo di spugna l'articolo 8 della legge della
regione Lombardia 18/04/2012, n. 7. Che prevede la facoltà
per le istituzioni scolastiche di reclutare i supplenti
annuali tramite concorsi indetti e organizzati dalle stesse
scuole, destinati agli aspiranti docenti già inclusi nelle
graduatorie a esaurimento. In buona sostanza, dunque, la
disposizione regionale, fortemente voluta dal Pdl lombardo,
nella fattispecie dall'ex governatore Roberto Formigoni e
dall'allora assessore all'istruzione Valentina Aprea, se
fosse stata attuata, avrebbe posto nel nulla la disciplina
del reclutamento dei supplenti annuali fissata dalla legge.
Che prevede l'individuazione dell'avente titolo a ricevere
la proposta di assunzione previo scorrimento delle
graduatorie a esaurimento. E poi l'eventuale stipula del
contratto preliminare con il dirigente dell'ufficio e la
successiva sottoscrizione del contratto individuale di
lavoro con il dirigente scolastico. L'art.8 della legge
regionale espunta dalla Consulta, che secondo quanto risulta
a ItaliaOggi è rimasta solo sulla carta, si limitava a
disporre l'utilizzo della graduatoria a esaurimento solo
come serbatoio da dove attingere gli aspiranti candidati. E
non come elenco di merito da scorrere rispettando l'ordine
tassativo degli aspiranti. Dopo di che poneva in capo al
dirigente scolastico il potere di indire il concorso,
organizzarlo, selezionare i candidati ed assumerli. Sebbene
fissi comunque procedure di valutazione di natura
collegiale. Ma sempre all'interno dell'istituzione
scolastica di riferimento. Insomma una sorta di
decentramento avanzato. Che però non si può fare con una
legge regionale. Perché l'art. 117 della Costituzione parla
chiaro: il reclutamento dei docenti è di competenza dello
Stato. Più precisamente, la Consulta ha spiegato che
«nell'attuale quadro normativo il personale scolastico è
alle dipendenze dello Stato e non delle singole Regioni. Ne
consegue», argomenta il giudice delle leggi, «che ogni
intervento normativo finalizzato a dettare regole per il
reclutamento dei docenti non può che provenire dallo Stato,
nel rispetto della competenza legislativa esclusiva di cui
all'art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., trattandosi
di norme che attengono alla materia dell'ordinamento e
organizzazione amministrativa dello Stato». Considerato che la legge regionale insisteva nell'ambito
della sfera di competenza dei dirigenti scolastici, se fosse
stata applicata, avrebbe comportato l'inutilizzabilità delle
graduatorie di istituto e la loro sostituzione con le
graduatorie di merito dei concorsi di istituto. Resta il
fatto, però, che le scuole, anche se godono dell'autonomia
funzionale, tale autonomia non comprende la facoltà, per gli
istituti scolastici, di scegliersi il proprio personale. E
in ogni caso anche i supplenti rientrano a pieno titolo tra
il personale del pubblico impiego il cui reclutamento e
riserva di legge statale. Di qui la declaratoria di incostituzionalità dell'art. 8
della legge 7/20123 della regione Lombardia. Che «rende la norma inefficace ex tunc e quindi estende la
sua invalidità a tutti i rapporti giuridici ancora pendenti
al momento della decisione della corte, restandone così
esclusi soltanto i «rapporti esauriti» (Saja, in:
http://www.cortecostituzionale.it/ActionPagina_1034.do)». E
ora per le assunzioni dirette a lungo propagandate dalla
Lega Nord di Roberto Maroni, attuale presidente della
Lombardia, il percorso diventa ancora più accidentato.
Ok del
consiglio di stato al provvedimento. perplessità sul
congelamento della vacanza contrattuale
ItaliaOggi, del
30-04-2013, di
Antimo Di Geronimo
Via libera del Consiglio di stato allo schema
di decreto sul blocco dei contratti, dei gradoni e
dell'indennità di vacanza contrattuale approvato dal governo
il 21 marzo scorso. L'ok di palazzo Spada è stato emesso il
17 aprile con il parere 1832/2013 (si veda Italia Oggi del
25 aprile). La sezione ha detto che il blocco per decreto
della progressione di carriera del personale della scuola è
legittimo. Perché discende direttamente dalle disposizioni
contenute nell'articolo articolo 16 del decreto legge n. 98
del 2011. Che dispone delega il governo a fissare la
disciplina di dettaglio con un regolamento presidenziale. Il
decreto, il cui iter è stato avviato dal governo di Mario
Monti, per produrre effetti dovrà essere controfirmato dal
neo presidente del consiglio dei ministri, Enrico Letta,
prima di essere trasmesso al capo dello stato. Qualche
perplessità è stata manifestata, dal Consiglio di stato,
sulla questione del blocco dell'indennità di vacanza
contrattuale (Ivc), che il decreto legge fissa in due anni,
dal 2013 al 2014. Uno stop che non si traduce
nell'azzeramento dell'Ivc, ma solo nel blocco del suo
incremento. In buona sostanza, dunque, l'indennità sarà
comunque corrisposta nel 2013 e nel 2014, ma il suo importo
sarà pari a quello corrisposto nel 2012. E quindi non sarà
calcolata sul tasso di inflazione del 2013 e del 2014, ma su
quello del 2012. Le critiche del Consiglio di stato si sono appuntate sul
fatto che lo schema di decreto sembrerebbe precludere il
recupero del blocco nel successivo triennio 2015-2017. Dal
2015, infatti, lo stop cesserà i suoi effetti e l'importo
dovrà essere ricalcolato. Ma nella disposizione che regola la faccenda non si capisce
bene se gli effetti del blocco sono recuperabili oppure no.
E se il recupero non fosse possibile, secondo i giudici
amministrativi, si potrebbero creare spunti per il
contenzioso con potenziale soccombenza dell'amministrazione.
Quanto al blocco della progressione di carriera, lo schema
di decreto, al comma 1 lettera b), prevede espressamente la
proroga al 31 dicembre 2013, con effetto sull'anno 2014, dei
blocchi introdotti dall'art. 9, comma 23, del decreto legge
n. 78 del 2010, riguardanti il personale docente, educativo
ed Ata della scuola. E anche su questo il collegio non ha
trovato nulla da ridire perché le relative disposizioni «si
collocano correttamente nel quadro delineato dalla normativa
primaria». Resta il fatto, però, che questa ulteriore decurtazione
retributiva compiuta sulla busta paga di docenti vanificherà
gli effetti del recupero del 2011 operata con il contratto
del 13 maggio scorso. Effetti che andranno a regime nella
busta paga di maggio. L'art. 9, comma 23, del decreto legge
n. 78 del 2010, infatti, aveva disposto un ritardo di tre
anni nella maturazione dei gradoni per tutto il personale
della scuola (cancellando l'utilità del 2010 del 2011 e del
2012). Dopo di che vi era stato un accordo tra governo e sindacati
che aveva consentito il recupero del 2010 (si veda il
decreto interministeriale 3/2011). E poi era stato
recuperato anche il 2011 con il contratto del 13 marzo
scorso. Il ritardo, dunque, era stato ridotto solo ad un anno. Con
le nuove disposizioni, invece, il ritardo ritornerà di due
anni. Perché a fronte della inutilità del 2012, che comune è
rimasta, il decreto cancellerà anche l'utilità del 2013. Ma
questa volta la strada per il recupero del 2012 e del 2013
si annuncia tutta in salita. Perché i soldi ricavati dai
tagli dell'articolo 64 sono finiti. E già per finanziare il
recupero del 2011 è stato necessario ridurre di circa il 25%
le risorse destinate al compenso accessorio che confluiscono
nel fondo di istituto.
Non è solo
questione di fondi. C'è una complessiva centralità che la
scuola sembra aver perso come agenzia sociale di formazione
delle nuove generazioni, e quindi di riferimento per la
intera collettività.
Corrieredellasera.it, del 30-04-2013,
di Paolo Conti
Ha detto Enrico Letta: «La società della
conoscenza e dell'integrazione si costruisce sui banchi di
scuola e nelle
università. Dobbiamo ridare entusiasmo e mezzi idonei agli
educatori che in tante classi volgono il disagio in speranza
e dobbiamo ridurre il ritardo rispetto all'Europa nelle
percentuali di laureati e nella dispersione scolastica». Il
presidente del Consiglio ha aggiunto che solo il 10% dei
giovani italiani col padre non diplomato riesce a laurearsi
contro il 40% in Gran Bretagna e il 33% in Spagna. Inutili i
commenti, le cifre sono troppo eloquenti. La
scuola
pubblica italiana è in una crisi abissale. Molti insegnanti
si sentono in trincea senza un quartier generale alle
spalle. E quel quartier generale è un governo, la mano
politica. Non è solo questione di fondi. C'è una complessiva
centralità che la scuola sembra aver perso come agenzia sociale di
formazione delle nuove generazioni, e quindi di riferimento
per la intera collettività. C'è chi non vede l'ora di
raggiungere l'età della pensione per abbandonare un mondo
nel quale non si riconosce più. Non c'è solo l'età di mezzo:
è la perdita di un senso complessivo del lavoro, la
sensazione di uno sganciamento dalla contemporaneità. Sicuramente il nuovo capo del governo sa che per creare
quella nuova società «della conoscenza e dell'integrazione»
di cui ha parlato c'è un solo metodo, per non perdere tempo:
allinearsi all'Europa. L'Ocse, pochi giorni fa, ha esaminato
il Piano nazionale scuola digitale e ha scoperto che appena il 30% degli
studenti italiani per studiare usa le tecnologie della
comunicazione contro il 48% della media europea. Appena il
16% delle classi è dotata di una lavagna interattiva contro
l'80% della Gran Bretagna. È ovvio che, per ricostruire una
società che ha perso coesione, occorre ripartire dalla
scuola. E la
questione non riguarda solo i ragazzi. Recentemente Tullio
De Mauro ricordava: «Basterebbe un piccolo investimento per
tenere aperte le scuole nel pomeriggio e organizzare corsi
di varie discipline per «rieducare» quegli adulti ancora
attivi ma condannati a una progressiva, inesorabile
marginalità culturale e sociale». Insomma, la
scuola
è ancora una risorsa, una possibile rampa per un nuovo
decollo. Ma un governo deve crederci profondamente.
Esperienze molto amare, e nemmeno tanto lontane, dimostrano
come certi slogan facili quanto inutili passano. E la
scuola sempre
più impoverita di mezzi e di motivazioni resta. Purtroppo
per l'Italia, a terra rispetto all'Europa.
Intervista al ministro dell'Istruzione Anna
Maria Carrozza | «I primi provvedimenti? Per l'edilizia
scolastica».
l’Unità,
del 29/04/2013, di
Andrea
Carugati
Pisana come il premier Enrico Letta, anche
lei nata a metà degli anni Sessanta, Maria Chiara Carrozza è
stata rettore della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa fino
all’elezione alla Camera nel febbraio scorso. Laureata nel
1990 in Fisica con una tesi sulle particelle elementari,
dottorato in Ingegneria, ha avuto numerose esperienze
professionali all’estero e negli ultimi tre anni è stata
presidente del Forum Università e ricerca del Pd. Fino alla
nomina a ministro dell’Istruzione e dell’Università. «Conosco da tempo Enrico Letta, la mia attività politica è
iniziata nel Forum del Pd», spiega, «ed è coincisa con la
segreteria Bersani. È stato lui prima delle elezioni a
propormi la candidatura come capolista in Toscana e io ho
accettato, con l’idea di lavorare sui temi della ricerca».
Lei ora si
trova alla guida di un ministero delicatissimo, su temi che
spesso hanno diviso il Paese, e in un governo di grande
coalizione. «La situazione politica è estremamente
difficile ed è lo specchio della crisi del Paese. Mi rendo
conto della gravità della situazione, per me è una
grandissima responsabilità. C’è moltissimo lavoro da fare».
Quali
saranno le sue idee-guida nel mondo dell’istruzione?
«La mia guida sono i principi della
Costituzione, per nulla invecchiati. A partire dall’aiuto ai
capaci e ai meritevoli a raggiungere i più alti livelli
nello studio. E poi la centralità degli investimenti nella
ricerca scientifica e tecnica. Però bisogna investire nel
modo giusto, spesso ci sono stati In Italia sprechi e
inefficienze. Vorrei far capire agli italiani che pagano le
tasse che investire in istruzione e ricerca è una cosa
utile».
Quali sono
le sue priorità per gli investimenti?
«La ristrutturazione e la messa a norma degli
edifici scolastici. È un problema enorme, e spesso ho visto
Comuni che potrebbero investire ma sono bloccati dal Patto
di stabilità. Poi vorrei introdurre maggiore efficienza
nella valutazione dei progetti di ricerca: bisogna lavorare
per meritare quei maggiori investimenti che giustamente si
pretendono».
Lei
eredita un’università post riforma Gelmini. Come si porrà
rispetto a questo? «Bisogna fare un’analisi seria per capire
come è stata attuata la riforma, a volte in modo incompleto
e diverso da come era previsto. Ci sono una serie di
complicazioni burocratiche che vanno modificate, a partire
dal reclutamento dei professori. Il problema principale è
questo: non siamo ai livelli europei, c’è un reclutamento
inceppato da problemi e ricorsi. Vorrei che l’etica pubblica
e la reputazione dei docenti contassero più delle regole
burocratiche, sul modello anglosassone. Per combattere la
corruzione abbiamo riempito i percorsi di regole, e
appesantito ogni processo di infiniti passaggi, senza
riuscire neppure a centrare l’obiettivo di azzerare i
fenomeni corruttivi. Su questo vorrei ragionare, al di là
degli slogan».
Qual è il
cambiamento più profondo che vorrebbe imprimere?
«L’istruzione come priorità assoluta per il
Paese, conquistare la fiducia degli insegnanti, dei
ricercatori, dei professori. Far capire che questo Paese
investe su di loro. Bisogna investire in nuovi posti da
ricercatori e professori. E i nostri ricercatori devono
guadagnare quanto i loro colleghi europei».
Resta il
fatto che il suo è uno dei temi più spinosi per un governo
di larghe intese. Come intende risolverlo?
«Sono consapevole che saranno necessarie
delle mediazioni tra posizioni diverse. Se si parte
dall’idea di non distruggersi a vicenda e di fare il bene
del Paese si può trovare un modo di lavorare. Vorrei dire
basta alle guerre sul passato, cominciamo ad affrontare i
problemi di oggi e le soluzioni possibili. Non intendo fare
questo lavoro con un approccio ideologico».
Lei si
porrà come un’«anti Gelmini»?
«Direi proprio di no. Non mi sono mai
definita come anti qualcuno. Sono una persona interessata a
far bene un lavoro per il Paese. Questi personalismi, queste
divisioni tra il “bene” e il “male” sono un errore. Non sarò
ossessionata dalle classifiche di popolarità dei ministri».
Come si
pone nel dibattito che si sta rinfocolando tra scuola
pubblica e privata? «La scuola pubblica è la priorità e qui vanno
gli investimenti. Questo non significa negare il ruolo della
scuola privata».
Questo
governo rischia di dividere i gruppi del Pd. Cosa ne pensa?
«Credo che sia necessario ascoltare tutte le
opinioni, ma ho sempre ritenuto che in una squadra vadano
rispettate le decisioni prese a maggioranza. E così ho fatto
nei giorni dell’elezione del Capo dello Stato».
Ritiene
giusto parlare di possibili espulsioni per chi non voterà la
fiducia? «Ripeto: sarebbe da irresponsabili non
ascoltare le posizioni di tutti. Ma è giusto che ci sia una
disciplina. Sulle espulsioni tuttavia sarei molto cauta».
Come
definisce il governo che sta nascendo: politico o di
emergenza nazionale? «È un governo che in un momento difficile può
prendere decisioni importanti per far ripartire l’Italia e
favorire una riscossa civica. Spero che sia un governo di
persone che vogliono lavorare insieme per uscire dallo
stallo».
Il Pd sarà
un sostegno o un ostacolo per il governo?
«Non mi illudo che sarà un rapporto semplice,
dovremo essere capaci di parlare con tutto il Parlamento. Le
Camere devono ritrovare un ruolo centrale, questo è un
Parlamento rinnovato pieno di professionalità e competenze
nuove e da valorizzare. Credo che occorra lavorare per
metterle in gioco davvero».
Benedetto
Vertecchi. Con il contributo di tutti occorre definire con
chiarezza la linea da seguire: importante organizzare una
consultazione nazionale
l’Unità,
del 29/04/2013
Molte delle difficoltà che le scuole si
trovano oggi ad affrontare sono evidenti, e riguardano le
strutture e il funzionamento del sistema. Sono difficoltà
che si sono progressivamente accentuate per la crescente
penuria di risorse destinate alle spese per il personale,
all’edilizia, alle dotazioni didattiche. Ma per capire le
ragioni del malessere del sistema scolastico non basta
menzionare i tagli nei finanziamenti. Sono venute meno negli
anni alcune condizioni morali che, dal raggiungimento
dell’Unità nazionale in poi, avevano sostenuto la crescita
della scuola e la sua capacità di modificare in una linea di
progresso sia le condizioni della vita materiale, sia il
profilo culturale del nostro Paese. UNA NUOVA STAGIONE È urgente porre a disposizione delle
scuole le risorse di cui hanno bisogno per svolgere la loro
attività, ma è altrettanto urgente elaborare linee di
sviluppo capaci di conferire coerenza agli interventi e di
perseguire intenti non limitati al tempo breve, ma
proiettati nei prossimi decenni, quando i bambini e i
ragazzi che ora frequentano le scuole dovranno poter fare
affidamento su quanto hanno appreso per affrontare realtà le
cui caratteristiche al momento sono estremamente indefinite.
La disponibilità di risorse e la capacità di elaborare un
progetto educativo a medio e a lungo termine sono premesse
ugualmente necessarie per qualificare una nuova stagione di
sviluppo per la scuola italiana. Occorre superare la
frammentazione degli interventi che in anni recenti ha
finito col costituire una costante nel governo della scuola.
Si è preteso di intervenire sulla cultura professionale
degli insegnanti senza verificare in alcun modo se quella
cultura fosse disponibile, si è intervenuti sulle dotazioni
seguendo suggestioni marginali, sull’edilizia senza disporre
di ipotesi sulle attività che si sarebbero dovute svolgere.
Sono esempi di ciò che non va fatto, e nel complesso
costituiscono una sorta di utopia negativa che deve essere
rovesciata. Con gli insegnanti bisogna ricostruire un
rapporto di fiducia che non può fondarsi sui soliti
riconoscimenti rituali circa l’essenzialità della funzione
che svolgono, ma deve considerare in che modo una
professione allo stremo può riacquistare slancio e rilevanza
sociale. Non c’è dubbio che nelle scuole occorra promuovere
l’innovazione, ma non ha senso ridurla a una questione
strumentale, perché occorre rivedere le interpretazioni che
collegano i tempi della vita con quelli dell’apprendimento,
e c’è bisogno di definire un concetto di utilità adeguato
alla rapidità delle condizioni di cambiamento. Nessuno
dubita che sia urgente intervenire per qualificare
l’edilizia, ma occorre anche stabilire una corrispondenza
tra le tipologie di attività che s’intendono promuovere e
l’organizzazione degli spazi. C’è anche da chiedersi se non
si debba abbandonare l’angusta sovrapposizione tra tempo
delle lezioni e tempo del funzionamento per affermare
un’idea di scuola capace di qualificare una parte
significativa della vita di bambini e ragazzi e,
soprattutto, di consentire di compiere esperienze di
apprendimento sottratte ai condizionamenti consumisti che
oggi finiscono con l’esercitare un’influenza determinante
sui loro atteggiamenti e sul definirsi dei loro profili
culturali. Quelli accennati sono solo alcuni esempi, ma
sufficienti per affermare che non si può intervenire sul
sistema scolastico rincorrendo le emergenze del momento. I
rattoppi non hanno altro effetto che quello di aggravare le
lacerazioni. Anche se le diverse esigenze richiedono tempi
diversi per essere soddisfatte, occorre definire con
chiarezza la linea nella quale si vuole procedere. A
definire tale linea occorre il contributo di tutti:
attraverso una grande consultazione nazionale si potrebbero
raccogliere le proposte formulate da cittadini,
organizzazioni politiche e sociali, istituzioni culturali.
Ma, altrettanto urgente, è avviare subito iniziative che
incrementino la conoscenza delle condizioni in cui si
pratica l’educazione. Invece di disperdere risorse per
rilevare dati dai quali, bene che vada, si ottengono
rappresentazioni sfocate di una realtà in movimento, sarebbe
preferibile impostare ricerche che possano essere utilizzate
per interpretare i cambiamenti che si riscontrano nelle
condizioni di sviluppo, nell’acquisizione e nell’uso del
linguaggio, nell’assimilazione di valori e atteggiamenti
sociali.
PavoneRisorse.it, del 29-04-2013, di Aluisi
Topolini
Molto è
già stato detto e scritto a riguardo del documento dei Saggi
riferito al tema del sistema formativo (non direi educativo,
visto che i saggi non adoperano mai questo termine, se non
una volta ed in un passaggio formale) in Italia. Per non ripetere cose già dette mi soffermo su pochi
aspetti:
a)
la scuola è vista solo
come funzionale al sistema produttivo,
e non come fondamento del sistema democratico. Si parla di
competenze di base, performances, riduzione di costi, legame con il mondo
del lavoro ma MAI di competenze di cittadinanza e democrazia
(la parola cittadino ricorre due volte e solo nelle ultime
righe e fa riferimento all’impegno che ogni cittadino deve
mettere nei confronti dei Big Data. In sostanza l’art. 3
della costituzione pare essere stato rimosso.
b)
contro la dispersione:
il documento dedica un ampio paragrafo alla lotta alla
dispersione scolastica ma anche in questo caso l’ottica è
puramente produttivista. Non ha a che fare con uguaglianza,
libertà, partecipazione ma solo con il fatto che “se
non invertita, questa tendenza farà sì che, nella migliore
delle ipotesi, la futura forza lavoro non avrà le
competenze minime richieste da processi produttivi in rapida
evoluzione; nella peggiore, genererà emarginazione e rischi
per la sicurezza in numerose aree, specialmente nelle grandi
città”̀.
Insomma la scuola anche come assicurazione sulla
tranquillità e sull’ordine pubblico.
c)
la morte della cultura.
La parola cultura ricorre solo due volte nel testo, e mai
con riferimento all’idea centrale di cultura come
elaborazione comune di valori, stili, modi di essere …. La
scuola non pare avere a che fare con la cultura e la sua
costruzione (trasmissione, rielaborazione, co-costruzione,
creatività, capacità di rispondere alle nuove sfide) ma solo
con la preparazione all’entrata nel mondo del lavoro e della
produzione.
d)
l’illusione
dell’ascensore sociale.
Il documento scrive che “la
mobilità sociale si è drasticamente ridotta, al punto che
le generazioni nate negli anni ’80 hanno molte meno
opportunità di evolvere nella scala sociale rispetto alle
generazioni precedenti”. Ma non dice - e come potrebbe?
- che gli stessi studi di Banca Italia hanno messo nero su
bianco che circa il 50% della ricchezza nazionale è in mano
al 10% della popolazione. O che se sei figlio di operaio non
solo non farai il dentista o il notaio perché forse hai meno
libri in casa ma anche - soprattutto? - perché non sei
figlio di notai o dentisti. Della serie: non è che la
mobilità sociale in Italia è bloccata dal mancato
raggiungimento di elevati standard formativi ma lo è
soprattutto perché anche chi raggiunge standard elevati
viene poi escluso da quanti si riempiono la bocca con il
concetto di merito ma poi evitano accuratamente di
applicarlo ai propri figli. Insomma: siamo nel medioevo
delle corporazioni. Il medioevo finì con una rivoluzione.
Sarà così anche per il sistema bloccato Italia?
e)
Le scuole aperte al
pomeriggio.
Ottima idea, apparsa più volte in campagna elettorale e non
solo. Una domanda: da dove le risorse?
f)
E gli studenti? Nulla,
ovviamente, sulla soggettività degli studenti (sono citati
solo due volte e sempre come soggetti a rischio !!). Nulla
sul loro ruolo cruciale nella co-costruzione di una società
plurale e multiculturale (la parola multiculturale non è mai
citata, per non dire di interculturale) capace di favorire
la crescita di cittadinanze globali (neppure la parola
globale, globalizzazione o simili è mai usata nel testo dei
saggi).
g)
E i docenti? Assenti.
Mai viene usata la parola docente o insegnante. Si parla due
volte di educazione alla salute come forma per diminuire le
spese sanitarie (a conferma della impostazione complessiva
del ragionamento sulla scuola vista solo come funzionale
alla dimensione economica).
Mi fermo
qui per carità di patria. Con tutta evidenza il documento è
stato scritto come veloce compitino di matrice economicista
(nel senso peggiore che si può dare a questo termine, così
come fa Luciano Gallino in Finanzcapitalismo, o Fabrizio Pezzani in
Competizione collaborativa,
o Richard Sennet con il suo Uomo artigiano) che non tiene in alcun conto né gli
studenti né gli insegnati né il contesto plurale della
società contemporanea e la necessità di co-costruire nuova
cultura e di negoziare nuova cittadinanza.
Non solo
un lavoro inutile: un lavoro pessimo e pericoloso.
Arriva dall’università: “La mia priorità è
ridare dignità agli insegnanti”
La
Stampa.it, del 28-04-2013, di
Flavia
Amabile
È emozionata, e non lo nasconde Maria Chiara
Carrozza, alla sua prima esperienza nel mondo politico e
subito catapultata alla guida del ministero dell’Istruzione
per il suo curriculum di grande ricercatrice esperta in
robotica e poi per due mandati rettore della Scuola
Superiore Sant’Anna di Pisa. Quando il Pd aveva proposto di
lottare contro i baroni nelle università mandandoli in
pensione a 65 anni e non a 72 - dietro c’era lei, allora 45
anni, rettore più giovane d’Italia e alla guida anche di uno
degli atenei di punta del nostro Paese. Chiedeva uno «choc
generazionale», un ricambio in quel mondo e fece scalpore
che a farlo fosse lei, una della casta dei rettori che in
genere quella poltrona tendono a conservarla il più a lungo
possibile. Ora di anni ne ha 47 ed è stata di parola: ha
lasciato la sua poltrona per candidarsi nelle liste del Pd.
Eletta alla Camera ha dato le dimissioni dall’incarico
precedente ed è passata alla sua nuova vita. Da ieri è ministro per l’Istruzione. Quale sarà il suo primo
atto? «Ancora sono nella fase dell’emozione, ho ricevuto da poco
la notizia, mi sto organizzando mentalmente. Lavorerò
certamente per la scuola. Ne conosco i problemi, ho
verificato che soprattutto c’è bisogno di investimenti
mirati, non solo di risorse usate in modo vago. È necessario
capire dove e come usarle. Sento forte la responsabilità di
questo ruolo in questo momento difficile». La sua pagina Facebook già pochi minuti dopo l’annuncio era
stata riempita di complimenti ma anche di una richiesta
molto precisa. Le hanno chiesto di restituire «dignità» ai
professori. «È uno dei miei obiettivi. Lo sento dentro, è un obiettivo
anche personale. Gli insegnanti svolgono un ruolo importante
sul territorio, sono i nostri ambasciatori. Se l’Italia è
stata unita è anche grazie ai professori che hanno fatto
studiare gli italiani sugli stessi testi. I professori sono
uno straordinario elemento di coesione sociale». Eredita un ministero che ha ricevuto nell’ultimo anno e
mezzo una forte rivoluzione digitale. Andrà avanti lungo
questa strada? «Conosco bene Francesco Profumo, rispetto il suo obiettivo e
quello che ha fatto perché penso che sia un processo
ineludibile ma se poi le scuole non funzionano è inutile
pensare alla rivoluzione digitale. C’è sempre stato un
problema di fondo sui cui bisogna essere equilibrati senza
fare troppi proclami ma cercando di lavorare per far
funzionare le scuole a partire dall’edilizia scolastica che
è un problema di enorme importanza». Quando inizierà a lavorare troverà molti problemi sul
tappeto, dal concorso ai precari, al Tfa. Che cosa farà? «Voglio prima parlarne con Profumo e con le persone che
hanno lavorato a queste tematiche. Non è mia abitudine
entrare a gamba tesa. So bene che sono dei problemi da
affrontare ma ho bisogno di capire per dare risposte di
responsabilità». Che cosa le ha detto il presidente Enrico Letta
nell’affidarle l’incarico? Che cosa si aspetta da lei? «Dobbiamo ancora parlarci con calma. Siamo abituati a
capirci al volo, senza bisogno di troppe parole. So che si
aspetta equilibrio e capacità di mediazione». Gran parte dell’Italia chiede che la scuola torni ad avere
un ruolo centrale nella politica del governo. «Mi auguro che ci sarà attenzione per la scuola. Ce n’è
davvero un gran bisogno. Il ministero dell’Istruzione, della
Ricerca e dell’Università, però, è fondamentale nel far
ripartire le speranze del Paese. Con spirito di servizio
metto a disposizione la mia esperienza per convincere gli
italiani che l’istruzione e la conoscenza sono pedine
fondamentali per la ripresa culturale ed economica
dell’Italia. Dobbiamo aiutare i più meritevoli a studiare
secondo i dettami della Costituzione, dare fiducia ai
ricercatori e offrire nuove motivazioni a tutto il corpo
insegnante. Dobbiamo dare forza e prospettive alle imprese,
costruendo un Paese che individui grandi aree di
investimento, di ricerca, di innovazione nell’industria,
nell’agricoltura e nei servizi. Investire nella conoscenza
significa investire sul futuro, nell’unica risorsa che non
si può spostare altrove per essere prodotta a costi più
bassi: è un settore che crea e salva posti di lavoro e
questa è la nostra massima preoccupazione».
La Tecnica
della Scuola, del 28-04-2013 ,
di Alessandro Giuliani
Entrambi hanno una formazione ingegneristica,
sono stati rettori universitari, hanno guidato la Sant'Anna
di Pisa. Tutti e due sono convinti che gli aumenti
contrattuali passino per un “merito” da associare alla
maggiore presenza a scuola. E che la macchina scolastica
vada digitalizzata. Il neo Ministro, però, si differenzia
per essere un sostenitore dell’organico funzionale e
assertore di un piano pluriennale in grado di esaurire il
prima possibile le graduatorie dei precari.
Più tempo
scuola, lotta alla dispersione e risorse Ue
ItaliaOggi, del 23-04-2013, di
Alessandra Ricciardi
L'indicazione è tutta
nell'agenda dei saggi. É su quella linea che il successore
di Francesco Profumo al ministero dell'istruzione dovrà
plasmare la propria azione di governo: più tempo scuola,
lotta alla dispersione, ottimizzazione dell'utilizzo delle
risorse Ue.
Il lavoro dei saggi (si veda
ItaliaOggi di martedì scorso), lungi da essere dunque un
mero esercizio accademico, sarà messo sul tavolo dal neo
presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, per le
consultazioni che inizieranno oggi. L'agenda è del resto il
frutto di un confronto sulle riforme urgenti e condivisibili
e dunque ben si presta a essere il brogliaccio di quel
governo di larghe intese che nascerà nei prossimi giorni. É
nelle priorità indicate che si sostanzia la convivenza
possibile di Pd, Pdl, Scelta civica e probabilmente anche
della Lega. Resta da individuare il responsabile del
dicastero dell'istruzione, università e ricerca nell'ambito
di un esecutivo per la cui guida restano gettonati i nomi di
Giuliano Amato ed Enrico Letta. I rumors parlamentari per
viale Trastevere parlano di Mario Mauro, ex Pdl, uomo vicino
a Cl, oggi capogruppo di Scelta civica al senato, di
Salvatore Rossi, vicedirettore di Banca d'Italia, che al
documento dei saggi sulle risorse sociali ed economiche ha
lavorato; ma potrebbe anche toccare a un uomo come Maurizio
Lupi, Pdl, vicepresidente della camera; sembra invece
destinata a tramontare la figura di Anna Maria Carrozza,
deputato Pd, che i listini davano in pole in un governo
guidato da Pier Luigi Bersani. «Il programma dei saggi segna
quella discontinuità sulla scuola necessaria dopo le
politiche di tagli dei precedenti governi», ragiona
Francesca Puglisi, senatrice, responsabile scuola del
partito democratico. Nel programma del Pd campeggia infatti
l'estensione del tempo scuola come strumento per la lotta
alla dispersione scolastica, proposta che è nel dna anche
del Pdl. Restano tutti da affrontare invece i nodi
dell'articolazione oraria del lavoro dei docenti e della
maggiore copertura finanziaria. L'aver legato l'aumento del
tempo scuola alla lotta alla dispersione scolastica consente
di utilizzare i fondi europei nelle regioni svantaggiate. Ma
solo in queste.
Se dovesse essere un
rappresentate di Scelta civica a salire all'Istruzione
diventerebbe molto più difficile attuare in un clima di
condivisione alcuni punti del programma della lista di Mario
Monti, quali per esempio l'assunzione diretta dei docenti e
la revisione dello status giuridico dei docenti che
comporterebbe anche la modifica dei meccanismi di
progressione economica. Terreno minato per i rapporti con il
Pd e i sindacati.
L'ennesimo
confronto con gli altri paesi europei mostra che restiamo
fanalino di coda per i finanziamenti all'istruzione. Ma il
problema non è solo questo: mancando gli investimenti
strutturali, la qualità è a macchia di leopardo. E
soprattutto non si riesce a capire qual è il progetto per il
futuro
L'Espresso, del 23-04-2013, di
Galatea Vaglio
Ennesima tabella di confronto
con i paesi europei, ennesimo scappellotto: l'Italia (non è
una novità, ma una triste conferma) per la cultura e scuola
spende poco, pochissimo. Molto meno, per dire, di Stati che
hanno un patrimonio artistico ridicolo in confronto al
nostro.
E' per questo, si dice, che la
scuola italiana è di bassa qualità: ci sono pochi
investimenti, pochi fondi.
E' vero. O meglio, è vero che
la scuola arranca. Non è del tutto vero che sia "di bassa
qualità", come viene dato per scontato ogni volta negli
articoli: il problema della scuola italiana, semmai, è che è
di buona e media qualità, talvolta anche alta ed altissima,
ma questa qualità è distribuita a casaccio, a macchia di
leopardo, proprio perché, non essendoci in realtà
finanziamenti certi e investimenti strutturali e
strutturati, le scuole si reggono sulla buona volontà del
corpo docente che capita in servizio, e quindi se un anno in
un istituto ti ritrovi con personale motivato e disposto a
fare anche senza finanziamenti, la cosa funziona, se invece
l'anno dopo il personale cambia o non è più disposto a
lavorare molte ore gratis e solo per la gloria va tutto a
catafascio e amen.
I soldi, dunque servono:
servono per dare continuità ai progetti, servono per far
funzionare a regime le sperimentazioni inventate per spirito
di servizio dai docenti e dai dirigenti illuminati, servono
per l'organizzazione ed il mantenimento delle buone
pratiche. Ma non sono solo quelli il problema. Il problema
fondamentale, secondo me, è che noi tutti, docenti,
dirigenti, anche genitori, vorremmo sapere e capire, prima
di avere i soldi e presentare i progetti, che cavolo di
scuola si vuole in Italia.
Perché vi giuro, da addetta ai
lavori che ormai da anni lavora nel settore, io, per
esempio, non lo so. Abbiamo avuto diverse riforme, e
Ministri dell'Istruzione che si sono succeduti in governi
fra i più vari. Ma quale sia l'idea che sta sotto alla
scuola italiana di oggi, l'idea didattica fondante, il
progetto non l'ho capito.
A scuola, come in ogni altro
settore dell'economia italiana (e la scuola è un settore
dell'economia, anzi, è quello che deve dare il la allo
sviluppo economico) si naviga a vista, e ognuno un po'
facendo come gli pare. Le indicazioni ministeriali e le
riforme arrivano, vengono applicate anche, ma un po' così
come capita, anche perché un po' così come capita paiono
fatte. Un anno ci dicono che dobbiamo digitalizzarci, e noi
ci digitalizziamo: mettiamo le lim in classe, ci arrivano i
nuovi libri in formato ebook, ci dicono che quello è il
futuro ma non ci mandano un "foglio del come", fidandosi
nell'italica arte di arrangiarsi ad imparare cosa serve, o
sul tacito patto che il docente che non vuole in realtà
adottare la novità si limiterà ad adottarla per pro forma
continuando a fare come ha fatto prima.
Ci dicono che gli alunni
devono imparare a rispondere ai test INVALSI, secondo i
criteri OCSE PISA, ma poi a cosa servano gli INVALSI non è
neppure ben chiaro nella scuola, vengono inseriti come prova
agli esami di terza media non si sa perché, gli altri dati
restituiti alle scuole dove come al solito sta alla buona
volontà del docente farsene qualcosa, e la valutazione
dell'istituto che dovrebbe dipendere da loro non si sa come
verrà fatta e che ricadute pratiche avrà.
Ci dicono che la scuola per
dimostrare di essere dinamica deve fare progetti, ma, a
parte che poi si tagliano i fondi per finanziarli, non è
chiaro come venga poi valutata la ricaduta pratica di questi
progetti stessi: perché se io durante l'anno faccio cinque
progetti bellissimi ma poi nella mia classe i ragazzini non
sanno distinguere un complemento oggetto da un predicato
sono io una insegnante più valida di quella che non fa
nessun progetto ma gli insegna la banale sintassi?
E il mio ruolo del docente,
qual è? Mi dicono che devo essere più severa e bocciare di
più? Ok, ma quelli che non ce la fanno, magari non solo per
cattiva volontà loro ma per problemi sociali e famigliari
pregressi? Li boccio e basta, confidando che qualche altra
istituzione dello Stato se ne faccia carico, e ci sia
qualcuno che applica quel famoso articolo della Costituzione
che dice che gli ostacoli economici e sociali vanno rimossi
per garantire a tutti i cittadini la libertà? Non li boccio,
ma non avendo soldi per corsi di recupero che aiutino loro a
colmare le lacune, li mando allo sbaraglio promuovendoli a
caso, e così facendo mi assumo la responsabilità di
abbassare il livello medio dell'istruzione impartita? E i
miei obiettivi, come insegnante, quali sono? Un livello
medio stantard uguale in tutti gli istituti, per cui io mi
devo limitare ad insegnare ai ragazzini le tecniche per
rispondere ai test che certificano le loro competenze, e se
lo faccio sono una brava insegnante, oppure un approccio
creativo, che magari li renda un po' meno veloci a
rispondere ai test, ma insegni loro il pensiero creativo e
critico? Un mix fra i due? Ma poi questo "mix" come fa ad
essere valutato e controllato, se poi ho un sistema
valutativo a test che raramente riesce a tener conto di
altri aspetti? Ecco, io, prima ancora dei soldi, vorrei
delle risposte. Delle risposte qualunque, dal Ministero, che
mi spiegassero in maniera chiara e una volta per tutte, che
idea di scuola e di apprendimento si ha e si vuole
applicare. Perché dopo io, al limite, da bravo soldatino, la
applico, anche. Ma se si vuole che i docenti siano motivati,
che sappiano cosa fare esattamente in classe e lo facciano,
bisognerebbe anche che qualcuno, finalmente, ci convocasse
ad un tavolo e ce lo spiegasse. Perché così, con riforme e
circolari che arrivano ad ogni piè sospinto e dicono di
applicare ora un modello educativo e didattico ora un altro,
ora nessuno, noi per primi siamo spiazzati, in classe e con
i ragazzi. Quando si dice che gli insegnanti sono
demotivati, è vero. Parte della nostra insoddisfazione è
dovuta al fatto che siamo diventati meri esecutori, ma non
capiamo nemmeno bene di cosa. Ci proviamo, andando in
classe, ma non abbiamo nemmeno la certezza assoluta che la
nostra interpretazione sia quella giusta e quello che
progettiamo per la nostra classe sia del tutto
corrispondente allo spirito o alla sostanza delle direttive.
E questo non perché siamo fannulloni poco aggiornati e
resistenti al cambiamento, ma perché proprio il cambiamento
nemmeno si capisce esattamente in cosa consista e cosa sia.
E' come se ci dicessero che dobbiamo andare in un posto, ma
non ci dicessero quale e come ci si deve arrivare.
Insomma, io credo che il
problema della scuola italiana non siano "solo" i soldi. E'
che bisognerebbe che qualcuno discutesse poi decidesse che
cosa è la scuola, a che cosa serve e come va di conseguenza
impostata. Ci vuole un confronto e una riflessione: aperta,
franca, di quelle che anche finiscono in rissa, ma
chiarificatrice. Non solo fra politici e parlamentari, e
neanche solo fra Governo e Sindacati. Bisogna proprio che se
ne parli con il corpo docente, che si ascolti, che si
spieghi, che si decida un modello nuovo e valido per tutti,
per poter ripartire da quello come base condivisa.
Finché non ci sarà questo,
continueremo con le riforme applicate un po' qua e un po',
là, le resistenze, le incomprensioni, i progetti bellissimi
ma estemporanei, il dover impapocchiare le cose alla bell'e
meglio per far finta che le direttive vengano applicate.
Poi, secondo me, i soldi in qualche modo si trovano e le
cose si fanno. Ma prima bisogna decidere cosa e come fare,
uff.
Investimenti
in discesa così come i rendimenti degli studenti. Il
confronto con la Finlandia
ItaliaOggi, del 23-04-2013, di Giovanni Bardi
In Europa l'Italia è fra i
paesi che spendono meno e peggio sulla scuola. Nell'ultimo
decennio il Paese ha disinvestito quando non ha investito
male, al punto da ritrovarci sempre fanalino di coda anche
in fatto di apprendimento degli studenti a fine obbligo ai
test dell'Ocse Pisa. È recente la notizia che l'Italia resta
di gran lunga staccata dal resto d'Europa in fatto di
investimento pubblico in istruzione.
Secondo l'Eurostat statistics
in focus, che studia i trend strutturali delle politiche
economiche dei governi europei nel finanziamento delle
politiche sociali e di pubblico interesse, mentre sanità e
stato sociale tengono. Anzi dal 2002 la spesa in questi
settori aumenta di 4 punti percentuali sul totale delle
uscite, mentre per l'istruzione siamo finiti al penultimo
posto in Europa. Con una media dell'8,5% del totale della
spesa pubblica contro una media Ue del 10,9%, peggio di noi
fa solo la Grecia con il 7,9%. Mentre in Finlandia, paese in
testa da più di dieci anni nelle classifiche Ocse Pisa
sull'apprendimento in lettura, scienze e matematica, lo
Stato impegna l'11,6% del totale della spesa per la
collettività sulla scuola.
Se si va a vedere il dato di
spesa pubblica in istruzione sul Pil, in Europa si spende (i
dati sono riferiti 2009) circa il 5,4% sul totale della
spesa pubblica in istruzione contro il 4,7% dell'Italia. La
Finlandia, a riguardo, impegna 6.8 punti percentuali di
spesa pubblica in istruzione sul Pil. Secondo le stime
dell'Eurostat Yearbook 2012, dal 2003 al 2008 l'investimento
pubblico in istruzione sul Pil è passato da 4.74 a 4.58,
sebbene la spesa pubblica per studente sul Pil sia aumentata
da 6.118 a 6.609. Questo andrebbe supposto soprattutto in
ragione della necessità di coprire i maggiori costi
dell'innalzamento dell'obbligo d'istruzione e della
massificazione dell'istruzione secondaria superiore. Un
passaggio che diventa un nodo gordiano. I soldi che infatti
servono per garantire un banco, una sedia e un professore
davanti agli studenti che non terminano più gli studi alla
fine delle medie, da qualche altra parte devono essere nel
frattempo usciti. Se si guarda alla media di spesa annuale
per studente delle scuole statali rispetto all'Europa
allargata a 27, si vede che l'Italia, nel 2003, spendeva più
della media europea con 6.469 contro 5.074 euro dell'Ue, per
poi calare tendenzialmente nel decennio ed impennarsi nel
2008 a 7.122 euro, tornando poi a calare nuovamente a 6.751
euro del 2009.
Il contrario avviene invece in
Finlandia che sembra aver proceduto, in confronto, come fa
la formica rispetto alla cicala. Mentre nel 2008 noi
spendevamo più dei finlandesi, nel 2009 torniamo a investire
di meno, continuando a perdere terreno anche nel 2010.
Secondo Eurostat, in Finlandia spendevano 5.812 euro per
studente nelle scuole pubbliche nel 2003 e arrivano a
riservare 7.365 euro l'anno per studente, contro i nostri
6.698 del 2010. Insomma, i numeri parlano da soli.
AUSTERITÀ Il decreto
all'esame della commissione speciale al Senato
il manifesto, del
20-04-2013, di Roberto Ciccarelli
I dodici enti di ricerca
controllati dal Miur si preparino: sta per arrivare il tanto
annunciato nel 2012, e fino ad oggi sempre rinviato, taglio
al fondo ordinario da 51 milioni di euro. Lo ha confermato
il «rapporto Giarda», dal nome del ministro che ha
consegnato al parlamento una relazione sui nuovi tagli da
praticare all'università e alla ricerca con la «fase tre»
della spending review. E tra poco si farà sul serio.
L'Istituto di Fisica Nucleare (Infn) che ha scoperto il
«bosone di Higgs», l'Ingv che monitora con i suoi precari
l'arrivo dei prossimi terremoti, e lo stesso Cnr lascino da
parte le residue speranze di continuare a fare ricerca con i
soldi pubblici perché il governo «costretto» a restare in
sella ad un paese squassato dalla crisi economica e politica
taglierà un fondo che ammonta a 1.598 milioni (compresivi
della «quota premiale» erogata dal Miur per i risultati
scientifici di 139 milioni), la cifra più bassa dal 2003.
L'unico ente risparmiato sarà l'Agenzia spaziale italiana
che conserverà i suoi 502 milioni di euro. Il taglio era stato annunciato dal ministro dell'Istruzione,
università e ricerca Francesco Profumo durante l'estente del
2012, ma era stato ritirato dopo l'insurrezione dei
presidenti degli enti che sventarono la manovra del governo
nel corso di una tempestosa riunione con Profumo. Oggi torna
d'attualità perché è necessario ripartire il fondo per il
2013. Il decreto che sancirà il taglio è giunto
all'attenzione della Commissione speciale del Senato. Il budget dell'Infn (che ha 600 ricercatori distaccati al
Cern di Ginevra) subirà il taglio di 12 milioni di euro (da
243 a 230 milioni). Con 25 milioni in meno il Cnr rischia di
mettere alla porta 2500 tra ricercatori precari e
dottorandi. Con un taglio di oltre 4 milioni per 2013 e
2014, l'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) rischia di
spezzare equilibri già precari. L'Ingv aveva un contributo
ordinario per il 2012 di 45,4 milioni. Subirà un taglio di
1,6 milioni (3,59%) per il 2013 e 2014; l'Istituto nazionale
di ricerca metrologica (Inrim) perderà 880.900 euro (4,73%)
su 18,6 milioni. Nella rosa ci sono anche la Stazione Anton
Dohrn, l'Istituto nazionale di alta matematica (Indam),
l'Istituto di studi germanici, il Centro Fermi, l'Istituto
nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale (Ogs) che
perderà 1,2 milioni su un budget di 12,4 milioni di euro. Aumentano invece i contributi destinati alla neonata Agenzia
di valutazione della ricerca Anvur, e a tutto il complesso
di valutazione e controllo neo-liberale dell'attività
«produttiva» di ricercatori, insegnanti e studenti
dell'Indire e dell'Invalsi, sul quale Profumo e Monti (oltre
alla Gelmini) hanno investito molto. Nel decreto in discussione al Senato si osserva anche la
crescita de i fondi per le «attività internazionali» saliti
da 54,2 a 83,5 milioni di euro. Il Sincrotone di Trieste
riceve 14 milioni di euro. I fondi sui «progetti bandiera»
per i quali Profumo si è molto speso scendono da 128 a 75,4
milioni. Si taglia dunque la ricerca, ma si finanzia
l'apparato di controllo che dovrebbe controllare la sua
«qualità» scientifica. Una contraddizione che spiega
perfettamente le conseguenze ormai quinquennali delle
politiche dell'austerità sul settore che tutti, da destra
come da sinistra, giudicano fondamentale per rilanciare la
«ripresa». Questi sono i fatti. Il taglio dei fondi alla ricerca è solo uno degli esempi,
simbolicamente tra i più significativi, che fa da sfondo
alla conferma giunta ieri dalla Ragioneria generale dello
Stato. Rispetto all'Europa a 27, nel 2010 e nel 2011
l'Italia si è classificata al 24° posto per investimenti
sulla scuola e sulla formazione. A quel tempo era finanziata per lo 0,7%(contro lo 0,9%
europeo) di un Pil che nel 2010 era a +1,3%, nel 2011 era
diminuito allo 0,4%. Nel 2012 il Pil è crollato a -2,5%, e
nel 2013 arriverà forse a -2%. I tagli però continuano
imperterriti. La Ragioneria sostiene anche che l'Italia è al
sesto posto per la spesa per il Welfare, mentre cala la
spesa per la sanità.
Grazie a quella riforma anche i figli degli
operai potevano accedere all’Università e per alcuni decenni
si sperimentò davvero la mobilità sociale
La Stampa.it, del
21-04-2013, di
Marco Rossi Doria
Pochi giorni prima del Natale del 1962 venne
approvata dal primo centrosinistra la legge n. 1859, che
istituì la scuola media unificata, applicando finalmente la
Costituzione della Repubblica che prevedeva otto anni di
scuola gratuita e obbligatoria per tutti. La scuola media
unica, insieme alla statalizzazione dell’energia elettrica,
fu parte delle condizioni programmatiche poste dal partito
socialista per terminare l’opposizione e avvicinarsi a un
governo insieme alla Dc superando l’alleanza frontista con i
comunisti che durava dal 1948. Così, nell’anno successivo, il 1963/64, le nuove scuole
medie aprirono le porte a ben 600 mila ragazzi e ragazze,
figli di operai, contadini, artigiani, piccoli commercianti
e braccianti, che fino ad allora non erano andati oltre la
quinta elementare o l’«avviamento professionale» secondo le
norme del 1928. Immaginiamo la scena. Nell’ottobre del 1962 Gianni e sua
cugina Carla, figli di un salumiere e di un operaio edile,
finiscono a pieni voti la quinta elementare. Hanno dieci
anni. E le famiglie decidono di non mandare i due ragazzi
alla scuola media – allora unica via d’accesso ai licei e
poi, forse, all’università – ma semmai all’«avviamento»,
dove per tre anni, sei giorni a settimana, con tuta e arnesi
per l’officina o grembiule e attrezzi per i cosiddetti
«lavori domestici», tutti comprati dalle famiglie, ci si
«ammaestrava» al lavoro e basta. Senza accesso al sapere del
mondo. Ed ecco che, con la nuova legge, nell’autunno del
1963, i fratelli di poco minori di Gianni e Carla entrano
invece a scuola e studiano Italiano, Matematica, Storia,
Geografia, Scienze, Arte, Inglese o Francese, Ginnastica,
Musica. E – quel che più conta - hanno le porte aperte
all’accesso agli studi superiori. Inoltre fanno almeno un
anno di latino - la materia simbolo dell’idea stessa di
conoscenza delle classi medie italiane - che fu, infatti,
l’oggetto intorno al quale si concentrò la polemica
politica. Anche se oggi vi è un proficuo dibattito sui limiti della
nostra scuola media, va ribadito che la riforma fu una
conquista storica in termini di eguaglianza. E non solo. La
riforma, infatti, ebbe un successo multi-dimensionale
perché, partendo dai diritti, spinse in avanti l’economia e
la società italiane. Il tasso di quattordicenni in possesso
di licenza media passò, nei dieci anni successivi, dal 46,8%
all’82,3%. E decine di migliaia di giovani entrarono, poi,
sì nei licei ma soprattutto nelle scuole tecniche e
professionali con una più forte cultura di base, potenziando
il sapere diffuso, avvicinando sapere e lavoro, contribuendo
alla trasformazione dell’agricoltura, di ogni settore
manifatturiero e del crescente sistema dei servizi. Inoltre
l’espansione delle iscrizioni spinse alla costruzione e
all’ammodernamento di migliaia di edifici scolastici,
favorendo ulteriormente il boom economico e occupazionale
già in atto. Il movimento verso la scuola non riguardò solo la
generazione direttamente interessata dalla riforma ma tutta
la vasta parte «popolare» del Paese. Non solo i bambini e
ragazzi ma gli adulti e anche gli anziani – che in
precedenza non avevano raggiunto le conoscenze più basilari
– furono investiti dall’onda positiva dell’effetto-traino e
spinti a conquistare almeno la licenza elementare. Così, le
bambine delle campagne e dei ghetti urbani poveri furono
finalmente tutte mandate alle elementari; le scuole serali
si riempirono di giovani adulti; la Rai ampliò i suoi
programmi di alfabetizzazione consolidando l’idea che per
imparare «non è mai troppo tardi». L’analfabetismo totale -
il non sapere leggere, scrivere e far di conto in alcun modo
– passò dal 13% del 1951 a percentuali comparabili con il
resto d’Europa. Ma torniamo a quel dicembre di mezzo secolo fa, all’aula di
Montecitorio. Lì proprio attorno all’idea di uguaglianza vi
fu un decisivo dibattito parlamentare. Con motivazioni tese
ad aprire scuola e società e superando anche conservatorismi
interni, votarono a favore della scuola media unica
socialisti, socialdemocratici, democristiani, repubblicani.
Invece votarono contro tutte le destre: monarchici, missini,
liberali e - con motivazioni opposte e speculari - i
comunisti. La destra avversò ogni messa in discussione di
una scuola rigidamente divisa tra quella per le classi
medie, che si prolunga nel tempo, comprende le discipline
del sapere universale necessario per comandare e guadagnare
bene e quella per le classi popolari, limitata nel tempo e
dedicata ad allenarsi al lavoro manuale. Il provincialismo
conservatore italiano si unì a quello reazionario e rimase
immobile, convinto, in particolare, che qualsiasi
ridimensionamento del latino comportasse una svalutazione
dell’idea stessa di cultura. Ma, ben oltre i conservatorismi della nostra destra, era
estraneo a grande parte delle élites italiane l’argomento
secondo il quale lo sviluppo economico è legato alla
promozione della mobilità sociale, a sua volta possibile
grazie all’acquisizione di conoscenze diverse – umanistiche,
scientifiche, tecniche - unite dal rigore del metodo e
dall’intreccio tra fare e sapere e dal laboratorio didattico
come fondamento dei processi di apprendimento che richiedono
la partecipazione attiva di bambini e ragazzi. Quello che
era accettato in tutto il mondo - dagli Usa all’Inghilterra
alla Germania fino ai paesi in via di decolonizzazione in
Africa e Asia - non lo era da noi. E la riforma del 1962
spezzava un tabù profondamente radicato nella nostra idea di
sapere e apriva al futuro; ma l’evoluzione successiva è
stata troppo lenta e faticosa… A votare contro la riforma vi fu anche il Partito Comunista
Italiano. La mediazione individuata nel corso dei lavori fu
di introdurre - soltanto in terza media - il latino come
materia facoltativa ma necessaria per iscriversi al
ginnasio. Dichiaratosi a favore dell’innalzamento
dell’obbligo come «fatto di conquista democratica» il Pci
tuttavia si oppose proprio per questo dettaglio: perché
bisognava offrire il latino a tutti, altrimenti il nuovo
obbligo mostrava «un problema grave di contenuti culturali».
In aula, a rispondere alla così motivata dichiarazione di
voto contrario del comunista Mario Alicata fu il vero
ispiratore della legge, l’azionista liberalsocialista e
deputato del Psi, Tristano Codignola: «un movimento popolare
dell’importanza del Pci non può affermare il valore della
legge e nel contempo annunciare il voto
contrario….sostenendo l’equivoco discorso dei contenuti
culturali… quando si sa che una legge non sostituisce mai
l’uomo che deve applicarla e quindi è in questa nuova
struttura di scuola che si apre il discorsi dei contenuti…». Cinque anni dopo la riforma, nel 1967, con Lettera a una
professoressa , fu don Milani, suo sostenitore attivo
insieme ai ragazzi di Barbiana, a denunciare ciò che ne
impediva la piena applicazione: «il principale difetto della
scuola italiana sono i ragazzi che ancora perde». E indicò
come porvi rimedio, proponendo di dare di più a chi parte
con meno nella vita. Nelle democrazie si chiama
«discriminazione positiva». Ed è l’opposto dell’eguaglianza
formale perché va alla sostanza delle cose, proprio come
dice l’articolo 3 della Costituzione: «È compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli…che, limitando di fatto
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana…». Ma oggi, il terribile 18,2% di ragazzi - sempre e solo figli
dei poveri - che abbandonano scuola e formazione, ci dice
che l’Italia deve affrontare ancora proprio questa sfida. E
che, pur con tutti i progressi, non abbiamo creato
sufficiente scuola del sapere e del fare. E che non siamo
stati in grado di sviluppare appieno la discriminazione
positiva soprattutto perché abbiamo conservato una scuola
basata su un’idea povera di eguaglianza: dare a tutti la
stessa cosa nel medesimo tempo. Mentre è possibile
un’eguaglianza molto ben articolata, che sappia dare di più
e meglio a ciascuno perché prende in considerazione le parti
forti e deboli, le inclinazioni, le parti da scoprire di
ogni persona in crescita. Molte scuole già lo fanno. Lo
facciamo integrando migliaia di bambini non italiani e di
bambini con disabilità, in modo molto migliore di quanto si
faccia altrove. Eppure l’organizzazione iper-standardizzata
è ancora troppo presente; e tante esperienze che
sperimentano i modi per conquistare alla scuola chi ne è
ancora fuori devono ogni volta misurarsi con questo limite….
E con la mancanza di risorse. La sfida contro troppi
abbandoni della scuola deve diventare politica nazionale,
sostenuta, finanziata, difesa dalla comunità tutta. E
davvero non è più possibile pensare di tagliare i fondi per
la scuola quando perdiamo per strada non solo troppi ragazzi
ma tante risorse per la crescita del Paese che, oggi più che
mai, è intimamente legata alle conoscenze. Ed è interessante
notare come, a
pagina 38
del «documento dei saggi» consegnato al Presidente
Napolitano, vi sia un capitolo dedicato al contrasto
dell’abbandono scolastico come fattore determinante per la
crescita. Perciò: è una necessità ridare a scuola, università e
ricerca – come investimento per il nostro futuro – gli 8,4
miliardi tagliati in modo sconsiderato dal 2008 al 2011.
Questo è, per quanto complicato, un passaggio politico
decisivo della nuova auspicata stagione italiana, che
riveste la medesima importanza della restituzione dei
crediti alle imprese. Proprio il successo della riforma di
cinquant’anni fa, insieme con la ferita aperta degli
abbandoni scolastici, ci mostra che è questa la via da
prendere.
Divario dimezzato in
quattro anni. Egli italiani sono più preparati della media
internazionale
La Repubblica.it,
del 22-04-2013, di Maria Novella De Luca
ROMA
Sarà merito della scuola, o forse di alcuni
libri dal successo planetario, che hanno catturato al testo
scritto anche il recalcitrante mondo dei ragazzini maschi.
Sarà, pure, l’abitudine alla comprensione del linguaggio
sincopato dei videogiochi, comunque la notizia (buona) è che
nella lettura per la prima volta i bambini hanno raggiunto
le bambine. Polverizzando così finalmente quei “punti” che
nelle statistiche internazionali dividevano i maschi dalle
femmine, queste ultime com’è noto assai più vicine ai libri
dei loro coetanei. E invece si scopre che c’è un momento
fondamentale negli anni della scuola primaria, in cui tutto
è ancora possibile, anche la caduta di stereotipi tipo
femmine-brave, maschi-distratti, oppure femmine “non
portate” per la matematica, maschi capaci nelle materie
scientifiche. Il paritario capitombolo in avanti è contenuto nella ricerca
Progress in International Reading Literacy Study del 2011,
che ogni cinque anni analizza nelle classi di quarta
elementare, i livelli di comprensione dei testi scritti. E
su questi dati Stefano Molina, ricercatore della Fondazione
Agnelli, ha elaborato una indagine pubblicata sul sito
Neodemos,con il titolo “Differenze di genere sui banchi di
scuola”, in cui dimostra quanto nell’infanzia il nostro
Paese sia quello con i divari più bassi, mentre poi, a
partire dall’adolescenza le differenze diventino invece dei
fossati. «Il salto in avanti dei maschi nella lettura —
spiega Stefano Molina — è avvenuto negli ultimi 10 anni. Nel
2001 il loro rendimento si distanziava di 8 punti da quello
delle femmine, nel 2007 di 7, fino al 2011 in cui il divario
è diventato di 3, e dunque minimo. Ed è un bel successo,
dovuto a più fattori. Da una parte i bambini corrono veloci
quanto le bambine. Dall’altra forse la scuola non è stata in
grado di consentire alle femmine, che da sempre hanno un
rendimento migliore, di esprimere tutte le loro
potenzialità». In un quadro dove comunque i dati
dell’indagine “Pirls” mostrano che i baby studenti italiani
di quarta elementare si piazzano a un ottimo punto nella
classifica mondiale della “bravura” con 541 punti contro una
media di 500. E sono più d’una infatti le motivazioni che hanno portato a
questa unificazione delle capacità di lettura, che
smentiscono in parte gli allarmi sulla disaffezione verso il
testo scritto della generazione digitale. Carmela Buffo
insegna da oltre 30 anni in una grande scuola romana, «dove
arrivano bambini di ogni ceto sociale, da quelli con
migliaia di libri nella biblioteca dei genitori, a ragazzini
che non ne possiedono nemmeno uno». Dice Carmela Buffo: «In
una stessa classe ci sono allievi con diversi livelli di
rendimento, e tradizionalmente le femmine sono un po’ più
avanti dei maschi. Ma questo spesso si è tradotto in una
sorta di pigrizia da parte degli insegnanti, anzi delle
insegnanti, che non si sono preoccupate abbastanza di
stimolare i maschi perché ritenuti immaturi». Là dove invece
la scuola ha tenacemente promosso la lettura, e «grazie
anche a una rivoluzione nei libri dell’infanzia, con alcuni
titoli che hanno catturato i bambini senza differenza di
sesso», aggiunge Carmela Buffo, «i risultati si sono visti, e in particolare sui maschi». Ecco allora Harry
Potter,con la sua capacità conquistare al di là dei generi,
Geronimo Stilton, il topo reporter dagli incassi milionari,
Greg, l’amatissima “schiappa” del diario medesimo. Benedetto Vertecchi, pedagogista di lungo corso, è invece
più scettico sui meriti della scuola. «Se i maschi hanno
scoperto la lettura, mi fa un gran piacere, ma non dipende
dalla nostra agonizzante istruzione pubblica, bensì da una
maggiore attenzione delle famiglie alla vita dei bambini,
libri compresi. Con i tagli selvaggi, la scuola oggi sta
tornando proprio ai suoi stereotipi tradizionali, ai maschi
la scienza, alle femmine la letteratura, i ricchi vanno
avanti, i poveri si fermano». Amara riflessione, condivisa
in parte da Stefano Molina, autore della ricerca: «Viene da
chiedersi come mai a 9-10 anni bambine e bambini siano
eguali nella lettura, e poi invece a 15 le femmine superino
i loro coetanei di ben 46 punti nella comprensione di un
testo scritto. Penso che i fattori siano due: una spinta
sociale, per cui alle bambine viene regalata la Barbie, e ai
maschi il “Piccolo chimico”, e via via quel fattore di
uguaglianza si perde. E una motivazione, poi, interna alla
scuola, che purtroppo nella comunicazione del sapere tende a
ricreare differenze».
SINERGIE DI
SCUOLA, del 17-04-2013, di
Mara Bonitta
Durante l’ora di lezione, un professore di
filosofia pose sulla cattedra un vaso di vetro vuoto e lo
riempì con delle palle da golf, chiedendo poi agli studenti
se il vaso fosse pieno. Gli studenti risposero in coro di
sì. Allora il professore prese una manciata di biglie di
vetro e le fece scivolare nel vaso, riempiendo gli spazi
rimasti vuoti tra le palle da golf. Chiese di nuovo agli
studenti se il vaso fosse pieno, e di nuovo gli studenti
risposero unanimemente di sì. Il professore allora versò nel
vaso un sacchetto di sabbia, rifece la domanda, ed ottenne
dagli studenti la medesima risposta. Velocemente, il
professore aggiunse una tazza di caffè al contenuto del
vaso, che risultò ancora una volta pieno...
Una simile concatenata successione di azioni
sembra aver luogo in ambito scolastico, inizialmente
riempito di competenze di base, solide e consistenti come
palle da golf, quali il POF, il programma annuale, la
contrattazione di istituto, il regolamento interno, la carta
dei servizi. Poi vennero le biglie di vetro, trasparenti e
colorate, a riempire gli interstizi: i progetti numerosi e
diversificati, i siti web utili ed esuberanti, gli accordi
di rete proliferanti e interistituzionali, le
sperimentazioni gestionali e le iniziative di
fund raising. Siccome
c’era ancora spazio, venne versata della sabbia, milioni di
granuli minuscoli che si sistemarono nel vaso togliendone
quasi completamente l’aria: i flussi di cassa, le
rilevazioni semestrali, annuali, periodiche e una tantum
sugli incarichi dei dipendenti e dei consulenti, sulle
assenze per malattia e per altre cause, sui permessi della
legge 104, l’osservatorio tecnologico, la scuola in chiaro e
il censimento, i contratti pubblici secondo la normativa
europea degli appalti, la vigilanza sui suddetti contratti,
la legge Stanca e la riforma Brunetta, il rinnovato sistema
sanzionatorio, le verifiche INPS, INAIL ed Equitalia, i
portali dai nomi accattivanti come PerlaPA, DigitPA, NoiPA... Ora siamo al caffè, che filtra attraverso il contenuto del
vaso percorrendolo fino in fondo senza intoppi: le leggi di
stabilità, le spending
reviews, i decreti Taglia Italia e Salva Italia, i
piani della performance, di valutazione, trasparenza e
merito, le convenzioni Consip, il mercato elettronico delle
Pubblica Amministrazione (Mepa) e quello della Pubblica
Istruzione (Mepi), il carrello, il cruscotto e la clausola
stand still, la
certificazione dei crediti certi, liquidi ed esigibili dei
fornitori maturati al 31 dicembre 2012, la ricognizione dei
debiti e le piattaforme IPA e PCC, la legge di prevenzione e
repressione della corruzione e dell’illegalità nella
pubblica amministrazione, il CIVIT e l’OIV, l’accessibilità
totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e
l’attività delle PP.AA., il piano triennale per la
trasparenza e l’integrità, l’accesso civico e i dati aperti,
i responsabili della prevenzione della corruzione e i
responsabili della pubblicazione dei documenti sui siti
istituzionali, la normattiva e infine, dal prossimo 20
aprile, con l’entrata in vigore del Decreto Legislativo 14
marzo 2013 n. 33, l’ampliamento della responsabilità
dirigenziale, amministrativa patrimoniale e contabile. Considerato che le scuole di ogni ordine e grado sono
Pubbliche Amministrazioni (art. 1 comma 2 D.Lgs. 165/2001),
è chiaro che anch'esse sono coinvolte direttamente da queste
disposizioni immanenti e indifferenziate per tutta la P.A.,
dai più vasti Ministeri alle più normodimensionate scuole,
con adempimenti, prescrizioni e sanzioni piuttosto severe, a
carico di soggetti e di enti od organismi, di carattere
disciplinare, amministrativo e pecuniario. Se pensiamo poi che il CCNL Scuola è scaduto nel 2009, che
dal 2010 sono bloccate le progressioni di carriera di tutto
il personale scolastico (sembra che, a spese del FIS,
qualcosa si muova per il 2011), che gli organici di
insegnanti e ATA, così come il numero delle istituzioni
scolastiche e i loro budget, hanno subito una drastica
riduzione, che il reclutamento del personale amministrativo
è “integrato” dall’utilizzo di docenti inidonei, che il
concorso per DSGA è tristemente rimasto inchiodato al palo,
che la formazione – unica leva che potrebbe sollevare il
mondo e gli animi - è un optional, che il vaso, cioè, si è
anche ristretto, sorge spontanea una domanda: dopo il caffè,
nel vaso già pieno, sarà versato anche l’ammazzacaffè? Probabilmente non tracimerà, ma –
nomen omen – la
prospettiva è un tantino inquietante.
Soffre
specialmente il Sud con Sicilia, Sardegna e Campania in
testa: allarmanti i dati nel biennio delle superiori Corriere di Viterbo, del 17-04-2013 BRUXELLES
I dati Eurostat
mostrano una tendenza al recupero per quanto riguarda la
dispersione scolastica in Italia, ma con il 17,6% restiamo
lontani dal target del 15% da raggiungere entro il 2020.
Soffre soprattutto il Sud Italia con Sicilia, Sardegna e
Campania in testa soprattutto nel biennio delle superiori. Pochi paesi europei fanno peggio di noi: Malta, Romania e
Spagna. La Grecia ha fatto meglio, con un tasso del1'11,4% e
una riduzione dell'abbandono tra il 2011 e il 2012
dell'1,7%. Soffre soprattutto il Sud Italia con Sicilia,
Analizzando più da vicino il dato complessivo, emerge che il
fenomeno riguarda in particolare gli studenti maschi. Secondo i dati Eurostat, nella cosiddetta "area Ue-27",
ovvero di 27 Paesi membri dell'Unione europea, ogni 100
abbandoni tra i maschi se ne registrano 76 tra le femmine.
In paesi come Cipro il rapporto è di 42 ogni 100 maschi,
addirittura in Bulgaria il rapporto è inverso (abbandonano
più le femmine che i maschi), l'Italia si attesta a metà
classifica con un rapporto tra maschi e femmine di 100 a 71.
All'indomani della pubblicazione dei dati, si è fatta
sentire la voce del sindacato. Per l'Anief "negli ultimi sei
anni sono stati cancellati 200mila posti, sottratti 8
miliardi di euro e ultimamente si è pensato bene di far
sparire quasi 2mila scuole a seguito del cosiddetto
dimensionamento, anche se poi ritenuto illegittimo dalla
Consulta. Ora, siccome è scientificamente provato che i finanziamenti sono strettamente correlati al
successo formativo, questi dati non sorprendono. Ma sicuramente amareggiano". Preoccupata anche la Cisl: "I
dati Eurostat non fanno che confermare un quadro già
tristemente noto, che vede l'I ali a in posizione di
svantaggio su quasi tutti gli indicatori che riguardano
istruzione e formazione. E' una situazione di vera e propria
emergenza che denunciamo da tempo, rivendicando un deciso cambio di
segno nelle scelte di investimento che riguardano il nostro
sistema formativo". Sempre in base ai dati Eurostat per il 2012, la maggior
parte degli Stati membri dell'Ue ha compiuto passi avanti
nel raggiungimento degli obiettivi della strategia Europa
2020 nel campo dell'istruzione: riduzione del tasso di
abbandono scolastico al di sotto del 10% e aumento al di
sopra del 40% della percentuale di giovani in possesso di
qualifiche dell'istruzione superiore (terziaria o
equivalente) entro il 2020. Attualmente la percentuale di
abbandono scolastico tra i giovani è in media del 12,8%
nell'Ue, in calo rispetto al dato del 13,5% registrato nel
2011. Nel 2012, erano il 35,8% le persone di età compresa tra i 30
e i 34 anni nell'Ue ad aver completato l'istruzione
terziaria, contro un 34,6% dell'anno precedente. Androulla
Vassiliou, Commissaria europea responsabile per
l'Istruzione, sostiene che "in futuro i posti di lavoro
richiederanno qualifiche di livello più elevato e i dati
indicano che un maggior numero di giovani è deciso a
sviluppare appieno le proprie potenzialità". Tornando ai dati, 12 Stati membri (Austria Repubblica ceca,
Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Paesi
Bassi, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Svezia) hanno ormai
tassi di abbandono scolastico inferiori all'obiettivo
fissato dalla strategia Europa 2020 al 10%. La percentuale di giovani con una qualifica dell'istruzione
superiore resta bassa in Italia (21,7%), Slovacchia (23,7%),
Romania (21,8%), Malta (22,4%), Repubblica Ceca (25,6%) e
Portogallo (27,2%).
Giovanni
Bachelet, della direzione del Pd, esamina sia il lavoro dei
“Saggi” e sia la pubblicazione del ministro Fabrizio Barca
dove si parla di istruzione
La
Tecnica della Scuola, del 15-04-2013
All'istruzione sono dedicate
tre delle ottanta pagine redatte dai saggi di Napolitano: si
parla di riduzione dell'abbandono scolastico, rilancio del
tempo pieno, alternanza scuola-lavoro, scuola digitale,
educazione alla salute. Giovanni Bachelet, della direzione
del Pd, esamina sia il lavoro dei “Saggi” e sia la
pubblicazione del ministro Fabrizio Barca dove si parla di
istruzione In che modo un nuovo Governo e il nuovo Parlamento
potrebbero risollevare le sorti della scuola italiana? Anche
prima di conoscere l'esito del voto mi ero convinto che
tanto la lentezza del processo legislativo, quanto la
motivata esasperazione della scuola, consigliassero una
partenza soft, un approccio amministrativo e non legislativo
necessario a riconquistare la fiducia, rilanciare la
partecipazione e cosí preparare il terreno alle necessarie
riforme legislative (come quella della governance, dei cicli
scolastici, dello stato giuridico e del reclutamento di
dirigenti, docenti, ATA). Dopo il voto, di fronte a una
legislatura che si annuncia breve e difficile, l'unica
ricetta praticabile per il rilancio della scuola italiana
appare a maggior ragione basata sulla Costituzione e sulle
leggi esistenti: sfruttarne le potenzialità e, anzitutto,
rispettarle. Il ripristino della legalità, anche a scuola, è infatti il
primo passo per uscire dal caos ed evitare il tangibile
rischio di regresso verso il sottosviluppo. Nella scuola
sono ormai molte le illegalità flagranti: dall'accorpamento
forzato in istituti comprensivi con dimensioni minime
dettate dal centro senza il concerto delle Regioni
(ripetutamente bocciato dalla Corte Costituzionale), alle
molte cause perse dal Miur di fronte ai Tar (per
l'insufficiente sostegno ai diversamente abili o per lo
"spezzatino" utilizzato per le 40 ore del tempo pieno nella
scuola primaria, ad esempio), alle illegalità croniche, come
i crediti dello Stato verso le scuole (una media di 100mila
euro a istituto) o gli edifici scolastici fuori norma (circa
la metà). A nessuna di queste emergenze i Governi Berlusconi e Monti
hanno posto rimedio: nemmeno a quelle determinate da
provvedimenti giudiziari, in barba al dlgs 165/2001 che
(art.61) impone al Governo procedure d'urgenza per
ottemperarvi. Certo in tutti gli esempi fatti restituire
legalità implica, nell'immediato, risorse da reperire. Si
tratta però, nella maggior parte dei casi, di impegni
straordinari e transitori che, nel lungo periodo,
determinano risparmi. Il superamento del "disordine
costituito" di un Ministero che non riesce a programmare il
fabbisogno di docenti, per oltre dieci anni non fa concorsi
e continua a coprire molti posti vacanti e disponibili con
personale a tempo determinato produrrebbe infatti, a regime,
il risparmio di importanti risorse umane e finanziarie
dissipate nel caotico accavallarsi di ordini e contrordini
all'inizio di ogni anno scolastico, nel continuo alternarsi
di insegnanti sulla stessa classe, nel gigantesco
contenzioso giuridico che ogni illegalità porta con sé, nei
gironi danteschi delle graduatorie: fenomeni, questi,
sconosciuti nel resto del mondo civile. 1. Rispettare la legalità implicherebbe, per il nuovo
Governo, uno stile amministrativo europeo che, in Italia,
risulterebbe piú rivoluzionario di ogni riforma epocale. Un
esempio? il Ministero, previsto in modo affidabile il
fabbisogno, dovrebbe ogni anno immettere in ruolo (secondo
le regole vigenti, fino a che non ce ne saranno di nuove) un
numero di insegnanti abilitati corrispondente ai posti
vacanti e disponibili. Un altro esempio? il Ministero
dovrebbe rispettare l'obbligo di bandire regolarmente nel
tempo i concorsi per l'accesso al ruolo e le selezioni per i
corsi di abilitazione degli insegnanti, spezzando finalmente
–come pareva volesse fare Profumo, finché non ha sfasciato
tutto con il Tfa speciale– l'iniqua spirale di precariato e
sanatorie che incombe come una maledizione sulla scuola
italiana. Oltre al ripristino della legalità, per rilanciare e
rimotivare la scuola, preparando il terreno (politico,
culturale, sociale) alle riforme legislative da avviare dopo
i primi cento giorni (che riguardano governance, cicli
scolastici, stato giuridico, reclutamento), esistono altri
atti governativi possibili a legislazione invariata. Quali? 2. Si potrebbe anzitutto rifinanziare la legge 440/1997,
crollata negli ultimi anni a un terzo del valore nominale
del 2001. Se questo rifinanziamento fosse sostanziale, il
20% e 30% di offerta didattica aggiuntiva prevista dai nuovi
regolamenti delle superiori si trasformerebbero da presa in
giro in opportunità; sarebbero possibili molti altri
arricchimenti qualitativi e quantitativi dell'offerta
formativa, dalla programmazione e integrazione territoriale
delle diverse offerte formative per il contrasto alla
dispersione, alla didattica aggiuntiva per l'italiano come
lingua straniera a tutte le età, al potenziamento del
sostegno alla diversa abilità. Reti di scuole (già previste
dalle leggi vigenti), ricerca didattica, formazione in
servizio di insegnanti e dirigenti potrebbero beneficiarne. 3. Al rilancio dell'autonomia scolastica nel contesto delle
autonomie territoriali contribuirebbe in modo cruciale
l'attuazione di due norme rimaste sulla carta: il titolo V
della Costituzione in materia di istruzione, cui manca
"solo" l'intesa fra Stato e Regioni, l'organico funzionale
(introdotto da Monti nel "Milleproroghe 2012" con il nome di
organico dell'autonomia), cui manca "solo" il finanziamento.
In questo contesto l'INDIRE potrebbe, attraverso un'intesa
con le Regioni, ricuperare un'articolazione territoriale piú
coerente con il titolo V e meno bizzarra dell'attuale
tripartizione, contribuendo, con laboratori appoggiati a
reti di scuole o reti di enti locali, al sostegno
all'autonomia e alla circolazione delle buone pratiche. 4. Prima che sia approvata l'intesa Stato-¬-Regioni e siano
definiti i LEP (livelli essenziali delle prestazioni) nel
contesto del cosiddetto federalismo fiscale, l'allentamento
del patto di stabilità interno per le assunzioni nei servizi
scolastici e educativi e per l'edilizia scolastica
rappresenterebbe un'altra possibile boccata di ossigeno per
la scuola; purché, naturalmente, le dotazioni finanziarie e
le capacità impositive autonome degli Enti Locali siano nel
frattempo rilanciate anziché ulteriormente umiliate. 5. Rimessa in marcia l'autonomia scolastica boicottata da
almeno un quinquennio di tagli e centralismo ministeriale,
riconquistata la fiducia della scuola col percorso di
rinnovamento amministrativo qui abbozzato, anche la riforma
dell'autogoverno o la valutazione censuaria da parte
dell'INVALSI troverebbero da parte della scuola, ne sono
certo, accoglienza migliore di oggi. 6. Un Governo che abbia credibilmente fatto pace con la
scuola e con gli insegnanti, rimediando a qualcuno degli
sfregi loro inflitti dai precedenti governi, potrebbe
perfino approfittare della scadenza del contratto collettivo
nazionale della scuola per tentare un'ampia e seria
consultazione sull'orario di servizio e sul trattamento
economico, aperta a idee innovative in linea con gli
standard europei. Tutti i provvedimenti cui ho appena accennato sono possibili
a legislazione invariata, sí, ma nel senso che incidono
"solo" sulle tabelle del documento di economia e finanza (DEF)
e della legge di stabilità. Forse il loro insieme sarebbe
insostenibile, nei primi cento giorni, anche per un Governo
che volesse davvero mettere al centro la scuola, ricuperando
il massimo di risorse possibile nelle condizioni date. Un
sottoinsieme di questi provvedimenti è, invece, certamente
sostenibile; e l'insieme completo serve, in ogni caso, a
suggerire una visione e una direzione realistica di rilancio
per la scuola italiana
Abbiamo classi
pollaio, sempre più numerose, spesso anche oltre il tetto
massimo previsto per norma. C’è meno sicurezza, meno
servizi, meno laboratori, più abbandoni scolastici:
la
Repubblica, , del 15-04-2013, di
Luisa Grion
Annuncia che la Cgil sta
lavorando ad una «grande iniziativa » con Cisl e Uil e
conferma che, anche se la Fiom non è d’accordo, l’idea di un
patto con Confindustria sta andando avanti. «La discussione
è all’inizio, siamo alle premesse» precisa Susanna Camusso,
leader del sindacato «anche se alle spalle abbiamo una lunga
stagione di grandi divisioni, ora bisogna fare le cose
possibili». Davanti alle tante emergenze del Paese - cui
vanno ad aggiungersi la difficoltà di finanziare la cassa
integrazione, il pericolo che mezzo milione di lavoratori ne
resti escluso e la necessità di tutelare la scuola pubblica
- per la Camusso non è più tempo né di divisioni sindacali,
né per di scontri frontali con i produttori.
Una strategia che la Cgil sta
mettendo in campo non senza scontri interni, quello con la
Fiom, per esempio. Sabato, in una intervista a Repubblica il
leader dei metalmeccanici aveva fatto capire di non essere
d’accordo con l’idea di un patto sindacato- industria,
perché gli accordi firmati in passato, aveva detto, hanno
portato a scelte di politica economica pagate solo dai
lavoratori. Ieri, attraverso un’intervista a Skytg24 è
arrivata la risposta della Camusso: «Questa è una stagione
in cui bisognerebbe ascoltarsi, e Landini dimostra di non
aver ascoltato le parole che ci siamo detti. La storia di
questi anni, fatta di lacerazioni e di ferite ancora aperte,
pesa molto. Ma proprio per questo andrebbe condiviso il
fatto che bisogna ridefinire delle regole del gioco,
altrimenti non si va mai avanti e il conto lo stanno già
pagando i lavoratori ».
Un aspetto pesante di questo
conto aperto riguarda la cassa integrazione. La copertura
dell’ammortizzatore sociale è a rischio, lo hanno detto
anche i «saggi» nel volume di suggerimenti consegnati al
Quirinale (entro giugno bisogna trovare un miliardo per
finanziare quella in deroga hanno puntualizzato). Ieri
Camusso ha quantificato l’emergenza sociale che scoppierebbe
dietro la mancanza di fondi: «Le domande per farvi ricorso
si stanno moltiplicando e i primi mesi del 2013 hanno
determinato un’ ulteriore accelerazione della crisi e delle
difficoltà: c’è il rischio che mezzo milione di italiani
possa restare senza cassa integrazione, in qualche regione
siamo già arrivati all’esaurimento dei fondi. Con le
previsioni fatte dalla Legge di stabilità siamo ben al di
sotto di quanto serve».
Ma il sindacato porta
l’attenzione anche su un altro fronte caldo, quello della
scuola e della necessità di tutelarne la qualità. Da
un’indagine Flc-Cgil risulta che negli ultimi cinque anni, a
fronte della riduzione complessiva di 81.614 docenti c'è
stato un aumento di oltre 90.000 alunni. Si sarebbero dovute
creare 4.500 nuove classi (con una media di 20 alunni per
aula), invece ne sono state tagliate 9 mila. «La conseguenza
è evidente - commenta Mimmo Pantaleo, segretario Flc Cgil -
abbiamo classi pollaio, sempre più numerose, spesso anche
oltre il tetto massimo previsto per
norma. C’è meno sicurezza,
meno servizi, meno laboratori, più abbandoni scolastici: la
politica tutta deve farsi carico di questa emergenza e
avviare un piano di investimenti che possa invertire questa drammatica tendenza». L’Italia, ricorda, è all’ultimo posto
in Europa per percentuale della spesa pubblica dedicata
all’istruzione
Un dettagliato
report della Flc-Cgil mette in evidenza come negli ultimi 5
anni a fronte di un incremento di 90mila alunni siano stati
tagliati quasi altrettanti docenti e 43mila Ata
15/04/2013
La
Tecnica della Scuola, del 15-04-2013, di Alessandro Giuliani
Un dettagliato
report della Flc-Cgil
mette in evidenza come negli
ultimi 5 anni a fronte di un incremento di 90mila alunni
siano stati tagliati quasi altrettanti docenti e 43mila Ata.
Tranne che all’infanzia, le cattedre sono state cancellate
ovunque: 28mila nella primaria, 22mila alle medie e 31 alle
superiori. Col dimensionamento scomparse quasi 2.000 scuole.
Il leader Mimmo Pantaleo si appella ai politici: si facciano
carico delle emergenze, serve un piano d'investimenti. E’ davvero impietoso il quadro numerico sui tagli al
personale della scuola pubblica tracciato dalla Flc-Cgil:
secondo una serie di
dettagliate tabelle, il
sindacato ha riassunto quanto accaduto nell’ultimo
quinquennio. Il dato più allarmante, anche perché contraddittorio, è
quello che al sostanzioso aumento degli alunni (+90.000
alunni) non è stato dato seguito alcun incremento di
docenti. Anzi. I dati in possesso del sindacato indicano che
sono spariti quasi altrettanti insegnanti: ben 81.600. "Con oltre 90.000 alunni in più – spiega la Flc-Cgil - si
sarebbero dovute creare non meno di 4.500 classi in più (con
media di 20 alunni per classe), invece ne sono state
tagliate oltre 9.000. La conseguenza è evidente: le
cosiddette classi pollaio sempre più numerose, spesso anche
oltre il tetto massimo previsto per norma". Il sindacato confederale ricorda che, se si eccettua la
materna, si è andato a mettere mano in tutti i settori
scolastici: "si taglia ovunque, - 28.032 posti nella
primaria - 22.616 nella secondaria di primo grado - 31.464
nella secondaria di secondo grado, eccetto la scuola
dell'infanzia dove le sezioni registrano un piccolo aumento
+518". La “sforbiciata” non ha esentato il personale
amministrativo: "-17,5 % dei posti in cinque anni", pari a
"43.878 posti in meno: ciò significa meno sicurezza, meno
servizi, meno laboratori". E non manca uno sguardo anche alla razionalizzazione:
infatti "sono state consistentemente ridotte di quasi il
20%, cioè scomparse quasi 2.000 scuole". Il segretario generale della Flc-Cgil, Domenico Pantaleo, ha
detto alla luce di questi dati allarmanti la Flc Cgil
"chiede alla politica tutta che si faccia carico delle
emergenze della scuola italiana e chiede che si avvii un
piano di investimenti che consenta di invertire questo
drammatico trend. Nel sud occorre garantire l'estensione del
tempo pieno e della scuola dell'infanzia, l'innalzamento
qualitativo dell'offerta formativa, un piano di edilizia
scolastica e una decisa azione per contrastare l'evasione
dell'obbligo scolastico". Pantaleo ha quindi rivendicato “più risorse, più scuola
pubblica, più insegnanti e personale ATA, più qualità, più
equità, livelli di istruzione più alti devono essere
obiettivi prioritari per il Paese. Proseguiremo nei prossimi
giorni la nostra campagna per la qualità della scuola
pubblica statale dimostrando ciò che si può mettere
immediatamente in campo nel breve e medio periodo e dando
così continuità – ha concluso il leader della Flc-Cgil -
alle iniziative dei giorni scorsi: dall’appello per la
scuola dell’infanzia al presidio del personale precario”.
La protesta
della Cgil, in 5 anni 81 mila posti da insegnante in meno
Il
Messaggero, del 15-04-2013
90.000 alunni, che avrebbe
dovuto determinare un incremento di circa 9.000 docenti. Lo
evidenzia Mimmo Pantaleo, segretario generale Flc-Cgil,
criticando «le politiche regressive» che hanno portato alla
«demolizione della scuola pubblica».
Con oltre 90.000 alunni in
più, osserva Pantaleo, si sarebbero dovute creare non meno
di 4.500 nuove classi (con media di 20 alunni per classe),
invece ne sono state tagliate oltre 9.000. La conseguenza «è
evidente: le cosiddette classi pollaio sempre più numerose,
spesso anche oltre il tetto massimo previsto per norma».
Si taglia, prosegue il
segretario della Flc-Cgil, «ovunque, -28.032 posti nella
primaria, -22.616 nella secondaria di primo grado, -31.464
nella secondaria di secondo grado, eccetto la scuola
dell'infanzia dove le sezioni registrano un piccolo aumento.
Non va meglio per il personale tecnico amministrativo:
-17,5% dei posti in cinque anni: ciò significa meno
sicurezza, meno servizi, meno laboratori».
Infine, conclude, «le stesse
istituzioni scolastiche sono state consistentemente ridotte
di quasi il 20%, cioè scomparse quasi 2.000 scuole».
La Flc Cgil chiede «alla
politica tutta che si faccia carico delle emergenze della
scuola italiana e che si avvii un piano di investimenti che
consenta di invertire questo drammatico trend». Eurostat
qualche giorno fa certificava una realtà: L'Italia è
all'ultimo posto in Europa per percentuale di spesa pubblica
in istruzione. «È evidente che anche i dati drammatici sugli
abbandoni scolastici sono collegati a questo progressivo
disinvestimento e alla corrispondente azione di taglio»,
conclude Pantaleo.
E' la Flc -
Cgil a presentare una propria elaborazione, su dati del
Ministero dell'Istruzione, per evidenziare gli effetti delle
politiche degli ultimi 5 anni
l'Unità,
del 15-04-2013, di Luciana
Cimino
Negli ultimi anni, e in
particolare nei mesi scorsi, numerose ricerche lo hanno
dimostrato: la scuola italiana sta subendo una involuzione a
causa della diminuzione repentina ma costante dei fondi
destinati all'istruzione. Dopo l'Eurostat (che qualche
giorno fa metteva il nostro paese all'ultimo posto in Europa
per percentuale di spesa pubblica in scuola e università) è
la Flc - Cgil a presentare una propria elaborazione, su dati
del Ministero dell'Istruzione, per evidenziare gli effetti
delle politiche degli ultimi 5 anni: riduzione dei docenti e
del personale tecnico amministrativo, aumento degli alunni,
meno servizi, meno laboratori e finanche meno scuole. I
docenti sono diminuiti di 81.614 unità, al contrario si sono
iscritti 90.000 alunni in più, «Il che - nota il segretario
generale, Mimmo Pantaleo - avrebbe dovuto determinare un
incremento di circa 9.000 docenti in più». Il dato avrebbe
come conseguenza logica la creazione di 4.500 classi in più
(con media di 20 alunni per classe) mentre invece ne sono
state tagliate oltre 9.000. «La conseguenza è evidente: le
cosiddette classi pollaio sempre più numerose, spesso anche
oltre il tetto massimo previsto per norma». I tagli di
classi e docenti si sono verificati ovunque: meno 28.032
posti nella primaria, meno 22.616 nella secondaria di primo
grado, diminuzione di 31.464 anche nella secondaria di
secondo grado, (eccetto la scuola dell'infanzia dove le
sezioni registrano un piccolo aumento). Le stesse
istituzioni scolastiche, secondo l'Flc-Cgil sono state
consistentemente ridotte, quasi il 20%, «sono cioè scomparse
quasi 2000 scuole ». Ed è anche il personale tecnico
amministrativo, quindi, a pagare: 17,5% dei posti in meno in
cinque anni, «ciò significa - dice ancora Pantaleo - meno
sicurezza, meno servizi, meno laboratori ». Mentre il Gilda
prende spunto dai dati emersi dal rapporto semestrale sulle
retribuzioni dei dipendenti pubblici presentato la scorsa
settimana e parla degli insegnanti come di «un esercito che,
suo malgrado, marcia verso la povertà ». Dallo studio,
infatti, risulta che nel 2011 i compensi sono in media
diminuiti dello 0,8%. Lo stesso nel 2012. Sottolinea Rino Di
Meglio, coordinatore nazionale, che «il contratto degli
insegnanti è fermo dal 2009, con una perdita della sola
inflazione che su pera il 15%. Al calo delle retribuzioni si
aggiunge poi l'aumento della pressione fiscale, un mix
micidiale». Non se ne esce, secondo i sindacati, se non con
una immediata inversione di tendenza. «Chiediamo alla
politica di farsi carico delle emergenze della scuola
italiana - dichiara la Flc-Cgil - e che si avvii un piano di
investimenti: più risorse, più scuola, più insegnanti e
personale Ata vogliono dire più qualità, livelli di
istruzione più alti». Risponde per primo il Pd con la
responsabile scuola, Francesca Puglisi che concorda con il
sindacato dei lavoratori della conoscenza e denuncia: «ho
chiesto al ministro Profumo di venire a riferire in Aula per
far conoscere le linee d'intervento per il prossimo anno
scolastico in modo da segnare un'inversione di tendenza che
il Pd ha sempre chiesto e a cui non è mai stata data
risposta». «In questi anni - aggiunge Puglisi - i tagli
drammatici agli organici della scuola, mentre la popolazione
scolastica continuava a crescere, hanno abbassato la qualità
dell'insegnamento, rendendo impossibile qualsiasi azione per
innalzare il livello di apprendimento degli studenti e
combatterne la dispersione». Secondo Puglisi le tracce per
una inversione di rotta si possono però scorgere nel
documento presentato dai 10 «saggi» indicati dal Presidente
Napolitano. Documento già elogiato anche dallo stesso
ministro in carica Francesco Profumo. «Il documento - dice
Puglisi - indica la necessità di tornare a investire nel
tempo pieno e nel tempo scuola nella secondaria per colmare
i divari territoriali e sociali nei livelli di
apprendimento». Intanto la Flc-Cgil annuncia che è pronta a
proseguire «la campagna per la qualità della scuola pubblica
statale dimostrando ciò che si può mettere immediatamente in
campo nel breve e medio periodo ».
I ddl vertono su:
compenso minimo legale; modifica della Legge Fornero;
ammortizzatori e tutele sociali universali; giustizia
previdenziale; statuto del lavoro autonomo e professionale;
diritto allo studio".
Il Diario del Lavoro,
del 12/04/2013
Oltre 50 associazioni tra cui 20 Maggio
-Tutelare i Lavori, Giovani Democratici, Lavoro & Welfare,
insieme ai deputati del gruppo Under 35 del Partito
democratico hanno presentato otto disegni di legge che sono
stati presentati oggi in Paramento. I ddl vertono su:
compenso minimo legale; modifica della Legge Fornero;
ammortizzatori e tutele sociali universali; giustizia
previdenziale; statuto del lavoro autonomo e professionale;
diritto allo studio". “I disegni di legge – spiega Fausto Raciti, deputato e
segretario dei Giovani Democratici - sono il frutto di un
intenso lavoro di partecipazione che nel corso degli ultimi
due anni ha visto, traverso la campagna Alta partecipazione
promossa dai Giovani democratici, la partecipazioni di più
di 50 diverse associazioni a cui complessivamente fanno
riferimento diverse tipologie di lavoratori precari ,
autonomi, delle professioni”. “Queste proposte – dice Fausto Raciti - sono a disposizione
di tutto il Parlamento e spero davvero che possano diventare
un movimento di confronto costruttivo e meno politicistico
anche coi nostri colleghi del Movimento 5 Stelle. Sono
provvedimenti che offriamo alla loro firma e che con un voto
di fiducia potrebbero diventare immediatamente legge.” “Si è trattato di un lavoro – ha detto Giuditta Pini,
deputata del Partito Democratico – di vera politica. Siamo
riusciti a dare voce attraverso questi provvedimenti ad un
mondo estremamente eterogeneo che riteniamo possano essere
sottoscritti anche dagli altri. Si tratta di un mondo a cui
noi stessi, giovani deputati, facciamo parte e che vorrei
che fossero ampiamente condivise anche con i nostri colleghi
in particolare con quelli del Movimento 5 Stelle e sederci
insieme intorno ad un tavolo per arrivare ad una rapida
approvazione”. Della delegazione dei Deputati del Pd che hanno fatto loro
le otto proposte di legge fa parte anche Marianna Madia.
“Personalmente – ha spiegato – presenterò due distinti
disegni di legge uno relativo al contratto Unico di
inserimento formativo (CUIF) che ha come obiettivo quello di
facilitare e di uniformare l’accesso al lavoro e in questo
modo modificare anche la riforma Fornero che su questo punto
non ha fatto nulla lasciando invariata le oltre 40 tipologie
contrattuali esistenti, e la realizzazione di un’indennità
di disoccupazione allargata ai lavoratori che oggi non ce
l’hanno”. “Lo statuto dei lavori autonomo riguarda soci di
cooperative, collaboratori occasionali imprenditori liberi
professionisti – spiega Cesare Damiano, presidente di Lavoro
&Welfare - e prevede il sostegno per le microimprese
sostegno all’imprenditoria giovanile sostegno alla maternità
promozione dei fondi mutualistici, marchi di qualità,
investimenti in R&S, semplificazione degli adempimenti
legislativi. E inoltre introduce il tema dell’equo
compenso”.
Centinaia di persone nel
pomeriggio del 10 aprile hanno animato a Roma il presidio
Tuttoscuola, del
12-04-2013
Centinaia di persone ieri pomeriggio 10
aprile hanno animato a Roma il presidio presso il ministero
dell'Istruzione indetto dalla Flc Cgil, per consegnare al
ministro Profumo la piattaforma elaborata dal Coordinamento
nazionale dei lavoratori precari della conoscenza Flc Cgil.
All'appello fatto nei giorni scorsi dal segretario generale
Domenico Pantaleo alle Istituzioni e alla Politica hanno
risposto i parlamentari Francesca Puglisi, Giovanni
Barozzino, Alessia Petraglia e Massimo Cervellini. Pantaleo ha illustrato la piattaforma, si è dichiarato
contrario al concorso e al decreto sugli inidonei e ha
chiesto in particolare risposte su TFA ordinario e speciale,
assunzioni, organici e piani pluriennali di stabilizzazioni
in tutti i comparti, reclamando l'immissione in ruolo di
tutto il personale ATA, la proroga dei contratti negli
istituti di ricerca e università e il superamento dei
problemi legati al pagamento delle ferie e degli stipendi
del personale precario. Il ministro ha riconosciuto la necessità di un aumento del
finanziamento destinato alla scuola, alla ricerca,
all'università e all'Afam, impegnandosi a trovare le risorse
necessarie. Allo stesso tempo ha riconosciuto l'assoluta
necessità, per il comparto scuola, di un Organico
Funzionale, con il superamento della tradizionale
distinzione tra organico di fatto e organico di diritto, per
un concreto miglioramento del sistema scolastico e un
contemporaneo allargamento del numero del personale, così
come storicamente richiesto dalla Flc Cgil. Per i supplenti della scuola statale ha assicurato il
superamento delle problematiche tecniche che fino ad oggi
hanno impedito la certezza e la regolarità del pagamento
dello stipendio e delle ferie non godute. Per il personale
ATA ha accettato di sostenere la richiesta di immissione in
ruolo per i Collaboratori Scolastici e si è impegnato a
trovare una soluzione efficace per gli Assistenti Tecnici e
Amministrativi. Per l'Università ha auspicato uno sblocco del turnover,
accettando la richiesta contenuta nella piattaforma di un
nuovo consistente reclutamento di Ricercatori a Tempo
Determinato di tipo B (cioè con tenure track). Per la
Ricerca ha assicurato non solo la proroga di tutti i
contratti in scadenza negli Enti Pubblici di Ricerca che
fanno riferimento al Miur, ma ha anche accettato di farsi
portatore della stessa istanza presso il ministero della
Funzione Pubblica. Per l'Afam ha assicurato di aver
predisposto tutti gli atti necessari per l'emanazione del
regolamento per il reclutamento e di avere avviato le
procedure per la trasformazione delle graduatorie,
necessaria per la stabilizzazione di tutto il personale
precario.
Durante una conferenza
stampa tenuta oggi da CGIL e FLC Sicilia sono state
contestate le iniziative dell’assessore regionale al ramo e
del presidente della Regione sulla riforma della formazione
professionale
La Tecnica della Scuola,
del 12-04-2013, di P.A.
Questo il comunicato della Flc-Cgil Sicilia.
Sulla formazione professionale “l’azione del
governo regionale è opaca e incerta; è stato abbandonato un
percorso di rinnovamento avviato col precedente governo, in
assenza però di un altro progetto, con un salto nel buio che
sta gettando nel caos il sistema e che rischia di produrre
licenziamenti a raffica”.. “Da anni ci battiamo per il
rinnovamento, la messa in trasparenza e l’efficienza del
settore - ha detto Giusto Scozzaro, segretario generale
della FLC CGIL Sicilia - e contro qualunque forma di
malaffare e di clientelismo. Al presidente della regione
chiediamo adesso di prospettarci un percorso credibile”. Secondo i conti della FLC sono 3.551 i lavoratori della
formazione professionale che rischiano il licenziamento a
partire da giugno a causa “dell’incapacità dell’esecutivo -
ha sostenuto Scozzaro - di governare la crisi, di
intervenire su procedure e tempi dei pagamenti che per
quanto riguarda gli enti si protraggono anche fino a 5 anni,
cosa che ha messo in crisi innanzitutto quelli sani, con le
conseguenze immaginabili sui lavoratori”. Per la formazione
professionale FLC e CGIL chiedono un percorso di
“discontinuità politica, etica e formale rispetto al passato
- ha detto Antonio Riolo, della segreteria regionale CGIL-
che si sostanzi in un piano preciso concordato con le parti
sociali”. Sollecitano però anche una “continuità nell’azione
della pubblica amministrazione per costruire un sistema di
formazione efficiente e collegato al mercato del lavoro,
tutelando i lavoratori”. Azione amministrativa peraltro
“messa oggi a dura prova - ha sottolineato Giovanni Lo
Cicero, della FLC - anche dal fatto che al momento nel
dipartimento formazione, a causa dei processi di mobilità
generalizzata operati dal governo, mancano le persone che
possano gestire con competenza pratiche e processi”. Non convince la FLC e la CGIL l’ipotesi di mandare in
aggiornamento fino a 5 mesi i lavoratori degli enti. “Si
andrebbe in contrasto - ha detto Scozzaro - con la normativa
Ue sugli aiuti di Stato che prevede il cofinanziamento dei
gestori fino al 40%. Lascia inoltre interdetti- ha aggiunto
- l’ipotesi di ‘indennità dignitosa’ per i lavoratori, né
quantificata dal governo né specificata sotto il profilo
giuridico normativo”. Quanto alle dichiarazioni del governo
sull’Avviso 20, il sindacato parla di “mistificazione”,
visto che “la seconda annualità dell’Avviso secondo le
previsioni doveva essere finanziato col Piano giovani.
Probabilmente - ha rilevato Scozzaro - si fa questo per
nascondere il fatto che si è deciso di utilizzare altrimenti
le risorse”. “La riforma della formazione professionale - ha
sostenuto il segretario generale della FLC CGIL, Domenico
Pantaleo - deve garantire anche un governo sociale della
situazione e questo non può che avvenire attraverso il
confronto con i soggetti rappresentativi. Al livello
nazionale - ha aggiunto - al nuovo esecutivo chiederemo un
governo nazionale di un settore che con diverse peculiarità
è in crisi in tutto il paese”. In Sicilia, per il confronto
CGIL e FLC propongono la propria piattaforma le cui parole
chiave sono apertura di un tavolo di crisi, definizione del
fabbisogno pluriennale e sostenibilità finanziaria, piano
pluriennale di ammortizzatori sociali finanziato dalla
regione, utilizzo mirato straordinario e transitorio delle
risorse comunitarie, ripristino del ruolo di ciascun
soggetto col rilancio del principio di responsabilità di
ciascun soggetto, pubblica amministrazione compresa, e delle
sanzioni in caso di non applicazione delle regole, rispetto
delle direttive comunitarie in materia di pagamenti dei
fornitori di beni e servizi”. In cantiere la CGIL ha già
assemblee dei lavoratori e altre iniziative che potrebbero
preludere a uno sciopero generale del settore. Al governo
che si è detto tra le altre cose pure disponibile a pagare
direttamente i lavoratori, questi ultimi, su invito del
sindacato, faranno avere i propri codici Iban.
Perché scuola significa,
al di là dei mezzi che si utilizzano per fare lezione,
soprattutto rapporto educativo
l'Unità, del 12-04-2013,
di Roberto Carnero
CON UN RECENTE DECRETO FIRMATO DAL MINISTRO
DELL'ISTRUZIONE FRANCESCO PROFUMO si è data attuazione a un
punto importante della cosiddetta «Agenda Digitale», che
tanto sta a cuore a Mario Monti: dall'anno scolastico
2014-2015 i libri di testo adottati dovranno essere
esclusivamente in formato elettronico o tuttal'più misto
(cartaceo con una estensione elettronica). Quando si parla
di questi argomenti, è sempre consistente il partito degli
entusiasti, pronti a cantare «le magnifiche sorti e
progressive» del cambiamento in senso moderno della scuola.
Ci sono però anche alcune perplessità. Ad esempio c'è chi fa
notare che il risparmio per le famiglie argomento portato a
suffragio di questa innovazione è soltanto teorico: perché
per utilizzare i libri digitali bisogna acquistare specifici
supporti informatici (computer portatile, tablet, e-reader
ecc.). In molti, inoltre, esprimono la preoccupazione che
l'eliminazione dei libri cartacei determini un problema di
mancanza di punti di riferimento certi, stabili, autorevoli,
in un ambiente virtuale, quello di Internet, in cui si trova
tutto e il contrario di tutto. Tra costoro si colloca il
filosofo Giovanni Reale, autore, presso l'Editrice La
Scuola, di un vivace pamphlet intitolato Salvare la scuola
nell'era digitale (pagine 110, curo 10.00). Reale pone
l'accento su un aspetto che spesso sfugge, ma che sul quale
non si può non essere d'accordo: «Occorre non trasformare in
'fini' quelli che sono semplici 'mezzi', che pure hanno una
grande e innegabile portata, ma che, comunque, devono
assolvere non altro che la loro funzione di mezzi». In altre
parole, è un po' semplicistico e illusorio pensare di
migliorare la qualità dell'insegnamento soltanto attraverso
l'introduzione di nuovi strumenti tecnici. Reale perciò
cerca di smontare la visione che sta alla base delle nuove
normative, una visione «fondata su un paradigma culturale
fortemente 'integralistico', che ingabbia la realtà nelle
dimensioni della tecnologia e dell'informatica». Perché
scuola significa, al di là dei mezzi che si utilizzano per
fare lezione, soprattutto rapporto educativo. E la qualità
di un rapporto è data dalle persone. Forse, dunque, sarebbe
il caso di partire da lì, dal valorizzare, sul piano
motivazionale e anche su quello economico, i professionisti
della scuola, cioè i docenti.
Corrieredellasera.it, del 10-04-2013, di Valentina Santarpia
L'Italia maglia nera per il
digitale nelle scuole. Le classi 2.0, cioè completamente
attrezzate per la didattica multimediale, sono solo 14 in
tutta Italia e l'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione
e lo sviluppo economico, conferma: nella classifica generale
dei 34 Paesi del mondo occidentale, siamo sopra solo a
Romania e Grecia. Tant'è vero che «con l'attuale tasso di
diffusione sarebbero necessari altri 15 anni per raggiungere
i livelli registrati ad esempio in Gran Bretagna, dove l'80%
delle classi può contare su strumenti didattici
informatici». Per capirci: nella scuola elementare e in
quella media solo il 6% delle classi è equipaggiato, contro
una media Ocse del 37%. Abbiamo un computer a disposizione
per ogni 15 studenti nella scuola primaria, uno ogni undici
alle medie, uno ogni otto alle superiori. Il punto è che le
risorse sono sempre troppo esigue: l'Italia spende ogni anno
cinque euro a studente per la digitalizzazione, in tutto 30
milioni, pari allo 0,1% del budget del ministero per il
capitolo Istruzione.
Eppure qualcosa si muove. La
Lim, la lavagna interattiva multimediale, introdotta in
quasi 70 mila classi sparse su tutto il territorio (21,6% di
copertura delle aule), si sta rivelando un «cavallo di
Troia» per il digitale tra i banchi. A settembre, ha
annunciato il ministro Profumo, saranno installate altre
4.200 nuove Lim, che arriveranno così a 74 mila. Le
cosiddette classi 2.0, quelle attrezzate per le lezioni
multimediali, passeranno da 416 a 3 mila (+62%). E
l'adozione, dall'anno scolastico 2014/2015, di libri
esclusivamente digitali o in versione mista, dovrebbe
tagliare i costi per le famiglie dal 20 al 30%. Ma spingere
l'innovazione non è sempre semplice: al decreto che promuove
gli ebook si oppone l'associazione librai di Confcommercio:
«Altro che risparmio, i genitori degli studenti ora dovranno
comprare pc e tablet: il libro digitale finirà per
alimentare il mercato delle fotocopie illegali».
Corrieredellasera.it, del 10-04-2013, di Ar. To.
Professor
Antinucci, cosa cambia nella scuola?
«Ben poco
oggi. Quello che le tecnologie cambieranno è qualcosa che i
ragazzi già conoscono e che praticano ogni giorno. Le
tecnologie hanno la capacità di modificare il modo di
apprendere, e si arriva a scuola già con una lunga
esperienza. Si usa il cellulare, si interagisce con i
videogiochi, la stessa televisione è un potenziale di
esperienze enorme rispetto al passato: tutto ciò attiva il
modo di apprendere per esperienza anche per cose distanti o
complesse». Intende dire che... «Ci sono due modi di apprendere. Il primo è per esperienza e
con esso la conoscenza si costruisce cercando,
sperimentando, tentando: è il modo che preferiamo, quello
che si è evoluto con noi più lungamente. Poi c'è quello
scolastico: consiste non nel costruire la propria conoscenza
ma nell'assorbire la conoscenza già preparata da altri con
un lungo e faticoso processo di assimilazione, attraverso la
tipica lettura del manuale. Richiede attenzione, sforzo e
non ci piace affatto. Il primo è quello che viene
naturalmente favorito dalle nuove tecnologie, mentre il
secondo domina nella scuola». Per lei vince il primo? «Certo, senza dubbio. I ragazzi oggi rifiutano la scuola
tradizionale perché la giudicano irrilevante. Sono obbligati
a seguire vecchi percorsi, ma non li sentono loro. Li
considerano come qualcosa di estraneo a quanto sperimentano
ogni giorno, e cioè che si apprende facendo e sperimentando
non stando seduti a leggere. E dico questo ricordando che la
pratica, su cui erano fondate le nostre antiche scuole, era
interamente basata sul modo di apprendere per esperienza: si
imparava andando a bottega e facendo, partecipando ad
attività vere, che producevano risultati veri; magari
sbagliando e chiedendo aiuto occasionalmente ad altri di
maggiore esperienza, non ricevendo l'intera conoscenza da un
manuale che poi attendeva, spesso vanamente, di essere messo
in pratica». Ma nella scuola... «Per ora possiamo dire che si è visto poco, anzi nulla.
Fuori sta avvenendo un cambiamento epocale. Dentro, tra i
banchi, nelle aule, in questo momento c'è solo una mutazione
di apparenza. Si è cambiata la penna con la scrittura
elettronica (e non sempre!), ma l'enorme potenziale delle
tecnologie digitali resta quasi totalmente inutilizzato». Le nuove tecnologie dunque muteranno il modo di imparare? «Sì, è qualcosa che avverrà inesorabilmente. O la scuola se
ne rende conto o diventerà inutile oltre che sorpassata. La
forza di attrazione del modo di apprendere per esperienza,
supportata dalla piena potenza delle tecnologie interattive,
non lascia dubbi in proposito».
Corrieredellasera.it, del
10-04-2013, di Armando Torno
Professor Reale, perché lei in
«Salvare la scuola nell'era digitale», appena uscito per la
casa editrice La Scuola di Brescia, sostiene che occorre
salvarla dalle nuove tecnologie?
«Perché rischiano di
distruggere l'antico rapporto tra allievo e maestro e
sostituirsi ad esso. Il digitale può annullare la cultura
della scrittura e i vantaggi che ha dato in due millenni e
mezzo. Qualche informatico ha già detto che i docenti
dovranno trasformarsi in tecnici multimediali. Ma la scuola
ha un valore etico che aiuta a diventare uomini: è questa la
sua caratteristica, superiore ai contenuti e alle nozioni».
Dunque lei non
introdurrebbe...
«No, desidero che venga
introdotta l'informatizzazione nelle scuole. Tuttavia questi
mezzi non devono essere il fine dell'istruzione, ma dei
supporti. Non vanno imposti come scopi. La scuola dovrà
inoltre aiutare il giovane a non diventare vittima
dell'informatica, come già sta accadendo».
Vittima dell'informatica?
«Sì, tale è chi cade in una
forma di autismo: significa vedere e giudicare il mondo in
rapporto al proprio computer. Ci sono aziende negli Usa che
praticano la sospensione dell'informatica un giorno ogni
settimana per poter salvare i rapporti umani. Che si
realizzano sempre tra persona e persona».
Anche la lettura allora
andrebbe salvata?
«Ci sono soggetti vinti dalle
tecnologie: per loro tutto si è rimpicciolito e oggi i
grandi sacerdoti dei nuovi mezzi di lettura confessano che
non saprebbero più leggere un romanzo di Dostoevskij o
un'opera come Guerra e pace di Tolstoj. La lettura
informatica mi sembra, inoltre, che limiti la capacità di
concentrazione e di astrazione».
Ma la Rete ha ampliato le
possibilità di ricerca...
«Sì, è vero, ma allo stesso
tempo ha tolto le capacità di assimilare l'oggetto della
ricerca e di capirlo a fondo. Di solito, si confonde la
ricerca con l'abilità del taglia e incolla. In un concorso a
premi sull'Europa, ho potuto constatare che tre testi erano
sostanzialmente identici. Rimproverati, i ragazzi hanno
contestato il rimprovero: erano convinti di aver fatto un
lavoro originale copiando le medesime fonti. Ci sono tesi
ormai riprese completamente da Internet. Negli Usa si
comincia a punire questo plagio».
Lei dunque considera il
digitale...
«Come molte altre cose esso
reca vantaggi ma, allo stesso tempo, svantaggi uguali e
contrari; se non superiori. La scuola deve aiutare a usare
gli strumenti e a non diventare vittima di essi. Vorrei
chiudere questo dialogo con una frase di Clifford Stoll, uno
dei fondatori di Internet: "L'insegnamento non può ridursi a
insegnare ai giovani a picchiettare su una tastiera otto ore
al giorno"».
Mercoledì 10
aprile, presidio sotto il ministero dell'Istruzione con la
Flc Cgil: "Il futuro dei precari è il futuro dell'Italia".
Lettera ai neo eletti di Camera e Senato: "Superare la
precarietà con una rete di alleanze sociali e politiche"
Rassegna.it, del 10-04-2013
Mercoledì 10 aprile tornano
in piazza i precari della conoscenza: a Roma c'è il
presidio nazionale sotto il ministero dell'Istruzione, con
lo slogan "Il futuro dei lavoratori precari della conoscenza
è il futuro dell'Italia". E' quanto si legge nella nota
diffusa oggi (9 aprile) dalla
Flc Cgil, che
organizza la mobilitazione.
"Da anni - si legge - in
Italia si assiste ad un progressivo
peggioramento delle
condizioni di lavoro di centinaia di migliaia di donne e
uomini. Lavoratrici e lavoratori come tutti noi che
con stipendi miseri non riescono ad arrivare alla fine del
mese, che vivono il presente con ansia e il futuro come
permanente incertezza".
"Diritti
negati, protezioni sociali inesistenti, l'impossibilità di
programmare una propria vita, il continuo vivere
senza un'occupazione stabile e duratura: tutte condizioni
che oggi accomunano intere generazioni. È il prezzo pagato
alle politiche neoliberiste che hanno trasformato il lavoro
in merce e che hanno fatto prevalere gli interessi del
mercato sul benessere delle persone". E' la sintesi della
lettera che il segretario generale della Flc, Domenico
Pantaleo, ha inviato ai neo eletti alla Camera e al Senato.
Il segretario, "nel ricordare
l'appuntamento del 10 aprile con il presidio sotto il
Ministero dell'Istruzione, sottolinea anche che
per superare la precarietà
serve una vasta rete di alleanze sociali e politiche.
Il conflitto, la funzione dei corpi intermedi e dei
movimenti sono decisivi per ridare un senso alla
rappresentanza politica e sociale".
Appuntamento a Roma il 10
aprile, alle 14 davanti al ministero.
-
Quota 96, la Corte prende
tempo
Quella del 2
aprile, ha precisato il legale, era una udienza di
discussione unicamente per la fase cautelare, cioè in
relazione alla richiesta di essere autorizzati a presentare
appunto «in via cautelare e con ogni più ampia riserva» la
domanda di pensionamento
ItaliaOggi, del 09-04-2013, di Franco Bastianini
C'è delusione tra i docenti e
il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario che hanno
chiesto ai giudici di dichiarare illegittimo il rifiuto
dell'amministrazione scolastica a collocarli a riposo avendo
maturato i requisiti richiesti dalla normativa previgente
l'entrata in vigore dell'art. 24 del decreto legge 201/2011,
non entro il 31 dicembre 2011, bensì entro il termine
dell'anno scolastico 2011/2012.
Dalla Corte dei Conti del
Lazio, che si riuniva il 2 aprile, gli oltre duemila docenti
e personale Ata che avevano sottoscritto un ricorso
predisposto dalla Uil-Scuola si aspettavano infatti se non
una sentenza favorevole quanto meno una indicazione su
tempi, possibilmente brevi, per giungere ad una decisione.
Non è andata come speravano e la spiegazione l'ha fornita
l'avvocato che segue il loro ricorso.
Quella del 2 aprile, ha
precisato il legale, era una udienza di discussione
unicamente per la fase cautelare, cioè in relazione alla
richiesta di essere autorizzati a presentare appunto «in via
cautelare e con ogni più ampia riserva» la domanda di
pensionamento con la procedura on-line senza che ciò potesse
comportare per il ministero dell'istruzione il
riconoscimento del diritto al trattamento pensionistico. Ha
inoltre sottolineato di avere avanzato la richiesta di
fissazione dell'udienza di merito (cioè per l'accertamento
del diritto ad essere collocati in quiescenza con i criteri
antecedenti la normativa Fornero) in tempi brevi
evidenziando, ancora una volta, la necessità che la
pronuncia della Corte dei Conti possa intervenire in tempo
utile per consentire il collocamento in quiescenza prima
dell'avvio del prossimo anno scolastico. Sulla richiesta di
fissazione dell'udienza di merito il consigliere, in
funzione di Giudice Unico, si è riservato di depositare una
Ordinanza nei prossimi giorni. Ha invece respinto, con
ordinanza n. 117/2013, la richiesta di sospensione di atti
del Miur e dell'Inps, ex gestione Inpdap, che era
finalizzata a consentire agli interessati di poter
presentare in via cautelativa la domanda di pensionamento.
Un collocamento a riposo di
alcune altre migliaia di docenti e di personale Ata avrebbe
assunto una particolare rilevanza alla luce del ridotto
numero di personale che è stato autorizzato a cessare dal
servizio il prossimo primo di settembre. Un numero di
cessazioni mai così basso, come si ricava dai dati
provvisori provenienti del Ministero dell'Istruzione, non
potrà infatti non ripercuotersi inevitabilmente sulla
definizione del numero dei posti e delle cattedre vacanti e
disponibili per le immissioni in ruolo e per il conferimento
degli incarichi annuali o fino al termine delle attività
didattiche.
È necessario
dar vita ad una nuova cultura orientata ai principi
dell'autonomia responsabile e dell'accountability, dove la
comunità scolastica nel suo insieme risponde in modo
trasparente dei risultati conseguiti.
ItaliaOggi, del 09-04-2013, di Antonio Cocozza* * Università
Roma Tre e LUISS Guido Carli
Da uno studio Eurostat, su
dati 2011, emerge che l'Italia investe solo l'1,1% in
cultura, classificandosi ultima tra tutti i Paesi dell'Ue a
27, mentre la Germania è all'1,8%, la Francia al 2,5% e il
Regno Unito al 2,1%. Inoltre, a seguito dei tagli praticati
negli ultimi anni, la spesa per l'istruzione è giunta
all'8,5%, penultima posizione nell'Ue, prima solo della
Grecia ferma al 7,9 %.A partire da questi dati, nel nuovo
contesto politico istituzionale che si sta formando in
questi giorni, che dovrebbe essere guidato dal contributo
dei saggi scelti dal Presidente Giorgio Napolitano, è
necessario adottare una strategia, il più possibile
condivisa dall'insieme degli attori coinvolti, finalizzata a
perseguire un obiettivo strategico e prioritario per il
Paese: il rilancio della cultura, come volano per lo
sviluppo e del sistema educativo, come bene comune da
salvaguardare al di sopra delle parti, in una prospettiva di
piena e corretta applicazione dell'autonomia scolastica tesa
a valorizzare la scuola nella dimensione di comunità
educante.
Tale scelta risulta essere
ancora più necessaria oggi, poiché la crisi non ha solo un
carattere economico e finanziario, ma affonda le sue radici
nella mancanza di valori condivisi e nell'elevata e
pervasiva conflittualità politica e sociale.
Per queste ragioni, non si
tratta di elaborare ennesime prodigiose riforme, ma di dare
attuazione a norme già esistenti, secondo i principi di
opportunità e adeguatezza, e conseguire alcuni significativi
risultati, frutto di analisi e proposte ragionevoli
elaborate con il concorso responsabile di tutte le
componenti della comunità scolastica, dai docenti, agli
studenti e alle famiglie.
In questa prospettiva,
l'autonomia potrebbe essere considerata la strada maestra
attraverso la quale poter costruire una scuola al passo con
i tempi, più efficace, ma anche maggiormente orientata ai
bisogni degli studenti e alle attese delle famiglie e degli
stakeholders presenti sul territorio.
È necessario dar vita ad una
nuova cultura orientata ai principi dell'autonomia
responsabile e dell'accountability, dove la comunità
scolastica nel suo insieme risponde in modo trasparente dei
risultati conseguiti.
Del resto, come dimostrano le
indagini Ocse degli ultimi anni, i Paesi che conseguono i
migliori risultati educativi hanno sistemi scolastici basati
proprio su questi principi e puntano ad un responsabile
coinvolgimento di tutti gli attori.
Tali indagini evidenziano
alcuni fenomeni tipici del nostro sistema scolastico, sui
quali sarebbe necessario attivare un'accurata riflessione:
necessità di ottimizzare la spesa complessiva per
l'istruzione; estensione e consolidamento dell'autonomia
conferita alle istituzioni scolastiche; revisione di
obiettivi, programmi, tempi e metodologie didattiche, in
funzione del miglioramento dei risultati degli apprendimenti
rilevati dalla ricerca Ocse Pisa; remunerare meglio e
valorizzare il lavoro degli insegnanti; ridurre
drasticamente la percentuale di dispersione scolastica.
In questo quadro così
composito, sono individuabili cinque azioni strategiche
verso le quali orientare gli sforzi e le risorse
disponibili:
a) elaborare un nuovo Testo
Unico della legislazione scolastica, che elimini
sovrapposizioni e prescrizioni contraddittorie su varie
materie, e aggiornare le norme che regolano il funzionamento
degli Organi collegiali interni e territoriali;
b) rendere più funzionale il
riparto di competenze tra stato e regioni previsto dal
Titolo V della Costituzione;
c) costituire un organico
d'istituto, funzionale alla progettazione e gestione del
ciclo scolastico;
d) avviare un sistema di
valutazione di sistema, che analizzi i diversi livelli di
performance, dagli apprendimenti degli studenti, a quelli
dei docenti, fino ai risultati del dirigente scolastico e
dell'istituto, formalmente e sostanzialmente autonomo dal
Miur;
e) dare vita a progetti mirati
al contrasto alla dispersione scolastica, alla formazione
dei docenti e alla diffusione delle nuove tecnologie.
In definitiva, si tratta di
lanciare una sfida fondata sulla valorizzazione della
ricerca e dell'innovazione, sull'ampliamento delle
competenze e il sostegno di comportamenti personali e
istituzionali virtuosi ed eticamente responsabili.
Retribuzioni
adeguate da maggio. Emissione straordinaria ad aprile per
gli arretrati
ItaliaOggi, del 09-04-2013, di Alessandra Ricciardi
Il nuovo
decreto annulla le progressioni del 2013.
È fatta. Il lungo slalom, durato quasi
un anno, per portare a pagamento gli scatti di anzianità
maturati nel 2011 è riuscito, tra manifestazioni, sindacati
divisi, tentennamenti dell'amministrazione, risorse carenti,
accordi. Il Tesoro (messaggio 051 del 5 aprile scorso) ha
dato disposizioni perché gli aumenti contrattuali per il
2011 siano pagati da maggio e che ad aprile ci sia
un'emissione straordinaria a copertura degli arretrati. Il recupero dell'anno congelato dal decreto legge n. 78/2010
sarà valido ai fini giuridici per tutti i lavoratori della
scuola, mentre i benefici economici, nell'immediatezza della
conquista dello scalone, interessano circa 180 mila
insegnanti, che vedranno crescere la busta paga di circa
cento euro al mese. Sui 1400 euro gli arretrati. Resta ora
da recuperare il 2012, l'ultimo anno del blocco. Anche in
questo caso andranno certificati i risparmi conseguiti dal
sistema dopo i tagli della riforma Gelmini, si dovrà
verificare se c'è capienza per dare gli aumenti oppure se si
dovrà ricorrere, come avvenuto in questa circostanza, al
fondo di funzionamento della scuola per coprire quanto
mancava. Ma il decreto 78 consente di recuperare per via
negoziale tutti gli anni di servizio del triennio congelato.
E dunque, anche se sarà una trafila lunga, ci sono i margini
perché si possa trattare, come fatto con l'intesa siglata il
13 marzo scorso. Discorso diverso invece per il futuro.
Nell'aria, infatti, c'è già aria di nuovi blocchi: il
decreto del presidente della repubblica con il quale si
dispone la proroga per il 2013/2015 del blocco dei contratti
pubblici, e con essi di tutte le progressioni individuali,
comprende gli scatti di anzianità nella scuola per il 2013.
Il decreto, inviato per i controlli di rito al Consiglio di
stato prima della firma definitiva, prevede all'art. 1,
comma 1 lettera b), «la proroga al 31 dicembre 2013, con
effetto sull'anno 2014, dei blocchi introdotti dall'art. 9,
comma 23, del dl 78/2010, riguardanti il personale docente,
educativo ed Ata della scuola». Il dpr si è reso necessario,
si legge nella bozza di relazione tecnica, per conseguire i
risparmi fissati dall'art. 16, comma 1, del dl 98/2011,
convertito con modificazioni in legge 15 luglio 2011 n. 111.
Si tratta, ha precisato il Tesoro, di obiettivi di
risparmio, valutati in 2,7 miliardi di euro, che sono stati
già scontati ai fini dell'indebitamento netto. Per cui senza
il decreto ci sarebbe un buco nel bilancio dello stato.
Insomma, anche se il premier Mario Monti non ponesse alla
firma del capo dello stato Giorgio Napolitano il
provvedimento, è il ragionamento del ministero del tesoro
guidato da Vittorio Grilli, si tratterebbe solo di un
rinvio, il nuovo governo non potrebbe fare a meno di
adottarlo. «Per noi il blocco degli scatti va rimosso senza
far gravare il ripristino a carico del salario accessorio di
altri lavoratori», attacca Mimmo Pantaleo, numero uno della
Flc-Cgil, da sempre contrario a risoluzioni per via
negoziale (infatti l'intesa all'Aran non reca la sua firma),
«l'unica via di uscita è ottenere il ripristino dei rinnovi
dei contratti». Per Francesco Scrima, segretario della Cisl
scuola, «lo sblocco degli scatti è il risultato di un'azione
sindacale concreta e utile per tutti i lavoratori. Senza
attendere l'arrivo di un presunto governo amico». Il
segretario Uil scuola Massimo Di Menna ammette: « Abbiamo
superato, sostenuti dalla mobilitazione del personale, una
lunga serie di ostacoli posti dal governo, dal ministero,
dalle lentezze di una amministrazione che non si fida di se
stessa, per ripristinare un diritto...Ora si ricomincia».
Parla di «scelta utile a difesa dell'unico strumento di
incremento oggi disponibile delle paghe dei lavoratori»,
Marco Paolo Nigi, numero uno dello Snals-Confsal, e intanto
Rino di Meglio, coordinatore Gilda, chiede di superare
l'attuale situazione concentrandosi « sull'insegnamento
attivo e la sua valorizzazione».
ScuolaOggi, del 08-04-2013, di Pippo Frisone
Non ci voleva il mago Otelma
per prevedere gli effetti della riforma Fornero sul
personale della scuola.
A tempo oramai scaduto, il
Miur ha comunicato alle OO.SS. i dati in suo possesso e
rilevati al 20 marzo, distinti per regioni, province e per
ordini di scuola. E non solo. Non tutti sanno però che
esistono ben 15 modi di andare in pensione o di cessare il
proprio rapporto di lavoro con lo Stato.
Si cessa dal servizio per i
motivi più disparati. Dalle dimissioni volontarie all’età,
dall’inidoneità fisica all’inabilità, dall’insufficiente
rendimento al superamento dei limiti per malattia, dal
licenziamento con preavviso a quello senza preavviso, dalla
decadenza dell’impiego alla destituzione di diritto e via
discorrendo.
Ma sono le dimissioni
volontarie, il raggiungimento dell’anzianità massima di
servizio o dell’età e le pensioni anticipate a costituire
oltre l’80% del totale delle cessazioni.
Quel che più colpisce nei dati
del Miur è il netto calo dei pensionamenti rispetto al
2011/12 che precipitano al di sotto del 50%. Il totale
nazionale riferito al personale docente ammonta appena a
10.009 unità di cui 3.187 alle superiori, 3.090 alla
primaria, 2.439 alla media e 1.293 all’Infanzia.
La regione con più alto numero
di pensionamenti è la Lombardia con 1.228, seguita dalla
Sicilia con 1.162 mentre quella col più basso numero è il
Friuli con 57 seguita dal Molise con 61.
Quanto alle province è in
testa Milano con 533 pensionamenti di cui 53 all’Infanzia,
172 alla Primaria, 140 alla Media, 168 alle Superiori.
Il discorso cambia col
personale ATA. I pensionamenti in questo settore ammontano a
3.343 unità di cui 756 Amministrativi, 172 Tecnici, 2.180
Collaboratori Scolastici, 224 DSGA, 6 Guardarobieri,2 Cuochi
e 3 ex Responsabili Amministrativi.
La prima regione tra gli Ata
risulta essere la Sicilia con 487 pensionamenti contro i 325
della Lombardia , 290 della Puglia,187 del Piemonte e 177
della Toscana.
A Milano i pensionamenti degli
Ata precipitano a 141 unità di cui, 44 A.A., 8 AT, 82 CS, 7
DSGA.
Il calo delle cessazioni, pur
se generalizzato, avrà un effetto più devastante in quelle
regioni che a tale calo aggiungeranno quello sulle
iscrizioni e quindi degli organici, con un effetto
moltiplicatore sugli esuberi.
Meno pensionamenti vuol dire
minore disponibilità. Meno classi vuol dire riduzione di
organici.
Il combinato disposto tra il
dato preoccupante sui pensionamenti e la riduzione degli
organici, avrà come probabile conseguenza, soprattutto nelle
regioni meridionali, già ora in forte sofferenza, un aumento
esponenziale dell’esubero, con gravi ripercussioni non solo
sulla mobilità interprovinciale in entrata verso tali
regioni ma anche sull’intero meccanismo del reclutamento.
I contingenti per le
assunzioni in ruolo, sia quelli già accantonati alle
procedure concorsuali sia quelli da definire per le
Graduatorie ad esaurimento, dovranno fare i conti con questa
inedita ma non imprevista strozzatura, dovuta al drastico
calo dei pensionamenti.
In presenza di esubero in
organico di diritto, dopo i trasferimenti e passaggi,non si
procede ad alcuna assunzione in ruolo. A meno che per
evitare di buttare a mare qualche concorso o di congelare
più d’una graduatoria ad esaurimento, si decida di allargare
la base delle disponibilità all’organico di funzionamento,
superando una volta per tutti la distinzione fra organico di
diritto e organico di fatto, dando alle scuole una volta per
tutte, organici funzionali triennali e organici aggiuntivi
di rete.
Ma per fare ciò ci vuole un
governo politico degno di tal nome. Non un governicchio, di
scopo o balneare che nella migliore delle ipotesi è quel che
ci aspetta.
Se la scuola non tornerà ad
essere una priorità, qualunque sia il governo che verrà,
sarà condannata a restare quella voluta dal duo
Tremonti-Gelmini, quella dei tagli, inchiodata all’art.64
della L.133/08.
A quaranta giorni dal voto,
purtroppo, di questa priorità non c’è ancora alcuna traccia!
A fine anno i
contratti dei borsisti entrati con l'ultimo bando di quattro
anni fa andranno in scadenza Adesso il rischio è perdere
ancora i migliori «cervelli»
l'Unità, del 07-04-2013, di
Cristiana Pulcinelli
Sono stati
cervelli in fuga. Poi l'Italia li ha richiamati e sono
rientrati per contribuire, secondo le loro parole, «alla
ricerca e allo sviluppo del nostro Paese». Ora rischiano di
dover ripartire o, peggio, di rimanere senza lavoro. 114
firmatari di una lettera al ministro dell'istruzione,
università e ricerca Francesco Profumo chiedono che si
intervenga al più presto per evitare questa "fuga di
ritorno". Si tratta di fisici, chimici, economisti,
ingegneri, biologi vincitori del programma «Rientro dei
Cervelli» per l'anno 2008-2009 e che da quattro anni
lavorano nelle università e nei centri di ricerca italiani.
Il programma «Rientro dei cervelli » era nato nel 2001
proprio per facilitare il ritorno in patria dei ricercatori
che lavoravano all'estero ed è rimasto attivo fino al 2009
quando ha cambiato nome (e regole) in «Programma Rita Levi
Montalcini». Quest'anno sono in scadenza sia i contratti non
rinnovabili dei ricercatori entrati con l'ultimo bando del
vecchio programma, sia quelli - rinnovabili - dei
ricercatori entrati invece con il primo bando del nuovo
programma. E per tutti si profilano grandi problemi. Andrea
Gambassi, fisico teorico che, dopo alcuni anni passati al
Max Planck Institut a Stoccarda, è tornato in Italia per
lavorare alla Scuola Internazionale Superiore di Studi
Avanzati (Sissa) di Trieste, fa parte dei 14 firmatari della
lettera al ministro: «La legge prevedeva che, alla fine dei
quattro anni, ci sarebbe stata una valutazione con
possibilità di essere immessi in ruolo attraverso la
chiamata diretta da parte dell'ente di ricerca. Anche perché
concorsi negli ultimi tre anni non ci sono stati». L'ateneo
quindi può fare domanda al ministero per assumere quel
determinato ricercatore, la domanda deve passare dal Cun,
Consiglio Universitario Nazionale, che a sua volta nomina
degli esperti per valutare l'operato del candidato. Una
procedura piuttosto lunga. «Purtroppo - si legge nella
lettera - la legislazione induce a ritardare la
presentazione delle istanze di chiamata diretta lasciando
pochi mesi per la conclusione del loro iter». In parole
povere, per fare le domande bisogna aspettare che il
contratto sia in scadenza, ma poi rimane poco tempo per la
valutazione e l'iter burocratico. Così, in caso di ritardi
amministrativi, anche se il ricercatore fosse valutato
positivamente, rischierebbe di rimanere senza contratto per
alcuni mesi, mentre se l'esito della domanda fosse negativo,
non rimarrebbe tempo per trovarsi un altro impiego
all'estero senza passare per un periodo di disoccupazione. A
ciò si aggiungono le lungaggini del ministero. Sta di fatto
che «sono passati mesi, ma dal ministero non è arrivata
nessuna comunicazione ufficiale», si legge nella lettera. In
conclusione, i ricercatori, con i contratti in scadenza,
ancora non sanno quale sarà il loro destino. «Vorrei che
fosse chiaro che non chiediamo di essere stabilizzati ope
legis - precisa Gambassi - ma di essere valutati in tempi
certi e con una procedura razionale. E che i tempi delle
risposte siano brevi in modo da programmare il nostro
futuro». Le cose non vanno meglio per quelli che hanno vinto
il bando per il Programma Levi Montalcini. Il contratto dei
vincitori del 2009, selezionati nel 2010, dopo tre anni è in
scadenza. In teoria dovrebbe essere rinnovabile per altri
tre anni, ma al momento i ricercatori ancora non sanno cosa
li aspetta, come mettevano in evidenza in una lettera di
protesta scritta a ottobre scorso. Ma almeno il loro
programma è partito. Quello che viene dopo è solo sulla
carta: il bando del 2010 è stato pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale il 28 febbraio 2012. Il comitato per la
valutazione è stato nominata il 10 settembre, il 17 dicembre
si è insediato e il 21 febbraio scorso ha pubblicato un
comunicato in cui si legge che «concluderà i suoi lavori
entro sei mesi dall'insediamento, salvo eventuali ritardi ».
Il bando del 2011non è mai uscito. Per quello del 2012 le
domande dovevano essere presentate entro il 3 marzo scorso,
ma il concorso di due anni prima non si è ancora concluso.
Naturalmente, tutto questo ha anche un costo, visto che il
ministero ha stanziato fondi per il rientro dei ricercatori:
«Per questo motivo crediamo che il ministero debba
intervenire per evitare uno spreco di energie e risorse
finanziarie ingiustificabile, specialmente in tempi
difficili come quelli che l'Italia sta vivendo», conclude la
lettera a Profumo. «C'è poi da chiedersi - conclude Gambassi
- quale sia la reale credibilità di un programma che,
nonostante venga presentato come esempio concreto di impegno
ministeriale per la promozione dell'eccellenza, lascia di
fatto i suoi beneficiari in un limbo di incertezze che ben
poco ha a che vedere con tale promozione ».
SALVATORE
SETTIS Autore di «Azione popolare»
il
manifesto, del 07-04-2013, di
Roberto Ciccarelli
«I dati
dell'Eurostat sul finanziamento alla cultura e
all'istruzione sono l'esito preoccupante di un'intera
legislatura in cui le cose sono andate sempre peggiorando -
afferma Salvatore Settis, storico dell'arte che insegna alla
Normale di Pisa e autore di Azione popolare (Einaudi) -
Seguono un trend condiviso di fatto dalla destra, dalla
sinistra e dai tecnici, con un peggioramento netto con i
governi di centro-destra. Ma non è che quelli di
centrosinistra abbiano brillato molto. Gli ultimi tagli che
sono stati apportati a tutto ciò che è cultura, ricerca,
università e scuola sono il risultato della crisi. Come
reazione alla crisi in Italia è prevalsa l'idea che la prima
cosa da fare sia tagliare la cultura. Credo che sia
importante sapere che questa è un'idea italiana, ma non di
tutti gli altri paesi. Ci sono paesi come gli Stati uniti
dove Obama ha detto che nei momenti di crisi bisogna
accrescere la spesa per l'istruzione e la ricerca. Mentre l'Inghilterra dei conservatori eccome se ha
tagliato... L'Inghilterra è il caso che ci somiglia di più. Ma in
Inghilterra il punto da cui partivamo è rimasto molto alto.
Al British Museum si continua ad entrare gratis ed è molto
più finanziato dei nostri musei. L'ex ministro francese
Valerie Pecresse, una giovane signora della stessa età della
nostra Gelmini, ma molto meglio di lei - non ci vuole molto,
lei mi dirà - lanciò nel 2009 un piano straordinario della
ricerca di 21 miliardi in 5 anni. Di fronte a questo vorrei
notare anche la contraddizione drammatica, anzi quasi
ridicola, fra il continuo uso dello slogan sviluppo e
crescita, crescita e sviluppo, e poi non si fanno le cose
che servono ad entrambi. Nel frattempo sono stati trovati i 40 miliardi per le
imprese e gli enti locali. Perché all'emergenza dei tagli
alla cultura, che certo non è dell'altro ieri, non è stata
data una risposta altrettanto celere? Le priorità stabilite dai governi italiani rispondono ad
un'economia miope e non lungimirante che non contiene
innovazione. Per carità il problema delle imprese e dei
comuni è assai grave, ma il fatto che abbiano trovato 40
miliardi e nemmeno 1 milione per la cultura fa parte di
questo ordine di priorità. La seconda ragione è che le
imprese hanno maturato una capacità di pressione sulla
politica per ottenere quello che vogliono, mentre la cultura
non ha maturato la stessa capacità. Il prossimo governo sembra che avrà un solo compito: la
legge elettorale e, forse, un paio di finanziare, di cui una
straordinaria. Poi il voto. L'emergenza cultura sarà
rinviata alla prossima legislatura? Io ostinatamente credo, e spero, che nonostante tutto da
questo parlamento nasca un governo che non duri tre o
quattro mesi, ma l'intera legislatura. E che possa godere di
una spinta che viene obiettivamente da tutto il paese.
Finché questa mia speranza non sarà uccisa dai fatti
continuerò a coltivarla. La convince l'idea che l'investimento in cultura sia il
«petrolio d'Italia», com'è stato ripetuto anche di recente? Non confondiamo il petrolio con il sangue. Il petrolio è
petrolio e gli esseri umani sono esseri umani. Il valore
metaforico di questo petrolio, che peraltro è una risorsa in
esaurimento, non fa parte dell'armamentario delle metafore
che uso. Credo che in Italia, come nel resto del mondo,
l'economia e la società possano essere gestite con uno
sguardo lungo nell'interesse delle generazioni future.
L'innovazione è alla radice di qualsiasi forma di crescita e
di sviluppo, ma essa non può esistere senza la ricerca e la
ricerca non può esistere senza una buona scuola e una buona
università. Bisogna però capire che la competitività si basa
sulla conoscenza e non sulla commercializzazione della
conoscenza. Se non prendiamo questa strada il paese è
condannato. Da tempo lei, insieme a giuristi come Stefano Rodotà o Ugo
Mattei e altri studiosi, sostiene il teatro Valle occupato a
Roma e l'ex colorificio occupato di Pisa, oggi sotto
sgombero. Uno stile inconsueto per un intellettuale
italiano. Crede che la cultura si affermi anche attraverso
queste esperienze di auto-gestione? Io credo che un cittadino che voglia provare a fare dei
discorsi che incidano sulla realtà, senza mettersi a fare il
parlamentare dilettante, cosa che non mi attira per nulla,
debba informarsi su quali siano le norme e provare a
cambiarle. Non da giurista, ma da cittadino, credo che è
necessario agire sul continuum tra beni pubblici e beni
comuni. Così si può cercare di ricostruire un senso di
cittadinanza, e quella sovranità del popolo prescritta dalla
Costituzione che non è messa in pratica ma è il vero
contenitore dei nostri grandi diritti, a cominciare dal
diritto al lavoro, il più trascurato di tutti, come
dimostrano le vittime della recessione. È quello che si sta
cercando di fare attraverso gli esperimenti che lei ha
citato. Ognuno ha preso una strada diversa. Nella sola Pisa,
dove vivo, c'è anche il teatro Rossi occupato. Sono
esperienze diverse, ma eticamente e politicamente le loro
strade sono molto interessanti per riappropriarsi della
cittadinanza.
EUROSTAT
Fanalino di coda, per percentuale di spesa pubblica, nella
classifica della Ue a 27
il manifesto, del 07-04-2013,
di Ro.Ci.
Ad un
paese sommerso dall'austerità, praticata dai governi di ogni
colore e dai sapienti che continuano a mostrare inutilmente
le loro presente eccellenze tecniche e amministrative, ieri
l'Eurostat ha spiattellato una realtà urlata da anni dagli
studenti, dagli artisti che occupano i teatri e i cinema,
dagli sfrattati che si riappropriano delle case sfitte:
l'Italia è ultima nell'Europa a 27 per percentuale di spesa
pubblica destinata alla cultura (1,1% a fronte della media
del 2,2%). È al penultimo posto, seguita solo dalla Grecia,
per la spesa in istruzione (l'8,5% a fronte del 10,9%
dell'Ue a 27). La spesa pubblica destinata alla protezione
sociale è sopra la media europea, anche se è sbilanciata
sulle pensioni e diminuisce sulla casa, sulla disabilità,
trascurando gli investimenti sulle politiche attive per il
lavoro. Nel 2011 la spesa pubblica Ue è stata pari al 49,1% del Pil
ed è diminuita ovunque, tranne che per i servizi generali
che includono gli interessi sul debito sovrano. Quest'ultima
voce rivela l'esito delle politiche dell'austerità adottate
ancora nel 2013. La voce sugli interessi sul debito segna un
+17,3% sulla spesa complessiva e supera di quattro punti la
media europea del 13,5%- Dietro di noi c'è solo la Grecia
con il 24,6%, Cipro con le sue banche fallite con il 24,6% e
l'Ungheria con il 17,5%. Tranne Cipro, questi paesi hanno il
poco invidiabile di negare ai propri cittadini uno dei pochi
strumenti per affrontare dignitosamente la crisi: il reddito
minimo. Due anni fa, la crisi aveva inoltre già aumentato la spesa
per la protezione sociale e per la sanità. Il 55% della
spesa pubblica era assorbita da queste voci. La percentuale
della spesa per sanità e Welfare è passata dal 23,9% del
2002 al 29,9% del 2011, in controtendenza con l'Europa dove
nel 2011 era al 26,9% in calo rispetto al 27,4% del 2010.
Per il Welfare l'Italia spende il 20,5% del Pil, 5.322 euro
per abitante, contro il 19,6% pari a 6.215 euro della
Germania. Mentre la spesa sociale aumenta sono sempre più
coloro che non hanno alcuna tutela e, anzi, scelgono la
sanità privata, lamentando l'inefficienza di quella
pubblica. Una contraddizione che dal 2008 è stata affrontata con i
tagli lineari e il salasso della spending review che ha
messo in programma tagli monstre da 295 miliardi di euro per
i prossimi anni. Tagli garantiti dalla riforma
costituzionale votata da Pd, Pdl e Udc nella scorsa
legislatura. Un suicidio approvato a maggioranza. Con la durezza di cui sono capaci solo le cifre e le
percentuali, l'istituto europeo di statistica ha tracciato
il profilo della catastrofe del Welfare, della scuola e
dell'università, oltre che dei beni culturali e ambientali,
senza dimenticare il taglio al Fondo Unico dello Spettacolo
(Fus). Senza ritegno il Ministero dell'Istruzione ieri ha
invitato a «evitare una lettura fuorviante dei dati». Meglio
calcolare le risorse «investite nella scuola e
nell'università al netto della spesa per gli interessi sul
debito che per l'Italia è di gran lunga superiore alla
media». E vengono citati i dati Ocse 2012 secondo i quali la spesa
per studente è linea con la media, se non superiore. Per la
primaria l'Italia spende 8.669 dollari rispetto a una media
di 7.719. Per la secondaria 9.112 dollari rispetto alla
media Ocse di 9.312. Tanto per cambiare, una lettura apologetica delle
fallimentari politiche economiche di Monti. Siccome abbiamo
un debito record occorre rinunciare a investire su
innovazione, istruzione e ricerca in attesa dei prossimi
tagli. Accontentiamoci delle politiche di austerità che però
hanno aumentato il debito di 19 miliardi. L'unico modo per uscire dal debito sono gli investimenti in
istruzione e ricerca, come dimostra il fact checking
condotto da tempo dal sito roars.it. I dati Ocse del 2012
confermano che la gran parte dei paesi hanno aumentato la
spesa per l'istruzione, mentre l'Italia è quello che ha
tagliato di più dopo l'Estonia.
-
La stretta dei presidi
sulle gite scolastiche “Troppo care, discriminano gli
studenti”
Addio viaggi
lunghi e mete esotiche. “Sono le famiglie a chiedercelo”
la
Repubblica.it, del 08/04/2013
MILANO
—
Solo quattro
anni fa, i ragazzi del liceo scientifico Einstein di Milano
andarono in gita a Marsa Alam, esotica località balneare sul
Mar Rosso, mentre gli studenti di una scuola superiore di
Gela sbarcarono a New York. Bei tempi andati. Fra le molte
abitudini italiane cancellate dalla crisi c’è anche il
cosiddetto “viaggio di istruzione”, tradizionale intermezzo
di primavera, con visita nelle grandi capitali europee o nelle città d’arte italiane.
Grande festa per i ragazzi. Un salasso per le famiglie,
rassegnate a sborsare cifre medie di 300 euro, con punte
massime di 500 euro per le mete più inconsuete, che prima
della crisi non suonavano come una bestemmia. Soldi che oggi
nessuno ha più, motivo per il quale le gite sono quasi
ovunque dimezzate, quando non cancellate del tutto.
«Rispetto agli anni passati - sintetizza il provveditore
agli Studi di Milano, Giuseppe Petralia - quest’anno ha
dovuto rinunciare una classe su due». Un’impressione a
caldo, confermata dai dati dell’Osservatorio Touring Club.
Lo scorso anno scolastico solo 930mila studenti sono andati
in gita di classe, 400mila in meno rispetto a cinque anni
fa. Nel 2013 potrebbe andare anche peggio. A Milano, i primi
a tagliare le gite sono stati istituti tecnici e
professionali, frequentati da stranieri e da ceti popolari,
come il turistico Gentileschi, dove gli spostamenti fuori
dalla scuola quest’anno sono limitati ai musei e teatri
cittadini. Ma lo stesso vale anche per gli istituti più
blasonati e frequentati dalla buona borghesia, come il
classico Berchet, dove la cancellazione delle gite è stata
totale «anche per la rivendicazione sindacale dei professori
che, dopo i tagli ai fondi per l’istruzione, non vengono più
retribuiti per le gite », come spiega il preside Innocente
Pessina.
—
Milano non è un
caso isolato. «Non siamo noi a tagliare le gite, ma le
famiglie a sollecitare la rinuncia nei consigli di classe: i
genitori fanno presente che soldi per mandare i figli in
gita non ci sono più», spiega Tommaso De Luca, preside
dell’Istituto tecnico industriale Avogadro di Torino,
presidente dell’Asapi, l’associazione delle scuole autonome
del Piemonte. «Il nostro consiglio di istituto ha cancellato
le gite perché non tutti hanno la possibilità di aderire e
la scuola non ha i mezzi per dare sovvenzione alle famiglie
che non possono affrontare spesa». Una vita d’uscita estrema
per evitare discriminazioni tra studenti. Le scuole cercano
di garantire almeno le gite brevi in città italiane. Questa
è la sorte dei 1300 studenti dell’Itis Fermi di Roma, dove
la preside Monica Nanetti e il collegio docenti hanno
bocciato «i viaggi all’estero, lasciando solo le mete
italiane, dove si arriva in treno». Persino allo storico
liceo scientifico Righi di Bologna, fondato nel 1823, il più
antico del Paese, il preside Domenico Altamura, allarga le
braccia: «La crisi ha messo in ginocchio anche noi: prima si
facevano grandi cose, una settimana all’estero, minimo
450-500 euro a ragazzo, più il cash per gli extra. Prezzi
insostenibili, oggi. Quest’anno, all’estero ci vanno solo
alcune quinte, per tre giorni, invece che per sei. Tutte le
altre classi, rimangono in Italia o addirittura in città».
Poi ci sono quelli che mettono mano alle magre casse
d’istituto per pagare il viaggio a chi non ha la
possibilità. Per esempio, Gianni Oliva, preside del
centralissimo liceo classico D’Azeglio, a Torino: «Il
consiglio di istituto interviene pagando anche il 100 per
cento. Ma le mete devono essere low cost».
Meritevoli
abbandonati, entro il 2015 taglio del 92 per cento L’anno
scorso 57 mila idonei lasciati senza il contributo
Talenti
perduti Dagli studenti universitari è nata una mobilitazione
nazionale dal semplice slogan: «Non c’è più tempo»
www.flcgil.it,
del 05-04-2013, di Nadia Ferrigo (Torino)
Recita la
nostra Costituzione: «I capaci e meritevoli, anche se privi
di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti
degli studi». La buona notizia è che i capaci e meritevoli
non mancano. Quella cattiva è che il diritto allo studio
rischia di sparire. I dati sulle risorse finanziarie
destinate a borse di studio, mense e alloggi sono impietosi,
le prospettive drammatiche. Nello scorso anno accademico,
57mila studenti si sono ritrovati nella categoria degli
«idonei non beneficiari». Per reddito e percorso di studi,
sono considerati meritevoli di ricevere un aiuto dallo
Stato. Per mancanza di fondi, destinati a non ricevere
nulla, se non l’esenzione dalle tasse universitarie. Se
nulla cambia, il loro numero aumenterà in fretta. Nel 2009
il Fondo nazionale destinato a integrare le risorse
regionali a disposizione degli studenti fu eccezionalmente
di 246 milioni di euro, grazie alle misure urgenti disposte
dall’allora ministro Mariastella Gelmini. Poi un viaggio
sulle montagne russe: circa 100 milioni di euro nel 2010 e
nel 2011, poi 175 milioni nel 2012. Denari riacciuffati al
volo, come i 90 milioni ripescati dalla spending review del
governo Monti. Senza interventi dell’ultimo minuto o brusche
inversioni di rotta, il taglio alle borse di studio previsto
per i prossimi tre anni è del 92%. Tradotto in euro, vuol
dire che entro il 2015 i fondi a disposizioni dei «valorosi
ma non danarosi» saranno 15 milioni di euro. Briciole, da
distribuire in tutto il Paese e integrare con i fondi
regionali. E se le famiglie che non si possono più
permettere un figlio all’università sono sempre di più, sono
sempre di più anche le Regioni sull’orlo del collasso. Un
esempio su tutti? Il sistema universitario piemontese. Da
eccellenza a ultimo in classifica, con un deprimente
risultato del 30% delle richieste di borse di studio
soddisfatte. Se il contributo statale si è attestato tra i 7
e i 7,9 milioni di euro, è la drastica riduzione del
contributo regionale - oltre il 60% - che ha portato il
meccanismo al tracollo. Un duro colpo per una regione che
può vantare un’indiscussa eccellenza come il Politecnico di
Torino, dove più della metà degli studenti non sono
piemontesi e il 15% stranieri. Sabato il ministro
dell’Istruzione Francesco Profumo sarà a Torino per
incontrare i rappresentanti delle associazioni universitarie
della regione. Intanto proprio dagli studenti universitari
nasce una campagna di mobilitazione nazionale. Semplice ed
efficace lo slogan: «Non c’è più tempo». Ed è anche
straordinariamente vero. Se nessuno interviene, si rischia
di arrivare a settembre senza che nulla sia cambiato. Con
costi enormi per il Paese, sia in termini etici che di
sviluppo. «I costi per le famiglie sono diventati
insostenibili. La politica non si muove da tempo, il diritto
allo studio non può essere la vittima - denuncia Elena
Monticelli, coordinatrice per il diritto allo studio
dell’associazione studentesca Link -. Abbiamo lanciato la
campagna “Non c’è più tempo” per riportare l’università nel
dibattito politico. Se ne è parlato poco in campagna
elettorale, ora non se ne parla più. La situazione è
gravissima». Intanto, dopo un braccio di ferro durato due
anni, giace al vaglio della conferenza Stato Regioni il
decreto di riforma presentato dal ministro Profumo,
osteggiato dalle associazioni studentesche ma con il via
libera del Consiglio nazionale degli Studenti Universitari.
Il professor
Marco Mancini
La
Stampa.it, del 05-04-2013, di N. F.
«Una
situazione drammatica. Gravissima. E destinata a
precipitare». Non ha dubbi Marco Mancini, rettore
dell’università della Tuscia di Viterbo e presidente della
Crui, la conferenza dei rettori delle università italiane.
«In una situazione del genere non si può nemmeno parlare di
diritto allo studio. Non esiste più. E a questo si aggiunge
la situazione di difficoltà delle famiglie italiane. In sede
alla Conferenza dei rettori, preoccupati per la grave
situazione economica del paese, avevamo già chiesto più
fondi per il diritto allo studio, senza ottenere nulla». Cosa si può fare per rimediare? «È essenzialmente una questione di soldi. Nel 2009 avevamo
quasi 250 milioni di euro, nel 2012 erano 174 milioni e si
può ormai considerare un periodo di vacche grasse. Quel che
abbiamo davanti è un baratro. Ancor prima di pensare a decreti e riforme, bisogna trovare
i soldi. Tra le possibili opzioni, si è parlato anche dei prestiti
d’onore. «I prestiti d’onore non sono una priorità, se ne parlò con
la Gelmini, ma il piano non è mai decollato. Inutile
discuterne ora, si parla del dessert quando in tavola manca
il pane». Nonostante la drammaticità del momento, non si parla granché
di università. «Mi sorprende che il problema non riesca a emergere in tutta
la sua gravità. Associazioni studentesche e mondo della
scuola devono lanciare un’azione comune, perché la questione
arrivi sul tavolo del Governo, presente o futuro che sia.
Siamo tagliati fuori dall’Europa. Se ci fosse una Maastricht
europea, l’Italia non potrebbe rientrare».
la
Repubblica.it, del 05-04-2013, di Gustavo Zagrebelsky
LA
SOCIETÀ non è la mera somma di molti rapporti bilaterali
concreti, di persone che si conoscono reciprocamente. È un
insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono
come facenti parte d’una medesima cerchia umana, senza che
gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Come può
esserci vita comune, cioè società, tra perfetti sconosciuti?
Qui entra in gioco la cultura. Consideriamo l’espressione:
io mi riconosco in... Quando sono numerosi coloro che non si
conoscono reciprocamente, ma si riconoscono nella stessa
cosa, quale che sia, ecco formata una società. Questo
“qualche cosa” di comune è “un terzo” che sta al di sopra di
ogni uno e di ogni altro e questo “terzo” è condizione sine
qua non d’ogni tipo di società, non necessariamente società
politica. Il terzo è ciò che consente una “triangolazione”:
tutti e ciascuno si riconoscono in un punto che li sovrasta
e, da questo riconoscimento, discende il senso di
un’appartenenza e di un’esistenza che va al di là della
semplice vita biologica individuale e dei rapporti
interindividuali. Quando parliamo di fraternità (nella
tradizione illuminista) o di solidarietà (nella tradizione
cattolica e socialista) implicitamente ci riferiamo a
qualcosa che “sta più su” dei singoli fratelli o sodali:
fratelli o sodali in qualcosa, in una comunanza, in una
missione, in un destino comune. Noi siamo immersi in una visione orizzontale dei rapporti
sociali. Ma, ciò significa forse che non abbiamo più bisogno
di un “terzo unificatore”, nel senso sopra detto? Per
niente. Anzi, il bisogno si pone con impellenza,
precisamente a causa dei suoi presupposti costituzionali: la
libertà e l’uguaglianza, i due pilastri delle concezioni
politiche del nostro tempo, che se lasciati liberi di
operare fuori di un contesto societario, mettono in moto
forze egoistiche produttive di effetti distruttivi della
con-vivenza. Non si può convivere stabilmente in grandi
aggregati di esseri umani che nemmeno si conoscono facendo
conto solo su patti degli uni con gli altri, come pensano i
contrattualisti. A parte ogni considerazione realistica, una
volta stabilita una regolazione contrattuale degli interessi
in campo, a chi o a che cosa ci si potrebbe richiamare per
richiedere l’adempimento degli obblighi assunti, ogni volta
che l’interesse mutato spingesse qualcuna delle parti a
violarli? Ogni contratto, senza una garanzia terza, sarebbe
flatus vocis. Per molti secoli, questa garanzia era riposta
nella religione; oggi, nell’età della secolarizzazione, non
può che essere la cultura. «L’arte e la scienza sono libere
e libero ne è l’insegnamento », dice l’art. 33, primo comma,
della Costituzione. Questa norma di principio è da
considerare la base della “costituzione culturale”, così
come esiste una “costituzione politica” e una “costituzione
economica”, ciascuna delle quali contribuisce, per la sua
parte, alla costruzione della “tri-funzionalità” su cui si
regge la società, secondo quanto già detto. La Costituzione,
senza aggettivi, è la sintesi di queste costituzioni
particolari. Innanzitutto, dicendosi che l’arte e la scienza
sono libere e che libero ne è l’insegnamento si dà una
definizione. L’attività intellettuale non libera, cioè
asservita a interessi d’altra natura non è arte, né scienza:
è prosecuzione con altri mezzi di politica ed economia. Si
dirà, tuttavia: non è arte la scultura di Fidia, perché al
servizio della gloria di Pericle? Non è arte la poesia di
Virgilio, perché celebrativa della Roma di Cesare Augusto? E
non è arte quella di Michelangelo, commissionata da Giulio
II e Paolo III? La loro non è arte perché voluta, comandata,
perfino imposta da altri, che non l’artista? Naturalmente
no. Ma non è arte per la componente priva di libertà,
esecutiva del volere del committente; è arte, per la parte
che l’artista riserva alla sua libera creazione. Cose
analoghe si possono dire per le opere dell’ingegno al
servizio dell’economia, cioè della pubblicità di prodotti
commerciali. Anche a questo proposito, l’impasto di attività
esecutiva e di attività creativa è evidente. Il rapporto tra
l’una e l’altra è variabile. Normalmente, prevale l’aspetto
strumentale: far nascere bisogni, orientare il consumo,
combattere la concorrenza, promuovere le vendite: tutte cose
che riguardano gli stili di vita, le aspettative, i sogni,
ecc. In certo senso, formano cultura, e nel modo più
efficace possibile. Ma, per questo aspetto, non sono esse
stesse espressione della libertà della cultura; sono invece
funzione dell’economia. Non rientrano nella definizione
costituzionale. Vale anche qui, però, la forza purificatrice
del tempo. A distanza d’anni, quando s’è persa la nozione
dell’interesse originario, anche le opere di pubblicità
possono depurarsi dal loro aspetto strumentale ed essere
rivalutate e apprezzate nel loro valore artistico. Non si
tratta, comunque, di teorizzare una “cultura per la
cultura”, senza contenuto, come pura evasione. La cultura
come cultura ha una sua funzione e una sua responsabilità
sociale, come s’è detto: una funzione che esige libertà.
Sotto questo aspetto, il verbo “essere” che troviamo nella
norma costituzionale assume il significato non d’una
definizione, ma d’una prescrizione: “la cultura deve essere
libera”. La difficoltà nasce dal fatto che deve essere
libera, ma non può vivere isolata. La prima insidia, qui,
sta nella tentazione della consulenza. Il nostro mondo è
sempre più ricco di consiglieri e consulenti e sempre meno
d’intellettuali. Questa – del consulente – è la versione
odierna dell’“intellettuale organico” gramsciano, una figura
tragica che si collegava alle grandi forze storiche della
società per la conquista della “egemonia”: un compito certo
ambiguo, ma indubbiamente grandioso. I consiglieri di oggi
sono gli imboscati nell’inesauribile miniera di ministeri,
enti, istituti, fondazioni, aziende, ecc., che si legano al
piccolo o grande potere, offrendo i propri servigi
intellettuali e ricevendo in cambio protezione, favori,
emolumenti. La stessa cosa può ripetersi per i consulenti
che vendono le proprie conoscenze alle imprese, per
testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i
prodotti. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono
affatto cosa cattiva in sé, ma lo sono quando sono essi
stessi che si offrono e accettano di entrare “nell’organico”
di questo o quel potentato. L’uomo di cultura diventa uomo
di compiacenza. La seconda insidia all’autonomia della
funzione intellettuale è la tentazione di cercare il
successo in questa, per poi spenderlo nelle altre funzioni.
Ciò che è giusto in una sfera, può diventare corruzione
delle altre sfere. Così, l’affermazione nella sfera
dell’economia non deve essere usata strumentalmente per
affermarsi nel campo della politica o in quello della
cultura; l’affermazione nella sfera politica non deve essere
il ponte per conquistare posizioni di potere nella sfera
economica o in quella culturale; l’attività nella sfera
culturale non deve corrompersi cercando approvazione e
consenso, in vista di candidature, carriere e benefici che
possono provenire dalla politica o dall’economia. Merita
qualche parola anche il binomio “libertà della cultura” e
“democrazia”. La società del nostro tempo, dove le
conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate;
dove, quindi, è inevitabile delegare ad altri la conoscenza
che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa
società dove pressoché tutte le decisioni politiche hanno
una decisiva componente scientifica e tecnica, massimo è il
bisogno di fiducia reciproca. Per prendere decisioni
democraticamente e consapevolmente in campi specialistici,
chi non sa nulla deve potersi fidare di chi detiene le
conoscenze necessarie. Non in nome della Verità, che non sta
da nessuna parte, ma in nome almeno dell’onestà, che può
stare presso di noi. Se non ci si potesse fidare gli uni
degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione
si dedicano a professioni intellettuali, la cultura come
indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza
sarebbe un corpo morto. Di quali mezzi si avvale oggi la
cultura? Semplificando: chat o book? Dov’è la radice della
differenza? È nel fattore tempo, un fattore determinante
nella qualità di tutte le relazioni sociali. La chat e i
suoi fratelli – blog, twitter, social forum, newsgroup,
mailing list, facebook, messaggi immediati d’ogni tipo –
appartengono al mondo dell’istantaneità; i libri al mondo
della durata. I messaggi immediati appartengono alla
comunicazione; i libri, alla formazione. La comunicazione
vive dell’istante, la formazione si alimenta nel tempo. La
comunicazione non ha onere d’argomentazione e non attende
risposte. Il suo fine è dire e ridire su ciò che è stato
detto, per aderire o dissentire, senza passi in avanti. Il
libro – saggio, romanzo, poesia; cartaceo o elettronico -
appartiene a un altro mondo. Nasce e vive in un tempo
disteso, di studio e riflessione. Se sul bancone d’una
libreria incontri L’uomo senza qualità o Moby Dick,
innanzitutto è come se ti chiedessero: sai quanto tempo ho
impiegato a essere pensato e scritto? E tu, quanto tempo e
quanta concentrazione pensi di potermi dedicare? L’invasione
degli instant books è la conseguenza della medesima risposta
a entrambe le domande, rivolte agli autori e ai lettori:
poco, molto poco, forse sempre meno tempo e meno
concentrazione. Ma, allora, è chiaro che la sopravvivenza
del libro non è una rivendicazione a favore d’una élite di
pochi fortunati lettori. La diffusione della lettura non
appartiene al superfluo d’una società non solo, com’è ovvio,
perché ha a che vedere con la diffusione dell’istruzione.
Siamo, infatti, pienamente nel campo della cittadinanza,
cioè della condizione di partecipazione attiva, consapevole
e responsabile a quanto c’è di più decisivo per la tenuta
della compagine sociale, cioè la partecipazione a una delle
tre “funzioni sociali”: la funzione politica di fondo, meno
visibile ma, in realtà, nel formare mentalità, più
determinante della stessa azione politica in senso stretto,
la quale, nella prima trova i suoi limiti e i suoi fini. Si
tratta, per l’appunto, della cultura.
La Filiera del
libro e della carta è in rivolta contro il Decreto Profumo
sull'introduzione obbligatoria dei libri digitali a scuola
Tuttoscuola, del 04-04-2013
La Filiera del libro e della
carta è in rivolta contro il Decreto Profumo
sull'introduzione obbligatoria dei libri digitali a scuola.
A protestare sono
l'Associazione italiana editori, la Federazione della
Filiera della Carta e della Grafica, l’Associazione librai
italiani, l'Associazione nazionale agenti rappresentanti e
promotori editoriali, componenti tutti della filiera del
libro, che "ribadiscono
– si legge in una nota - la
volontà, già ampiamente dimostrata, di favorire
l'innovazione tecnologica nell'ambito scolastico", ma
al tempo stesso "riaffermano
congiuntamente la loro totale contrarietà al decreto
ministeriale dedicato alle scelte dei libri scolastici,
firmato nei giorni scorsi dall'uscente ministro
dell'istruzione, Francesco Profumo".
Secondo i componenti della
filiera del libro e della carta, il decreto oltre a non
tenere conto delle indicazioni del Parlamento, volte ad
assicurare equilibrio, misura e gradualità, e a non limitare
l'autonomia delle scuole e il principio costituzionale della
libertà di insegnamento, non considera in alcun modo
l'insufficienza infrastrutturale delle scuole (banda larga,
Wi-Fi, dotazioni tecnologiche...).
La filiera del libro e della
carta, inoltre, riafferma il valore pedagogico e la
centralità del libro a stampa, che "dovrebbe
quindi rimanere irrinunciabile". A oggi infatti,
secondo le associazioni, "non
è dimostrato da nessuna parte che l`impatto sempre più
pervasivo degli strumenti elettronici sui ragazzi non sia
nocivo per la salute, senza contare che la memorizzazione e
la comprensione sono meno sollecitati dai supporti
elettronici".
Ha infiammato
la platea delle Giornate per la cultura di Napoli, lo
storico dell’arte Salvatore Settis
Il
Messaggero, del 04-04-2013
LA POLEMICA
Ha infiammato la platea delle
Giornate per la cultura di Napoli, lo storico dell’arte
Salvatore Settis. Nel suo intervento tenuto ieri alle
Giornate che si sono svolte presso il convento di San
Domenico Maggiore, promosse dall’assessorato alla Cultura
del Comune, Settis ha affermato: «Dopo un anno di governo
Monti, abbiamo avuto evasione fiscale in più anche dopo aver
subito i tagli lineari come quelli di Tremonti. E poi ci
dicono che non ci sono soldi per la cultura». E ha
continuato parlando di economia e spread: «Ma davvero i
mercati devono ingoiare la cultura, davvero dobbiamo
genufletterci allo spread? - si è chiesto Settis -. L'Europa
dell’economia è immaginaria, esiste l'Europa della cultura.
Di quale stabilità parliamo, quella dell’economia o quella
della societa?».
LA COSTITUZIONE
Per Settis le fondamenta sono
«cultura, spesa sociale e scuola che funziona e ha aggiunto
che «la Costituzione non prevede lo spread. Abbiamo scelto
un’economia che penalizza i poveri rispetto ai ricchi e i
malati rispetto ai sani. L'Italia - ha detto ancora Settis -
è la prima nazione dell’Europa dei 27 per evasione fiscale,
come possiamo chiedere di aiutarci? Vorrei un governo che
non negasse la crisi ma che mediasse tra misure economiche e
diritti dei cittadini».
Ha poi sottolineato come «in
Francia c’è la crisi come da noi ma non hanno tagliato la
spesa per la cultura» ed ha parlato di diritto «alla
resistenza dei cittadini citato dalla costituzione della
Rivoluzione napoletana del 1799». Settis si è anche
incontrato a Palazzo San Giacomo con il sindaco di Napoli,
De Magistris, ed ha visitato il complesso restaurato,
insieme con l'assessore Antonella di Nocera, prima di
raggiungere l'affollata platea delle Giornate che ha aperto
insieme allo storico Paolo Macry, allo storico dell'arte
Tommaso Montanari e al filosofo Aldo Masullo oltre
all’attore Andrea Renzi che ha letto alcuni brani del libro
dello stesso Settis dal titolo Azione popolare. L’idea della
«tre giorni per la cultura» a Napoli è nata dopo l’omicidio
di Lino Romano, vittima innocente della camorra nel
quartiere di Marianella, come ha ricordato l’assessore Di
Nocera: «Rosanna, la fidanzata di lino disse “ci vuole la
cultura“. Rimasi colpita, le Giornate partono proprio da
questa riflessione».
Il Fatto
Quotidiano, del 04-04-2013, di Marina Boscaino
Insomma, dobbiamo tenercelo
fino a data da destinarsi. Nel clima generale di
disorientamento e perplessità, di anomalia e
disarticolazione del sistema, un’altra pessima notizia: il
ministro Profumo continuerà.
Salutato con un’accoglienza a
dir poco festosa (sobrietà e competenza contro
approssimazione e arroganza, questo sembrò il passaggio di
testimone con l’indimenticabile Gelmini, autrice materiale –
le “menti” erano Tremonti e Brunetta – di uno dei più
catastrofici interventi su scuola e università, altrimenti
detto “riforma”) Profumo ci ha messo pochissimo non dico a
far rimpiangere la precedente amministrazione (sarebbe
davvero stato troppo); ma, almeno, a farci capire che –
sebbene lo stile fosse cambiato – la sostanza rimaneva
immutabile.
Il governo Monti si insedia il
16 novembre del 2011. Il seguente 22 dicembre, Profumo
partecipa ad un forum di “Repubblica”, dove annuncia il
seguente programma: gestione di un miliardo e trecento
milioni di fondi europei per le scuole del Sud; prossima
pubblicazione della sempre promessa e mai realizzata
Anagrafe dell’Edilizia Scolastica (si ricorda che a
tutt’oggi oltre il 60% degli edifici scolastici è a
rischio); Innovazione e Scuola 2.0: classi digitali e banda
larga negli istituti, con incremento delle Lavagne
Interattive Multimediali; Matematica e laboratori di
scienze; attuazione dopo anni di mora di concorsi pubblici
per i docenti; ascolto degli studenti che da 2 anni scendono
in piazza (ascolto di cui è stato dato un saggio eloquente
con le manganellate della manifestazione del 16 novembre
scorso); rivalutazione dell’immagine dei professori,
depressa “dalle recenti scelte politiche e culturali”
(nell’autunno dell’anno successivo questa intenzione si
tradurrà nella bomba “24 ore”, per ora disinnescata; il
ministro si farà promotore di una proposta indecente:
aumento di 6 ore di lezione frontale a settimana senza
riconoscimento salariale); valutazione. Compresa
rapidamente, forse (o forse no), l’impossibilità di tener
fede a questi annunci, Profumo si dedica – nella prima fase
del suo mandato – intensivamente a due punti: l’innovazione
tecnologica (che si concretizza, come vedremo, in una serie
di promesse mai realizzate, configurando un vero e proprio
stile, la Demagogia 2.0) e il concorso. Mentre si susseguono
gli annunci 2.0, mai avvalorati dai fatti, nell’estate
prendono definitivamente corpo 2 provvedimenti.
Il primo: la spending review,
DL 95/12. In coerenza con i tagli lineari della gestione
Gelmini, sono sottratti alla scuola 15mila posti e 360
milioni, colpendo in particolare gli elementi più deboli del
sistema: i docenti inidonei all’insegnamento per ragioni di
salute e coloro che sono andati in soprannumero per effetto
della riduzione degli orari, che verranno assegnati a
compiti definiti unilateralmente, senza confronto in sede
contrattuale. A tutto ciò si aggiunge la drastica riduzione
delle supplenze per docenti, personale amministrativo,
collaboratori scolastici. Si annuncia infine trionfalmente
che “A decorrere dall’anno scolastico 2012/2013 le
istituzioni scolastiche e i docenti adottano registri on
line e inviano le comunicazioni agli alunni e alle famiglie
in formato elettronico”. La previsione innesca la consueta
grancassa mediale, ma è subito smentita dai fatti, tanto che
già all’inizio di Ottobre, una nota del Dipartimento Per la
programmazione e la gestione delle risorse umane,
finanziarie e strumentali deve mestamente ammettere di aver
messo il carro davanti ai buoi: “L’anno scolastico appena
iniziato rappresenta un periodo di transizione durante il
quale le scuole dovranno attivarsi per realizzare al meglio
il cambiamento”.
Più o meno contestualmente è
emanato il bando di concorso, annunciato come il più
clamoroso “largo ai giovani” degli ultimi decenni. In realtà
fanno domanda coloro che sono in possesso dell’abilitazione,
quindi che abbiano portato a termine la Siss o che
addirittura siano vincitori del precedente concorso del ’99.
Sempre in realtà, vengono messi a concorso una parte dei
posti destinati al turn over, 11.452, per gli a. s. 2013/14
e 2014/15. I candidati, spesso in cattedra da diversi anni e
muniti di titoli culturali e scientifici, vengono sottoposti
ad un’umiliante preselezione sotto forma di test, ad
assecondare la quiz-mania, altro connotato del mandato
Profumo.
Il 12 settembre 2012 una
dichiarazione del ministro si allinea con i proclami
primaverili in salsa 2.0: “Un piano per 30 milioni di euro.
Un tablet per ogni insegnante del Sud. Messe in campo
risorse: 24 milioni di euro per i computer in ogni classe
scuole secondarie di I e II grado”. L’8 ottobre Profumo
rincara la dose: ”Un tablet per ogni studente entro
quest’anno”. Dispositivi tecnologici – per docenti e
studenti – di cui non c’è tuttora traccia nelle scuole
italiane. E poco importa, considerando le ben più
significative emergenze – prima tra tutte, l’edilizia
scolastica – di cui la nostra scuola soffre. E la
consapevolezza che non sarà confidando nel dispositivo
digitale che risolveremo i problemi della dispersione, le
carenze in lettura e scrittura dei quindicenni
alfabetizzati, la inadeguatezza della scuola a costruire
oggi risposte convincenti e significative sul cosa, come e
perché studiare.
Mentre prometteva tecnologia e
minacciava 24 ore di lezione per gli insegnanti, Profumo
dimenticava di assumere una posizione inequivocabile di
ricerca della verità sul vergognoso caso delle Pillole del
sapere, conferma dell’italica scarsa attitudine alla
trasparenza amministrativa e perfino culturale.
Viaggio
nell’istituto superiore Meilahden Yläaste, modello di
istruzione personalizzata e in cima alle classifiche Ocse
Qui i ragazzi studiano tre lingue straniere, hanno risultati
eccellenti nelle materie scientifiche e non fanno esami
la
Repubblica.it, del 03-04-2013, di Andrea Tarquini
DAL NOSTRO
INVIATO
HELSINKI
Qui,
nell’anonimo edificio in mattoncini rossi anni Cinquanta,
tra palazzi scatoloni del piccolo ceto medio postbellico
immersi tra gli alberi, il sole comincia a sciogliere
ghiaccio e neve. La campana, o meglio il suono sommesso
bitonale, come per l’imbarco in aeroporto: benvenuti a
bordo, nel viaggio verso l’età adulta e le scelte della
vita. Arriva di corsa Vesa Sarmia, special education teacher:
oggi ha tre casi difficili. I computer sono già accesi in
ogni classe. È un lunedì come un altro, qui alla Meilahden
Yläaste, Kuusitie civico 12, la scuola generale superiore
considerata un istituto modello nella Finlandia che — dicono
i rapporti Pisa, Program for international students
assessment dell’Ocse — vanta il miglior sistema scolastico
del mondo. Tutto pubblico, ipergratuito, per trasformare
teenager e giovani in adulti con chance forti di lavoro.
Passiamoci allora una giornata, vediamo come funziona. «Primo, una breve riunione », mi spiega la preside in rosso.
«Prepariamo la consulenza individuale settimanale a ogni
ragazza e ragazzo, per aiutarlo a scegliere il suo programma
di studi da noi e dopo ». La struttura del sistema, in
breve: la Meilahden Yläaste è una scuola media superiore,
educa cioè i giovani tra i 14 e i 16 anni, il triennio
conclusivo della scuola dell’obbligo, prima della scelta tra
liceo o scuola professionale, triennali entrambi, che abilitano a università o politecnici. Tutto
gratuito, rette universitarie o di politecnico 80 euro
annuali e aiuti statali ai giovani dai 7.200 ai 9.000
l’anno, per fitto e altro, libri a disposizione. «Non
bocciamo, non lasciamo cadere nessuno», dice la gentile
Rouva Doktori (dottoressa) Riitta. «Niente esami veri prima
dell’ammissione a università o politecnico, gli esami duri
sono all’ateneo per gli aspiranti insegnanti». Dopo la riunione, la preside procede con una breve ispezione
nelle classi. Si affaccia, i ragazzi salutano in inglese, «Good
morning, mrs Principal », vedendo l’ospite straniero.
Studiano sodo, concentrati. Lingua e letteratura finlandese,
lo svedese (lingua della minoranza qui) e l’inglese
d’obbligo, la terza lingua straniera facoltativa ma chiesta
da tutti, «scelgono soprattutto tedesco, spagnolo, ora
decolla il cinese», materie scientifiche. Musi lunghi a
matematica, i ragazzi si somigliano in tutto il mondo.
Nell’ora d’inglese invece si divertono da pazzi: ognuno
svolge un tema navigando in rete con uno dei computer
portatili della scuola. Computer anche ai corsi di design,
arti visuali e scultura: ragazze in maggioranza, mostrano
fiere sculture in stile moderno o bozzetti di moda. Le
classi sono gruppi d’amici ma non chiuse: ogni ragazza o
ragazzo ha un programma di studio individuale, scelto con
lui secondo la sua personalità e vocazione, con colloqui
continui, quasi un abito su misura del sapere, per lanciarsi
domani nel mondo del lavoro. Ai muri, né crocifissi né
emblemi nazionali. Solo un piccolo busto del maresciallo
Mannerheim, padre della patria, in sala professori. Tra i
ragazzi,parecchi figli di migranti, vestono come vogliono,
niente divieto del velo: docenti, giochi online e classi li
aiutano nei corsi accelerati per imparare il finlandese. Computer online e connessione wireless gratuita ovunque,
anche nella fornitissima biblioteca al pianterreno. Nessun
lusso: pareti imbiancate quando proprio è necessario. Rigore
come nel duro dopoguerra, quando un nyet di Stalin vietò
alla Finlandia di accettare il Piano Marshall. Ma sul
digitale non si risparmia. «E cerchiamo sempre di insegnare
in contatto col concreto, col mondo reale», dice la giovane
Eeva Haapanen, insegnante di educazione fisica, in un
italiano perfetto. Rapido sguardo di Riitta alla contabilità. «Le scuole»,
spiega, «sono autonome dal ministero, scelgono da sole gli
insegnanti con un bando, possono tenerli quanto vogliono.
Per fortuna la spesa pubblica per l’istruzione è il 7,2 per
cento del prodotto interno lordo, sui bilanci delle famiglie
carichiamo una spesa sola: cartella o zaino. Libri e tutto
il resto, fino ai computer, lo forniamo noi». Ore 11,45,
suona di nuovo la campanella: pausa mensa. Rouva
Doktori Erkinjuntti e Sarmia sono in coda con i ragazzi, che
parlano dei voli più economici per i prossimi concerti di
Justin Bieber, dei Biffy Clyro o dei Depeche Mode. Insalate,
poca carne, acqua, latte o kefir da bere, menu concordato
con genitori e studenti. Herra Sarmia si confessa: «Stamane
ho ripescato due ragazzi dell’ultima classe, forse avevano
alzato il gomito, avevano saltato il compito d’inglese.
L’abbiamo finito insieme, ma in classe, non ghettizzandoli.
Scusi, ora corro a casa del giovane rom. Ha una storia di
vita violenta ma cerco di salvarlo. Corsi a casa per lui,
magari a 16 anni o alla peggio un anno dopo passerà il
titolo intermedio, troverà una scuola professionale. È una
loro tradizione non mandare i figli a scuola, dobbiamo
adattarci». «Meglio per i contribuenti», interviene la
preside, «se finisce emarginato sarà infelice e costerà a
tutti, se studia troverà un lavoro dignitoso». La campana suona di nuovo, pausa finita. Un quindicenne si
avvicina timido, mi prega di ascoltarlo cantare, intona “O
sole mio” come un tenore. «Puntiamo a mandarlo al
conservatorio», mi sussurra Rouva Doktori Herkinjuntti. Il
lavoro di “mrs Principal” continua, frenetico: telefonate
per ordinare nuovi libri, visite alle classi più avanzate in
biologia e storia, briefing con la psicologa, l’infermiera,
il cuoco e l’operatore sociale della scuola. Corso di
musica, ultima tappa: ragazze e ragazzi preparano un
concerto rock di tarda primavera, vale nel punteggio. «Lo
stress del rapporto di fine anno scolastico viene dopo, a
giugno, poi gli studenti e noi stacchiamo la spina della
tensione», dice la preside. Ore 15,30, suona l’ultima
campana. La preside mi saluta sulla porta, i ragazzi escono
sorridenti, salutano cortesi, gli occhi sugli smartphone:
cercano voli per i concerti rock Gran Bretagna ma anche
offerte di lavoro e apprendistato nelle multinazionali
finlandesi, asiatiche o tedesche. O ascoltano musica col
Nokia a tutto volume, coppiette o amici camminano
sottobraccio verso la fermata del bus o la stazione del
metrò
Il 64%
disposto a emigrare, il 25% a essere sottopagato,mentre per
il 57,6% dei giovani italiani la legge Fornero è un
disastro. Un’indagine del Centro di ricerche sociali su
lavoro e nuove forme di occupazione rimarca la difficoltà
dei giovani italiani
La
Tecnica della Scuola, del 03-04-2013
Il 64%
disposto a emigrare, il 25% a essere sottopagato,mentre per
il 57,6% dei giovani italiani la legge Fornero è un
disastro. Un’indagine del Centro di ricerche sociali su
lavoro e nuove forme di occupazione rimarca la difficoltà
dei giovani italiani Il sondaggio, costruito attraverso la raccolta di dati con
metodo 'cawi' (computer-assisted web interviewing), ha
coinvolto 800 giovani tra i 18 e i 35 anni, per il 66% con
una laurea di secondo livello, ed è stato realizzato in
collaborazione con FondItalia, Fondo paritetico per la
formazione continua, e seguito dai media partner Labitalia e
'Walk on Job'. Dall'indagine emerge che il 12% degli
intervistati sarebbe disposto ad accettare il non rispetto
del contratto o l'abuso di un contratto atipico e il 2%
sarebbe disposto a mettere da parte anche la sua integrità
morale. Dalla ricerca emerge, inoltre, un interesse per i giovani
italiani verso l'estero e tra le mete più ambite figurano
Francia, Svizzera e Inghilterra. "Forse - ha spiegato
Tommaso Dilonardo, avvocato del lavoro e fondatore e
presidente di 'Work in Progress' - ad essere poco flessibile
è la stessa politica, incapace di interpretare i tempi e
perciò di promulgare leggi efficaci, chiusa in un dibattito
ideologico distante dalle reali esigenze lavorative dei
giovani. La riforma Fornero, che per il 57,6% degli
intervistati ha peggiorato la situazione, ha aumentato i
costi per le imprese e il precariato per i lavoratori". E
riferisce il racconto di un'intervistata: "Nonostante abbia
accettato di essere sottopagata, che i miei contratti non
siano stati rispettati, abbia messo da parte la mia
integrità morale, in Italia non ho comunque trovato lavoro,
quindi sono andata a vivere decisamente lontano da casa e
dall'Italia". E ai colloqui? Il 55% degli intervistati afferma di aver
risposto a domande che riguardavano la sfera privata, prima
fra tutte 'Sei sposato/a? Convivi? Vivi con i tuoi genitori?
Hai figli o hai intenzione di averne a breve? Mi parli dei
componenti della sua famiglia, che lavoro fanno i tuoi
genitori?'. "Sono domande, rivolte soprattutto al genere femminile, che
nascondono un pregiudizio - ha commentato Dilonardo - sulla
effettiva capacità da parte delle donne di svolgere un ruolo
di primo piano nella società. Il nostro questionario rivela
che al 43,2% è stato chiesto se è sposato o convive; al
20,4% se ha figli o ha intenzione di averne a breve; a
molti, infine, è stato chiesto anche il background dei loro
genitori. Insomma, passa il tempo ma la società italiana
cambia poco: sono domande che evidenziano un ritardo prima
di tutto culturale; manca ancora, purtroppo, il concetto di
merito, in un Paese dove l'ascensore sociale è sempre più
immobile". "Il sondaggio mette in evidenza alcuni aspetti di cui noi di
'Walk on Job' abbiamo spesso sentore e che abbiamo
analizzato in diverse inchieste: in particolare - ha
precisato il direttore di 'Walk on Job' (magazine di
attualità, università e mondo del lavoro), Cristina
Maccarrone - ci stupisce (in negativo) che durante i
colloqui si facciano certe domande sulla vita privata che
non sono realmente finalizzate all'assunzione, violando la
legge sulla privacy, oltre a continuare a discriminare le
donne chiedendo loro se vogliono avere una famiglia, a breve
o in futuro (che parliamo a fare di tasso di natalità basso
se poi non le agevoliamo?), non mi sarei aspettata domande
sul lavoro dei genitori o sulle persone con cui si vive, il
che dimostra che il mondo del lavoro ha ancora molte cose da
sistemare". Anche nell'ambito della formazione, i giovani dimostrano di
avere le idee chiare su ciò che non funziona e sui
cambiamenti che andrebbero prodotti. Infatti, dall'indagine
emerge come, per il 73% dei giovani la scuola e l'università
dovrebbero prevedere dei corsi o delle iniziative volte a
favorire l'incontro dei giovani con il mercato del lavoro;
tuttavia, i master specializzati non sono stati determinanti
per trovare lavoro per il 31% degli intervistati. Sempre secondo i dati 'Work in Progress', il 34% non si è ma
iscritto a un corso di formazione perché crede che le
aziende per prime dovrebbero provvedere a preoccuparsi della
formazione delle risorse; inoltre, per il 31,6%, i costi dei
corsi sono proibitivi. "La scuola dovrebbe fornire gli
strumenti per il lavoro, non solo teoria o corsi dai nomi
altisonanti. Ad esempio, impariamo a parlare l'inglese, a
leggere il giornale, a usare Excel", si legge fra i
commenti. E i giovani per cercare lavoro si affidano a Internet per il
71%, al secondo posto i siti aziendali, seguono con il 25% i
social network (tra questi il più utilizzato è Linkedin). Ma
i metodi più tradizionali continuano ad avere un ruolo
determinante: si rivolgono agli sportelli del lavoro o
agenzie interinali il 32,4% degli intervistati, mentre il
24,3% preferisce consultare gli annunci sul giornale. "Che il primo mezzo per cercare lavoro sia Internet - ha
concluso Dilonardo - è un dato interessante, ma se
immaginiamo che, invece di doversi districare nel mare
magnum di Internet, i giovani potessero godere delle
potenzialità della rete gestita con la competenza e la
sicurezza che potrebbe dare un servizio fornito dai centri
per l'impiego, i giovani, e anche gli over 50 (dimenticati
ma pure esistenti e anch'essi in difficoltà) potrebbero
cogliere quelle opportunità (anche scarse, complicate, poco
remunerate) che invece ora, nell'assenza della pubblica
amministrazione, è più difficile e 'pericoloso' trovare.
Dico 'pericoloso' perché un conto sarebbe una banca dati
internazionale gestita dai centri per l'impiego, altro conto
è Internet, tout court". (Labitalia)
Per i giudici
di Strasburgo la misura è compatibile con la Convenzione
europea dei diritti umani. Otto cittadini italiani avevano
sollevato il caso per non aver superato il test di entrata o
per essere stati allontanati dopo diversi anni senza
sostenere esami. E' la prima pronuncia del genere
la
Repubblica.it, del 03-04-2013
STRASBURGO - Il
numero chiuso per l'accesso a determinate facoltà? Non viola
il diritto allo studio. Lo ha stabilito la Corte europea dei
diritti umani nella sentenza emessa oggi nei confronti
dell'Italia. Bocciando, di fatto, il ricorso presentato da
otto studenti italiani. Secondo i giudici, che per la prima volta si sono trovati a
dover stabilire se il numero chiuso è compatibile con il
rispetto al diritto allo studio sancito dalla Convenzione
europea dei diritti umani, la soluzione trovata dal
legislatore italiano per regolare l'accesso all'università è
ragionevole. E hanno rilevato che tale soluzione non eccede
l'ampio margine di discrezione che gli Stati hanno in questo
ambito. A presentare il ricorso a Strasburgo erano stati 8 cittadini
italiani. Una di loro ha fallito per 3 volte l'esame per
accedere alla facoltà di medicina di Palermo. Altri 6
ricorrenti non hanno superato quello per entrare ad
odontoiatria nonostante l'esperienza professionale acquisita
come tecnici odontoiatrici o igenisti. L'ottavo ricorrente
invece pur avendo passato l'esame è stato escluso dalla
facoltà di odontoiatria dopo 8 anni che non dava esami.
La legge
Fornero blocca le uscite: meno posti per i precari
Il Messaggero, del 02-04-2013,
di Alessia Camplone
ROMA
Invecchiano i docenti dietro
la cattedra, ma invecchiano anche i precari in attesa di una
stabilizzazione che ritarda sempre di più. La legge Fornero
che allunga l’età lavorativa sia per gli uomini che per le
donne riduce il turn-over degli insegnanti del cinquanta per
cento nelle classi italiane. E secondo i sindacati, a questo
punto, sono a rischio anche tutte le 11.542 assunzioni del
concorso dei docenti bandito lo scorso autunno.
L’ALLARME
L’allarme dei sindacati è
scattato di fronte ai dati sulle domande di pensionamento
del personale della scuola, diffusi dal Ministero
dell’Istruzione. Dati provvisori (ciascuna domanda è al
vaglio ministeriale) e che potrebbero subire qualche
piccolissima variazione, ma che comunque confermano che il
quadro dell’occupazione si è ridotto drasticamente. I
docenti che andranno in pensione da settembre sono 10.009,
mentre nello scorso anno scolastico sono stati 21.112. Sono
di 3.343 unità le uscite del personale Ata, contro i 5.336
dell’anno precedente. Il maggior numero di pensionamenti
nelle scuole superiori dove sono state presentate 3.187
domande. Poco meno nella scuola primaria con 3.090
richieste. A seguire le richieste di riposo nella scuola
media (2.439) e nella materna (1.293). Tra il personale
tecnico ausiliario (gli Ata), a lasciare il posto sono
soprattutto i collaboratori scolastici (2.180 domande) e gli
assistenti amministrativi (756).
LE ACCUSE
La Flc-Cgil, che accusa il
ministero di aver dato i dati sui pensionamenti in ritardo
per non aver avuto il coraggio di rivelare «gli effetti
disastrosi della riforma Fornero», sostiene che non solo ci
saranno meno assunzioni, ma che «perfino l’attuale concorso
rischia di non avere posti sufficienti». E riguardo al
concorso annunciato nelle scorse settimane dal ministro
Francesco Profumo per questa primavera: «Altro che nuovo
concorso!». Marcello Pacifico, presidente nazionale dell’Anife:
«Sono dati così allarmanti da poter pregiudicare persino le
assunzioni del concorso in fase di espletamento. E meglio
non parlare del nuovo! Questi dati aumentano il precariato,
allontanano le nuove generazioni degli insegnanti e
allontanano l’Italia dalla media Ocse».
L’ETÀ MEDIA
Tra le conseguenze della
riforma Fornero, in effetti, non ci sarebbe solo l’aumento
del precariato storico della scuola (160mila stando agli
ultimi dati della Funzione Pubblica). Ma
IL CASO
anche quella inevitabile di
alzare l’età media del personale. Esasperando una
caratteristica della scuola italiana che è stata già
stigmatizzata dal rapporto Ocse sull’Educazione del 2012. In
19 su 32 dei Paesi dell’Ocse il 60% dei docenti di scuola
secondaria ha almeno 40 anni, mentre in Italia sono oltre il
70% (ma anche Germania e Austria superano questa soglia). I
giovanissimi, i docenti sotto i 30, in Italia sono solo lo
0,5%, mentre la media Ocse nella primaria arriva al 14%.
-
Il sostegno si mangia gli
scatti
Anche per il
2012 docenti pagati con i soldi per il merito
ItaliaOggi, del 02-04-2013, di
Antimo Di Geronimo
I posti
di sostegno si mangeranno gli scatti del 2012. La deroga al
numero massimo di posti di sostegno attivabili in organico,
disposta per effetto di una sentenza della Corte
costituzionale, continuerà ad essere finanziata con i soldi
destinati al merito. Ciò mette in forse il recupero del 2012
ai fini dei gradoni che avrebbero dovuto essere finanziati
con questi fondi.
Fermo
restando il recupero del 2010 e del 2011 ormai a regime,
visto anche l'accordo firmato di recente tra Aran e e
sindacati che ha consentito il recupero. É quanto si evince
dalla circolare sugli organici di quest'anno (n. 10 del 21
marzo scorso). Il ministero ha chiarito, inoltre, che i
licei musicali non potranno avere più di una prima. E
dunque, di fatto, gli istituti che sono stati attivati e che
saranno attivati sul territorio saranno a numero chiuso.
Anche per quest'anno, inoltre, resteranno in vigore le
tabelle di confluenza delle classi di concorso, in attesa
dell'emanazione del regolamento che fisserà la disciplina
delle nuove classi di concorso. Regolamento che, nelle
intenzioni del ministro uscente, avrebbe determinato una
sorta di cristallizzazione dell'esistente al quale avrebbe
fatto da contraltare un ampliamento della spendibilità delle
abilitazioni che avrebbero dovuto essere conseguite
frequentando i corsi del nuovo ordinamento universitario (
tirocinii formativi attivi e lauree quinquennali). Al
momento, però, il processo si è arenato anche in forza delle
critiche dei sindacati, che hanno messo in luce la disparità
di trattamento tra docenti vecchi e nuovi. Ecco qualche
dettaglio in più. L'amministrazione ha ricordato che la
Corte costituzionale, con la sentenza n. 80 del 22 febbraio
2010, ha cancellato la norma che fissava il tetto massimo di
posti di sostegno (comprensivo delle deroghe) attivabili in
organico di fatto a livello nazionale (tetto stabilito per
evidenti problemi di contenimento della spesa pubblica). Ed
ha espunto dall'ordinamento anche la norma relativa al
graduale raggiungimento del rapporto nazionale di un docente
ogni due alunni disabili. Secondo la Consulta, la scelta di
sopprimere la deroga che consentiva di assumere insegnanti
di sostegno a tempo determinato, non trova giustificazione
nel nostro ordinamento. Ciò perché attraverso la deroga è
reso effettivo il diritto fondamentale all'istruzione dei
disabili gravi. Diritto evidentemente incomprimibile. Il
ministero, dunque, ha chiarito che il limite massimo dei
posti in organico di diritto fissato dalla legge (che non
subirà ulteriori riduzioni) rimarrà in piedi. E i posti che
mancano saranno riattivati in organico di fatto (cosiddetti
posti in deroga). In ogni caso la dotazione di docenti di
sostegno in organico di diritto è stata fissata in 63.348
posti, pari al numero di posti attivati in organico di
diritto nell'anno scolastico 2010/2011. Resta il fatto,
però, che i soldi per pagare gli stipendi dei docenti di
sostegno da assumere in deroga ai limiti dell'organico di
diritto continueranno ad essere attinti dai fondi per il
merito accantonati per effetto del piano programmatico che
ha ridotto l'organico di 135mila unità tra docenti e Ata. E
dunque, il recupero dell'utilità del 2012, necessario a
riportare indietro di un anno le lancette dell'orologio e
recuperare pienamente i gradoni, sembrerebbe gravemente
compromesso.
Musicali
a numero chiuso
L'amministrazione centrale ha lasciato intendere inoltre che
i licei musicali, che stanno andando molto bene su tutto il
territorio nazionale in termini di numero di iscrizioni, non
potranno accogliere tutti gli alunni che hanno fatto
richiesta. Ciò è dovuto al fatto che per il prossimo anno
non potrà essere autorizzata più di una prima classe per
ogni liceo. E dunque, in buona sostanza, questi istituti
sono da considerarsi a numero chiuso. Resta il fatto, però,
che al momento questa restrizione non trova giustificazione
in norme specifiche. E quindi potrebbe ingenerare un forte
contenzioso.
Il
problema della confluenza
Restano
in vigore anche quest'anno le tabelle di confluenza delle
classi di concorso, adottate per cercare di trovare una
soluzione agli esuberi indotti dall'entrata a regime della
riforma delle superiori. Quest'anno le tabelle si
applicheranno anche alle classi quarte (le quinte andranno
ad esaurimento seguendo il vecchio ordinamento). Il metodo è
sempre lo stesso. I dirigenti scolastici dovranno anzitutto
disporre il reimpiego dei docenti in soprannumero seguendo
il criterio delle classi di concorso affini, cui sono
informate le stesse tabelle. Qualora, invece, non fosse
necessario ricollocare eventuali soprannumerari,
l'assegnazione di eventuali ore eccedenti alle varie classi
di concorso indicate nelle tabelle sarà effettata dal
collegio dei docenti.
-
E la Francia non trova 43
mila nuovi insegnanti
Aumentato il
bilancio del Ministero. Per i docenti più giovani ci sono i
tutor
Il
Messaggero, del 02,04.2013, di Francesca Pierantozzi
PARIGI AAA cercasi
insegnanti in Francia, per la precisione 43mila, e entro i
prossimi cinque mesi. Lo scorso dicembre il ministero
dell'Educazione Nazionale (l'unico in cui Hollande ha deciso
di non tagliare, anzi di aumentare, il bilancio) ha lanciato
una vasta campagna di assunzione per insegnanti della scuola
di primo e secondo grado, elementari, medie e licei. Peccato
che, almeno per ora, molti candidati manchino all'appello.
In base alle iscrizioni al concorso, il 15 per cento di
posti è ancora vacante, in particolare per le cattedre di
matematica, latino e inglese. Il ministro dell'Educazione
Peillon ha già pensato di allargare i criteri di selezione
dei candidati. Per l'Alto Consiglio all'Educazione, che in
dicembre ha consegnato un rapporto al presidente Hollande
sulla scuola, le cause dei posti vacanti sono da ricercarsi
negli stipendi, che in Francia «sono a inizio carriera
inferiori alla media dei paesi Ocse». Se per il momento il
ministro Peillon ha escluso di rivedere al rialzo gli
stipendi («lo faremo appena ne avremo la possibilità») ha
però promesso agli insegnanti francesi di reintrodurre una
formazione specifica universitaria che era stata eliminata
dal presidente Sarkozy. «E' stata una decisione che ha
danneggiato l'immagine del lavoro di insegnante» ha
commentato Peillon, che ha annunciato per il prossimo
settembre l'apertura di una Scuola superiore di professorato
e educazione. I giovani maestri francesi che debuttano nelle
scuole elementari beneficiano comunque già di una forma di
tutorato. Gli insegnanti con più esperienza possono infatti
scegliere di frequentare un corso che li rende «formatori» e
dedicarsi poi un giorno a settimana alla formazione dei più
giovani, che assistono durante il loro corso. I «tutori»
sono scelti su base volontaria e beneficiano di una
gratificazione salariale. Il Ministero ha già fatto sapere
che il sistema di tutorato resterà in vigore anche dopo
l'apertura delle nuove Scuole per insegnanti.
La metà degli
italiani non capisce un bugiardino o un foglio di
istruzioni. È un Paese di illetterati di ritorno. Complice
la tecnologia
la
Repubblica.it, del 29-03-2013
Questi
sono i test di «prose literacy» predisposti dall’inchiesta
All (AdultLiteracyandLife Skills), un progetto di ricerca
internazionale che ha sondato le competenze degli adulti tra
i 16 a i 65 anni in sette paesi: Bermuda, Canada, Italia,
Norvegia, Svizzera, Usa e Messico (2003-2005). Gli esiti dei
questionari nel nostro paese? Solo il 20 per cento di
italiani è in grado di superare il terzo livello, ossia
mostra competenze sufficientemente sicure. Per il resto, il
5 per cento della popolazione non sa rispondere alla domanda
sul farmaco, ossia non supera le prove minime di competenza.
Quasi la metà degli italiani si smarrisce davanti alla
pianta ornamentale, mostrando una competenza alfabetica
molto modesta, «al limite dell’analfabetismo», recita il
rapporto All. E il 33 per cento non è capace di sistemare il
sellino della bicicletta, ossia denuncia «un possesso della
lingua molto limitato». E le cose non vanno meglio
nell’esecuzione dei calcoli matematici e nella lettura di
grafici o tabelle: anche in quest’ambito l’80 per cento
degli italiani fa molta fatica. Siamo un popolo di
illetterati, che però non sa di esserlo. E forse non vuole
neppure saperlo. L’analfabeta del nuovo secolo mostra caratteristiche assai
diverse dal più malmesso progenitore, che non sapeva leggere
né scrivere. La versione più aggiornata può vantare una pur
minima scolarizzazione — talvolta anche molto più che minima
— che però è andata polverizzandosi nel tempo, spazzata via
da crescenti difficoltà nella comprensione di un testo
elementare o nella più semplice delle operazioni. Ma se un
tempo l’analfabeta assoluto era disposto anche ad uccidere
pur di nascondere la sua vergognosa condizione,l’illetterato
contemporaneo galleggia nella totale incoscienza, includendo
nel proprio status categorie sociali al di sopra di ogni
sospetto, anche felicemente confortate da buoni redditi.
Un’illusione di civiltà destinata tra poco a essere infranta
dall’Ocse, che renderà pubblica in ottobre la grande
inchiesta internazionale sull’Italia (per la prima volta
inclusa la popolazione immigrata) e altri ventiquattro
paesi, tra Europa e America, Asia e Australia. Le anticipazioni certo non rallegrano. L’indagine pilota
promossa da Piaac-Ocse conferma l’alto tasso di
illetteralismo italiano — più o meno i recenti dati All
riportati sopra — ma con un nuovo rischio rispetto al
passato, ossia la minaccia che il fenomeno possa
drammaticamente contagiare le nuove generazioni. Il rapporto
reso ora pubblico dall’Isfol — realizzato tra aprile e
giugno 2010 e con un valore ancora parziale — ci dice in
sostanza che, oltre al tradizionale serbatoio di pensionati
e casalinghe (attenzione: non vecchietti e vecchiette, visto
che il target va dai 16 ai 65 anni), la fascia più
vulnerabile è quella che include i disoccupati dai 26 ai 35
anni. Finita la scuola, le competenze tendono a diminuire,
specie quando non vengono avviati nuovi processi di
apprendimento legati al lavoro. E l’analfabetismo di ritorno
minaccia di inghiottire le leve più giovani, proprio quelle
a cui è affidato il futuro del paese. Ma chi sono gli illetterati italiani? E dove si concentrano?
Lo zoccolo duro coinvolge le fasce anagraficamente più
elevate, distribuito soprattutto nel Mezzogiorno e nelle
isole, nei piccoli centri più che nelle grandi città. Ma le
inchieste condotte da Vittoria Gallina — la studiosa che con
pazienza certosina da oltre dieci anni monitorizza il popolo
italiano — ci dicono che gli analfabeti di ritorno si
annidano anche tra i piccoli imprenditori del Nord Italia,
in Lombardia più che in Piemonte. E se la Campania è certo
più in basso rispetto alla media nazionale, l’operosa
Padania non si innalza più di tanto dalle cifre della
vergogna italiana, che nelle zone industrializzate si
concentra tra disoccupati e operai con le mansioni più basse
ma non esclude i padroncini di aziende con qualche
dipendente. Anche un’inchiesta del Cede di qualche anno fa
disegnava il profilo dell’analfabeta benestante, con un
reddito personale superiore a 40 mila euro e proprietà di
famiglia oltre i 140 mila. Persone che vivono come una
minaccia l’invito allo studio perché non ne avvertono la necessità. Una tendenza che viene favorita dalla tecnologia,
soccorrevole nel colmare — e dunque nel nascondere — le
enormi lacune degli italiani somari. Non siamo più in grado
di leggere una mappa stradale o di fare un calcolo?
Navigatore e calcolatrice sono lì per aiutarci. «Il
benessere economico ti risolve ogni problema», sintetizza
Arturo Marcello Allega, autore del documentato saggio
Analfabetismo. Il punto di non ritorno (Herald Editore). «Se
devo far dei conti, vado dal commercialista. Se devo evadere
il fisco, mi consulto con il mio notaio. E per i documenti
mi rivolgo a un’agenzia di servizi. Questo è il nuovo
modello di adulto e di felicità». Che si realizza però
quando il reddito lo consente. E l’illetteralismo — ci
aggiornano i sondaggi ai tempi della crisi — è un
impedimento gravissimo, non più tollerato da una società
complessa. Il nuovo analfabetismo «funzionale » ci riporta a quel 70
per cento di analfabetismo assoluto che segnò il principio
della nostra storia nazionale, miracolosamente battuto
nell’arco di un secolo e mezzo. Un trionfale grafico
dell’Istat disegna il crollo dai livelli altissimi del 1861
— 80 per cento per le donne, 70 per cento per gli uomini—
all’attuale uno per cento. Sembra definitivamente archiviata
l’immagine del contadino che firma tracciando una croce. «Ma
è molto difficile che un vero analfabeta ammetta di
esserlo», obietta la professoressa Gallina, propensa a
contenere gli entusiasmi. «Più verosimile che tenda a
nasconderlo, affidando ad altri la compilazione del questionario». La letteratura gialla è ricchissima di
omicidi perpetrati da analfabeti disposti a tutto pur di
celare la propria condizione. Qualche anno fa il linguista
Massimo Vedovelli si prese la briga di catalogarli e nella
gran parte della storie — da Ruth Rendell a Bernard Schlink
— l’analfabetismo assurge a generatore di morte, non solo e
non tanto individuale ma del sistema sociale. Quello di nuovo conio è invece socialmente accettato, anche
perché protetto dall’inconsapevolezza. Chi è analfabeta di
ritorno, in altre parole, ne è serenamente ignaro,
condividendo la sua condizione con l’80 per cento della
popolazione. Un’emergenza alfabetica causata anche dalla
limitatezza della scolarizzazione in Italia: nel 2002, il 63
per cento con più di 15 anni aveva ancora al massimo la
licenza media. È questo il dato che trasforma in patologia
un fenomeno regressivo comune alla quasi totalità dei paesi
avanzati. A ricordarcelo è Tullio De Mauro, lo studioso che più di tutti ha fatto
della battaglia all’analfabetismo una missione civile e
culturale. «Nel nostro paese», denuncia sulla rivista Il
Mulino,«ai residui massicci di mancata scolarità si sommano
fenomeni di de-alfabetizzazione propri delle società
ricche». La sua sintesi induce allo sconforto. «Solo una
percentuale bassissima di italiani è in grado di orientarsi
nella società contemporanea, nella vita della società
contemporanea, non nei suoi problemi». Un grave deficit che
è anche un limite nell’esercizio di cittadinanza, e dunque
un temibile avversario per la democrazia, inspiegabilmente
ignorato dalle nostre classi dirigenti. Quando non viene
cavalcato con lucido discernimento. Naturalmente c’è anche chi sta peggio di noi, ma per
trovarlo bisogna volare in Centro America. È lo Stato di
Nuevo León, in Messico. Noi e loro, gli ultimi della classe.
Scontro tra il
Ministero, che ha bacchettato quegli istituti che impongono
alle famiglie di pagare una somma non dovuta per legge pena
la non iscrizione dei figli, e l'Associazione delle scuole
autonome: "È ora di smetterla con le ipocrisie"
la
Repubblica.it, del 29-03-2013, di Salvo Intravaia
RIVOLTA dei presidi contro i
rimbrotti del ministero sui "contributi volontari" che le
scuole sono costrette a richiedere alle famiglie. "Basta con
le ipocrisie", risponde l'Asal (l'Associazione delle scuole
autonome del Lazio) alla circolare dello scorso 7 marzo in
cui il capo dipartimento di viale Trastevere, Lucrezia
Stellacci, striglia quei presidi che pretendono dalle
famiglie il versamento "volontario".
La storia inizia qualche mese
fa, quando gli studenti denunciano alcuni presidi che
pretendono il versamento chiedendo un intervento del
ministero. "Si ritiene - si legge nella nota ministeriale
dello scorso 7 marzo - che simili comportamenti, oltre a
danneggiare l'immagine dell'intera amministrazione
scolastica e minare il clima di fiducia e collaborazione che
è doveroso instaurare con le famiglie, si configurino come
vere e proprie lesioni del diritto allo studio
costituzionalmente garantito".
Il riferimento diretto è ad
alcuni presidi che hanno minacciato di non iscrivere i figli
a scuola, se non dopo il pagamento dell'obolo volontario, o
di quelli che hanno minacciato di non consegnare la pagella
o altre ripercussioni nei confronti dei 'morosi'. Una
situazione, quella dei contributi volontari fatti passare
per obbligatori, denunciata di recente anche da una nota
trasmissione televisiva. Con la circolare di due settimane
fa, il ministero ricorda la natura volontaria del contributo
e che in assenza di versamento "nessuna capacità impositiva
viene riconosciuta dall'ordinamento a favore delle
istituzioni scolastiche, i cui Consigli d'istituto, pur
potendo deliberare la richiesta alle famiglie di contributi
di natura volontaria, non trovano in nessuna norma la fonte
di un vero e proprio potere impositivo che legittimi la
pretesa di un versamento obbligatorio".
Ma i presidi non ci stanno ad
essere dipinti come soggetti autori di "comportamenti
vessatori e poco trasparenti" che dovrebbero assicurare una
"gestione corretta ed efficiente delle risorse pubbliche" e
dovrebbero "far leva sullo spirito di collaborazione e di
partecipazione delle famiglie le quali, si è certi, ben
comprendono l'importanza di risorse aggiuntive per la
qualità dell'offerta".
"Nella nostra limitata ottica
di gestori delle istituzioni scolastiche - dichiara Giuseppe
Fusacchia, presidente dell'Asal - non sappiamo da quali
ispirate fonti il ministero tragga tale certezza; quello che
sappiamo, invece, è quali e quante difficoltà le scuole
incontrino per convincere le famiglie della necessità di
contribuire economicamente alla fornitura di servizi
basilari alla propria utenza per i quali le risorse
pubbliche non pervengono più da anni". E puntano il dito
contro lo stesso ministero e gli enti locali che dovrebbero
sostenere le scuole pubbliche.
E giù un lungo elenco di
problemi e inadempienze cui devono fare fronte giornalmente
i dirigenti scolastici per sopperire alle carenze di fondi
pubblici. "Può una scuola non essere dotata di materiali
igienici nei bagni? Può una scuola non disporre della
possibilità di effettuare fotocopie di materiali didattici
per gli alunni? Può un istituto tecnico industriale non
disporre di reagenti nel laboratorio di chimica? Può un
laboratorio informatico non prevedere un abbonamento per
l'accesso ad Internet? Può l'installazione delle Lavagne
interattive multimediali (le Lim) nelle aule (tanto care al
ministero) non prevedere i costi per la sostituzione delle
lampade dei videoproiettori?", si chiedono provocatoriamente
i capi d'istituto.
Ma non solo: Fusacchia chiama
in causa anche comuni, province e regioni. "E che dire degli
arredi scolastici, della manutenzione di edifici scolastici
fatiscenti, della sicurezza? L'elenco delle inadempienze
della nostre amministrazioni è davvero impressionante, ma la
colpa - dicono ironicamente i presidi - è delle scuole che
vessano le famiglie! E da questo furore moralizzatore non si
salva nessuno: né i dirigenti scolastici, che incorrerebbero
in una 'grave violazione dei propri doveri d'ufficio, né i
Consigli d'istituto, che non avrebbero 'alcun potere di
imposizione' di tali contributi".
"È ora di smetterla con queste
ipocrisie: il Ministero, così sollecito nel fustigare
comportamenti magari eccessivi da parte delle scuole si
impegni a garantire alle scuole finanziamenti sufficienti
per il loro buon funzionamento (quelli attualmente assegnati
sono di entità ridicola) oppure dica chiaramente che non è
in grado di assicurare elementi essenziali del servizio, che
riguardano tutti gli alunni e per i quali, quindi, le
famiglie sono chiamate obbligatoriamente a contribuire".
Mentre il
mondo cerca strade nuove e le culture meno occidentali si
affermano, noi ci balocchiamo difensivamente intorno ai temi
del valore degli h-index, facciamo guerre di posizione sul
numero e la qualità delle pubblicazioni in riviste più o
meno reputate, pensiamo di risolvere i problemi della
valutazione approntando qualche chilo di questionari la cui
compilazione demenziale demanda il compito a quelli stessi
che dovrebbero essere valutati
La Repubblica (Affari Finanza)
del 28-03-2013, di Pier Luigi Celli
Ci sono istituzioni che
leggono in ritardo i mutamenti nelle società tentando forme
di adattamento incrementale, e altre che pensano di
affrontarli irrigidendo burocraticamente gli stimoli
all'innovazione, inquadrandoli strumentalmente, lavorando
solo sulle componenti interne tradizionali in ottica di
aggiornamento. Fino a estenuarne la valenza salvifica in
assenza di coraggio e passione. L'università sembra
dispiegare nelle ricorrenti riforme una volontà
minimizzatrice che esalta l'apparente razionalizzazione
degli strumenti gestionali, finalizzati alla conservazione
del potere accademico interno nel momento in cui tutto si
flessibilizza, crescono le autonomie, vanno in crisi le
barricate che facevano della politica l'ultimo rifugio della
conservazione.
Mentre il mondo cerca strade
nuove e le culture meno occidentali si affermano, noi ci
balocchiamo difensivamente intorno ai temi del valore degli
h-index, facciamo guerre di posizione sul numero e la
qualità delle pubblicazioni in riviste più o meno reputate,
pensiamo di risolvere i problemi della valutazione
approntando qualche chilo di questionari la cui compilazione
demenziale demanda il compito a quelli stessi che dovrebbero
essere valutati. Ci sfugge che l'università dovrebbe avere
un ordine delle priorità diversamente articolato.
L'istituzione ha un core business: gli studenti e il loro
destino, in un mondo in cui gli sconvolgimenti epocali
imprimono accelerazioni impensate mettendo a rischio
modalità collaudate di insegnamento, vecchie certezze
organizzative e la tradizionale linea di confine tra ciò che
sta dentro il sistema di trasmissione scientifica e quel che
avviene all'esterno. Ciò dovrebbe portare a riflettere che
la semplice ripulitura degli strumenti tradizionali,
l'adeguamento meccanico, l'affermazione reiterata di
interessi corporativi, seppur sottoposti a maquillage, non
aiutano ad affrontare la natura della missione che
bisognerebbe affrontare.
Che è quella di aiutare gli
studenti non solo a imparare le materie in piani di studio
mal articolati a tutela di professori a cui bisogna
garantire un corso, ma a sperimentare le condizioni nuove
che si troveranno ad affrontare. I saperi al lavoro
richiedono la valutazione di altri impegni oltre a quelli
dell'aula, di una diversa cura degli interessi complessi in
gioco. Non si può pretendere di capire come operare nel
durante senza includere nella visione il prima e il dopo,
come fosse possibile costruire un ponte non avendo
attenzione ai piloni. La nostra cultura, rispetto alla
ricchezza della domanda di competenza che esprime un mercato
del lavoro in evoluzione, sembra asfittica, ripiegata a
tutelare assetti disciplinari rigidi, inquadrata in regole
burocratiche che nessuno riesce più a comprendere. Anche
perché se non si apre la scatola legittimando il confronto,
liberando le forze in campo, riportando la valutazione nelle
mani di chi è destinatario del servizio (studenti, famiglie)
e di quanti (imprese, organismi di rappresentanza,
associazioni professionali) dovranno beneficiare del
prodotto formato, il rischio di obsolescenza di quanto si va
preparando è prevedibile.
C'è un derivato di
quest'impostazione arretrata: la cultura autoriferita del
sistema universitario, con i suoi modelli di segmentazione
dei saperi e la tutela delle reti di trasmissione e
cooptazione dei ruoli di potere accademici, oltre a essere
divergente rispetto a come va il mondo inculca negli allievi
una dimensione individualizzata dei percorsi di carriera,
giocata sulla mediazione della materia e dell'esame, avulsa
da percorsi relazionali e da stimoli che dovrebbero
alimentare il tessuto connettivo degli anni di studio. Le
nostre università stentano a definirsi un mondo con quello
che il termine include: vita, interessi da cui trarre saperi
complementari, esercizio di responsabilità operative,
terreno di sviluppo di idee e costruzione di progetti. Ciò
che aiuterebbe a familiarizzarsi con i problemi a cui gli
studenti vanno incontro. È illusorio immaginare che la
comprensione del mondo passi solo attraverso la trasmissione
di conoscenze. Serve un supplemento crescente di esperienze
multiple, anticipate, che evidenzino la diversa
disponibilità dell'istituzione e dei suoi interpreti, non
più sacerdoti di materie arcane o di tecnologie salvifiche
ma disponibili a interpretare se stessi.
Il nuovo mondo ha bisogno di
una figura antica, il maestro. Che si prende cura, consente
di sbagliare, alimenta la curiosità e la voglia di provare.
Qualcuno che ha il gusto e la passione di creare una
discendenza. Quanto tutto questo abbia da spartire con la
cultura universitaria è un bell'esercizio di discernimento.
Ma, forse, è anche per questo che oggi, se non ripensiamo
l'istituzione in funzione delle sue vere finalità e delle
nuove sfide, avendo il coraggio di dire quello che è riforma
fasulla e bisogni veri, continueremo ad alimentare una
cultura perdente. Con la responsabilità di rafforzare un
ossimoro: quello di flessibilizzare le teste utilizzando una
struttura di trasmissione inflessibile.
L’Aie,
Associazione italiana editori, alza ulteriormente il tiro
contro il decreto ministeriale che dispone di adottare
dall’anno scolastico 2014-2015 solo libri nella versione
digitale o mista...
Tuttoscuola, del 28-03-2013
L’Aie, Associazione italiana
editori, alza ulteriormente il tiro contro il decreto
ministeriale che dispone di adottare dall’anno scolastico
2014-2015 solo libri nella versione digitale o mista.
Una nota dell’associazione
definisce il provvedimento “dannoso e inapplicabile” perché
non tiene conto della “insufficienza infrastrutturale delle
scuole (banda larga, WiFi, dotazioni tecnologiche...),
rappresentata, con dati e confronti molto eloquenti, poche
settimane fa dall'indagine dell'Ocse” e ignora le “pesanti
ripercussioni sui bilanci delle famiglie, sulle quali si
vogliono far ricadere i costi di acquisto delle attrezzature
tecnologiche (pc, portatili, tablet...), quelli della loro
manutenzione e quelli di connessione, che nelle altre
esperienze europee e degli altri paesi a ovest e a est
dell'Europa sono solitamente affrontate con consistenti
finanziamenti pubblici”.
Ben diverso il punto di vista
del titolare di viale Trastevere, riflesso nel decreto,
secondo cui nel caso in cui l’intera dotazione libraria sia
composta esclusivamente da libri in versione digitale la
sforbiciata ai tetti di spesa arriverebbe al 30% e i
risparmi ottenuti potrebbero essere utilizzati dalle scuole
per dotare gli studenti dei supporti tecnologici necessari (tablet,
PC/portatili).
A parere degli editori invece
le intenzioni del Ministero “sembrano frutto della sola
determinazione di voler favorire l'acquisto di tablet e pc e
non poggiano su alcuna seria e documentata validazione di
carattere pedagogico e culturale”, né tengono conto delle
“possibili ricadute sulla salute di bambini e adolescenti
esposti a un uso massiccio di devices tecnologici”.
Secca la replica del ministro
Profumo, che sulla necessità di innovare non ha dubbi.
“Pensare che tutto debba essere messo a disposizione dalla
scuola è utopia, serve invece un lavoro di squadra. Insomma
se uno studente ha un tablet lo porti pure a scuola, come
fosse un libro, e lo usi per studiare” aveva detto alcuni
giorni fa. E difende il decreto contestato: “Grazie a questi
provvedimenti gli studenti avranno la possibilità di
utilizzare anche a scuola, e per obiettivi didattici,
strumenti che già utilizzano diffusamente a casa,
migliorando il livello delle competenze digitali dell’intera
popolazione italiana”.
La maggiore incognita che
grava sulla concreta attuazione del decreto nei tempi
previsti appare peraltro quella relativa alla formazione dei
docenti: un’operazione che dovrebbe coinvolgere centinaia di
migliaia di insegnanti già nell’anno scolastico 2013-2014, e
che richiederebbe una azione sinergica tra Ministero e case
editrici.
Gli editori
negano di aver siglato un accordo con il ministro Profumo,
anzi sostengono di avere detto al ministro di ritenere il
decreto "inapplicabile"
La
Tecnica della Scuola, del 28-03-2013
Il Giornale parte all’attacco
degli ultimi provvedimenti del ministro Profumo e questo sui
libri digitali lo ritiene un “provvedimento di facciata
dietro al quale c'è il nulla perché i soldi per la
digitalizzazione della scuola non ci sono e non si può
pensare di farlo a costo zero.” Il quotidiano milanese riporta il disagio dell’Associazione
italiana Editori secondo cui il ministro non «ha affatto
convinto gli editori della bontà» del provvedimento,
sottolineando anche di non essere preoccupati soltanto per
le conseguenze gravi sull'intera filiera, editori, grafici,
cartai, librai e agenti.
Non c'è dubbio infatti che gli
editori non abbiano alcun interesse a vedere
progressivamente ridotto e poi definitivamente annullato il
mercato dell'editoria scolastica che ammonta ad oltre 650
milioni di euro annui e che dunque abbiano tutto l'interesse
a rimandare la digitalizzazione della scuola. Sono
altrettanto vere però anche le altre problematiche messe in
evidenza nel comunicato degli editori. Ovvero che le scuole
non hanno dotazioni tecnologiche adeguate, a cominciare
dalla banda larga. E sono ancora molto poche quelle dotate
di wi-fi.
Il ministro poi, scrive sempre
Il Giornale, non sembra essersi minimamente posto il
problema della mancata preparazione degli insegnanti. Quanti
di loro sono in grado di gestire con disinvoltura i devices
tecnologici visto che l'età media dei nostri professori è 50
anni? Anche per gli studenti si pone il problema dei
supporti tecnologici: si porteranno I-pad e I-phones e e
Kindle da casa?E la scuola sarà obbligata a fornirli a chi
non li ha? Con quali soldi? Non solo. Gli editori accusano
il ministro anche di qualcosa di più grave di una semplice
mancata programmazione economica. «Le intenzioni del
ministero sembrano frutto della sola determinazione di voler
favorire l'acquisto di tablet e pc e non poggiano su alcuna
seria e documentata validazione di carattere pedagogico e
culturale -scrivono gli editori- Così come non risulta siano
state valutate le possibili ricadute sulla salute di bambini
ed adolescenti esposti ad un uso massiccio di devices
tecnologici». L'Aie conclude ribadendo una netta presa di
distanza «da un decreto che ritiene dannoso e inapplicabile.
Lo ha detto il
capo dipartimento, Lucrezia Stellacci, attraverso
un’intervista a Vita: la differenza di punteggio rispetto ai
Tfa normali, voluta per non danneggiare i precari più
giovani.
La
Tecnica della Scuola, del 27-03-2013, di Alessandro Giuliani
Lo ha detto il capo
dipartimento, Lucrezia Stellacci, attraverso un’intervista a
Vita: la differenza di punteggio rispetto ai Tfa normali,
voluta per non danneggiare i precari più giovani. Anche il
punteggio per le supplenze annuali varrà 6 punti. Ma
formalmente il decreto, ora all’esame del Consiglio di
Stato, è ancora modificabile. Come la quota di partecipanti:
75mila sono una stima ancora tutta da verificare, per i
sindacati saranno di più.
Prove di accesso, non
selettive, con ogni probabilità a giugno. E valenza del
punteggio, ai fini dell’incremento delle graduatorie
d’istituto, pari solo alla metà del Tfa normale. Sono queste
le due novità principali che il capo dipartimento del Miur,
Lucrezia Stellacci, ha annunciato attraverso
un’intervista a Vita,
rivolgendosi in tal modo a decine di migliaia di candidati
con almeno tre supplenze annuali ed interessati ai corsi
abilitanti. La Stellacci parla del “ terzo decreto, quello
che cambia le tabelle di valutazione per i titoli, dobbiamo
attendere il parere del Consiglio di Stato”. Sui tempi di
svolgimento delle verifiche, l’alto dirigente del Ministero
spiega che “ci vorranno 30-40 giorni per la pubblicazione in
Gazzetta, nel frattempo noi procediamo con una ricognizione
puntuale, immagino che a giugno potremmo fare le prove
nazionali”. Che serviranno quindi solo a “spalmare” nel
triennio i tanti interessati all’operazione. Dopo aver messo in dubbio la quantità di docenti precari
potenzialmente coinvolti nei corsi, fornita peraltro dallo
stesso Miur (75mila), perché manca ancora “una ricognizione
puntuale”, solo “una stima, i sindacati dicono cifre più
alte”, la Stellacci ha confermato che non vi è alcuna
intenzione di selezionare tutti coloro che accederanno ai
corsi abilitanti speciali: “tutti quelli che faranno domanda
e hanno i requisiti avranno un posto, su tre anni”, taglia
corto il capo dipartimento. Specificando, più avanti
nell’intervista, che la differenza tra Tfa normale e
speciale è solo nel “numero chiuso, perché abbiamo
riconosciuto che queste persone, che per anni hanno mandato
avanti la scuola facendo supplenze, hanno il diritto ad
abilitarsi”. Stellacci ha anche confermato che quello avviato in questi
giorni rimane “uno strumento transitorio, che avrà al
massimo tre edizioni e che si chiuderà nel 2014-2015”. Per
poi concludere facendo luce sul punteggio dimezzata che
potranno inserire nelle graduatorie d’istituto coloro che
termineranno positivamente i Tfa speciali. “ La
preoccupazione di chi sta frequentando il TFA ordinario –
dice il dirigente Miur - era che, riconoscendo il medesimo
punteggio alle due abilitazioni, chi già ha tanti anni di
supplenza all’attivo passasse nelle graduatorie di seconda
fascia con un distacco molto ampio rispetto ai giovani. Le
due categorie, che oggi stanno nelle graduatorie di terza
fascia, infatti si competono la collocazione nelle
graduatorie di seconda fascia, quelle da cui si attinge per
le supplenze annuali. Noi abbiamo voluto ridurre un po’ la
distanza”. Stellacci spiega anche che “l’abilitazione
conseguita con il TFA ordinario” varrà “12 punti, quella
conseguita con il TFA speciale 6 punti. Abbiamo anche
ridotto il punteggio per le supplenze, ora è di 6 punti
all’anno”. Tutto fatto? Solo questione di tempo? Non
proprio. La dirigente ricorda che il decreto sulla modifica
dei punteggi da attribuire è ora all’esame del Consiglio di
Stato. Quindi, conclude l’ex direttore dell’Usr Puglia,
ancora ‘sub iudice’.
-
Addio ai libri solo
cartacei a scuola
Il ministro
Profumo ha firmato il decreto che prevede l'uso dei libri
digitali dal 2014/15
La
Stampa.it, del 27-03-2013, di Flavia Amabile
Addio ai libri cartacei.
Ancora un anno di tempo e nella scuola italiana entreranno
solo libri digitali o nel formato misto. Il ministro
Francesco Profumo ha firmato il decreto ministeriale in
materia di adozioni dei libri di testo e stavolta sembra che
si faccia sul serio: tra le principali novità è la
disposizione per i professori di adottare, dall’anno
scolastico 2014/2015, solo libri nella versione digitale o
mista.
All'inizio ad essere coinvolte
saranno le classi prima e quarta della scuola primaria, la
classe prima della scuola secondaria di I grado, la prima e
la terza classe della secondaria di II grado.
Nel decreto sono previsti
anche risparmi le famiglie. I prezzi di copertina dei libri,
definiti per l’anno scolastico 2013/2014, restano confermati
anche per il 2014/2015, si riducono i tetti di spesa entro
cui il Collegio dei docenti deve mantenere il costo
complessivo dei testi adottati. La riduzione, rispetto ai
limiti stabiliti per l’anno scolastico 2013/2014, è del 20%.
Ma nel caso in cui l’intera dotazione libraria sia composta
esclusivamente da libri in versione digitale la sforbiciata
è più consistente, con una riduzione che arriva fino al 30%.
I nuovi tetti si applicano per le adozioni dei libri della
prima classe della scuola secondaria di I grado e della
prima e della terza classe della secondaria di II grado. Per
le rimanenti classi restano validi i limiti già definiti per
le adozioni relative all’anno scolastico 2013/2014. I
risparmi ottenuti potranno essere utilizzati dalle scuole
per dotare gli studenti dei supporti tecnologici necessari (tablet,
PC/portatili) ad utilizzare al meglio i contenuti digitali
per la didattica e l’apprendimento.
La consultazione dei testi
digitali sarà resa possibile attraverso una piattaforma che
il Ministero metterà a diposizione degli istituti scolastici
e degli editori, affinché i docenti possano consultare e
scaricare on line la demo illustrativa dei libri di testo in
versione mista e digitale, ai fini della loro successiva
adozione. In ogni caso, al fine di assicurare la gradualità
del processo di innovazione, anche a tutela dei diritti
patrimoniali dell’autore e dell’editore, solo per le prima e
terza classe della secondaria di II grado il Collegio dei
docenti potrà eventualmente confermare le adozioni dei testi
già in uso. Una deroga valida però solo per i due anni
successivi all’introduzione dei libri digitali, cioè gli
anni scolastici 2014/2015 e 2015/2016.
Dopo la
sanzione a un collega di Cuneo
La
Stampa.it, del 26-03-2013, di M.T.M.
L’assemblea di ieri
Dopo la
sanzione arrivata ad un preside di Cuneo, colpevole di non
aver inserito i test per verificare la positività all’alcol
dei suoi insegnanti, ieri una folta rappresentanza dei
dirigenti scolastici del Piemonte si è riunita all’Istituto
Avogadro. «Non ne possiamo più di avere a che fare con norme
teoriche che non tengono conto della realtà e delle
condizioni economiche in cui le scuole si dibattono», è
stato il leit-motiv dell’incontro con oltre 200 presidi.
Tutti, insomma, a sostenere che un insegnante di greco non
ha niente in comune con un pilota d’aereo, sebbene le norme
li abbiano inseriti in uno stesso elenco di categorie a
rischio in fatto di assunzione di alcol. «Ogni alcol test
costa 100-150 euro, vale a dire 10 mila euro in media per
scuola. Soldi che non ci sono. E il collega multato pagherà
di tasca sua».
SCUOLA Uno
studio della Commissione Ue: -10,4% di fondi dal 2010
il
manifesto, del 26-03-2012, di Roberto Ciccarelli
Dieci
miliardi di tagli al bilancio di scuola e università tra il
2008 e il 2012. Otto miliardi e cinquecento milioni di tagli
alla scuola (il 10,4 per cento del budget complessivo) e 1,3
miliardi di euro all'università (su un totale di 7,4
miliardi nel 2007, 9,2%), per la precisione. A tanto ammonta
il salasso delle politiche dell'austerità volute dall'ex
ministro dell'Economia Tremonti per rispondere
all'imperativo del pareggio di bilancio. Questo tesoro
espropriato all'istruzione è servito a finanziare i
«capitani coraggiosi» che, secondo Berlusconi, avrebbero
salvato l'Alitalia dall'acquisizione di Air France. Cosa
avvenuta anni dopo. I francesi hanno già in mano il 25%
della compagnia di bandiera che barcollerà ancora pochi mesi
sull'orlo del fallimento. Per i tre anni e mezzo di governo Berlusconi il
taglieggiamento operato da Tremonti è stato nascosto
sull'altare dell'onor di patria, oppure nascosto dietro i
fumogeni della meritocrazia o della riduzione degli sprechi
sbandierati lanciati dall'ex ministro Gelmini. L'idea di
finanziare il default delle aziende di stato decotte,
insieme a quella di sostenere l'«austerità espansiva» (i
tagli alla spesa pubblica per investimenti sono «risparmi»
che finanziano la crescita) è stata sostenuta anche dal
governo Monti che non è riuscito a salvare l'ultima tranche
di 300 milioni di euro di tagli dall'ultima legge di
stabilità. Decisione che oggi mette a rischio la
sopravvivenza di 20 atenei, vissuta però come il naturale
decorso di una malattia incurabile. Da oggi questa finzione non sarà più possibile. La
Commissione Europea ha pubblicato uno studio che quantifica,
almeno in percentuali ma non con i dati assoluti, l'entità
dei tagli all'istruzione del governo di centrodestra e di
quello «tecnico». Tagli che hanno prodotto il sacrificio di
quasi 100 mila cattedre in tutti i gradi delle scuole, dalla
materna alle superiori. Nel frattempo è aumentato il
rapporto tra insegnanti e alunni, sia nella scuola che
nell'università. Questa è la causa principale dell'aumento
delle «classi pollaio»: il taglio dei docenti non ha fermato
l'aumento del numero degli studenti. In Italia, il numero degli insegnanti è calato dell'11,1%,
mentre in Germania è aumentato del 13%, in Finlandia del
12,9%, in Svezia del 21,9%). Le loro retribuzioni sono state
congelate o ridotte in 11 paesi, e il nostro paese mantiene
un solido primato negativo. Peggio hanno fatto solo la
Grecia (dove il taglio all'istruzione è stato del 20%) e la
Slovacchia (15%). Il taglio degli insegnanti, e quello ai
bilanci, ha prodotto la chiusura o l'accorpamento di scuole,
come dei corsi di laurea per ragioni meramente di bilancio,
non per l'efficienza propagandata. L'atto di accusa della
Commissione è inequivocabile: «La riduzione del numero degli
insegnanti in Italia è una conseguenza e un risultato
programmato di una riforma, la legge 133/2008, approvata
nell'estate del 2008, prima del consolidarsi della crisi».
La stessa tempistica è stata rispettata dalla Gran Bretagna
dove l'istruzione ha subito lo stesso, programmatico,
ridimensionamento. Androulla Vassilou, greca, commissario
europeo all'Istruzione, sollecita a nuovi investimenti nella
formazione terziaria per rimediare alla disoccupazione
giovanile e rispondere alla «concorrenza globale». La truffa
è stata scoperta. Nessun dubbio ha ancora sfiorato la
Commissione che sia stata ideata usando la dottrina
dell'austerità che oggi condanna l'Europa alla recessione.
Il ministero
convoca i sindacati per l'annuncio, poi la smentita a mezzo
comunicato. Pronti i decreti di sperimentazione, in pole la
Lombardia
ItaliaOggi, del 26-03-2013, di Alessandra Ricciardi
La voglia
c'era. E i decreti pure. Solo che, vista l'alzata di scudi
dei sindacati, il ministro pare che alla fine non se la sia
sentita. I decreti riguardano la sperimentazione del taglio
di un anno della durata del percorso scolastico, per
adeguarla a quella europea che consegna al sistema
universitario i ragazzi diplomati già a 18 anni.
Il
progetto, partito dallo studio condotto da una commissione
ministeriale ad hoc presieduta da Vittorio Campione, era
stato rilanciato come prospettiva di riforma dei cicli
scolastici già nei mesi corsi. Anche in quel caso però,
davanti alle critiche sollevate da sindacati e partiti, fu
declassato dal ministero dell'istruzione, Francesco Profumo,
a semplice dossier e rimesso in un cassetto. Poi nella
direttiva per l'azione amministrativa 2013, lasciata alle
buone intenzioni del successore, il ministro Profumo ritorna
sull'argomento, ribadendo la necessità di allinearsi alla
durata europea dei percorsi. La scorsa settimana la nuova
puntata: i sindacati sono stati convocati d'urgenza per un
incontro, tenutosi venerdì, nel quale sono state illustrate
le sperimentazioni dei percorsi di riduzione;
sperimentazioni e non di più, giacché i tempi per una
riforma organica sono finiti da un pezzo per il governo in
carica. Ma comunque si tratterebbe di lanciare un seme nel
campo, e poi chissà. I sindacati, una volta compatti, hanno
criticato l'assenza di confronto su una modifica
dell'ordinamento che ha ricadute sulla didattica e
l'organizzazione, e hanno evidenziato rilievi giuridici che
lascerebbero tra l'altro intendere la facile impugnabilità
degli stessi decreti (l'assenza di parere da parte del Cnpi,
per esempio). Sta di fatto che, a stretto giro, i progetti
sono stati sconfessati via comunicato. I decreti ritornano
nel cassetto, fino a diverso ordine. I provvedimenti non
seguivano un unico progetto, ma autorizzavano tutte le
modalità di riduzione possibili: inizio a 5 anni del
percorso scolastico, riduzione di un anno della primaria,
accorpando quarta e quinta, e poi taglio di un anno delle
superiori, trasformando il primo biennio in due semestri.
In pole,
tra le regioni più desiderose di partire, c'è la Lombardia,
che ha presentano il 18 dicembre scorso la richiesta di
sperimentazione della riduzione di un anno dei 5 anni delle
superiori: si tratta dell'istituto paritario San Carlo, un
liceo internazionale per l'intercultura. Nel Lazio era
pronto a partire l'istituto comprensivo Settembrini, con la
previsione di una scuola elementare che chiude in quarta. In
tutti i casi, le sperimentazioni avrebbero dovuto garantire
il raggiungimento degli stessi traguardi di sviluppo delle
competenze previste per il percorso ordinario. Si attendono
sviluppi.
I corsi
riguardano circa 75 mila aspiranti docenti. fioccano le
contestazioni: condizioni discriminatorie
ItaliaOggi, del 26-03-2013, di Mario D'Adamo
Il
ministro Francesco Profumo ha firmato domenica 24 marzo 2013
il decreto istitutivo del tirocinio formativo attivo,
versione speciale riservata a circa settantacinquemila
docenti precari con almeno tre anni di servizio prestati
dall'anno scolastico 1999/2000 al 2011/2012, che permetterà
loro di conseguire l'abilitazione all'insegnamento di cui
ora sono privi. Il decreto modifica e integra il regolamento
n. 249 del 2010, sulla formazione del personale docente. Il
decreto organizzativo si avrà dopo Pasqua. I tanto sospirati
corsi abilitanti riservati ai docenti che in questi ultimi
anni hanno permesso alle scuole di funzionare stanno dunque
per partire, ma le buone notizie si fermano qui, poiché i
docenti non potranno partecipare tutti insieme e subito e,
una volta conseguita, la loro abilitazione varrà meno di
quella rilasciata ai partecipanti ai Tfa ordinari. Al
ministero dell'istruzione non vogliono ripetere l'esperienza
di gestire contemporaneamente decine di migliaia di
richieste, e così, come ha anticipato venerdì 22 marzo
scorso Lucrezia Stellacci, capo dipartimento
dell'istruzione, alle organizzazioni sindacali rapidamente
convocate il giorno prima, potranno essere indette da qui al
2014/2015 fino a tre tornate di corsi, tra le quali saranno
distribuiti gli attuali aspiranti (i tempi di presentazione
delle domande sono condizionati a quelli di rilascio del
visto di registrazione della corte dei conti). Per stabilire
l'ordine di partecipazione, prima novità, i docenti dovranno
sostenere dei test analoghi a quelli propinati ai Tfa
ordinari, privi tuttavia del carattere di selettività, e
saranno graduati sulla base del punteggio conseguito, da
zero a trentacinque. Chi avrà un punteggio più basso
parteciperà al corso più lontano nel tempo. Nel caso di
discipline con pochi aspiranti sarà possibile concentrare i
partecipanti in un unico corso e farlo partire subito. Anche
costoro, però, dovranno sottoporsi ai test, il cui esito
concorrerà, come per gli altri abilitandi, a formare la
valutazione complessiva, aggiungendosi ai punti per le
verifiche in itinere dei crediti ottenibili, da 30 a 50, e
ai 15 punti della prova finale. L'abilitazione si consegue
con almeno 60/100, ma, seconda novità, varrà meno di quella
dei Tfa ordinari, come richiesto dalla settima commissione
istruzione della camera dei deputati. Per organizzare la
tornata dei test e differenziare il valore
dell'abilitazione, il ministro Profumo ha adottato due altri
provvedimenti, uno interviene sui tempi e l'altro modifica
la tabella relativa ai punteggi allegata al regolamento n.
131 del 2007 sul conferimento delle supplenze. In tempi
ordinari i due provvedimenti avrebbero dovuto percorrere lo
stesso cammino dei provvedimenti originari, ma i nostri non
sono tempi ordinari. Sul primo, infatti, non sono stati
acquisiti i pareri di Consiglio di stato, consiglio
universitario nazionale, consiglio nazionale degli studenti
universitari e commissioni di Camera e Senato, né sul
secondo è stato rilasciato il parere obbligatorio del
Consiglio di stato. Il ministero sid cie pronto però per
dopo Pasqua. Ci sono seri dubbi che possano essere accolte
con favore le ultime novità del ministro Profumo e, e le
avvisaglie si sono viste subito leggendo le reazioni
fortemente negative, quasi irose, di tutte le organizzazioni
sindacali. Le novità determinerebbero danni ai docenti
partecipanti ai Tfa speciali, in particolare a quelli che
parteciperanno ai corsi successivi al primo e che non
potranno utilizzare il punteggio dell'abilitazione per
integrare quello di iscrizione nelle graduatorie delle
supplenze, l'aggiornamento essendo previsto l'anno prossimo.
Tutti poi subiranno il danno di vedersi accreditati, in sede
di revisione della loro posizione nelle graduatorie di
seconda fascia, meno punti di quelli attribuiti ai docenti
che hanno superato i corsi ordinari, anche se il titolo
conseguito è lo stesso e permette gli stessi sbocchi
professionali. Non è escluso allora che con i Tfa parta
anche l'ennesimo contenzioso giudiziario, giustificato dalla
frettolosità dei nuovi provvedimenti e la lesione della par
condicio tra docenti che partecipano ai corsi per primi e
gli altri, e tra partecipazione ai Tfa speciali e a quelli
ordinari. Senza contare le carenze procedurali.
Se la laurea
non basta
La Stampa.it,
del 25-03-2013, di Sefano Rizzato
A
fermarsi in superficie, si rischia di dare ragione a lui:
Giorgio Tedone, romano, 26 anni, che a inizio febbraio ha
messo il suo diploma di Scienze Politiche all’asta su eBay.
La laurea sembra sempre più un inutile «pezzo di carta». Ma
la verità è che – per quanto non offra la garanzia di
trovare lavoro – per molti ha rappresentato un paracadute
decisivo, proprio negli anni della crisi globale. Dice l’Istat: nel 2012 i laureati under 35 a caccia di
impiego sono arrivati a sfiorare quota 200 mila, in crescita
del 28% rispetto al 2011 e di oltre il 42% rispetto al 2008.
In tutto, senza guardare all’età, i disoccupati con laurea
sono oltre 300mila: una città di medie dimensioni. Numeri
impressionanti, ma che possono ingannare. Perché il nostro
Paese sta vivendo un aumento generalizzato della
disoccupazione giovanile. A ritrovarsi senza lavoro non sono
solo i «dottori». Anzi, a ben vedere, la laurea ha aiutato
molti a superare indenni gli ultimi tempi. Lo spiega bene la quindicesima indagine annuale sulla
condizione occupazionale dei laureati, stilata dal consorzio
interuniversitario AlmaLaurea. Tra il 2007 e il 2012, la
disoccupazione è cresciuta del 67% per i giovani di 25-34
anni, ma «solo» del 40% per i laureati della stessa età.
Insomma, la crisi ha colpito i giovani, tutti. Ma quelli con
laurea hanno trovato un impiego un po’ più facilmente. Altro
che «pezzo di carta». «Gli studi universitari restano un vantaggio fondamentale»,
conferma il direttore di AlmaLaurea, il professor Andrea
Cammelli. «È vero che a un anno dal titolo, gli occupati
sono in calo, circa 7 su 10. Ma è vero anche che a cinque
anni dal diploma, il tasso di disoccupazione tra i laureati
è bassissimo: intorno al 6%. E, nell’arco di una carriera, i
dati dicono che un laureato guadagna in media il 50% in più
degli altri lavoratori». Certo, le imprese italiane restano tra le meno propense in
Europa ad assumere «dottori». Nel totale degli occupati
italiani, solo il 17,6% ha una laurea. La media europea è di
29,1. Assumono persone con un diploma universitario grandi
imprese, con orizzonti internazionali e alto livello
d’innovazione. Il tipo di aziende che scarseggia nel nostro
Paese. Per uscire dalla crisi, dice il rapporto AlmaLaurea, abbiamo
bisogno dei giovani più di quanto loro abbiano bisogno di
noi. «Un laureato può aiutare una piccola azienda a capire i
processi di internazionalizzazione. Se invece di vedere solo
nero le nostre imprese decidessero di investire sulle
competenze, sono convinto che loro – e insieme il Paese –
sarebbero in grado di rilanciarsi».
Strumenti
informatici: «Portateli da casa»
Corriere
della sera, del 25-03-2013, di Carlo Formenti
Fino a
poco fa all'ingresso di molte scuole americane era affisso
il seguente avviso: vietato introdurre cellulari. Al suo
posto campeggia ora la sigla BYOT — bring your own
technology — che sarebbe scorretto tradurre con «portate
pure i vostri gadget», perché non si tratta di una
concessione, bensì di una direttiva: agli studenti viene
esplicitamente prescritto di entrare in classe corredati di
smartphone, tablet e, nel caso — improbabile, vista l'enorme
diffusione di questi dispositivi fra i giovanissimi — ne
fossero sprovvisti, sono ammesse perfino le play station. Perché questa svolta di centottanta gradi? La ragione di
fondo è — banalmente ma non troppo, visti i tempi di crisi
in cui viviamo — economica: molte scuole non hanno fondi
sufficienti per ottemperare alle nuove direttive didattiche,
le quali prevedono che ogni studente sia dotato di
dispositivi per potersi connettere, fare ricerche in rete,
interagire con i docenti e i compagni, ecc. Com'è noto,
questa conversione della scuola alle tecnologie digitali ha
suscitato vivaci polemiche (non solo negli Stati Uniti, dove
la svolta è in atto da tempo, ma anche da noi, dove si
prospetta imminente) fra favorevoli e contrari. I primi si
dicono convinti che non abbia senso affliggere i giovani con
metodi di apprendimento obsoleti e del tutto estranei al
loro modo di interagire e comunicare. I contrari — che fra
gli insegnanti sono la maggioranza, secondo due ricerche
condotte qualche mese fa dalle società Pew Internet Project
e Common Sense Media — sostengono che la massiccia
immersione dei ragazzi in ambienti digitali ne ha
drasticamente ridotto le facoltà di memorizzazione e
concentrazione e, quel che è peggio, la capacità di
analizzare criticamente e in profondità la realtà. Molti si sono lamentati del fatto che, ormai, per riuscire a
catturare un minimo di attenzione dai propri allievi, sono
costretti a compiere vere e proprie performance attoriali.
Gli ottimisti ribattono che, in compenso, grazie all'uso dei
nuovi media, gli studenti hanno enormemente potenziato la
capacità di cercare e trovare autonomamente le informazioni
e le conoscenze necessarie a risolvere i compiti e i
problemi che vengono loro assegnati. Tenuto conto di quest'ultima considerazione, l'idea di
delegare al «fai da te» di ragazzi e famiglie il compito di
aggiornare gli strumenti tecnologici della didattica
sembrerebbe destinata a incontrare non solo l'approvazione
degli amministrativi — attenti ai problemi di bilancio — ma
anche quella del corpo docente. Invece le cose non stanno
così; al contrario: questa novità genera non poche
perplessità anche da parte dei fautori dell'innovazione. Una
cosa, hanno argomentato alcuni docenti universitari di
computer science e scienze della formazione intervistati dal
New York Times, è far lavorare gli studenti su programmi di
apprendimento standard, appositamente studiati per
consentire di misurare e mettere a confronto i risultati,
altra cosa è lasciare che si arrangino usando strumenti e
applicazioni diverse. Ne potrebbero derivare non poche
insidie: sconvolgimento dei curricula, difficoltà di
appurare se gli obiettivi vengono raggiunti, possibilità che
l'uso di tecnologie differenti generi sperequazioni, per
tacere del rischio che il gioco si sostituisca del tutto
all'apprendimento, invece che agevolarlo. Il succo di questi ammonimenti è che l'imperativo a
risparmiare a ogni costo può causare pesanti effetti
negativi, quando sono in ballo interessi vitali come la
formazione delle nuove generazioni; una lezione che le
università italiane, sottoposte a ripetuti tagli di risorse,
hanno imparato a loro spese.
Le cifre
dell’Istat: solo nell'ultimo anno un aumento del 35 %
Il Messaggero, del 25-03-2013,
di Barbara Corrao
I DATI
ROMA: sono arrivati quasi a
200 mila i giovani laureati disoccupati. Nel 2012 i ragazzi
e le ragazze in possesso di una laurea ma non ancora di un
lavoro, sono stati 197.000 nella fascia di età compresa tra
15 e 34 anni. Erano 154 mila nel 2011, 169.000 nel 2010 e
138.000 nel 2008, primo anno di crisi. La crescita della
disoccupazione, dunque c’è stata ed è stata significativa
anche tra quei giovani che hanno giocato la carta
dell’istruzione e della formazione per costruirsi un futuro.
Dati preoccupanti che hanno fatto scattare l’allarme: ormai
nemmeno la laurea serve più a proteggersi dalla
disoccupazione? A caldo sembra questa la prima impressione
ma scendendo più in profondità dentro le cifre si scopre che
non è così. O perlomeno che lo è solo in parte.
I NUMERI
Le cifre disaggregate rese
disponibili dall’Istat, che pochi giorni fa ha presentato
insieme al Cnel il Rapporto Bes (Benessere equo e
sostenibile), sono chiare. Cresce del 28% il numero dei
laureati disoccupati rispetto al 2011. Ma cresce anche il
numero dei disoccupati totali. Lo scorso anno i senza lavoro
sono aumentati complessivamente di oltre 600.000 unità
rispetto al 2011. E il numero di giovani tra i 15 e i 34
anni in cerca di un’occupazione è salito a 1.426.000 unità.
Il rapporto tra laureati e disoccupati, in quella fascia di
età, in realtà è rimasto intorno al 13,8% nel 2012. Era
arrivato al 13,6% nel 2011, al 14,5% nel 2010, tutti anni in
cui la crisi ha picchiato duro sull’occupazione. Il rapporto
laureati-giovani disoccupati pre-crisi si attestava al 14,3%
nel 2007. Dati che indicano una sostanziale stabilità.
LE CONCLUSIONI
Come si spiega allora
l’allarme sui laureati? Intanto, in assoluto, 197.000
laureati senza lavoro sono comunque una cifra record che dà
la misura della sofferenza di una generazione colpita più di
altre dalla crisi. In massima parte si tratta di ragazze:
125.000, pari al 63% del totale Anche in questo caso, il
prezzo più alto lo paga il Sud dove i laureati senza lavoro
sono 87.000 contro 65.000 al Nord e 45.000 al Centro. Si assottiglia inoltre il vantaggio tra laureati e non
laureati disoccupati: i primi sono aumentati del 27,6%
rispetto al 2011, i secondi del 30,1%. La laurea rappresenta
dunque ancora oggi un antidoto alla disoccupazione ma
inferiore al passato: la durezza della crisi si accanisce
soprattutto sulle fasce più giovani della popolazione
attiva. Tuttavia se il tasso di disoccupazione dei laureati
è del 13,8%, quello dei diplomati è del 18,9% e sale al
24,9% tra i ragazzi fermi alle medie. L’ultima
considerazione riguarda l’aumento dei laureati in Italia che
fa inevitabilmente salire la loro incidenza sui disoccupati
nella fascia di età presa in considerazione. Eppure, siamo
ancora ai livelli più bassi della Ue dove il 34,6% dei
giovani di 30-34 anni ha un titolo universitario contro il
20,3% in Italia.
Un percorso
speciale per i precari della scuola che possa dare loro
l’abilitazione all’insegnamento. Il provvedimento riguarderà
di fatto almeno 75mila supplenti
Il
Messaggero, del 25-03-2013, di Alessia Camplone
IL PROVVEDIMENTO
ROMA Un percorso speciale per
i precari della scuola che possa dare loro l’abilitazione
all’insegnamento. Il provvedimento riguarderà di fatto
almeno 75mila supplenti. Il decreto firmato dal ministro
dell’Istruzione Francesco Profumo va ad affiancare i Tfa
(tirocini formativi attivi) ordinari, i percorsi introdotti
tre anni fa quando era ministro Mariastella Gelmini e che
sono diventati il passaggio obbligato per conferire
l’abilitazione all’insegnamento alle scuole medie e
superiori. Il Regolamento sulla formazione varato dalla
Gelmini richiede cinque anni di università (laurea breve
triennale più biennio per l’insegnamento) e un anno di Tfa.
Si colmava così la lacuna di una formazione specifica per
l’insegnamento. E per chi aveva raggiunto la laurea al
momento del varo della norma, era data la possibilità di
acquisire l’abilitazione comunque frequentando questi corsi.
Ma si confinavano in un limbo le decine di migliaia di
precari ai quali veniva a mancare il requisito decisivo per
essere immessi in ruolo. Insegnanti che avevano accumulato
supplenze per anni, e che erano stati formati “sul campo”,
si vedevano scavalcati ed esclusi. Con questo decreto,
potranno acquisire l’abilitazione i tanti docenti con una
anzianità di almeno 3 anni entro il periodo degli anni
scolastici 1999-2000 e 2011-12.
TRE TAPPE
I Tfa speciali o riservati
prevedono un percorso a tre tappe. La prima, una prova
nazionale con i quiz, che dovrà accertare le capacità
logiche, di sintesi e linguistiche del candidato, e sarà
quella che stabilità l’ordine di ammissione ai percorsi
abilitanti riservati nelle università. Visto il gran numero
di interessati (75mila è la stima fatta dallo stesso
ministero) si prevede con questa classifica di scaglionare
in tre anni gli aspiranti. Poi c’è il percorso formativo
presso le università di un anno, infine la prova finale che
dovrà accertare la preparazione professionale
dell’abilitando.
LE POLEMICHE
Non mancano le polemiche. Le
scorse settimane sono stati diffusi vari appelli perché non
fossero varati questi Tfa speciali. I corsisti dei Tfa
ordinari, infatti, sostengono che il provvedimento è
«gerontocratico» e «tradisce i principi di merito e
legalità». Un altro appello è stato sottoscritto da 415
docenti universitari che sostengono che Tfa ordinari già
premiano l’anzianità di servizio. Non mancano le rimostranze
degli stessi precari che sarebbero premiati dal
provvedimento, e che rilevano che l'abilitazione con i Tfa
speciali varrà in termini di punteggio meno di quella
acquisita con i percorsi ordinari. Voci preoccupate anche
dai sindacati. Il ministero ricorda la necessità di un
percorso virtuoso per tutti per accedere all’insegnamento.
La FLC darà
mandato ai propri uffici legali di avviare il contenzioso e
nei prossimi giorni darà conto delle iniziative di
mobilitazione che verranno avviate per bloccare l'attuazione
del decreto
La
Tecnica della Scuola, del 22-03-2013, di P.A.
Il
ministro Profumo dispone il passaggio nei ruoli Ata del
personale inidoneo e degli Itp. Consegnato ai sindacati
il testo del decreto firmato
dal ministro. Coinvolti 3.084 docenti inidonei, 460 titolari
sulla C999 e 28 titolari sulla C555. Si attende la
controfirma del Mef e della Fp. Il decreto, firmato dal ministro Profumo nella mattinata di
oggi, dà attuazione al disposto della legge del 7 agosto
2012, la quale ha previsto il passaggio dei docenti inidonei
fuori ruolo della scuola ed i titolari nelle classi di
concorso C999 e C555 nei ruoli Ata. Dall’ultima rilevazione fatta dal Miur (del 13 marzo 2013)
questo provvedimento riguarderà, ad oggi, 3.084 docenti
inidonei, 460 titolari sulla C999 e 28 titolari sulla C555. Secondo la Flc-Cgil, che ha diramato la notizia col testo
del decreto, il ministro Profumo, decide di compiere questo
atto grave. Inadempiente, continua la Flc, sull’attivazione
dell’organico funzionale e dell’organico di “reti di scuole”
(dove questi docenti avrebbero potuto trovare un qualificato
utilizzo che avrebbe valorizzato la loro esperienza
lavorativa anche in funzioni non didattiche) e le mancate
immissioni in ruolo del personale Ata, decide di firmare
come suo ultimo atto proprio questo decreto! In ogni caso questo provvedimento non è ancora efficace
perché deve essere controfirmato sia dal ministro
dell’Economia che dal ministro della Funzione Pubblica. “La FLC darà mandato ai propri uffici legali di avviare il
contenzioso e nei prossimi giorni darà conto delle
iniziative di mobilitazione che verranno avviate per
bloccare l'attuazione del decreto”.
“Poiché tutti
devono essere rappresentati e accolti nella scuola pubblica,
questa opportunità va tutelata. Per questo alle scuole è
stato raccomandato di scegliere secondo criteri non
parziali”.
Tuttoscuola, del 22-03-2013
La selezione delle domande di iscrizione in esubero rispetto
alla capacità di accoglienza della scuola “non
deve essere basata su criteri che puntano a scegliere i
migliori”. Lo ribadiscono fonti ministeriali alla luce
del dibattito suscitato dalla notizia che alcuni istituti
superiori intendono adottare test di ingresso per le prime
classi, contro cui hanno espresso un
duro
comunicato Codacons e Unione degli
Studenti. “Poiché tutti devono essere
rappresentati e accolti nella scuola pubblica, questa
opportunità va tutelata. Per questo alle scuole è stato
raccomandato di scegliere secondo criteri non parziali”. Nella circolare sulle iscrizioni per l'anno scolastico
2013-2014 emanata lo scorso dicembre, si stabilisce che
“nella previsione di richieste di iscrizione in eccedenza,
la scuola procede preliminarmente alla definizione dei
criteri di precedenza nella ammissione, mediante apposita
delibera del Consiglio di istituto, da rendere pubblica
prima dell'acquisizione delle iscrizioni, con affissione
all'albo, con pubblicazione sul sito web dell'istituzione
scolastica e, per le iscrizioni on line, in apposita sezione
del modulo di iscrizione opportunamente personalizzato dalla
scuola”. Si rammenta quindi che “pur
nel rispetto dell'autonomia delle istituzioni scolastiche, i
criteri di precedenza deliberati dai singoli Consigli di
istituto debbono rispondere a principi di ragionevolezza
quali, a puro titolo di esempio, quello della vicinanza
della residenza dell'alunno alla scuola o quello costituito
da particolari impegni lavorativi dei genitori. In
quest'ottica, l'eventuale adozione del criterio
dell'estrazione a sorte rappresenta, ovviamente, l'estrema “ratio”,
a parità di ogni altro criterio”.
-
Un pacchetto-emergenza per
università e ricerca
l'Unità, del
22-03-2013, di Marco Mancini Presidente Conferenza Rettori
La XVII legislatura della
storia repubblicana si è ufficialmente avviata. Barlumi di
speranza per il prossimo futuro si sono potuti già percepire
nei discorsi di insediamento di Grasso e Boldrini. In
particolare per quanti vivono le difficili condizioni in cui
versa il mondo dell’istruzione e della ricerca ci sono
segnali indubbiamente positivi. Da un canto il presidente
del Senato non trascura di ricordare «tutti quei giovani che
vivono una vita a metà», quegli stessi giovani in condizioni
di assoluta precarietà lavorativa dei quali, nell’altro ramo
del Parlamento e quasi nello stesso momento, stava parlando
il presidente Boldrini. La Boldrini ha auspicato che si
ascoltino le sofferenze «di una generazione che ha smarrito
se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a
portare i propri talenti lontano dall’Italia». Ed è
sacrosanto, infine, che il presidente Grasso pensi al mondo
della scuola «nelle cui aule ogni giorno si affaccia il
futuro del nostro Paese, e agli insegnanti che fra mille
difficoltà si impegnano a formare cittadini attivi e
responsabili». Queste parole vanno associate idealmente a
quanto è andato ripetendo il presidente della Repubblica
negli ultimi mesi sulla necessità di non sacrificare
ulteriormente il mondo della ricerca con «tagli lineari» e
simili. Aggiungiamoci, infine, l’ottavo «punto» dell’agenda
di Bersani dedicato a istruzione e ricerca (con misure per
gli studenti e per i ricercatori). È legittimo sperare in
un’inversione di tendenza rispetto all’immediato passato. Un
passato fatto soprattutto di fastidio, indifferenza, cinismo
e denigrazione nei confronti del mondo dell’educazione. Fino
alla sublime prova della «legge di stabilità 2013» che dava
soldi ai maestri di sci e li toglieva all’università e alla
ricerca. Abbiamo un Parlamento nuovo dal quale ci si attende
molto. Si dimostri una vera discontinuità rispetto agli anni
scorsi inserendo nei provvedimenti dei primi 100 giorni un
«pacchetto-emergenza» per l’università e la ricerca. Se è
vero che per ciascun punto dell’agenda-Bersani si deve
costruire un disegno di legge corrispondente, è il momento
di parlarne. I contenuti sono ben noti; sono stati ribaditi
una settimana prima del voto da vari organismi universitari.
Ci sono stati impegni pubblici da parte di alcuni candidati,
fra cui lo stesso segretario del Pd. In primo luogo ci vuole
maggiore attenzione per le famiglie che desiderano investire
nell’università. Lo scopo è quello di evitare il decremento
dei laureati e degli immatricolati, fra i più bassi
d’Europa; e perseverare nella formazione superiore che –
dice il rapporto di «AlmaLaurea» – ancora consente a cinque
anni dal conseguimento della laurea al 90% dei giovani di
trovare un’occupazione. Aiutare le famiglie significa
defiscalizzare tasse e contributi universitari e
incrementare il diritto allo studio che oggi non garantisce
né borse per tutti i meritevoli né residenzialità. In
secondo luogo facilitare l’accesso alla carriera ai tanti
precari con un piano di assunzioni per posti di ricercatore
che sfocino in posti di professore. L’assorbimento dei
laureati nel nostro mercato dei cervelli significa non
regalare all’estero qualcosa come due leggi di stabilità:
più di 8 miliardi di euro. A tanto ammontano i denari
regalati all’estero per la formazione dei quasi 70.000
laureati «fuggiti» negli ultimi dieci anni. In terzo luogo
garantire posti per i giovani. Oggi, anche se
paradossalmente gli atenei avessero soldi a sufficienza, non
potrebbero assumere per il blocco del turn-over, che va,
dunque, rimosso non comportando comunque spese aggiuntive
per lo Stato. In quarto luogo: cifre ragionevoli per le
infrastrutture delle università. I 6,6 mld di euro frutto
del taglio del 13% «tre-montiano» (la lineetta è importante)
bastano a stento per gli stipendi e i 38mln di euro per i
Progetti della ricerca di base (Prin) sono ridicoli. In
quinto luogo defiscalizzare i contributi delle imprese alla
ricerca sia delle università sia degli enti per promuovere
l’innovazione e superare le fragilità del nostro tessuto
imprenditoriale in vista degli specifici finanziamenti
europei 2014-2020. Inutile dire che ogni punto dovrebbe
essere accompagnato dalle opportune semplificazioni
dell’attuale giungla normativa. Se l’istruzione è una delle
chiavi per l’occupazione, il problema principale oggi per
più di un terzo dei giovani italiani, la ricerca è la chiave
per lo sviluppo dell’Italia. Non ci può essere l’una senza
l’altro.
-
Test ingresso licei,
dalla scuola pubblica della Costituzione a quella a
numero chiuso
Il Fatto
Quotidiano, del 22-03-2013, di Marina Boscaino
Fa riflettere, e molto, la
questione dell’accesso
alle scuole superiori attraverso test di ingresso
somministrati ai ragazzi di III media da parte di alcune
scuole.
Parliamoci chiaro. Dipende da
cosa vogliamo e da cosa intendiamo per scuola dello Stato.
Le alternative sono due: il modello costituzionale,
inclusivo, quello determinato dal suggestivo esordio
dell’art. 34 (“La scuola è aperta a tutti”). La scuola dei
“capaci e meritevoli” che, benché privi di mezzi, devono
essere messi nelle condizioni, nella scuola della
Repubblica, che se ne assume il dovere, di esprimere il
meglio di sé, di arrivare ai massimi livelli.
La scuola del principio di
uguaglianza, quella che rimuove gli ostacoli di
natura socio-economica, che emancipa, rende più liberi,
perché più colti e dunque consapevoli. Oppure, al contrario,
la scuola della meritocrazia,
quella della competizione tra istituti (chi ha più alunni,
chi ha gli studenti migliori), quella che fotografa,
immobilizzandoli, appartenenze e destini sociali. Quella
dell’offerta a domanda individuale, quella di serie A,
contrapposta a quelle di serie B, C… Insomma, quella
indifferente all’interesse
generale.
Si tratta di una scelta di
campo; della decisione, o meno, di imboccare una via senza
uscita, annunciata, ormai, da ripetuti tentativi più o meno
espliciti di sottrarre alla scuola il suo Dna
costituzionale: l’occhieggiare sempre meno velato a modelli
anglosassoni di scuola market
oriented.
E poi ci sono altre
valutazioni. Ragazzi di 13-14 anni, in età di obbligo
scolastico, costretti ad affrontare test di ingresso per
accedere a quella scuola che, fino a prova contraria, è
ancora parte del percorso di istruzione obbligatoria
previsto dal nostro ordinamento.
Uno spartiacque definitivo,
in un’età che – non bisogna essere Piaget per capirlo – è di
piena evoluzione. C’è da scommettere che risulteranno
vincenti i nati bene. Che accederanno alle scuole più
elitarie, adesso più che mai, le quali potranno a loro volta
pubblicizzare sui siti l’eccellenza dei loro iscritti. E
così la già gravissima confluenza dei figli di un dio minore
in percorsi non liceali – nei professionali si registra il
massimo di diversamente abili, di migranti, di disagio
sociale ed economico – sarà confermata anche dalla selezione
(in)naturale rappresentata da test sostenuti per
accaparrarsi un posto nella scuola più prestigiosa. Dove –
similes cum similibus –
si troveranno, ancor più di quanto accade oggi, i pargoli
predestinati di famiglie in cerca di precoci accreditamenti
e blasoni culturali. Accolti in scuole in cui i consigli di
Istituto abbiano deciso di sostituire i più democratici, ma
certamente meno esclusivi, criteri con cui in genere si
respingono le domande in esubero (il sorteggio o la
residenza ad esempio) con i test. Sono lontani anni luce gli
anni in cui la convivenza tra il figlio del dottore e quello
dell’impiegato o del portinaio era considerata
un valore sociale, morale e
politico.
Dalla scuola della
Costituzione a quella della pre-selezione: il
declino definitivo di un’istituzione pensata per assolvere
una funzione opposta. L’autonomia degli istituti scolastici
può consentire una simile deriva classista? Può la funzione
“orientativa” della scuola media essere sostituita da regole
“fai da te”, volte alla scrematura su base sociale e
meritocratica? Voci di corridoio dal Miur e un “cinguettio”
di Rossi Doria fanno pensare di noi. Attendiamo (e
pretendiamo) denunce, stigmatizzazioni e sconfessioni ben
più veementi da parte di chi ha e avrà facoltà e
responsabilità di intervenire sulla vicenda.
Il 20 marzo si
è insediato il comitato tecnico nazionale per definire
l'attuazione del regolamento sui centri provinciali
istruzione (CPIA) pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 15
febbraio scorso
La
Tecnica della Scuola, del 22-03-2013
Il 20
marzo si è insediato il comitato tecnico nazionale per
definire l'attuazione del regolamento sui
centri provinciali istruzione
(CPIA) pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 15 febbraio
scorso. Il sottosegretario spiega che l’obiettivo è avviare
dei progetti assistiti a partire dal 1° settembre 2013 ed
accompagnare la messa a sistema dei centri territoriali
permanenti e dei rinnovati corsi serali nell' a.s. 2014/15.
Ancora diversi i nodi da sciogliere, come quello delle
province cancellate. Il 20 marzo si è insediato il comitato tecnico nazionale per
l'istruzione degli adulti, al fine di avviare l'attuazione
concreta del
regolamento sui centri
provinciali istruzione per gli adulti (CPIA) pubblicato in
Gazzetta Ufficiale il 15 febbraio scorso. A darne notizia è
il sottosegretario all’Istruzione, Elena Ugolini, che con
l’occasione fa anche il punto sul nuovo assetto
dell’istruzione rivolta agli adulti: “lo scopo – spiega il
sottosegretario – è mettere a sistema l' esperienza dei
centri territoriali permanenti e dei corsi serali e dare
strumenti concreti per valorizzare il capitale umano delle
persone che vivono e lavorano nel nostro Paese”. Secondo quanto previsto dal regolamento i CPIA saranno
istituzioni scolastiche dotate di una propria autonomia
organizzativa, didattica e gestionale per poter progettare e
proporre anche attraverso accordi di rete stabili, un'
offerta formativa più flessibile e personalizzata. “Lo scopo
- sottolinea Ugolini - è consentire a più persone possibile
di poter conseguire dei titoli di studio di primo e di
secondo livello , attraverso dei patti formativi individuali
capaci di valorizzare le competenze già acquisite e di
conciliare i tempi del lavoro e della famiglia”. In effetti, i CIPIA potrebbero diventare una risposta
concreta per le migliaia di ragazzi tra i 16 e i 29 anni che
non studiano, non lavorano e non sono in cerca di un'
occupazione (i cosiddetti neet). Ma anche diventare uno
strumento per la riqualificazione professionale di chi ha
perso il lavoro, un luogo in cui favorire l'
alfabetizzazione linguistica per gli stranieri e la
formazione nelle carceri, rispondendo ad un bisogno diffuso
di coesione sociale . Il gruppo tecnico nazionale è composto da rappresentanze dei
diversi attori che a vario titolo lavorano per
l'apprendimento permanente: Miur, dirigenti e docenti
esperti di istruzione per gli adulti, Regioni ed Enti
locali, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ministero
del lavoro e delle Politiche Sociali, Organizzazioni
Sindacali. Il gruppo è articolato in 5 sezioni differenti di lavoro:
percorsi di primo livello, percorsi di secondo livello,
percorso di istruzione nelle carceri, strumenti di
flessibilità, assetti organizzativi e accordi di rete. I lavori del Comitato saranno funzionali alla creazione di
un documento di riferimento sulla base del quale avviare dei
progetti assistiti a partire dal 1° settembre 2013 ed
accompagnare la messa a sistema nell' anno scolastico
2014/2015. Ancora Ugolini: “questa riorganizzazione dei percorsi di
istruzione degli adulti è una parte molto importante dell'
apprendimento permanente che ha visto un passo in avanti
fondamentale nella pubblicazione del decreto legislativo
relativo alla certificazione delle competenze del 15
febbraio”. Rimangono, tuttavia, ancora molti nodi da sciogliere. Come
quello riguardante le province accorpate dall’ultimo Governo
e quelle eliminate in Sicilia. In tali casi, i Centri di
istruzione per gli adulti saranno costituiti da macro-aree
territoriali? Oppure si continuerà a mantenere il vecchio
assetto provinciale?
Il Partito
democratico riprende nel suo sito internet tutta la
problematica relativa alla scuola con tutti gli impegni che
in campagna elettorale ha preso.
La Tecnica della Scuola del
21/03/2013, di
Pasquale Almirante
Il
Partito democratico riprende nel suo
sito internet tutta la problematica relativa alla
scuola con tutti gli impegni che in campagna elettorale ha
preso. “Non c'è democrazia senza istruzione. Restituire
risorse, stabilità, fiducia a Scuola e Università”, così si
apre la pagina dedicata. Tra i punti anche l’impegno a
risolvere la questione del personale di “Quota 96”. E al paragrafo: Stabilità è sinonimo di qualità, al punto C,
troviamo: “Mandare in pensione gli insegnanti Quota 96, come
previsto da proposta di legge che stiamo ripresentando alla
Camera e al Senato (4000 posti).” Appare chiaro tuttavia che questa proposta di legge in
fieri, di mandare cioè in pensione il personale di
“Quota96”, si inserisce in un piano più ampio di
miglioramento della scuola e quindi di eliminazione, si
spera “totale”, del precariato. Per attuare tale ambizioso progetto, esaurito (ma ci
riuscirà mai qualcuno?) il quale finalmente si può pensare a
piani razionali di assunzione dei neo laureati, il Pd
propone l’assegnazione “a ogni scuola di una dotazione di
personale stabile, ma stabilizzando coloro che da troppi
anni stanno lavorando su posti vacanti con contratti annuali
e quegli insegnanti di sostegno che sono fra i più precari e
che invece dovrebbero garantire continuità didattica agli
studenti più deboli. Si tratta di 50.000 posti che si
possono stabilizzare subito per garantire continuità e
qualità alla scuola e dare concretezza all'organico
funzionale, senza spese aggiuntive per lo Stato.” Liberare quindi altri 4.000 posti attualmente coperti dal
personale “Quota 96”, che vogliono come è noto lasciare la
scuola per avere già dato quanto la legge ha finora
consentito ai loro colleghi nelle stesse condizioni,
significa allargare la platea degli occupati, riducendo
ulteriormente, se le proposte del Pd avranno concretezza di
Governo, un precariato che negli anni si è sempre di più
incancrenito e per sola ignavia dello Stato che ha chiamato
al bisogno e poi ha ritenuto di abbandonare a se stessi. E
infatti le tante sentenze della Corte europea di giustizia
hanno dato, e non a caso, torto marcio a un tale distratto e
tracotante datore di lavoro. Ma non finisce qui la superficialità della legislazione in
merito ai pensionamenti e anche per disinteresse del passato
Governo Monti (con tutti gli altri meriti che da molte parti
gli vengono riconosciuti). Approvando infatti la legge detta “spending review, il
Governo Monti ha concesso ai soli sopranumerari, in possesso
dei requisiti invocati dal personale “Quora 96”, cioè la
maturazione di 36 anni di contributi con età anagrafica di
60 anni o 40 di contributi ma con età anagrafica inferiore
purché la quota raggiungesse “96”, di lasciare il servizio
al 31 agosto 2013.
E se tale
dispositivo è legale per i sopranumerari, perché non
estenderlo anche a tutti gli altri e in modo particolare a
chi pensa di avere dato già alla scuola tutto quello di cui
disponeva?
“Poiché tutti
devono essere rappresentati e accolti nella scuola pubblica,
questa opportunità va tutelata. Per questo alle scuole è
stato raccomandato di scegliere secondo criteri non
parziali”.
Tuttoscuola, del 21/03/2013
La selezione delle domande di iscrizione in esubero rispetto
alla capacità di accoglienza della scuola “non
deve essere basata su criteri che puntano a scegliere i
migliori”. Lo ribadiscono fonti ministeriali alla luce
del dibattito suscitato dalla notizia che alcuni istituti
superiori intendono adottare test di ingresso per le prime
classi, contro cui hanno espresso un
duro
comunicato Codacons e Unione degli
Studenti. “Poiché tutti devono essere
rappresentati e accolti nella scuola pubblica, questa
opportunità va tutelata. Per questo alle scuole è stato
raccomandato di scegliere secondo criteri non parziali”. Nella circolare sulle iscrizioni per l'anno scolastico
2013-2014 emanata lo scorso dicembre, si stabilisce che
“nella previsione di richieste di iscrizione in eccedenza,
la scuola procede preliminarmente alla definizione dei
criteri di precedenza nella ammissione, mediante apposita
delibera del Consiglio di istituto, da rendere pubblica
prima dell'acquisizione delle iscrizioni, con affissione
all'albo, con pubblicazione sul sito web dell'istituzione
scolastica e, per le iscrizioni on line, in apposita sezione
del modulo di iscrizione opportunamente personalizzato dalla
scuola”. Si rammenta quindi che “pur
nel rispetto dell'autonomia delle istituzioni scolastiche, i
criteri di precedenza deliberati dai singoli Consigli di
istituto debbono rispondere a principi di ragionevolezza
quali, a puro titolo di esempio, quello della vicinanza
della residenza dell'alunno alla scuola o quello costituito
da particolari impegni lavorativi dei genitori. In
quest'ottica, l'eventuale adozione del criterio
dell'estrazione a sorte rappresenta, ovviamente, l'estrema “ratio”,
a parità di ogni altro criterio”.
Nel nome
dell'ideologia della meritocrazia si punta ad una selezione
di classe anche nella scuola dell'obbligo
il
manifesto, del 20/03/2013
Polemiche sull'ipotesi di
istituire test d'ingresso, che in alcuni casi preludono a un
vero e proprio numero chiuso, anche nelle scuole medie.
Intanto alcuni licei e istituti tecnici hanno già effettuato
diverse prove nello scorso gennaio e febbraio). Si tratta di
prove che dovrebbero servire a presidi e rettori delle
superiori per fare selezione basandosi sui meriti, ma che
rappresentano un pericolosissimo precedente perché
effettuato «in età dell'obbligo». Mettono le mani avanti dal
ministero dell'Istruzione: la selezione delle domande di
iscrizione in esubero rispetto alla capacità di accoglienza
della scuola «non deve essere basata su criteri che puntano
a scegliere i migliori. Poiché tutti devono essere
rappresentati e accolti nella scuola pubblica, questa
opportunità va tutelata. Per questo alle scuole è stato
raccomandato di scegliere secondo criteri non parziali». «I
test d'ingresso alle superiori sono una evidente violazione
della Costituzione - risponde Domenico Pantaleo, segretario
Flc-Cgil - Nel nome dell'ideologia della meritocrazia si
punta ad una selezione di classe anche nella scuola
dell'obbligo. Il Ministro Profumo intervenga immediatamente
per evitare che vengano calpestati i diritti
costituzionali».
L'Università
di Ca' Foscari: iscrizione solo con la lingua certificata. E
poi le prove per l'iscrizione nei licei, ecco come si fa a
pezzi l'istruzione universale
l'Unità,
del 20/03/2013, di
Luciana Cimino
Test d'ingresso sempre più
selettivi nelle università italiane. L'Università di Venezia
Ca' Foscari per la prima volta chiede agli studenti che
intendano iscriversi alle sue lauree triennali almeno il
livello B1 in Inglese. La selezione è basata sul Quadro
comune europeo di riferimento per la conoscenza delle
lingue, Qcer, e va, ovviamente, certificata. Una
certificazione che la scuola italiana però non offre. Di
solito la posseggono coloro le cui famiglie hanno un reddito
tale da consentire i viaggi di studio estivi in Gran
Bretagna. La Ca' Foscari ha pensato a una proroga per chi ne
è sprovvisto: si può conseguire la certificazione entro 12
mesi, gratuitamente, al centro linguistico di ateneo ma chi
non dovesse farcela sarà bloccato. «Il problema è studenti
più selezionati» dice il rettore Carlo Carrano. Sovrastato
dalle polemiche, il rettore trova man forte nel presidente
della Regione Veneto, Luca Zaia, «è impensabile ipotizzare
una formazione di alto livello per i nostri giovani senza la
conoscenza dell'inglese - dice il governatore leghista - e
non si venga a dire che la lingua al livello richiesto da
Ca' Foscari è roba da figli di papà: io stesso non ho
studiato l'inglese andando a Cambridge ma approfondendolo
sui libri e continuando a farlo tuttora on line». Il rettore
dice che «gli studenti dovrebbero già uscire dalle superiori
con la certificazione Bl». Ma così non è. E ammette: «Il
punto è che abbiamo un aumento di iscritti del 30% negli
ultimi due anni" La conoscenza certificata della lingua è
quindi un filtro dato che a causa della riforma Gelmini e
della spending review le assunzioni di docenti sono
bloccate. E gli sbarramenti arrivano anche alle scuole
superiori. Da gennaio a oggi diversi sono state le prove di
ammissione che alcuni istituti hanno riservato ai ragazzi di
terza media. Alla base il solito problema degli spazi,
sempre insufficienti mentre crescono gli alunni. L'esigenza
di contenere le iscrizioni rischia però di aumentare il
divario sociale. «Siamo inorriditi», dice la Rete degli
studenti medi. «La scuola superiore è scuola dell'obbligo, è
folle immaginare di utilizzare dei test per bloccare
l'accesso ». Sulla stessa linea anche l'Unione degli
studenti: «Non si può permettere - dichiara Roberto
Campanelli - che l'assenza strutturale di fondi alla scuola
le trasformi in luoghi della selezione e non
dell'emancipazione per tutti». E di «sbaglio» parla anche il
Partito democratico, perché, spiega Francesca Puglisi,
responsabile scuola, «siamo ancora nell'obbligo scolastico e
perché tutte le ricerche dimostrano che classi eterogenee
per abilità e origini economico- sociali degli studenti sono
quelle che offrono i migliori risultati negli apprendimenti.
È l'ingente danno culturale che ci lascia la destra: che la
scuola debba selezionare le eccellenze abbandonando la
propria funzione di ascensore sociale" Contraria anche
l'Arci e, mentre le associazioni dei consumatori annunciano
ricorsi, la Flc- Cgil si dice pronta «a intraprendere tutte
le iniziative possibili per bloccare la deriva demagogica"
«È l'ennesimo attacco al diritto all'istruzione. Non si può
ostacolare l'accesso alle scuole nel nome dell'ideologia
della meritocrazia», dice Mimmo Pantaleo, segretario
generale. Parole su cui concorda anche il sottosegretario
Marco Rossi-Doria: «le scuole superiori sono aperte a tutti:
servono risorse per farle funzionare meglio, altro che
numero chiuso”
-
Le nebbie del lavoro
docente. Una proposta
La Tecnica della Scuola,
del 20/03/2013, di Mila
Spicola
Nel 2014 scade il contratto
nazionale collettivo dei docenti.
In vista di tale scadenza
vorrei in qualche modo attivare una riflessione sul tema,
prima che si scateni la bufera, prima che arrivino le flotte
dei “lavorate solo 18ore” e dall’altra “siamo degli eroi”.
Entrambe foriere di nulla se non di guai. Noi non siamo
eroi, siamo lavoratori dello Stato con diritti e doveri e
come tale dobbiamo iniziare a ragionare, perché è ovvio che
fino ad oggi i “fregati” dalle due affermazioni di sopra,
siamo stati sempre e solo noi. Con l’accusa del “lavorate
solo 18 ore” in realtà, l’ “eroe stupido”, arriva a lavorare
anche 40-50 ore alla settimana, dentro o fuori scuola, e
nessuno mai ci dirà grazie. Senza tutele, senza
riconoscimenti economici o di carriera e con un prestigio
collettivo che decresce giorno dopo giorno. Non va. Sappiamo bene che i pericoli a cui potevamo essere esposti,
non discutendo in modo aperto e chiaro su tale equivoco,
sono diventati realtà: condizioni di lavoro ormai
insopportabili, silenzio totale sul
burn out, malattia che
soffriamo il 65% dei docenti, dequalificazione del lavoro
per condizioni contestuali impossibili. Sì, certo, le buone
pratiche, le isole felici, i “lì ci sono riusciti”…Un
sistema complesso e strategico come la scuola non può
fondarsi sulla discrezionalità e sul sacrificio. E se il
fine ultimo del nostro lavoro è la qualità dell’istruzione
fornita ai ragazzi dallo Stato, persino i colleghi più
“nobilmente dediti con onore e merito al sacrificio per la
Patria” dovranno ammettere che così non va. Non fa parte né
di uno Stato moderno, né dell’etica del lavoro in generale,
né del mandato particolarissimo del docente, trascurare, in
buona come in cattiva fede, questi temi. Conosco
perfettamente la profonda convinzione, perché ce l’ho anche
io, della definizione del nostro lavoro in senso qualitativo
e non in senso qualitativo. So perfettamente che la nostra è
una funzione h/24, almeno per la maggior parte di noi. Ma un
contratto va scritto, un contratto statale poi, deve avere
riconoscimento collettivo ed economico, anche come
responsabilità e dovere di verifica sociale, oltre che
tutela personale, del lavoro. E se il nostro riconoscimento
collettivo pretendiamo di averlo da un contratto che viene
continuamente preso in considerazione a “ore”, a cottimo, e
non a valore e tempo complessivo reale della professione
fornita, non ne usciamo. E’ un nodo complesso ma da qualche
parte dobbiamo pur iniziare. Quella che vi sottopongo è
una proposta sul lavoro docente che era comparsa
qualche tempo fa sulla Rivista Scuola Democratica. Vorrei
condividerla con voi e ragionare nel merito delle questioni,
cercando di sfuggire le astrazioni e la retorica che poi si
risolvono nel nulla di fatto. La proposta è integrabile, emendabile e soggetta a tutti i
contributi. E’ una base di discussione e riflessione comune,
una proposta appunto, da portare in giro e discutere, per
farci trovare pronti, prima che la facciano altri e ci
impongano soluzioni irricevibili come quella delle 24 ore
senza rivedere l’impianto complessivo dell’organizzazione
del lavoro e poi prenderci pure gli insulti dal paese intero
come “nemici di ogni innovazione”. E allora, cerchiamo di
proporre almeno una regolarizzazione di ciò che già si fa. Vi chiediamo una mano a diffonderla e a renderla patrimonio
comune di discussione in vista della scadenza del Ccnl del
2014. Miriamo a formulare una proposta compiuta e quanto più
condivisa, da sottoporre all’ attenzione dei decisori
istituzionali e delle parti sindacali? O quanto meno a farne
base di confronto per attivare riflessioni?
La vicenda delle ore di
lezione in più da imporre ai docenti è stata emblematica
della confusione e degli equivoci
creati da un contratto
che fino ad oggi è stato poco chiaro, fumoso e, per taluni
aspetti, scritto in malafede. Nel non distinguere
innanzitutto tra ore di lezione e tempo scuola. E sappiamo
com’ è andata e come va: mentre definite sono le ore di
lezione, 18 ore, luogo dell’indefinito rimane il tempo
scuola (che va spesso oltre le famigerate 40 ore funzionali
all’ insegnamento, lo sappiamo benissimo) come indefinito è
il numero di alunni. Il “tempo scuola indeterminato”, che
costituisce realmente il nostro lavoro, è privo di
regolamentazione, di riconoscimento sociale ed economico,
come anche di tutela. Le ore dedicate al lavoro e a scuola
sono già oggi in media 30 ore la settimana. Con punte di 40
ore. Quella che segue è la
bozza di una proposta di migliore definizione del lavoro di
un insegnante elaborato dalla rivista Scuola Democratica. E’
una proposta, non la proposta. Non svegliamoci quando sarà
tardi, quando tutti arrabbiati e sconcertati ci riuniremo in
collegi dei docenti affrettati e urlanti. Il contratto scade
il prossimo anno. Ci serva da canovaccio di discussione,
adesso però. Va aggiornata, elaborata, condivisa e discussa.
Vi chiediamo di farla girare e di venirla a commentare, a
integrare e a discutere sulla pagina di Insieme per la
Scuola, o di organizzare incontri e dibattiti coi colleghi
in ogni scuola (la bozza di proposta è tratta da :http://scuolademocratica.blogspot.it/). La proposta parte da presupposti da molti di noi ribaditi da
anni e adesso, spero, patrimonio comune di molti:
-
un miglior livello di
istruzione medio è un fattore di sviluppo, innovazione e
competitività economica per il paese;
-
la strada più rapida per
uscire da una crisi economica è potenziare cultura,
conoscenza e formazione; è necessario invertire la rotta
dei governi precedenti, che ha perseguito
(consapevolmente o inconsapevolmente) la
dequalificazione dell’istruzione pubblica e la
svalutazione della professione dell’insegnamento;
-
aumentare la
considerazione dei docenti della scuola pubblica,
assicurare loro prestigio sociale e riconoscimento,
investire sulla loro formazione e qualificazione è il
mezzo migliore per incentivare la qualità della scuola
(come dimostrano le analisi recenti effettuate e
mostrate nel Rapporto The Learning Curve);
Il primo passo dovrebbe
essere il riconoscimento
giuridico e la formalizzazione contrattuale di tale
professione (completamente assente dal Ccnl
vigente). Ciò significa innanzitutto pervenire ad
un’adeguata quantificazione giuridicamente e
contrattualmente definita della funzione e delle modalità
organizzative in cui si esplica. Il secondo passo è quello
di riscrivere il Contratto utilizzando la formula “Tempo
scuola” comprendendo all’interno di questo le ”Ore
di lezione“. Proponiamo un contratto con due
inquadramenti:
1.Contratto a tempo pieno
Orario di servizio di 36 ore
per i docenti che scelgono il tempo pieno (è in pratica il
nostro attuale orario),
così suddivise:
-
diciotto ore di
didattica (che sono le sole attualmente retribuite,
mentre il resto, fumosamente determinato sotto la voce
giuridicamente discutibile “obblighi di servizio”,
continua ad aumentare di anno in anno).
-
diciotto ore di altre
attività istituzionali riconosciute e retribuite:
-
alcune di queste saranno
da trascorrere a scuola la mattina e/o il pomeriggio in
orari indicati dal docente o concordati con gli altri
interessati (es: progettazione di percorsi formativi,
programmazione collegiale, valutazioni quadrimestrali e
finali, dialogo con le famiglie, uscite didattiche,
recupero, integrazione, ecc.);
-
altre potranno essere
svolte liberamente in altri luoghi (es: programmazione
individuale, valutazione elaborati, ricerca,
aggiornamento, ecc.).
Dato che sull’argomento c’è
molta confusione (orario di lezione confuso con l’orario di
lavoro), occorre precisare con molta chiarezza che:
-
buona parte dei docenti
già svolgono di fatto il tempo pieno, anche se questo
evidente dato (del resto, richiesto a chiare lettere dal
Ccnl) non è per nulla riconosciuto e quantificato
giuridicamente né tanto meno economicamente retribuito;
-
non solo, essi sono i
protagonisti principali, con la loro dedizione, di tutte
le innovazioni che hanno in questi ultimi anni
modificato profondamente il sistema formativo pubblico
italiano, elevandolo già ora ad un notevole livello
qualitativo;
-
ancora, negli ultimi
anni gli impegni connessi allo svolgimento della
funzione docente sono esponenzialmente aumentati;
-
rimandiamo su tali
argomenti (orario effettivo di lavoro in costante
aumento e rapporto inversamente proporzionale con la
retribuzione) ad un intervento fondamentale in materia,
non certo di parte: l’articolo “Tutte le voci che
compongono la busta paga dell’insegnante” di Domenico
Cucchetti, pubblicato sul supplemento “L’esperto
risponde” n. 94 de Il
Sole – 24 ore del 1993 (dati ripresi in seguito da
molte altre pubblicazioni);
-
rimandiamo anche
(sull’esigenza improrogabile di aumentare le
retribuzioni degli insegnanti in ragione di quanto
sopra) all’intervento dell’allora ministro della
Pubblica Istruzione, Giancarlo Lombardi, apparso il 28
dicembre 1995 sul Corriere della sera con il titolo “Salari più alti
ai docenti – la scuola rischia l’agonia” (tema ripreso e
sviluppato da molti altri studiosi dei sistemi
formativi);
-
le attività su elencate
non sono da introdurre; esse sono già svolte, come
conferma anche il profilo professionale contrattualmente
richiesto dalla normativa contrattuale vigente;
-
ciò che invece il
contratto dovrebbe formalmente riconoscere è il fatto
che l’orario di servizio del docente è di 36 ore (si
tratta di una formale media al ribasso: molti di noi
fanno anche 40-50 ore a settimana) e che la retribuzione
deve essere comparata a tale orario effettivo di
servizio.
2. Contratto a tempo
parziale (part time)
Proponiamo inoltre
l’istituzione di un orario
a tempo parziale (part time) che si configuri sulla base
della specificità della professione e per chi volesse
sceglierlo e potrebbe essere organizzato in questo
modo:
-
nove ore di didattica;
-
nove ore di altre
attività istituzionali riconosciute e retribuite:
-
alcune di queste saranno
da trascorrere a scuola la mattina e/o il pomeriggio in
orari indicati dal docente o concordati con gli altri
interessati (es: progettazione di percorsi formativi,
programmazione collegiale, valutazioni quadrimestrali e
finali, dialogo con le famiglie, uscite didattiche,
recupero, integrazione, ecc.);
-
altre potranno essere
svolte liberamente in altri luoghi (es: programmazione
individuale, valutazione elaborati, ricerca,
aggiornamento, ecc.).
Naturalmente, tale orario di
servizio dovrebbe essere reso obbligatorio per chi svolge la
libera professione per rispondere alla duplice esigenza di
non privarsi, da un lato, del prezioso apporto di tali
professionisti e di non creare, d’altro canto, una
sottocategoria di docenti impegnati a mezzo servizio che per
evidenti motivi non possono dedicare il loro tempo a tutte
le attività connesse e funzionali all’insegnamento (e
altrettanto irrinunciabili) di una cattedra a tempo pieno.
3.
Riconoscimento
economico della professione
Occorre procedere ad un
normale e dovuto adeguamento agli standard europei
del lavoro docente, questo comporta una
maggiorazione retributiva
generalizzata per tutti i docenti con contratto a tempo
indeterminato di 36 ore, che abbiano superato il
periodo di prova e scelgano l’orario di servizio a tempo
pieno. In base alle tabelle di confronto che inserisco alla
fine di questo articolo, tendenzialmente tale retribuzione
dovrà essere pari circa al 30% in più rispetto a quella
attuale per tutte le posizioni stipendiali, al fine di
adeguare la retribuzione degli insegnanti italiani agli
standard europei. Secondo un rapporto della Ue il lavoro dei docenti nei
decenni passati era sottopagato perché fatto da donne e
considerato socialmente un lavoro di cura, piuttosto che un
lavoro professionale. In Italia è ancora così. E svolto
essenzialmente da donne (97% delle maestri e 87% delle
insegnanti superiori, volutamente uso il femminile plurale),
è scarsamente remunerato e viene considerato socialmente,
specie per la scuola primaria e secondaria di primo grado
più un lavoro di cura che una professione che ha il compito
specifico di fornire istruzione. Prova ne è l’assenza totale
di altri ordini di lavoro compresi tra il docente e il
dirigente,il cosiddetto middle management o le funzioni di
assistenza e tutoraggio alla classe e ai ragazzi (passaggio
da un’ora all’altra, ingresso e uscita da scuola,
ricreazione, mensa,..) svolto da altro personale, durante i
momenti che non sono lezioni, presenti negli altri paesi,
funzioni che svolgono gratis e con enormi responsabilità non
dovute, i docenti: è come chiedere a un medico di fare anche
l’infermiere perché non sono previsti nell’ordinamento del
sistema sanitario. Ma tant’è. Siamo donne. Percentuali di
presenza donne e rapporto remunerativo che si ribaltano nel
caso degli insegnamento accademici e universitari: maggiore
presenza di uomini e stipendi molto più alti. Negli ultimi 30 anni gli altri paesi hanno fatto enormi
passai avanti, sul piano della promozione della scuola e sul
piano della promozione della dignità e della professionalità
del lavoro docente, (altissima specializzazione e selezioni
molto dure per accedere al lavoro docente) anche attraverso
il riconoscimento economico dei docenti. Noi no. A noi,
semplicemente non converrebbe come Paese. Eppure nessuno
riconosce questo Gap, nemmeno i governi, che trascurano
sempre di sottolinearlo. Nemmeno i sindacati: per un tacito
accordo al ribasso:uno scarso stipendio per uno scarso
lavoro, “solo 18 ore”, sulla carta però, perché non è più
così da decenni. E per un’arretratezza generale di politiche di genere, da
cui la scuola non è rimasta immune: le donne,
tradizionalmente, sono le meno portate a contrattare sulle
remunerazioni. Non è il solo motivo, ma concorre. La
malafede dei governi (un contratto ambiguo giustifica
richieste ambigue e retribuzioni basse, a fronte di un
lavoro professionale e di professionisti) e una società
inconsapevole fanno il resto.
-
tale maggiorazione
retributiva realisticamente potrebbe andare a regime
entro la scadenza del prossimo Ccnl;
-
contestualmente, entro
la stessa data si dovrà provvedere alla graduale
estinzione di quelli che eufemisticamente sono definiti
compensi delle attività aggiuntive, la cui soppressione
è auspicabile poiché si configura come un vero
monstrum giuridico
offensivo per la categoria: evidentemente ciò di cui
auspichiamo la
soppressione è il cosiddetto “Fondo dell’istituzione
scolastica”, dietro cui si nasconde un profilo
di illegittimità: si tratta molto semplicemente di
pagamento a cottimo, a prezzo da manodopera a bassissimo
costo e dequalificata, di attività che il docente già
svolge (anche perché fanno parte del suo profilo
professionale), ma che non sono adeguatamente
retribuite, non configurano progressione economica, non
sono pensionabili, ecc.; beh! il nostro modesto parere è
che qui ci troviamo in un campo molto delicato, di
violazione dei diritti dei lavoratori, di violazione
degli stessi diritti umani, con il consenso (questo è
davvero sconcertante) degli stessi rappresentanti
sindacali, che di quei diritti dovrebbero essere i
difensori; ad onor del vero va detto che il “Fondo di
incentivazione” fu introdotto come strumento transitorio
per arrivare all’istituzionalizzazione contrattuale di
un compenso accessorio per i docenti, che avrebbe dovuto
avere ben altre caratteristiche di quelle che ora
possiede il “Fondo”; ma si trattò di promesse che non
hanno mai avuto attuazione;altrettanto realisticamente a
decorrere dal periodo di validità del prossimo contratto
di categoria (da rinnovare subito) dovrebbe essere
possibile reperire le risorse per destinare ai succitati
docenti (con contratto a tempo indeterminato che abbiano
superato il periodo di prova e scelgano l’orario di
servizio a tempo pieno) una maggiorazione retributiva
pari a circa un terzo dell’adeguamento agli standard
europei (cioè il 10% in più dell’attuale retribuzione):
-
nella fase transitoria
potrebbero essere soppressi i “lauti” compensi relativi
alle attività funzionali all’insegnamento; tali attività
infatti devono essere retribuite in modo giuridicamente
più corretto, con la maggiorazione retributiva da noi
proposta;
-
dovrebbero invece essere
mantenuti nella stessa fase, finché le nuove
retribuzioni non siano a regime, i compensi relativi
alle attività aggiuntive di insegnamento (corsi di
recupero, ecc.);
-
tutti gli insegnanti che
scelgono il tempo parziale potrebbero godere
dell’attuale retribuzione con orario e tempo-cattedra
dimezzati;
-
per i docenti nell’anno
di prova e per i docenti con contratto a tempo
determinato si potrebbe studiare una maggiorazione
retributiva più contenuta, o in alternativa mantenere in
vigore tutti i compensi per le attività aggiuntive di
qualsiasi tipo.
Obiettare che c’è la crisi,
che non ci sono risorse, che altre categorie stanno peggio è
del tutto fuori luogo. Le risorse ci sono, il fatto è che
vengono sistematicamente occultate o sprecate, con
l’evasione e l’elusione fiscale, con la corruzione e con la
criminalità organizzata. Inoltre, proprio nel settore pubblico vi sono retribuzioni
(in primis, tra i funzionari pubblici, gli amministratori, i
politici, ecc.) che creano notevoli diseguaglianze e
intaccano l’essenza stessa della democrazia e dello stato di
diritto. Il nesso tra democrazia ed equità delle
retribuzioni è evidente a tutti senza bisogno di andarlo a
spiegare. Infine, “la nostra proposta servirà precisamente a risolvere
la crisi con misure davvero efficaci, innescando un circolo
virtuoso (“Niente cultura, niente sviluppo” ha giustamente
scritto qualche tempo fa Il Sole /24 Ore, ribadendo il
concetto in altri interessanti articoli), che non si può
certo ottenere con politiche recessive che inseguono la
crisi e non ne raggiungono mai la fine, come Achille con la
tartaruga nel paradosso di Zenone.”(da Scuola Democratica) Io raccolgo questa proposta e vela giro, aggiungendo
un’altra voce:
Diritto/dovere alla
formazione in servizio (da svolgere all’interno delle 36 ore
o delle 18 ore)
Fa parte
della funzione docente il
diritto/dovere alla formazione in servizio, come
strumento necessario di
qualificazione professionale, come anche di
armonizzazione delle pratiche, del lessico e di base di
sperimentazione. Il lavoro del docente deve affrontare oggi
problemi educativi e relazionali, oltre che didattici, deve
attrezzarsi in una sfida costante alla modernità e ai nuovi
linguaggi per governarli e condividerli in modo sano. Non è
un lavoro che si acquisisce semplicemente con la formazione
iniziale (tra l’altro, oggi, assolutamente inadeguata e
insufficiente), e nemmeno più con l’esperienza. Ha bisogno
di formazione e aggiornamento continuo. Formazione in
servizio somministrata su base nazionale, obbligatoria,
programmata, continua, qualificata e svolta in
collaborazione con gli istituti riconosciuti di ricerca
educativa nazionale e internazionale. Senza una fortissima e
sostanziosa qualificazione professionale dei docenti non si
può agire sui sistemi d’istruzione. La proposta di sopra è integrabile, emendabile e soggetta a
tutti i contributi. E’ una base di discussione e riflessione
comune, prima che la facciano altri e ci impongano soluzioni
irricevibili come quella delle 24 ore, calate dall’ alto e
assolutamente ignare delle reali condizioni attuali della
professione docente. Vi chiediamo una mano a diffonderla e a
renderla patrimonio comune di discussione in vista della
scadenza del Ccnl del 2014, condividendola sulle vostre
bacheche e facendola girare Miriamo a formulare una proposta compiuta e condivisa da
sottoporre all’attenzione dei decisori istituzionali e delle
parti sindacali. O quanto meno a farne base di confronto per
attivare riflessioni? Ogni proposta, integrazione, critica è
adesso sacrosanta.
Se volete partecipare
all’elaborazione, con commenti, organizzazione di incontri
dibattito o altro, potete farlo sulla pagina di
InsiemexlaScuola, dove lasceremo in evidenza la proposta:
https://www.facebook.com/groups/147678985315635/
Una piattaforma in rete,
libera e condivisa, di discussione e costruzione di temi che
riguardano la scuola. Una sorta di WikiScuola. Chiunque può favorire la crescita e il miglioramento della
Scuola Statale Italiana. Ricordatevelo.
-
Inidonei, un decreto in
extremis
Il passaggio
dei docenti nei ruoli ata non sarebbe definitivo
ItaliaOggi, del 19/03/2013,
di Franco Bastianini
É in atto
l'ennesimo tentativo di definire la posizione giuridica,
economica e professionale dei circa quattromila insegnanti
che, dichiarati per motivi di salute inidonei a svolgere la
funzione docente, sono stati collocati fuori ruolo e
utilizzati in altri compiti nelle scuole o negli uffici
scolastici territoriali o negli uffici del ministero
dell'istruzione.
Quattro
sono stati fino ad oggi i tentativi di trovare una soluzione
al problema. Il primo era contenuto nella legge n. 289/2002.
Il comma 5 dell'art. 35 di tale legge disponeva che i
docenti inidonei potevano chiedere di transitare nei ruoli
dell'amministrazione scolastica, di altra amministrazione
statale o di un ente pubblico. In assenza di domanda e
trascorsi cinque anni sarebbero stati soggetti alla
risoluzione di autorità del rapporto di lavoro. La
disposizione non fu mai applicata. Il secondo tentativo,
contenuto nel comma 608 dell'art. 1 della legge n. 296/2006,
stabiliva che ai fini di quanto prevedeva il predetto comma
5 dell'art. 35, doveva essere predisposto un apposito piano
organico per consentire una mobilità intercompartimentale.
Il tentativo non andò in porto sia per la indisponibilità
della Funzione Pubblica, che per le resistenze apposte dalle
organizzazioni sindacali del pubblico impiego. Il terzo
tentativo, posto in essere dal legislatore con la legge n.
244/2007, disponeva l'istituzione di un ruolo speciale ad
esaurimento nel quale avrebbero dovuto essere collocati
tutti gli inidonei in attesa di mobilità. Del ruolo speciale
non se ne è fatto nulla, ma l'annuncio è servito ad
allontanare la prospettiva del licenziamento.
Quarto
tentativo. Per tentare di dare una soluzione al problema, il
legislatore si era affidato all'art. 19 del decreto legge n.
98/2011 il quale disponeva tra l'altro l'inquadramento degli
inidonei, previa specifica istanza, esclusivamente nel ruolo
degli assistenti amministrativi e tecnici. In assenza
dell'istanza era ipotizzato il passaggio obbligatorio nei
ruoli del personale amministrativo delle pubbliche
amministrazioni. Lettera morta anche il quarto tentativo.
L'ultimo
intervento del legislatore, in ordine di tempo, è contenuto
nell'art. 14 del decreto legge n. 95/2012 che disponeva il
passaggio degli inidonei, entro il 15 settembre 2012, nel
ruolo degli amministrativi e tecnici del comparto scuola.
Disponeva inoltre che con apposito decreto ministeriale
dovevano essere stabiliti i criteri e le procedure per
l'attuazione delle predette disposizioni. In assenza del
decreto non c'è stato alcun passaggio e gli inidonei stanno
continuando a prestare servizio nelle scuole svolgendo i
compiti loro assegnati.
Ora c'è
un nuovo decreto in preparazione.
Stando ad
alcune indiscrezioni, il nuovo decreto manterrebbe in vigore
il principio del trasferimento dei docenti inidonei su posti
Ata, trasferimento che tuttavia dovrebbe realizzarsi
gradualmente sui posti vacanti e disponibili dopo le
operazioni di mobilità relative al prossimo anno scolastico.
Il trasferimento nel ruolo del personale Ata non farebbe
comunque venire meno la possibilità di transitare in altre
amministrazioni quando saranno attivate le relative
procedure. Verrebbe inoltre consentito agli inidonei, senza
una ulteriore visita medica, di essere dispensati dal
servizio ed essere collocati a riposo con diritto al
trattamento pensionistico
Il blocco
imporrà il drastico calo dei posti disponibili per le
supplenze
il
manifesto, del 19/03/2013
La
riforma Fornero ha ridotto di almeno un terzo il
pensionamento dei docenti che, fino all'anno scorso,
avrebbero potuto accedere a questo diritto con 60/61 anni
d'età e 35/36 anni di contributi, ma saranno costretti a
lavorare per almeno altri 5 anni. Docenti nati nel '51-'52,
noti come «Quota 96». In alcune province il blocco imporrà
il drastico calo dei posti disponibili per le supplenze. Per
la Flc-Cgil in provincia di Bari i pensionamenti toccheranno
un picco negativo mai registrato prima: sono solo 81 le
domande che riguardano il personale Ata e 308 i docenti.
L'anno scorso erano più del doppio e due anni fa più del
triplo. A Roma si passerà dai 1900 del 2012 a 854 del 2013,
a Napoli da 1566 a 766, a Perugia da 205 a 99. Su 17
province censite in un rapporto pubblicato su «Orizzonte
Scuola» sono 3800 i docenti che non potranno andare in pensione.
Lo sostiene
una ricerca condotta da Assolombarda (l'associazione
territoriale di Confindustria di Milano e Provincia) insieme
a Cgil, Cisl e Uil
il
manifesto, del 19/03/2013, di ro. ci
I giovani neo-laureati tra i
25 e i 34 anni che cercano un lavoro in Italia e non lo
trovano sono cresciuti del 12% nel 2012. Lo sostiene una
ricerca condotta da Assolombarda (l'associazione
territoriale di Confindustria di Milano e Provincia) insieme
a Cgil, Cisl e Uil. Rispetto alla media nazionale del 38,7%,
la disoccupazione giovanile a Milano e in Lombardia supera
di poco il 20%, ma resta ugualmente preoccupante.
I dati complessivi
sull'occupazione. presentati ieri da Assolombarda e dai
sindacati, registrano una netta differenza tra Milano e il
resto del paese. La quota di chi non trova lavoro è
rispettivamente del 7,3% e del 6,7%. Ma anche qui la crisi
si fa sentire, visto che il tasso di disoccupazione è salito
al 7,8% dal 6% del 2011. Questo aumento viene spiegato con
il ritorno di chi, nel 2011 era stato classificato tra gli
«scoraggiati», mentre oggi è in cerca di lavoro.
Assolombarda e i sindacati
confermano che il disagio crescente della condizione
lavorativa delle donne. La disoccupazione femminile milanese
è al 6,3% contro il 5,7% maschile. Il rapporto la descrive
«ampia e sempre più qualificata», come quella dei giovani
milanesi tra i 25 e i 34 anni, «high skilled», freschi di
laurea o di specializzazione. Tra i 15 e i 24 anni, invece,
sei giovani su dieci studiano, due hanno un lavoro, uno è
occupato e uno è «neet», cioè non studia e non cerca un
lavoro.
In lieve assestamento è
l'occupazione complessiva nel capoluogo lombardo, oggi al
66,4% contro il 66,8% del 2011, mentre in regione è rimasta
stabile al 64,7% come nel resto del paese (a 56,8% dal
56,9%). Il ricorso alla cassa integrazione è diminuito del
6%, contro un aumento nazionale delle richieste del 12%. Dai
914 milioni di ore autorizzate nel 2009 si è passati alla
cifra stratosferica di 1,2 miliardi nel 2010. Il monte-ore
di tutte le forme di cassaintegrazione si è attestato sopra
quota 1 miliardo nel 2012.
Per quanto riguarda gli
infortuni, secondo l'Inail nella provincia di Milano sono
stati circa 40 mila nel 2011, concentrati nel terziario e
nell'industria. Al netto di quelli in agricoltura e dei
dipendenti, il totale negli ultimi 5 anni è andato
riducendosi dai 52 mila del 2007 ai 38.500 del 2011. Nel
rapporto si precisa la vocazione terziaria e
dell'intermediazione finanziaria dell'area milanese. A
differenza di altri territori a forte vocazione edile,
agricola o manifatturiera, questa caratteristica influisce
sulla cifra relativamente contenuta di questi infortuni.
Nel rapporto c'è anche un
approfondimento sulle «competenze» dei giovani diplomati
ricercate dalle imprese. I profili sono quelli dell'Itc, poi
quelli meccanici, elettronici e elettrotecnici, chimici e
amministrativi. Le imprese sono interessate a chi sa gestire
informazioni, rapporti organizzativi e il controllo della
produzione.
Sembrano essere apprezzate le
competenze nei settori orientati all'applicazione, l'età
giovane e la disponibilità a «lavorare in produzione»
rispetto ai colleghi laureati che li rende «un serbatoio del
management intermedio delle piccole e medie imprese». I
promotori della ricerca sollecitano infine la costituzione
di «Comitati tecnico-scientifici territoriali» per favorire
l'interscambio tra scuola e lavoro mediante tirocini a
Milano e provincia.
Con la riforma
Fornero, prof in cattedra altri 5-7 anni. Le proiezioni
confermano: si uscirà con il contagocce. Ipotecate le future
assunzioni
ItaliaOggi, del 19/03/2013,
di Alessandra Ricciardi
Altro che svecchiamento. Con i
nuovi requisiti della riforma Fornero, le prossime
assunzioni nella scuola saranno fatte con il contagocce e
l'età dei docenti italiani, già alta, continuerà a crescere:
di almeno 5 anni, anche 7 per le donne. Le proiezioni sui
pensionamenti 2013, trapelate in questi giorni, danno il
segnale dell'inversione del trend: se lo scorso anno sono
andati in pensione in 30 mila, quest'anno non si arriverà
neanche alla metà, tra insegnanti, ausiliari, tecnici e
amministrativi.
La situazione è destinata a
peggiorare dal 2015, quando quasi tutti i dipendenti
potranno accedere al trattamento previdenziale con i nuovi
requisiti: chi poteva andare in pensione di anzianità con 35
anni di lavoro, dovrà aspettare di aver maturato i 42 anni
di contributi, se uomo, o i 41 se donna; a pagare di più
saranno le insegnanti interessate alla pensione di
vecchiaia: se prima della riforma Fornero bastavano 61 anni
di età e 20 di contributi, l'età dovrà essere di almeno 66,
che cresce lentamente verso i 67. Come gli uomini, a cui
prima servivano 65 anni di età. Insomma, una pesante ipoteca
sulle prossime assunzioni: salvo un piano straordinario di
investimenti, che svincoli il reclutamento dalla copertura
dei posti lasciati disponibili dai pensionamenti, si
assumerà poco. Il concorso in atto, con le sue 11 mila
immissioni in ruolo, consentirà a tutti i docenti
verosimilmente di essere in cattedra già il prossimo
settembre, salvo non si decida di assumere sulla metà dei
posti disponibili anche dalle graduatorie a esaurimento. Per
non parlare del fatto che il dimezzamento dei pensionamenti
si rifletterà negativamente anche sui posti disponibili per
gli incarichi annuali. Insomma, si è innescata una reazione
a catena che renderà molto difficile il ricambio.
L'età media dei docenti
italiani è di 50 anni, e nel tempo anche quella dei precari
è salita: 39 anni. Insomma, i docenti arrivano in cattedra
tardi e vi dovranno restare a lungo. Nel Regno Unito,
soltanto il 32% degli insegnanti ha più di 50 anni. In
Francia è il 30% e in Spagna il 28%.
É pendente presso al Corte
costituzionale un ricorso che potrebbe nell'immediato
migliorare la situazione dei pensionamenti attesi per
settembre. Si tratta di quanti avevano maturato i requisiti
pre Fornero non al 31 dicembre 2011 -limite fissato dalla
legge- ma al 31 di agosto 2012: chiedono di tenere conto che
nella scuola l'anno di servizio si matura entro agosto e non
entro dicembre. Se la Corte dovesse dire di sì, verrebbe
loro riaperta la porta del pensionamento e ci sarebbero
alcune migliaia di nuove cattedre da poter coprire.
Il ministro uscente
dell'istruzione, Francesco Profumo, aveva lanciato l'ipotesi
di avviare già quest'anno un nuovo concorso per il 2014, la
procedura poi si è arenata per la fine anticipata del
governo. Ma forse ha giocato un ruolo anche la previsione di
una riduzione progressiva delle uscite che renderebbe
oltremodo dispendioso avviare le procedure concorsuale (alle
ultime, i candidati sono stati oltre 300 mila) per assumere
su poche migliaia di posti.
Per il prossimo governo resta
così tutto da districare il nodo di una riforma del
reclutamento, con una eventuale revisione delle percentuali
di immissioni tra graduatorie concorsuali e graduatorie ad
esaurimento, che consenta di aprire a forze fresche senza
però tradire le aspettative di quanti, dopo decenni di
precariato, aspirano a una stabilizzazione. Gli spazi per
agire non sono ampi, le attese del settore invece sì.
L'idea di
molti presidi alle prese con il boom di iscritti: "Non c'è
spazio per tutti". Ma è polemica: "No al numero chiuso nella
scuola dell'obbligo". La Cgil sul piede di guerra: "È
vietato, denunceremo queste iniziative"
la
Repubblica, del 19/03/2013, di
Corrado Zumino
I test d'ingresso, che in
alcuni casi preludono a un vero e proprio numero chiuso,
entrano nelle scuole medie. Alcuni licei, linguistici,
istituti tecnici, convitti hanno fissato diverse prove tra
gennaio e febbraio (scorsi). Sono scritti di matematica e
italiano, inglese e tedesco, di logica e di musica destinati
a chi sta frequentando la terza media e con largo anticipo
ha già scelto la scuola dove approdare.
I risultati di questi test
serviranno a presidi e rettori delle superiori per fare
selezione basandosi sui meriti, le conoscenze e le
attitudini. Il test "in età dell'obbligo" è un inedito
pericoloso per la scuola pubblica italiana.
L'ultimo annuncio è arrivato
dall'Istituto tecnico (e liceo delle scienze applicate)
Fermi di Mantova.
La preside Cristina Bonaglia,
verificata la forte crescita delle iscrizioni on line, ha
annunciato: "Siamo oltre i trenta alunni per ognuna delle
nostre sei prime, troppi. Faremo come all'università: prova
d'ammissione e numero chiuso. Useremo il criterio della
meritocrazia, come ha già deciso il consiglio d'istituto.
Invito i genitori a non allarmarsi". Con una circolare, la
dirigente del provveditorato provinciale ha chiesto alle
famiglie "in eccedenza" di accettare lo spostamento del
figlio all'istituto indicato come seconda scelta. A Mantova,
però, anche nel pari grado Belfiore le richieste
d'iscrizione sono in crescita e il numero delle aule sempre
fermo.
Come per l'università, il test
per le scuole superiori nasce per esigenze di sopravvivenza
- poche classi, troppi alunni -, ma rischia di diventare una
discriminazione per quattordicenni in piena evoluzione. Il
liceo europeo Altiero Spinelli di Torino propone il test dal
2007. La struttura ha introdotto addirittura la prova
selezionante per le medie: in quinta elementare, chi vuole
entrare allo Spinelli, si deve sottoporre a test.
Deve conoscere pronomi
personali e aggettivi possessivi in almeno due lingue
straniere, a dieci anni. La preside Carola Garosci ne parla
con rammarico: "Il test setaccio non ci piace per niente, ma
dobbiamo farlo. Da anni chiediamo più spazio alla Provincia,
condividiamo il palazzo con altre due scuole. L'ultima
risposta è stata una circolare: non abbiamo la possibilità
di dare a voi né ad altri nuove aule. Con cinque classi e
trecento richieste dovremmo stipare sessanta ragazzi per
classe e allora abbiamo optato per le prove annunciate sei
mesi prima dell'iscrizione. Chi non passa, e quest'anno sono
stati centosettanta, farà in tempo a provare altrove. I test
si basano sulle competenze dei ragazzi, da noi contano le
lingue straniere. Altre scuole, raggiunto il quorum degli
studenti ospitabili, lasciano a casa tutti gli altri, a
primavera inoltrata. Noi, almeno, diamo un criterio e una
logica alla nostra selezione".
La logica del merito in età
adolescenziale. La prova di ingresso non determina solo una
graduatoria per l'ammissione, ma, si legge nell'offerta
formativa della scuola, "fornisce uno strumento per la
formazione delle classi". Intelligenze omogenee tutte
insieme.
Anche il convitto Umberto I,
sempre a Torino, ha organizzato il test d'ingresso a
gennaio, "per motivare maggiormente i futuri alunni del
liceo". La griglia di correzione consentirà di valutare,
testuale dal sito: la capacità di attenersi alle consegne e
di concentrazione, la velocità, la conoscenza della lingua
italiana e dei rudimenti di quella inglese, le conoscenze
logico-matematiche, le capacità di organizzazione del
lavoro. Tolti di mezzo i non abili, i primi giorni dei
quattordicenni prescelti serviranno a "sdrammatizzare il
passaggio dalla scuola media alla scuola superiore
allentando la tensione". Il convitto nazionale di Roma,
Vittorio Emanuele II, seleziona con i test. Fra le materie
da studiare c'è il cinese e, qui, le attitudini sono
necessarie. Così come sono necessarie le inclinazioni per
entrare in un liceo musicale, l'unico per il quale il test
d'ingresso è previsto da una legge nazionale.
Carmela Palumbo, direttore
generale del ministero dell'Istruzione, dice: "I test
d'accesso per scremare sono discutibili, ma per ora
limitati. Nelle circolari diffuse abbiamo chiesto ai
consigli d'istituto di non selezionare sotto il profilo
meritocratico, in una scuola e in una classe ci devono
essere tutti i livelli di conoscenza". Alcune scuole (liceo
classico D'Azeglio di Torino) affidano l'ingresso in aula
degli alunni a un sorteggio. Altre (liceo Virgilio di Roma,
sezione internazionale) usano i voti delle scuole medie.
Gianna Fracassi, segretaria nazionale della Cgil scuola,
attacca: "Siamo pronti a denunciare le scuole che
allestiscono test d'ingresso per le prime superiori. Siamo
in piena scuola dell'obbligo e ogni criterio meritocratico,
qui, è solo un danno per gli alunni"
Penso al mondo
della Scuola, nelle cui aule ogni giorno si affaccia il
futuro del nostro Paese, e agli insegnanti che fra mille
difficoltà si impegnano a formare cittadini attivi e
responsabili”
17/03/2013
La Tecnica della Scuola, del
17/03/2013, di P.A.
Dopo l’elezione di Laura
Boldrini, eletta nelle liste di Sel alle ultime elezioni,
alla Presidenza della Camera dei deputati, nella stessa
giornata di oggi è stato eletto Piero Grasso alla presidenza
del Senato. Nel suo discorso di insilamento come Presidente del Senato,
il neo senatore, eletto nelle liste del Pd in Sicilia, non
ha dimenticato la scuola. E per quanto ci riguarda questo
appare un buon inizio. E appare un buon inizio anche per i
riferimenti che ha fatto: alle aule, dove si forma il futuro
del nostro Paese, ma che non si pensa a mettere a norma
contro i crolli e i sommovimenti della terra; e agli
insegnanti che nelle difficoltà che ogni giorno vivono,
anche in termini talvolta di accuse e soprattutto di scarsa
riconoscenza e gratifica, si impegnano per formare i
cittadini “responsabili”.
Un discorso che fa ben sperare
sulle future intenzioni del nuovo Parlamento e che ci
auguriamo possano trovare terreno fertile e accoglienza
unanime da tutti gli schieramenti, anche perché la scuola
non vive di partiti politici ma di didattica e di cultura,
di saperi e di conoscenze per formare cittadini consapevole
e liberi, soprattutto.
La denuncia
della Flc-Cgil: «Non ci sono neppure i soldi per pagare i
supplenti»
GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, del
18/03/2013
Intere classi
che entrano alla seconda ora e che escono un'ora prima della
fine delle lezioni perché alle scuole viene negata la
possibilità di nominare, per pochi giorni, i supplenti.
Attività di laboratorio a singhiozzo perché non ci sono i
soldi per riparare i computer e le lavagne digitali, per
acquistare il materiale indispensabile alle esercitazioni,
per garantire il funzionamento degli istituti nel
pomeriggio. E ancora ambienti poco puliti perché i bidelli,
in numero insufficiente rispetto alle reali necessità, sono
costretti a fare la spola fra più sedi nelle quali devono
vigilare sugli ingressi. La scuola in provincia di Bari è in
affanno. La situazione è così grave da meritare l'attenzione
del ministro. Ne è convinto pure il provveditore Mario
Trifiletti che ha inviato una lettera all'Ufficio scolastico
regionale, chiedendo di trasmettere la denuncia al dicastero
dell'Istruzione. Il provveditore nei giorni scorsi ha
raccolto le lamentele di Claudio Menga, segretario
provinciale della Flc-Cgil, e di Antonello Natalicchio,
coordinatore dei dirigenti scolastici per lo stesso
sindacato. Riassume Natalicchio: «Noi presidi siamo in
difficoltà. A fronte dei tagli delle risorse per il
funzionamento, ci siamo trovati a gestire situazioni
complesse. Il quadro normativo poco chiaro certamente non
aiuta». Con la nascita degli istituti comprensivi (che hanno
unito sotto una unica dirigenza materne, elementari e medie
inferiori) e con le fusioni di più istituti superiori
sottodimensionati la situazione è diventata esplosiva. «Si
sono create megascuole con oltre mille alunni - spiega il
preside - ma le tabelle che servono a calcolare il personale
da assegnare ai singoli istituti sono tarate su una
popolazione di mille studenti, non oltre. È un'assurdità».
Così accade che i dirigenti non applichino alla lettera il
regolamento non rispettando per esempio il monte ore di
lezione, oppure lasciando incustoditi per frazioni di
giornate le scuole, oppure chiedendo contributi alle
famiglie non per migliorare l'offerta formativa, ma per
sostituire le stampanti. «Gli aspetti più delicati -
evidenzia il provveditore Trifiletti riguardano
l'inadeguatezza delle risorse economiche per la retribuzione
delle ore eccedenti, il taglio degli organici del personale
ausiliario, tecnico e amministrativo, l'inserimento di
docenti dichiarati inidonei all'insegnamento nei ranghi
degli assistenti amministrativi, l'introduzione di
innovazioni telematiche incompatibili con infrastrutture
tecnologiche spesso inadeguate ed obsolete, la difficoltà di
ottenere dagli enti locali le suppellettili ». Rientra nelle
emergenze quotidiane la carenza cronica di banchi e sedie
che non cadano a pezzi. Menga rincara la dose: «I presidi
sono abbandonati al loro destino. Devono affrontare problemi
quotidiani senza denaro e nell'isolamento nel quale sono
stati confinati dalla condotta irresponsabile del
ministero».
Uno studio
europeo che si basa sui test Pisa destinato a aggiungere
argomenti a uno di principali punti di contrasto tra
famiglie e professori. E in Italia la differenza sembra tra
le più marcate
la Repubblica, del
18/03/2013,
di Salvo Intravaia
Gli insegnanti favoriscono le
ragazze e gli studenti benestanti o provenienti da ambiti
socio-culturali più favorevoli". A parità di performance, in
buona sostanza, studenti maschi e alunni provenienti da
ambienti deprivati vengono penalizzati dai propri insegnanti
al momento di assegnare le valutazioni finali e i voti nel
corso dell'anno scolastico. La "denuncia" non arriva da una
associazione studentesca e neppure da un gruppo di genitori
intenti a difendere i propri figli, ma addirittura
dall'Ocse: l'Organizzazione (internazionale) per la
cooperazione e lo sviluppo economico. Il ventiseiesimo approfondimento condotto dall'Ocse sui test
Pisa - in Lettura, Matematica e Scienze - del 2009 danno
ragioni in più a una lamentela classica di genitori e
alunni. Il focus pubblicato qualche giorno fa mette sul
banco degli imputati i docenti e la loro imparzialità
nell'attribuire i voti agli alunni. Da sempre, le
valutazioni attribuite dai professori agli studenti
rappresentano uno dei punti fermi della scuola, ma anche uno
dei più controversi. Tanto che la maggior parte dei ricorsi
dei genitori a fine anno riguardano appunto le valutazioni
finali degli insegnanti. E, tra le nazioni europee in cui è stata condotto
l'approfondimento di ricerca, l'Italia sembra essere uno dei
paesi dove c'è più sperequazione tra voti attribuiti dagli
insegnanti e saperi reali. Il titolo della ricerca è tutto
un programma: "le aspettative legate ai voti", in inglese,
"le grandi speranze: come i voti e le politiche educative
influiscono sulle aspirazioni degli alunni", in francese.
Sta di fatto che i voti, e lo sanno bene i prof,
rappresentano nella scuola uno dei motivi del contendere più
sentiti per studenti e genitori. "Gli insegnanti - si legge nella ricerca - tendono ad
attribuire alle ragazze ed agli studenti provenienti da
ambiti socio-economici più favorevoli migliori voti a
scuola, anche se non hanno una migliore performance,
rispetto ai ragazzi e agli studenti provenienti da ambiti
socio-economici svantaggiati". Gli esperti dell'Ocse non
esitano a definire questo trend "preoccupante" perché può
penalizzare gli studenti anche nelle scelte future. Le
ricadute negative possono essere di due tipi con conseguenze
a lungo termine per i meno fortunati. Ecco quali. "Da una parte, gli studenti - spiegano dall'Ocse
- fondano sovente le loro aspirazioni, in termini di studi e
di carriera, sui voti che ottengono a scuola; da un'altra
parte, i sistemi educativi utilizzano i voti nella selezione
degli studenti per l'accesso ad un indirizzo di studi e,
successivamente, per l'accesso all'università". Per valutare
l'attendibilità dei voti espressi dagli insegnanti in
Lettura, l'Ocse ha consegnato ai quindicenni una scheda in
cui dovevano segnare il voto in Italiano - o nella lingua
del paese in cui si svolgeva il test - loro attribuito dai
professori. E, successivamente, ha determinato la
correlazione tra il voto attribuito ai quindicenni dai
propri prof con la performance in Lettura nel test Ocse-Pisa. Scoprendo che a parità di risultati nel test Pisa le ragazze
e gli studenti più abbienti riescono a strappare ai propri
insegnanti voti più alti. "Lo scopo principale dei voti -
spiegano da Parigi - è quello di promuovere l'apprendimento
degli studenti, informandoli dei loro progressi, attirando
l'attenzione degli insegnanti sui bisogni educativi dei loro
studenti e, infine, attestando il livello di competenza
valutata dagli insegnanti e dalle scuole". Ma i docenti
sembrano "anche basare le loro valutazioni su altri
criteri". Il test Pisa "ha dimostrato che le istituzioni
educative e gli insegnanti ricompensano costantemente
caratteristiche degli studenti che non hanno relazione con
l'apprendimento".
Gavosto: da
noi penalizzati gli immigrati
La Stampa, del
18/03/2013, di Flavia Amabile
Adrea Gavosto, direttore della
Fondazione Agnelli: perché questa decisione della Francia?
Davvero bocciare non serve? «È dimostrato che nella stragrande maggioranza dei casi non
aiuta. Chi aveva un percorso difficile continua ad averlo
anche dopo essere stato bocciato, e spesso viene bocciato di
nuovo. A volte, se può, abbandona del tutto. C’è stata una
presa di posizione molto netta su questo punto anche da
parte dell’Ocse: non è questo lo strumento migliore per
evitare lo spreco di risorse umane». In Italia siamo un po’ troppo buonisti però, dicono in
tanti. «In Italia il tasso di bocciature è insignificante alle
elementari, è intorno al 4% alle medie e sale invece al 10%
alle superiori ma con tassi anche del 17% per chi frequenta
i primi anni delle superiori». Insomma nella scuola dell’obbligo si boccia poco. «Si bocciano soprattutto gli immigrati. Il loro rischio di
non farcela può essere fino a 19 volte più elevato di quello
che corre uno studente italiano. L’obbligo è esteso fino a
16 anni, però, dunque si devono frequentare almeno uno o due
anni di superiori». Ed è a quel punto che inizia la selezione vera e propria. «È giusto che ci sia severità, ma le bocciature si
potrebbero evitare aiutando gli studenti a scegliere il
percorso più adatto alle loro caratteristiche. E poi,
organizzando attività di sostegno, corsi pomeridiani, o
allungando il tempo della scuola anche al pomeriggio. È
importante anche che il gruppo docente faccia agire i
compagni di classe, lasciando che siano loro ad aiutare chi
è più fragile». Attività di sostegno, corsi pomeridiani e tempo allungato:
bellissimo e irrealizzabile. Mancano i fondi. «Verissimo, ma la realtà non cambia: bocciare è un
fallimento della scuola, un arrendersi di fronte a un
problema che non si è stati in grado di risolvere».
Ripete l’anno
uno studente su tre. Ora i socialisti vogliono farla
diventare “un’eccezione”
La Stampa, del
18/03/2013, di Alberto
Mattioli (corrispondente da Parigi)
Davanti ai tabelloni secondo
una ricerca, il 57% degli studenti francesi ripete almeno un
anno nel corso della sua carriera scolastica. Dal vietato vietare di sessantottina memoria al vietato
bocciare. Gli obbiettivi della gauche diventano meno
ambiziosi ma più realisti. Nella scuola francese, far
ripetere l’anno diventa fuorilegge. O quasi: «Nel quadro
dell’acquisizione di conoscenze, competenze e metodi
prevista alla fine del ciclo e non più dell’anno scolastico,
far ripetere un anno deve essere eccezionale». Così recita
l’articolo primo della «legge di rifondazione» della scuola,
fiore all’occhiello del programma di François Hollande,
attualmente in discussione all’Assemblée nationale. Con un emendamento, i deputati socialisti sono andati anche
più in là di quanto proposto dal loro governo, che si era
limitato a scrivere che si deve «proseguire la riduzione
progressiva» dei ripetenti. Invece adesso la bocciatura
diventa l’eccezione che dovrebbe confermare la regola di una
scuola migliore. Liberté, égalité, fraternité e promozione. Il benefattore della peggio gioventù è il controverso
responsabile dell’Educazione nazionale, il filosofo
socialista Vincent Peillon, una specie di mina vagante nelle
acque governative, un ministro iperattivo che una ne fa e
cento ne propone, compresa quella di legalizzare le droghe
leggere (si spera non in classe). Però la sua crociata
contro le bocciature non è così eccentrica. Fra i Paesi
dell’Ocse, la Francia detiene saldamente il record del «redoublement»,
la ripetizione dell’anno: tocca a più di uno studente su
tre, quando la media nel resto del mondo è di meno di uno su
sette. Da tempo, gli esperti vanno ripetendo che la misura è, ai
fini pedagogici, del tutto inutile. Di certo, è disastrosa
per quelli economici: nel 2009, per esempio, ha
rappresentato un aggravio di più di due miliardi di euro per
le esauste casse pubbliche. E del resto la mitica «circolare
della rentrée», cioè l’editto del ministero che indica
obiettivi e modalità dell’anno scolastico che inizia, già
nel 2010 spiegava ai professori recalcitranti che far
ripetere l’anno «costituisce l’ultima risorsa». Ma i docenti
francesi finora non se ne sono dati per inteso e proseguono
le loro stragi di discenti. Sulla scuola, Hollande si gioca molto. Quello
dell’Educazione nazionale è uno dei tre ministeri (gli altri
sono gli Interni e la Giustizia) dove lo Stato continuerà a
investire. Delle 60 mila persone che assumerà nei prossimi
cinque anni, 54 mila saranno nella scuola. Se finora tutte le riforme erano partite dal liceo per
«scendere» verso le elementari, la filosofia di Peillon è
opposta: gli sforzi e i mezzi saranno concentrati sulla «primaire»,
specie per gli alunni che per ragioni di estrazione sociale
o provenienza territoriale sono svantaggiati. Secondo le
statistiche, alla fine delle elementari è scolasticamente
«fragile» un ragazzino su quattro e questo ritardo,
nell’implacabile logica selettiva della scuola francese, in
seguito non viene colmato quasi mai. Certo, l’Educazione nazionale è un tale mastodonte (850 mila
insegnanti, 12 milioni di studenti) che chi la tocca deve
armarsi di pazienza e prudenza. Peillon ha già scatenato un
putiferio proponendo di passare alle elementari dalla
settimana di quattro giorni (ovviamente pieni) a quattro
giorni e mezzo. E anche il dibattito sulla sua legge si sta
svolgendo in un’atmosfera da per chi suona la campana, anzi
la campanella. La destra giudica la riforma «ideologica» e
«chiacchierona» e cerca di soffocarla sotto 1.400
emendamenti. La gauche più a gauche la trova non abbastanza
audace e non la voterà. I Verdi avevano addirittura proposto
di vietare i voti alle elementari, ma il loro emendamento è
stato respinto. I voti restano, la bocciatura no
In Finanziaria
non sono state stanziate le risorse
Il Sole
24 Ore, del 15/03/2013, di
Gianni Trovati
Niente indennità di vacanza
contrattuale aggiuntiva per il pubblico impiego,
nemmeno se il provvedimento che la congela espressamente
insieme ai rinnovi contrattuali non dovesse arrivare entro
il mese di aprile. L'unico fattore di urgenza per il
Governo, in questo quadro, sarebbe legato al riconoscimento
contabile degli scatti di anzianità nella scuola, che in
mancanza del blocco entrerebbero nei tendenziali di finanza
pubblica. Il blocco di fatto delle retribuzioni pubbliche
anche dopo la scadenza di quello "di diritto" a fine 2012
emerge dalla lettura combinata delle regole sulla «tutela
retributiva» dei dipendenti pubblici. Il blocco di rinnovi
contrattuali e stipendi individuali introdotto con la
manovra estiva (articolo 9 del Dl 78/2010) è scaduto a fine
2012, e la sua estensione al biennio 2013-2014, prevista
nella prima manovra estiva 2011 (articolo 16 del Dl 98/20n),
ha bisogno di un Dpr per essere applicata. Il Dpr è già
stato predisposto, ma si sta incagliando anche per ragioni
legate all'opportunità o meno per un Governo uscente di
assumere un atto di forte peso simbolico. I sindacati nei
giorni scorsi sono passati all'attacco, e non è ancora stata
presa una decisione sul suo approdo o meno al prossimo
consiglio dei ministri. TUTELA PARZIALE Anche senza il Dpr che congela le
intese rimane in pagamento la tutela economica relativa al
2010-2012 Qui si innesta il problema dell'indennità di
vacanza contrattuale per i dipendenti pubblici. Introdotta
per il primo biennio dalla Finanziaria 2009 e prolungata
fino al 2012 dalla manovra 2010, l'indennità è stata resa
strutturale dalla riforma Brunetta, che l'ha introdotta nel
Testo unico del pubblico impiego (articolo 47-bis del Dlgs
165/2001). L'indennità andrebbe pagata a partire da aprile
dell'anno successivo alla scadenza del contratto nazionale
di riferimento, ma la sua partenza non è automatica:
l'attribuzione deve infatti avvenire «entro i limiti
previsti dalla legge finanziaria in sede di definizione
delle risorse contrattuali ». E qui sta il punto. Nella sua
prima versione la legge di stabilità bloccava per il
2013-2014 sia i rinnovi contrattuali sia l'indennità di
vacanza contrattuale, con una previsione che è poi stata
espunta per essere trasferita nel Dpr sul tema. Ovvio,
quindi, che nella stessa legge non sia stato predisposto
alcuno stanziamento per l'indennità, e nemmeno per i rinnovi
contrattuali che quindi non possono partire senza risorse.
In questo quadro, rimane in vita solo l'indennità che copre
la prima vacanza contrattuale, quella del 2010-2012, senza
aggiunte per l'ulteriore stallo dei rinnovi. "
-
Un voto che interroga
anche i sindacati
ScuolaOggi,
del 14/03/2013, di Pippo
Frisone
Dopo i “vaffa..” e “tutti a
casa”, rivolti all’intera classe politica,” l’extra omnes
“dei prelati a conclave, chiude il cerchio delle
“esortazioni “ forti , tanto per usare un eufemismo .
Il dissesto dell’intero
sistema politico, uscito dalle urne il 26 febbraio è sotto
gli occhi di tutti gli italiani.
Uno stallo pericolosissimo che
si sovrappone ad una gravissima crisi economica e sociale.
Una disoccupazione in crescita
che sfiora il 40% tra i giovani , sette milioni di italiani
sempre più poveri, l’inflazione al 3%, il lavoro che non c’è
, i contratti fermi al palo non possono non interrogare sul
dopo-voto tutte le organizzazioni sindacali, stranamente
ammutoliti in questa fase.
Come spiegare questo
“strano”silenzio ? Una delle spiegazioni che mi son dato è
che in questa anomala competizione elettorale han perso
anche loro, Cgil, Cisl e Uil .
Ufficialmente agli atti degli
organismi dirigenti non c’è stata una preventiva
dichiarazione di voto o un documento a favore di questo o di
quel partito. Ci son stati, è vero, dichiarazioni
individuali di voto anche di segretari generali nazionali e
di categoria, dichiarazioni apparse non solo sui giornali ma
anche in televisione. Endorcement, presenze a convegni di
partito, candidature di sindacalisti, segretari nazionali e
regionali molto noti, distribuiti in quasi tutte le liste.
E poi, una non tanto velata
campagna elettorale di appoggio e a sostegno delle
rispettive tifoserie politiche.
C’era la convinzione anche in
casa confederale che il centrosinistra avrebbe vinto le
elezioni e che la Lista Civica di Monti ce l’avrebbe fatta a
conseguire un buon risultato che l’avrebbe reso decisivo al
Senato. Previsione del resto in linea con tutti i sondaggi,
almeno fino a 15gg dal voto.
Poi la doccia fredda che
ammutolisce e mette all’angolo anche i sindacati.
Come uscirne ? I sindacati
checché ne pensi il sig.Grillo, nel bene e nel male sono
ancor oggi una grande forza di coesione nazionale e di
tenuta democratica di questo Paese.
Secondo gli ultimi dati
riferiti al 2012 Cgil, Cisl e Uil organizzano e
rappresentano oltre 12 milioni di italiani cosi distribuiti
: Cgil 5.712.642 di cui 2.997.123 pensionati, Cisl 4.442.750
di cui 2.200.206 pensionati, Uil 2.196.442 di cui 575.266
pensionati, per un totale di 12.351.834
E inoltre, se ai confederali
aggiungiamo la Ugl con 2.377.529 iscritti, la Confsal con
1.818.245 e le restanti OO.SS. minori, pari a 3.176.639 si
raggiunge una cifra di quasi 20milioni di iscritti,
pensionati compresi.
Su 23.025.000 lavoratori
attivi e 6.000 autonomi e a progetto, i lavoratori
sindacalizzati raggiungono quasi 10milioni.
Da dove ripartire per far
uscire dall’angolo e dal silenzio le OO.SS. ?
Basta rievocare gli scioperi
del marzo del 43 a Torino, Genova, Milano sotto
l’occupazione nazi-fascista, come han fatto Angeletti ,
Camusso e Bonanni? Certamente non basta.
Per tornare a dare voce ai
lavoratori nei luoghi di lavoro in un momento di grave crisi
anche il sindacato deve voltare pagina.
Per farli contare c’è un solo
modo : la condivisione nelle scelte che contano, a partire
dai contratti nazionali e da quelli integrativi. Occorre
rovesciare l’impostazione attuale. Occorre aprirsi e non
trincerarsi dietro le decisioni degli apparati. Aprirsi non
solo agli iscritti ma a tutti i lavoratori che altrimenti
non avrebbero altre occasioni per potersi esprimere e
contare.
L’accordo sugli scatti di
anzianità, tanto per restare nella scuola su una materia
ancora scottante, perché non è stato sottoposto al voto di
tutti i lavoratori? Dobbiamo ancora rimanere prigionieri
delle logiche di apparato che decidono per tutti o è giunto
il momento di voltare pagina, se vogliamo veramente imparare
qualcosa dal voto del 24-25 febbraio ? E’ stato sufficiente
il referendum indetto dalla sola Flc-cgil ? Sicuramente no.
La semplice testimonianza non basta più.
Tutte le OO.SS. almeno le più
grandi e a partire da quelle confederali devono fare molto
di più.
Oltre alla sburocratizzazione
interna, allo svecchiamento necessario, al rinnovamento
delle procedure interne con congressi troppo lunghi, devono
portare a termine i problemi irrisolti della rappresentanza,
rappresentatività sindacale e della loro certificazione,
della validazione dei contratti nazionali e integrativi.
Il 28 giugno 2011 è stato
firmato un accordo interconfederale tra Confindustria e
Cgil,Cisl e Uil proprio sulla rappresentanza sindacale.
Una prima risposta ai colpi di
mano di Marchionne sui referendum ultimativi con ricatto
incorporato.
Perché non partire da lì per
stimolare poi una legge sulla rappresentanza? Dare seguito e
applicazione a quest’ultimo accordo unitario sarebbe già un
primo timido segnale, magari ancora insufficiente ma
comunque un segnale importante per riprendere un cammino
unitario in nome della democrazia sindacale.
Prima che sia troppo tardi
anche per il sindacato .
Prima che arrivi qualcuno e
gli gridi: Extra omnes! Fuori tutti!
La Flc-Cgil
non ha firmato all’Aran l' intesa definitiva sugli scatti
nella scuola perché comporta la drastica riduzione dei fondi
per il miglioramento dell'offerta formativa.” Lo dichiara
Mimmo Pantaleo, il segretario generale della Flc-Cgil
La
Tecnica della Scuola, del 14/03/2013
“La stessa mette in discussione il diritto di docenti ed Ata
ad avere un’equa retribuzione delle prestazioni che si
svolgono nelle scuole a favore degli alunni. Lo scambio fra
MOF e scatti d’anzianità è iniquo perché propone un
meccanismo che dà ad alcuni togliendo a tutti i diritti
contrattuali. Prevede che nel prossimo rinnovo contrattuale
si recupererà una maggiore produttività individuale per
compensare ciò che è stato tagliato in termini di organici:
Una vera e propria beffa! L’Intesa pone le premesse per dividere di nuovo i lavoratori
e riproporre la contrapposizione fra scatti (a partire da
quelli maturati e non pagati nel 2012) e MOF. Ribadiamo la
richiesta di rimuovere il blocco degli scatti d’anzianità
per tutti. Tra l'altro tale taglio si concretizza in
un’enorme opera di impoverimento dell’autonomia scolastica e
dell’autonomia negoziale di Dirigenti ed Rsu.
I risvolti sulla
contrattazione integrativa sono pesantissimi e i tentativi
di limitare la contrattazione di scuola sono la conseguenza
dello stato d’incertezza e di confusione determinati
dall’intesa. Deve essere chiaro a tutti che non accetteremo
interpretazioni arbitrarie sulla contrattazione. Abbiamo già
avviato il percorso per la definizione della piattaforma per
il rinnovo del contratto nazionale.
E’ importante che tali giudizi
siano stati condivisi dalle 2100 assemblee di consultazione
del personale della scuola, promosse autonomamente dalla Flc
–Cgil, che hanno registrato l’85% dei no all’intesa. Per la
nostra organizzazione sindacale il giudizio dei lavoratori
sarà sempre vincolante rispetto agli accordi che si
sottoscrivono”.
Docenti divisi
sui compiti corretti e valutati da altri prof
Corriere
della sera, del 13/03/2013, di
Federica Cavadini
«Troppo individualismo. Ogni
insegnante è sovrano. Sacrosanto l'intervento per una
valutazione degli studenti più omogenea». «Innovazione
utile. Deve esserci uniformità». «Una strategia, non
l'unica». Ma anche. «Siamo all'esproprio della valutazione.
È l'annullamento dell'insegnamento».
Divide anche la seconda
proposta del preside del liceo classico Berchet, che un anno
fa aveva chiesto ai suoi insegnanti di evitare i voti bassi,
«umilianti». Adesso ha introdotto la correzione (anche)
trasversale delle prove scritte, con i professori che si
scambiano le verifiche. «Per evitare storture. Per avere
equità nella valutazione, oggi in molte scuole manca», ha
spiegato Innocente Pessina, da quattro anni alla guida del
liceo. «Una verifica che andrebbe affrontata più volte
durante il quadrimestre». «Perché ci sono insegnanti che
usano voti come manganelli».
Reazioni nel liceo di via
Commenda. I professori, che un anno fa avevano respinto il
primo invito, quello sui voti, adesso, sulla correzione
incrociata, sono divisi. La sperimentazione è partita nel
triennio, hanno detto sì a Pessina gli insegnanti di alcune
materie. Ma prevalgono i no fra i colleghi del ginnasio. Le
versioni di greco e latino non si toccano. Ognuno dà i voti
ai suoi studenti.
E adesso il dibattito è aperto
negli altri licei. Dai classici Manzoni e Parini agli
scientifici Leonardo e Volta. Tutti d'accordo sulla
premessa, il problema della valutazione va affrontato. «Non
c'è omogeneità all'interno dello stesso istituto,
figuriamoci fra scuole e città diverse», dice il preside del
Parini, Arrigo Pedretti. «Basta guardare i tabelloni dei
voti per vedere le differenze fra sezioni. Con la correzione
incrociata i voti scenderanno o saliranno anche di tre
punti. In particolare in alcune materie. Su un tema di
italiano i giudizi possono essere opposti», dice Roberto
Silvani, alla guida del Volta.
Anche il preside del classico
Manzoni, che boccia il metodo Pessina («così si affronta un
concorso per la magistratura») riconosce che sul tema della
«equità di valutazione» occorre lavorare. «Da noi ogni anno
il collegio docenti fissa parametri condivisi. Sul nostro
sito c'è la circolare con criteri e modalità di verifiche e
valutazioni», spiega Luigi Barbarino. «Le prove comuni per
materia le facciamo due volte l'anno. Anche se ogni classe è
diversa. Ma ognuno corregga le sue verifiche e valuti i suoi
alunni».
Al liceo scientifico Leonardo
da Vinci, la preside Maria Concetta Guerrera dice subito che
presiede a tutti gli scrutini «per garantire che gli stessi
criteri siano adottati in tutte le classi». Basta o anche il
liceo di via Respighi introdurrà la correzione trasversale?
«Non occorre, se i docenti lavorano in gruppo. Ci sono i
dipartimenti (che riuniscono gli insegnanti di una stessa
materia), strumento prezioso di autoanalisi, supporto,
controllo».
«Ma i professori non
comunicano fra loro. La nostra scuola, non soltanto il
Parini, soffre di troppo individualismo. Paralizzata da
micro conflitti. Ogni sezione fa repubblica a sé. I docenti,
spesso eccellenti, non sanno però lavorare in équipe. C'è
una spaccatura anche fra ginnasio e liceo, nello stesso
istituto», è il giudizio di Arrigo Pedretti, che condivide
la linea Berchet.
«Ogni insegnante è sovrano: è
un problema che tocca soprattutto i licei, a partire dai
classici», sostiene anche Roberto Silvani, alla guida dello
scientifico Volta, anche lui favorevole alla soluzione
Pessina. «In questi istituti il coordinamento è meno
efficace, si sperimenta meno. Si guarda più al profitto dei
singoli alunni che alla didattica dei professori». Altra
battaglia (in corso) del preside del Berchet, le pagelle ai
professori. Al Volta l'hanno vinta da tempo, come al
linguistico Manzoni. «Qui da dieci anni gli studenti
compilano questionari di valutazione sui professori. Ma sono
ancora pochi gli istituti che lo fanno. Quello della scuola
è un ambiente tradizionalista. Con forti resistenze davanti
alle innovazioni».
Corriere
della sera, del 13/03/2013, di
Ermanno Paccagnini
S i torna a parlare di
valutazione — e a riproporre il problema è il preside del
liceo Berchet con la proposta di «correzione trasversale dei
compiti» tipo: gli insegnanti della A correggono le
verifiche della B, a rotazione, miranti a ristabilire
«giustizia ed equilibrio» in questo campo —, e alla fine si
ricade sempre sul problema di fondo: la reale preparazione e
il costante aggiornamento (non solo tecnico) dei docenti in
questo settore quanto mai basilare. E che in tale quadro ci
si muova sempre schizofrenicamente, lo ha appena ricordato
il Rapporto Lombardia sulle forti differenze a livello
valutativo tra Nord e Sud, esemplandolo nelle abissali
disuguaglianze tra Lombardia e Calabria.
Non c'è dunque da
meravigliarsi che tali situazioni si riproducano in un
medesimo istituto: e non solo tra una sezione e l'altra, ma
persino in una medesima classe tra docenti di aree diverse:
chi più oggettivo, chi più «genitoriale», chi più «duro», e
altro ancora. Atteggiamenti che peraltro possono dipendere
da più situazioni: la preparazione dell'insegnante stesso (e
non solo in quella specifica disciplina); la sua psicologia;
la sua personale esperienza, e così via. Del resto, che
esistano situazioni al limite della decenza «mentale» è un
dato di fatto, ben noto a chi abbia esperienza di
insegnamento (personalmente ricordo un docente di matematica
con proposta di voto: «dal cinque e mezzo più al sei meno
meno»).
Ma non è con la rotazione e la
correzione trasversale che si risolve un problema non
certamente di quel particolare istituto (e manco considero
le inevitabili situazioni conflittuali «di ritorno» tra
docenti); perché, se così fosse davvero, per paradosso,
tanto varrebbe estendere la prassi, attuando scambi
«correttori» tra scuole, quindi tra provveditorati d'una
medesima regione, sino a incrociare docenti di regioni
valutativamente all'opposto.
Fuor di paradosso, neppure
credo — e mi riferisco ad altra proposta avanzata nel liceo
— si possa risolvere il problema con le griglie: che possono
magari funzionare in certe discipline, ma che mi suonano
oscenamente costrittive ad esempio di fronte a un tema di
italiano. Anche perché sono molti i fattori che entrano in
gioco in una valutazione, non ultima la conoscenza del
ragazzo da parte del docente, che può agire, nel premio o
nella censura, in base a un percorso educativo e formativo
personalizzato, che chi viene «da fuori» non possiede.
Ecco perché la soluzione non è
tanto nella rotazione, ma in un deciso percorso-confronto
unitario, anche a muso duro: sì sui criteri di valutazione,
ma soprattutto sul concetto stesso di valutazione e sul suo
effettivo ruolo nel processo formativo. Senza poi
dimenticare non solo che il concetto stesso di errore è
relativo; ma anche che ogni traduzione in numero «secco» di
un «giudizio», si tratti di voti per un compito o
un'interrogazione, o di palline per un libro o un film, è e
sarà sempre qualcosa che necessariamente porta in sé
qualcosa di impreciso e imperfetto.
- “Equità valutativa”
al liceo “Berchet” di Milano e i compiti sono corretti
dal collega
Il liceo
classico Berchet di Milano decide di far correggere i
compiti di una classe ai professori di un’altra per
garantire “equità”. Paola Mastrocola, intervistata da
Tempi.it, dice: “Questa scuola mi fa paura”.
La
Tecnica della Scuola, del 13/03/2013, di
P.A.
Al liceo classico Berchet di
Milano, la correzione dei compiti in classe avverrà, su
proposta del dirigente, come per certi concorsi e per la
correzione dei test universitari: gli insegnanti della
classe A correggeranno i compiti della classe B e a seguire
e in base alle sezioni. La motivazione sarebbe quella di
garantire più equilibrio nelle valutazioni, più equità agli
studenti, e fermare “certi insegnanti sadici che usano il
voto a mo di manganello", come scrive il Corriere della
Sera.
Tuttavia, secondo Paola
Mastrocola, scrittrice e insegnante di lettere al liceo
Augusto Monti di Chieri, in questo modo ne verrebbe fuori
“una scuola senz’anima, condita da prove asettiche e che
sarebbe una esperienza disastrosa ”
Disastrosa perché “vogliamo
una scuola che misuri oggettivamente, per questo è da un po’
di anni che si è diffusa come prova il test. In questo modo
si può cambiare il docente che corregge, basta che il test
sia il più possibile oggettivo e tecnico. A me una scuola
che va in questa direzione non piace. Stiamo abolendo non
solo il rapporto personale tra studenti e insegnanti ma
anche la soggettività sia dell’insegnamento che
dell’apprendimento. Tutto deve essere appiattito perché sia
misurabile con criteri standard nazionali, europei,
mondiali.”
Su questo altare, continua la
docente-scrittrice, “da dieci anni tutti i ministri hanno
abolito il cosiddetto tema, che era la prova più creativa,
libera e bella. Al suo posto abbiamo le verifiche oggettive,
i test a domanda multipla, delle prove asettiche insomma. In
questo modo magari guadagniamo l’oggettività, ma il ragazzo
non è più messo nella condizione di esprimere ciò che è lui,
singolarmente, la sua ricchezza. Ecco, si perde il valore
dell’originalità individuale.”
Ci sarebbe invece, secondo
Mastracola “ il problema della diversità degli insegnanti. È
vero, si rischia di avere sette o otto, a seconda del
professore, il vantaggio però è di avere delle persone
diverse. La diversità degli insegnanti è sempre stato il
nostro bello. Il fatto di correggere i compiti dei propri
allievi magari non è equo ma fa parte di un lavoro che dura
tre anni, dove entra in gioco la conoscenza reciproca. Ed è
chiaro che i temi devo correggerli io, perché sono io a
mandare il messaggio e io lo devo ricevere. Se invece
vogliamo abolire il messaggio, allora va bene che le prove
siano tutte uguali, comuni, oggettive. Però manca l’anima e
a me fa molta paura una scuola senz’anima. Nel bene e nel
male il rapporto personale è tutto. Però anche questo è
destinato a sparire, forse avremo insegnanti online, forse
vogliamo insegnanti che inviino la prova agli studenti
davanti ai loro computer e poi si aggirino tra i banchi per
vedere che tutto funzioni. Così non c’è più un rapporto
culturale e affettivo, però. Non a caso, mi sembra che
vogliano sostituire la parola insegnanti con “facilitatori”.
-
Flc-Cgil non firmerà
l'accordo sugli scatti di stipendio
Lo annuncia il
segretario nazionale Mimmo Pantaleo che sottolinea come in
più di 2mila assemblee svoltesi nelle scuole di tutta Italia
l'accordo del 12 dicembre sia stato clamorosamente bocciato
La
Tecnica della Scuola, del 13/03/2013, di
R.P.
La
Flc-Cgil non firmerà il contratto sugli scatti stipendiali:
lo ribadisce il segretario nazionale Mimmo Pantaleo che
spiega così la decisione del sindacato:
“Dalla nostra autonoma
consultazione, in oltre 2100 assemblee coinvolgenti tutte le
scuole del Paese, l’85% del personale ha detto no alla
preintesa sottoscritta dagli altri Sindacati il 12 dicembre
2012”. “Si tratta - aggiunge Pantaleo -
di una grande prova di
democrazia che sollecita a consultare sempre i lavoratori su
ogni intesa. Il voto del 24 e 25 febbraio parla anche alle
organizzazioni sindacali e per la Flc l'esercizio della
democrazia diretta rappresenta la condizione necessaria per
rispondere al peggioramento delle condizioni di lavoro e
alla disperazione sociale” Per Pantaleo dalla consultazione emerge in modo netto e
chiaro il rifiuto dello scambio fra MOF e scatti di
anzianità, “scambio
inaccettabile perché penalizza la contrattazione integrativa
e di fatto impone la prestazione gratuita di una serie di
attività svolte a favore degli alunni”. “Forte è ora il rischio - aggiunge ancora la Flc -
che le contrattazioni di
scuola siano stravolte e soggette ad interpretazioni
arbitrarie”. Pantaleo coglie anche l’occasione per intervenire sulla
questione più generale dei contratti e denuncia:
“Il Governo Monti intende
attuare un ulteriore blocco dei contratti, degli stipendi,
del ripristino degli scatti e rinviare al 2015-2017 il
pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale: a fronte
di ciò l’intesa pone le premesse per dividere di nuovo i
lavoratori e per riproporre la contrapposizione fra scatti
(a partire da quelli maturati e non pagati nel 2012) e MOF”.
La sottoscrizione definitiva del contratto sugli scatti
stipendiali è prevista per mercoledì 12 marzo; se non ci
saranno ulteriori intoppi nei giorni successivi il Mef
dovrebbe autorizzare l’aggiornamento degli stipendi e il
pagamento degli arretrati. Ad aprile dovrebbe quindi concludersi una vicenda
protrattasi per mesi e mesi. Contestualmente nelle scuole si dovrebbero sottoscrivere i
contratti di istituto che quest’anno dovranno però fare i
conti con risorse ridotte di un buon 40% nei circoli
didattici e nei comprensivi e del 10-15% nelle scuole
superiori.
La
raccomandazione dell'Ocse: senza risorse adeguate è
preferibile investire su Scuol@2.0
ItaliaOggi, del 12/03/2013,
di Mario D'Adamo
Viale Trastevere non dà retta
all'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico, (Ocse), alla quale il ministro dell'istruzione
Profumo aveva chiesto una valutazione sul piano nazionale
della scuola digitale, e incrementa il numero delle cl@ssi
2.0 invece di ridurle e puntare tutto su scuol@ 2.0. Il piano, secondo il comunicato reso pubblico il 5 marzo sul
sito del ministero, «presenta numerosi punti di forza e
interesse, seppur in un quadro nel quale non mancano
problemi e criticità», ma sarebbe stato meglio invertire i
termini e ammettere che la valutazione è stata negativa,
mentre ridotto è il numero degli elementi positivi, per lo
più confinati nelle buone intenzioni, nella disponibilità
del personale e in vaghe prospettive di crescita. E non si
tratta di guardare al bicchiere mezzo vuoto, poiché agli
attuali ritmi per l'estensione del piano a tutte le classi,
con tanto di tablet e lavagne Lim per tutti, dovranno
passare almeno quindici anni, quando ne saranno trascorsi
ventisette dall'annuncio del 2001 delle tre “I” del ministro
Moratti e del presidente del consiglio Berlusconi. Per
l'Ocse, infatti, è un grosso limite che le risorse annuali a
disposizione del piano siano così scarse da rappresentare
l'1 per mille del budget del ministero dell'istruzione,
anche se in cifre assolute la somma è pur sempre elevata,
trenta milioni di euro, solo cinque per ogni alunno. Troppo
ridotto il numero delle classi coinvolte nei progetti cl@sse
2.0 (416) e scuol@ 2.0 (14+15), poche le risorse didattiche
digitali a disposizione dei docenti, non sufficiente lo
sviluppo professionale del personale, quest'ultimo punto
compare solo nella versione inglese del rapporto. Tra i
punti di forza c'è «la volontà dell'Amministrazione di
incrementare l'uso delle tecnologie e di internet nelle
scuole italiane». L'obiettivo sarebbe in sintonia con quello
di altri paesi, che però hanno superato l'Italia non tanto
nella volontà di dotare le scuole di strumentazioni, le
buone intenzioni non ci mancano, quanto nell'assegnazione
concreta di risorse. In Gran Bretagna, infatti, ben
l'ottanta per cento delle classi può contare già oggi su
strumenti didattici e digitali. È positivo poi che la Lim,
lavagna multimediale interattiva, possa essere utilizzata a
costi iniziali non elevati e sia compatibile con tutti i
metodi di apprendimento e didattici, e che si sia «rivelata
(_) una sorta di cavallo di Troia che incoraggia la maggior
parte dei docenti a incrementare l'uso delle tecnologie
(internet e PC) nella loro attività professionale». È anche
positivo l'approccio utilizzato per l'introduzione del
piano: non un'imposizione dall'alto, destinata a creare
resistenze, ma una risposta alle richieste di adesione che
volontariamente provengono dalle scuole. Ciò dovrebbe
ridurre al minimo il rischio che le nuove tecnologie non
siano utilizzate, ma l'osservazione non è sostenuta con dei
dati che smentiscano le lamentele di genitori e alunni che
vedono deperire le Lim. E infine, sono positive le procedure
di acquisto delle lavagne, dei pc e dei portatili attraverso
gruppi di acquisto temporanei costituiti dalle scuole e
sostenute da Consip. Sono tutti elementi, però, destinati a
non far fare un passo in avanti alla diffusione del piano,
se contemporaneamente alle scuole non saranno aumentati i
finanziamenti, è la raccomandazione principale dell'Ocse,
che si spinge a suggerire «di concentrare le risorse su
Scuol@ 2.0 e interrompere l'iniziativa Cl@sse 2.0». Ma è una
raccomandazione che, senza affermarlo, il ministero è
costretto a respingere, avendo già stipulato il 18 settembre
scorso una serie di accordi con le regioni, che prevedono
dal prossimo anno scolastico l'installazione di altre 4.200
lavagne interattive e l'attivazione di altre 2.700 cl@ssi
2.0 e solo 17 scuole 2.0.
Sistema senza
un euro in più, mancano esperti e ispettori
ItaliaOggi, 12/03/2013,
Alessandra Ricciardi
La macchina è pronta.
Toccherà ora metterci la benzina perché il nuovo sistema di
valutazione della scuola italiana possa camminare (si veda
ItaliaOggi di sabato). «Senza oneri aggiuntivi a carico
della finanza pubblica», è la clausola di invarianza della
spesa che informa il regolamento definitivamente varato dal
consiglio dei ministri di venerdì scorso. E infatti non c'è un euro in più per un sistema che dovrà
monitorare e supportare circa 8 mila scuola. Mancano gli
ispettori, ne serve uno per ogni nucleo ispettivo: in
servizio ce ne sono una trentina, contro una pianta organica
di oltre 330. Nel 2008 è stato bandito un concorso per 145
posti, ma solo 80 candidati hanno superato gli scritti e
sono in attesa degli orali. E poi vanno reclutati gli
esperti che collaboreranno all'attività di supporto dei
nuclei (due esperti e un ispettore è la composizione
prevista). Il tutto nell'ambito delle risorse già
disponibili. Insomma, se portare a casa il regolamento è
stata un'impresa per il ministro Francesco Profumo, tra i
rilievi del Cnpi, quelli del Consiglio di stato e, non meno
importanti, le contrarietà della Cgil e del Pd, riuscire ad
alimentare la macchina sarà l'impresa che toccherà al
prossimo governo. Certo non aiuta la situazione di
incertezza politica, a cui si aggiunge il sempre precario
equilibrio dei conti pubblici italiani. Condizioni che
secondo rumors dell'amministrazione di viale Trastevere
potranno facilmente condurre a uno slittamento dell'avvio a
regime della valutazione. Anche per attendere la conclusione
del progetto Vales, la sperimentazione in corso presso 300
scuole che dovrà fornire gli indicatori di valutazione.
Progetto che a questo punto potrebbe essere esteso ad altri
istituti dal prossimo settembre. Si guadagnerebbe così un
anno di tempo, utile anche per mettere a punto le relazioni
con il mondo della scuola dove non tutti sono entusiasti del
sistema proposto. Il nuovo modello di valutazione esterna
del rendimento delle scuole ha l'obiettivo di rendicontare i
miglioramenti degli istituti e di supportare le scuole in
difficoltà, così come accade in molti paesi europei. Il
sistema si compone di tre gambe: l'Invalsi, l'istituto che
attualmente si occupa di rilevare gli apprendimenti degli
studenti, l'Indire, l'istituto di ricerca per l'autonomia
scolastica, e gli ispettori. Ma saranno le scuole il punto
di partenza del processo attraverso procedure di
autovalutazione che saranno svolte con il supporto
informatico del ministero e che dovranno valutare i
progressi degli studenti tra l'ingresso e l'uscita, anche
alla luce del contesto sociale ed economico. L'Invalsi, che
individuerà le scuole da sottoporre a verifica in base ai
rapporti, definirà gli indicatori di efficienza a cui gli
istituti e i loro dirigenti dovranno rispondere, mentre
l'Indire dovrà favorire i processi di innovazione in ambito
didattico, in particolare agendo sul versante della
formazione dei docenti. I dati sull'andamento degli
apprendimenti saranno rilevati attraverso test di
valutazione che si faranno su base censuaria in II e V
elementare, I e II media, II superiore (dove già accade
ora), e poi in V superiore. Ogni scuola dovrà stilare il
proprio piano di miglioramento delle perfomance. In base ai
risultati raggiunti, i direttori scolastici regionali
valuteranno i dirigenti scolastici per i successivi
incarichi e per la quota di salario accessorio. Nessuna
ricaduta, invece, per gli stipendi dei docenti. Resta
critica la Flc-Cgil guidata da Mimmo Pantaleo: «È davvero
incredibile l'arroganza di questo governo che in limine
mortis licenzia il regolamento». Pollice verso anche di
Gilda degli insegnanti: «Troppa fretta», dice il
coordinatore Rino Di Meglio, «c'è il rischio di aggravio di
lavoro per i docenti». Per la Cisl scuola il giudizio è
invece positivo anche se, puntualizza il segretario
Francesco Scrima, « ora servono risorse per far funzionare
il sistema in modo che sia veramente di aiuto alle scuole».
Invita a dare «centralità al lavoro dei docenti, superando»,
dice il segretario Massimo Di Menna, «un assetto di verifica
di stampo burocratico/procedurale che è fortemente
penalizzante».
Il
superesperto Ocse: i titoli di studio non servono a trovare
lavoro
la
Repubblica, 12/03/2013, ANDREA TARQUINI (NOSTRO CORRISPONDENTE A BERLINO)
L’Europa
ci dà un pessimo rating anche per quanto riguarda la
pubblica istruzione. Il sistema va riformato a fondo. I suoi
difetti si ripercuotono pesantemente sulla produttività,
sull’economia e sugli sbocchi professionali dei nostri
laureati e diplomati superiori. Insomma, una delle radici
della disoccupazione giovanile, quella sfida che Mario
Draghi la settimana scorsa ha definito “una tragedia”, è nel
nostro sistema scolastico e universitario. O almeno, così ha
raccontato alla Süddeutsche Zeitung Andreas Schleicher,
esperto di pubblica istruzione dell’Ocse (organizzazione
dell’Onu per la cooperazione e lo sviluppo economico).
Chiamato anche “Mister Pisa” perché ideatore del Programma
per la valutazione internazionale degli allievi della stessa
organizzazione. È un paradosso, dice Schleicher guardando le
nostre scuole e i nostri atenei: nel paese che ospita
l’università più antica del mondo, il sistema non funziona.
Il cahier des doléances di Schleicher è una lunga lista di
accuse. Primo, nella maggior parte degli altri Stati membri
dell’Ocse la gamma di offerte di lauree e specializzazioni è
più ampia che da noi. E nei paesi più avanzati — la Germania
solo in parte, di più e meglio i paesi scandinavi, a
cominciare dalla Finlandia col sistema scolastico, tutto
pubblico, giudicato il migliore del mondo, e dalla Norvegia
— offrono un contatto strutturale e che funziona bene tra lo
studio teorico, accademico e la pratica della formazione
professionale. «L’Italia», dice Schleicher, «è rimasta
legata molto a lungo a un sistema classico, tradizionale, di
studi universitari, per questo il numero dei laureati e
diplomati non è cresciuto come in altri paesi». Siamo rimasti decisamente al di sotto della media
nell’Unione europea, nota l’esperto con i dati
dell’organizzazione alla mano. Più precisamente, quanto a
numero di laureati e diplomati solo la Turchia nell’ambito
europeo ha risultati peggiori dei nostri. Ed ecco, almeno secondo “Mister Pisa”, i mali strutturali
più gravi del nostro sistema d’istruzione e le loro cause.
Primo, molti laureati e diplomati superiori non trovano
un’occupazione, o vengono pagati poco e male, «perché le
università danno una preparazione accademica, non preparano
ad avere successo sul lavoro». Secondo, a differenza che in
molti altri paesi europei «non c’è aiuto finanziario dello
Stato agli studenti, nulla di paragonabile a sistemi come il
Bafög tedesco (che prevede l’erogazione di borse di studio
in base al reddito di appartenenza) o quelli scandinavi».
Terzo, comunque lauree e diplomi «sono irrilevanti sul
mercato del lavoro ». Poi un altro difetto strutturale: «Il
personale insegnante è numeroso ma poco qualificato rispetto
alle esigenze di una società e un’economia moderne». A lungo
termine, ammonisce, «si crea un legame tra qualità del
sistema della pubblica istruzione e capacità economiche di
un paese». Il solito invito rivoltoci a imitare i tedeschi?
No, piuttosto finnici e norvegesi: «Hanno un sistema
educativo differenziato, personalizzato, molto attento al
singolo, sponsorizzato dalle aziende, e rafforzato dalla
convinzione della gente che è opportuno continuare a
studiare e imparare per tutta la vita».
Il
sottosegretario all’Istruzione, Marco Rossi Doria
la
Repubblica, del 12/03/2013
ROMA
Sottosegretario Marco Rossi Doria, lo studioso Andreas
Schleicher dice che la nostra scuola è ultima in Europa:
abbiamo solo il 14,9% di laureati. «In Italia la laurea non è più l’ascensore sociale degli
anni Sessanta e Settanta, ma se non studi va peggio. Chi non
studia fatica di più a trovare un lavoro e a trovarlo con un
contratto legale. Studiare continua a convenire. Il guaio è
i laureati in Italia, negli ultimi sei anni sono scesi di
cinque punti». Gli insegnanti italiani, è una delle accuse, sono molti. «Non sono tanti. Da noi 103 mila docenti si occupano di
handicap e sono nel computo della scuola, in altri paesi
sono a carico dei servizi sociali. E abbiamo scuole sulle
montagne, nelle isole, nei paesini». Mediamente non qualificati... «Non abbiamo strumenti scientifici per dirlo. Di sicuro, i
docenti di elementari e medie sono bravissimi». Da almeno quattro ministri si taglia la spesa per la scuola. «Il prossimo governo dovrà invertire la rotta». (c.z.)
Il pedagogo
Benedetto Vertecchi
la
Repubblica, del 12/03/2013
ROMA - «Il sistema scolastico italiano dovrebbe essere riformato
dalle fondamenta». Professor Benedetto Vertecchi, mister
Pisa ha ragione? «Andreas Schleicher conosce l’Italia. Ha
una moglie italiana, i suoi figli hanno frequentato le
nostre scuole, ma non centra il problema». -Quale è il problema allora? -«Dietro una questione di preparazione professionale c’è la
crisi culturale del paese. Il linguaggio è sciatto, il
conformismo impera. Gli insegnanti non hanno la solidità
necessaria». -Il titolo di studio carta straccia? -«È colpa della decadenza delle università: i titoli non
garantiscono più nulla. I laureati diminuiranno ancora.
Tutte le nazioni industriali avanzate stanno togliendo
qualità all’istruzione superiore». -Che cosa devono fare i professori italiani? -«Insegno all’università dal 1980 e ho una seria sfiducia
nei docenti universitari, che nutrono molti giochi di
potere». (c. z.)
- Ascolta, clicca e guarda
ecco la nuova formula per insegnare ai ragazzi
Dai testi di
carta ai software: leggere non basta più
la
Repubblica, del 11/03/2013, di
Maria Novella De Luca
ROMA La sfida è catturare la loro attenzione, le loro menti che
hanno spie sempre accese e tablet, pc e cellulari
sincronizzati giorno e notte. Studenti 2.0 che imparano
facendo mille cose insieme, in una rivoluzione multitasking
dove il libro di testo non basta più, perché il sapere
arriva da mille fonti e la generazione web le mescola tutte.
Così la scuola prova a diventare interattiva: la parola più
il video, più l’audio, cercando un ponte con quella tribù
digitale che sta riscrivendo, sembra, i meccanismi
dell’apprendere e del conoscere. Nasce il libro che entra
nella Rete, e la Rete che rimanda al libro, e addirittura
You-Tube può servire ad approfondire temi considerati
“intoccabili”, la Divina Commedia o la poesia del Trecento,
ambiti fino a ieri impermeabili a ogni contaminazione. Del
resto l’80 per cento dei ragazzi lo confessa apertamente:
studiamo connessi a Internet, la musica di sottofondo e il
cellulare che vibra, la concentrazione si frammenta sì, ma
si moltiplica anche. In tutto il mondo si stanno diffondendo “piattaforme” di
studio multimediali, una sorta di laboratori dove si passa
dal libro di testo al web e viceversa, attraverso una
password data in dotazione a ogni studente. E cercando di
catturare l’irrequieta attenzione dei nativi digitali i
materiali diventano interattivi, grafici, video, audio. In
Italia queste piattaforme sono da tempo diffuse da Pearson,
casa editrice specializzata in materiali didattici che, dopo
aver lanciato laboratori per imparare la matematica e
l’inglese (MyLabMath e EnglishMy-Lab), adesso, con una
versione tutta made in Italy, ha costruito MyLabLetteratura
e MyLabStoria, entrando nel cuore del sapere umanistico. L’idea è quella di creare un percorso guidato e facilitato,
basato sul concetto, ancora poco noto in Italia, del
learning by doing,imparare facendo, che secondo la piramide
dell’apprendimento dello psicologo americano Edgar Dale
farebbe raggiungere i migliori livelli nello studio.
«L’universo della scuola», spiega Matteo Lancini, che
insegna Psicologia all’università Bicocca di Milano, «è oggi
alla ricerca continua di strumenti che possano andare
incontro ai nativi digitali, ormai impermeabili alle
modalità di insegnamento tradizionali. Parliamo di bambini e
ragazzi iperstimolati, che mal sopportano la solitudine del
libro. Poter invece interagire con il testo, partecipando
alla costruzione del sapere, può certamente favorire la loro
attenzione». Imparare facendo. Nella piramide di Dale si riesce a conservare il 90 per
cento delle informazioni ricevute, contro il 10 acquisito
leggendo soltanto. Navigando nel V canto dell’Inferno nella
piattaforma di My-LabLetteratura, collegata a un manuale
scolastico cartaceo, ecco la voce di Gassman che recita la
passione di Paolo e Francesca,mentre una “linea del tempo”
sottolinea le date fondamentali della vita del poeta. E,
sullo sfondo, scorrono i quadri ispirati al canto più
celebre della Divina Commedia. Sapere multitasking. Andrea Moro, professore di Linguistica
allo Iuss di Pavia, è scettico. «Non credo alle piramidi
dell’apprendimento,anche se sono cosciente che l’attenzione
dei ragazzi è sempre più breve. Dopo mezz’ora di lezione
capisci che sono altrove, ma l’unico modo che conosco per
catturarli è appassionarli. Non occorrono percorsi
semplificati: penso, invece, che ogni ragazzo possa creare
un metodo di studio autonomo faticando tra un libro, un
dizionario, anche on line, perché no, ma facendo da sé uno
schema di ciò che ha appreso ». In realtà le piattaforme sono contenitori aperti, in cui
“coabitano” insegnanti e studenti, libri e web. E la
multimedialità secondo le statistiche migliorerebbe del 25
per cento il profitto. Ma siamo soltanto all’inizio,
aggiunge Paolo Inghilleri, ordinario di Psicologia sociale
all’università di Milano. «I ragazzi vivono il loro mondo
digitale come qualcosa di separato dalla scuola, e gli
insegnanti faticano ad aprirsi alle tecnologie. È indubbio
comunque che questi materiali “adattati” riescano a
catturare l’attenzione degli studenti. E dall’unione di più
linguaggi nasce sempre qualcosa di buono. Ma bisogna
stimolare anche passione e spirito critico».
-
Per gli statali un taglio
a doppio effetto
In arrivo il
decreto che prolunga il blocco dei contratti al biennio
2013-2014. Perso circa il 10% dello stipendio, con forti
penalizzazioni sulla pensione soprattutto per chi è vicino
all'uscita
Il Sole
24 Ore, del 11/03/2013, di
Gianni Trovati
Approvato il «codice di
comportamento », che impedisce di ricevere regali troppo
pregiati e di usare dotazioni di lavoro per fini privati, i
dipendenti pubblici aspettano un provvedimento decisamente
più pesante. Il bilancio dello Stato l'aveva messo in conto
fin dal luglio del 2on, quando la prima manovra estiva
dell'anno dello spread aveva "ipotizzato" un nuovo blocco di
rinnovi contrattuali e stipendi individuali negli uffici
pubblici anche per i12013-14, da attivare per decreto dopo
il primo congelamento triennale del 2010-2012. Ora però,
archiviate le cautele elettorali, il regolamento preparato
da Economia e Funzione pubblica è in arrivo, e a farei
calcoli sono i diretti interessati: una platea da quasi
quattro milioni di persone, che ai dipendenti della Pubblica
amministrazione unisce quelli delle società in house e degli
enti strumentali (si veda anche l'articolo a fianco). Per
avere un quadro completo, i calcoli dovranno considerare
anche i riflessi previdenziali, particolarmente pesanti per
chi andrà in pensione nei prossimi anni. La cifra pagata da
ogni dipendente pubblico sull'altare della crisi, come
mostrano i conti in tasca alle varie categorie riprodotti
nel grafico qui a fianco, è importante, tanto più che nel
nuovo congelamento dovrebbe essere compresa anche
l'indennità di vacanza contrattuale (e proprio questo
fattore spinge il provvedimento all'approdo in Gazzetta
Ufficiale entro il mese di aprile). Il sacrificio è
ovviamente proporzionale allo stipendio che ogni profilo di
dipendente pubblico aveva all'inizio del congelamento, ed è
calcolato su un doppio indicatore: per la prima tornata
contrattuale saltata, quella del 2010-2012, il taglio è
misurato sulla base delle risorse che erano state messe a
disposizione dei vecchi rinnovi, mentre per il nuovo
congelamento biennale il punto di riferimento è l'Ipca,
l'indice armonizzato dei prezzi al consumo che esclude i
prodotti energetici importati e offre il punto di
riferimento di tutti i nuovi contratti biennali. Risultato:
nei cinque anni "congelati" gli statali e i loro colleghi
delle Pubbliche amministrazioni territoriali hanno
rinunciato in termini di mancati aumenti a circa i19,2%
dello stipendio. Un dato che, soprattutto per il 2013-2014
visti i meccanismi di calcolo, tende a coincidere con la
perdita di potere d'acquisto causata dall'inflazione.
Tradotto in cifre, significa 2.575 euro all'anno a regime in
meno per gli impiegati degli enti locali, che con il loro
stipendio medio inferiore ai 28mi1a euro lordi annui sono
sul gradino più basso della categoria. Per i loro colleghi
di Palazzo Chigi, che di euro ne guadagnano in media quasi
43mila, la tagliola vale a regime poco meno di 4mila euro, e
le cifre crescono ovviamente man mano che si sale la scala
gerarchica delle amministrazioni. Per chi sta in cima, e ha
stipendi superiori ai 9omila euro lordi annui, in realtà il
conto avrebbe dovuto essere ben più salato, a causa del
contributo di solidarietà che chiedeva il 5% della quota di
stipendio superiore ai 90mila euro e il 10% di quella sopra
i i50mila. Il meccanismo, però, è caduto sotto i colpi della
Corte costituzionale, e quindi è uscito dal conto. Il
sacrificio è permanente, perché le norme escludono
espressamente ogni possibilità di recupero di quanto perso
alla ripresa dei rinnovi. Ma a rendere "eterna" la
sforbiciata sono anche i suoi effetti sugli assegni
previdenziali, in particolare per chi va in pensione in
questi anni: chi si avvicina all'uscita oggi ha circa la
metà della pensione calcolata con il sistema retributivo, e
sconterà sull'assegno circa l'80% del costo complessivo del
blocco. In altri termini, chi ha "perso" 7mila euro come
mancati aumenti e andrà in pensione nel 2014-15 riceverà una
pensione più leggera di circa 5.500 euro annui rispetto a
quella che avrebbe ottenuto in tempi normali. L'effetto si
diluirà poi nel tempo, ovviamente con il ritorno ai rinnovi
contrattuali. La prospettiva, insomma, non è leggera.
Complice il quadro frastagliato uscito dalle urne, anche il
fuoco di fila da parte dei sindacati è un dato quasi
scontato, basato com'è sull'argomento non secondario che
contesta l'opportunità da parte di un Governo uscente di
adottare un provvedimento di questo peso, tra l'altro
perfettamente in linea con la «politica del rigore» uscita
malconcia dal voto di febbraio. Altrettanto scontato, però,
sembra l'arrivo al traguardo del decreto, perché proprio dal
nuovo blocco di contratti e stipendi dipende gran parte del
miliardo di euro di risparmi messi a bilancio per il
2013-2015 dalla manovra estiva numero uno del luglio di due
anni fa.
C'è un po' di
tutto nelle ultime notizie sulla scuola. La sensazione,
però, è che non ci sia niente capace di indicarci la strada,
la prospettiva, il cammino, insomma qualcosa che possa dirci
'cosa sarà di noi?'.
Fuoriregistro
del 10/03/2013, di
Francesco Di
Lorenzo
C'è un po' di tutto nelle
ultime notizie sulla scuola. La sensazione, però, è che non
ci sia niente capace di indicarci la strada, la prospettiva,
il cammino, insomma qualcosa che possa dirci 'cosa sarà di
noi?'. Lo stallo sembra completo. E le analisi che si
susseguono non si spostano da uno strano gioco a ping-pong
che non si capisce dove ci porterà. L'atmosfera è di attesa,
ma di che cosa? Cosa stiamo attendendo in particolare? La
percezione è che nessuno lo sa. Intanto l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico) a cui era stato chiesto un parere sul
nostro livello di informatizzazione, ha risposto che siamo
indietro di qualche anno. La scuola italiana se continua di
questo passo, ci metterà ancora quindici anni per
raggiungere la scuola inglese, 'dove praticamente l'80%
delle classi può usufruire di strumenti didattici
informatici'. Insomma, ci è stato risposto che il Piano Nazionale Scuola
Digitale, lanciato nel 2007, ha fatto solo piccoli passi
avanti. E che la causa di tale lentezza è il budget. Mancano
fondi e investimenti sia per attrezzature che per la
formazione degli insegnanti. Ora, i tagli noi li conosciamo
bene, ma il recupero di tali tagli che nominalmente
sarebbero degli sprechi, dove sono? Dove vanno a finire?
Questo non si sa. Si sa, invece, che è stato approvato il testo definitivo del
regolamento sulla valutazione.
A niente sono valse le critiche e le osservazioni
provenienti dal mondo della scuola: come era nelle
intenzioni della Gelmini e confermato da Profumo,
aumenteranno i test per tutti. E a gestire le cose ci
saranno nell'ordine: l'Invalsi, Indire e gli ispettori. Il
primo istituto si occuperà di testare gli studenti, il
secondo della formazione degli insegnanti (che,
evidentemente, saranno testati) e gli ispettori?
Probabilmente daranno una mano sia agli uni che agli altri. Ma il ministro Profumo non perde tempo, nonostante il
governo di cui fa parte sia ampiamente scaduto, e nonostante
con tutta evidenza gli elettori non lo abbiano premiato, ha
avviato le procedure per un nuovo concorso a cattedre. Come
dire, delle critiche me ne frego! Quindi, alla fine, il ministro Profumo ci lascerà due
ultimissimi regali: il regolamento sulla valutazione e un
nuovo concorso a cattedre. Parecchi di noi, per la verità,
di questi omaggi farebbero volentieri a meno. E, come per i
regali che superano i cento euro e che sono fuorilegge,
preferiremmo rimandarli indietro, rispedirli al mittente.
Con tanti ringraziamenti! Si chiama 'Spotted' il nuovo fenomeno che sta dilagando sul
Web. È una specie di bacheca virtuale che prende il nome di
una singola scuola, di una comunità, di un piccolo gruppo. E
su di essa si comunica in forma anonima, scrivendo di tutto
in piena libertà: dai commenti velenosi, alle richieste di
contatto, per finire con le informazioni. Naturalmente
dilaga il gossip, ma è proprio la forma anonima che si
presta a questo tipo di comunicazione, 'perché si è liberi
di dire quello che si vuole', hanno detto i primi ragazzi
che lo usano. Il fenomeno è iniziato negli atenei americani, è stato
importato ad inizio anno in Italia nelle università
milanesi, adesso sta dilagando nelle scuole superiori. I sociologi interpretano il fenomeno come un normale
spostamento di luogo: quello che una volta si scriveva sui
muri, ora lo si scrive su una bacheca virtuale. Messaggi
anonimi, frasi ingiuriose, dichiarazioni d'amore, c'è posto
per tutto: cambia solo il contesto. La voglia di annunci e
commenti anonimi è sempre la stessa, anzi forse è aumentata.
Il sociologo Fausto Colombo dell'Università Cattolica ha
detto che il bisogno di dirsi le cose, l'urgenza
comunicativa, colma 'la preoccupazione degli anni che stiamo
vivendo, quelli di una società che vive nell'incertezza'.
Saranno almeno contenti quelli a cui danno fastidio le
scritte sui muri?
In Italia sono sempre di meno
i ragazzi che si iscrivono all’Università
I dati del
Cineca confermano l’allarme negato poche settimane fa dal
ministro Profumo . Numeri in peggioramento: in tre anni un
calo di 30mila domande. Il peso delle tasse tra le cause
l'Unità,
del 10/03/2013, di MARIO
CASTAGNA
Poche settimane fa era
stato il Consiglio Universitario Nazionale a dare l'allarme:
le iscrizioni all'università crollano inesorabilmente. Ora
arriva anche la conferma del Cineca. Questo consorzio, nato
nel 1969 per costituire una struttura dedicata al super
calcolo, oggi si occupa anche di quasi tutti i servizi
informatici del ministero dell’Istruzione e dell’Università
e di molti atenei italiani. Si trova inoltre a gestire
l’elaborazione informatica delle immatricolazioni
universitarie e dispone quindi della banca dati più
aggiornata in materia. Secondo il Cineca, negli ultimi dieci
anni le iscrizioni sono diminuite di 70.000 unità mentre,
addirittura, negli ultimi tre anni sono 30.000 i ragazzi che
hanno deciso di non iscriversi negli atenei italiani. Si è
tornati indietro di quasi un quarto di secolo. Nel 1988-1989
gli immatricolati erano 276.249, mentre quest'anno i
diplomati iscritti alle varie facoltà sono stati appena
267.076. La notizia data dal Cun qualche settimana fa aveva
riempito le pagine dei giornali ma subito il ministro
Profumo aveva provato a gettare acqua sul fuoco. In
un'intervista sul quotidiano La Stampa aveva provato a
minimizzare: «Credo che per dare giudizi si debba partire da
dati che abbiano valore statistico reale. In quel caso
invece è stato considerato un anno di riferimento in cui c'è
stata una bolla di iscrizioni». Il Ministro si riferiva al
grande numero di iscrizioni «tardive», spesso lavoratori che
ricominciavano il loro percorso universitario, dimenticando
però il valore sociale di queste iscrizioni. L'Italia
infatti è il paese con il minor numero di lavoratori formati
e qualificati durante la loro carriera lavorativa. Secondo
Profumo quindi non erano diminuite le iscrizioni dei ragazzi
appena diplomati. A confutare questa notizia arrivarono i
dati del Cnvsu, che attraverso il proprio rapporto annuale
sullo stato dell'università italiana, ha denunciato per anni
il crollo, non solo delle iscrizioni universitarie, ma
addirittura degli studenti che raggiungevano il traguardo
del diploma di maturità. Se nel 1980 solamente un
diciannovenne su tre si iscriveva all'università, dopo circa
25 anni si era arrivati al massimo storico. Infatti
nell’anno accademico 2003-2004 il 56,5% dei diciannovenni
decise di immatricolarsi. Da quel momento in poi è iniziato
però un lungo ed inesorabile declino che ha visto crollare
questa percentuale del 9%. Nel 2010 solamente il 47,7% dei
ragazzi ha deciso di iniziare il lungo percorso verso una
laurea, più o meno il livello raggiunto alla fine degli anni
90. Purtroppo sono due anni, da quanto Francesco Profumo si
è insediato a viale Trastevere, che il CNVSU non pubblica
più il proprio rapporto ed è diventato estremamente
difficile avere dei dati ufficiali sullo stato
dell’Università italiana. Non proprio la rivoluzione della
trasparenza che tutti si aspettavano. Oggi purtroppo si deve
fare affidamento ai dati forniti dal Cineca che, seppur non
sia l’ufficio statistico ufficiale del ministero, è oggi la
migliore fonte disponibile. I corsi di laurea triennali sono
stati i più colpiti dalla diminuzione di iscritti. In dieci
anni hanno perso poco più di 90.000 iscritti, un terzo del
totale. Quest’anno gli iscritti sono stati 226.283, ottomila
in meno rispetto ad un anno fa ed il crollo demografico
purtroppo non c’entra nulla. Infatti il numero dei diplomati
è cresciuto nell’ultimo anno di 11.000 unità. Gli studenti
quindi decidono di non iscriversi all’università e di
fermarsi al diploma di maturità. Tra le motivazioni
sicuramente è l'aumento dei costi da sostenere durante la
frequenza dei corsi. «Negli atenei abbiamo assistito a
pesanti aumenti delle tasse: ben 283 milioni in più negli
ultimi 5 anni», racconta Luca Spadon, portavoce nazionale di
Link, Coordinamento universitario. Ma non sono solo i costi
a rendere difficile la vita degli studenti italiani. Sempre
Luca Spadon accusa il blocco del turnover: «Con la perdita
di oltre il 22% dei docenti in 5 anni, molte università
hanno ridotto la loro offerta didattica. Questo ha portato
ad un aumento sconsiderato dei corsi a numero chiuso». Se
non si fa nulla per invertire il trend, l'Italia rischia di
precipitare all’ultimo posto nella classifica europea dei
giovani laureati. La Norvegia surclassa tutti con il 46,1%
di laureati nella fascia d’età tra i 25 ed i 34 anni.
L’Italia è penultima, superando solo la Turchia.
Nonostante
l'accordo sottoscritto a fine gennaio fra sindacati e
Ministero in materia di fondo di istituto, in moltissime
scuole la contrattazione non è ancora ripresa. L'Usr della
Campania ha scritto alle scuole per dire che la
contrattazione si può fare solo sull'acconto e non
sull'intera somma disponibile.
La
Tecnica della Scuola, del 10/03/2013, di
R.P.
La
vicenda del fondo di istituto 2012/2013 sembra davvero non
avere fine.
Con
l’accordo Ministero-sindacati di fine gennaio, pareva che
nelle scuole la contrattazione integrativa potesse prendere
avvio rapidamente e invece, a distanza di 40 giorni, siamo
sempre al punto di partenza. Il problema è che il CCNL del 12 dicembre 2012 non è ancora
stato registrato definitivamente e quindi non è possibile
sapere con esattezza a quanto ammonti il fondo di istituto
dal quale, come è noto, sono state ricavate le risorse
necessarie per finanziare il riconoscimento degli scatti
stipendiali. Oltretutto l’accordo di fine gennaio prevedeva che alle
scuole venisse erogato un primo acconto delle risorse
disponibili. A quel punto i sindacati si sono subito affrettati a
rassicurare tutti sul fatto che, comunque, la contrattazione
per il 2012/2013 si sarebbe potuta condurre facendo
riferimento all’intero ammontare del fondo e non solo
all’acconto. Ma non tutti hanno condiviso questa interpretazione. L’Ufficio scolastico regionale per la Campania, per esempio,
ha trasmesso alle scuole il prospetto con le somme spettanti
a ciascuna istituzione scolastica con una precisa
indicazione: “Le
contrattazioni di istituto devono essere effettuate
esclusivamente sull’importo assegnato in acconto, in attesa
della registrazione del’accordo ARAN del 12 dicembre, che
consentirà l’esatta definizione degli 8 dodicesimi
rimodulati, con la conseguente assegnazione del saldo, che
dovrà essere oggetto di una ulteriore contrattazione”
Sta di fatto che, a causa dell’incertezza, nella
maggior parte delle scuole la contrattazione sta procedendo
molto a rilento e quasi certamente si concluderà in
prossimità del termine delle lezioni con il risultato che
per quest’anno docenti e Ata svolgeranno incarichi
aggiuntivi senza sapere se per tali attività saranno in
qualche modo retribuiti.
-
Oggi pare d'obbligo
odiare il pubblico
Tutti i dati
ci dicono che gli statali sono più poveri e precari, eppure
li si addita come «i privilegiati»
il
manifesto del 08/03/2013, di
Nicola Nicolosi (Segretario confederale Cgil - responsabile
dei settori pubblici)
Tutti i
dati ci dicono che gli statali sono più poveri e precari,
eppure li si addita come «i privilegiati» Le due donne uccise a Perugia da un imprenditore disperato,
depresso al punto da perdere il lume della ragione, erano
due impiegate della Regione, due lavoratrici. Una aveva un
contratto di collaborazione coordinata e continuativa, era
una precaria a tempo determinato, l'altra fra un anno
sarebbe andata in pensione. La Cgil è vicina alle famiglie ai lavoratori umbri per
questo grave lutto determinato dall'odio cieco. Troppo
spesso i dipendenti pubblici sono stati oggetto di campagne
e attacchi denigratori. Considerati di volta in volta
privilegiati, garantiti, fannulloni. Questa tragedia deve
richiamare tutti a una seria riflessione. I lavoratori
pubblici sono servitori dello Stato che meritano rispetto.
Il lavoro pubblico subisce continui attacchi, quando invece
andrebbe tutelato. I governi Berlusconi e Monti hanno progressivamente ridotto
il perimetro di intervento pubblico, determinando per questa
via una contrapposizione tra gli interessi dei cittadini, il
lavoro pubblico, tutto ciò che è pubblico. La Cgil si batte
per la valorizzazione del lavoro pubblico, punta a una
riforma della pubblica amministrazione che la renda più
vicina ai cittadini. Il conto annuale della pubblica amministrazione fotografa
un'occupazione in continuo calo e stipendi sempre più bassi.
Se nel 2011 il numero dei dipendenti a tempo indeterminato
era pari a 3.282.999, rispetto al 2007 - in cui i dipendenti
erano 3.429.271 - il calo è di 146.272 unità, pari al 4,26%.
Rispetto al 2008 il calo è ancora più marcato, -153.815,
pari al 4,45%. Per quanto riguarda i lavoratori a tempo determinato e con
contratto di formazione il calo è del 27% (da 117.767 nel
2007 a 86.467 nel 2011). I lavoratori con collaborazione
coordinata e continuativa passano da 81.753 nel 2007 a
42.409 nel 2011, con una riduzione del 48%. Solo in piccola
parte la riduzione dei dipendenti a tempo determinato è
dovuta ai provvedimenti di stabilizzazione del governo
Prodi, non a caso negli anni è diminuito anche il numero dei
dipendenti a tempo indeterminato. La riduzione corrisponde
piuttosto ai continui tagli alla pubblica amministrazione,
che hanno portato al mancato rinnovo dei contratti con
un'effettiva perdita di posti di lavoro. Sul piano dei salari il costo del lavoro passa dai 157,81
miliardi di euro nel 2007 ai 163,59 nel 2011, con un
incremento del 3,66%. Se si prendono in considerazione i
dati dell'Aran (agenzia per la contrattazione nella pubblica
amministrazione) sull'inflazione programmata ed effettiva,
si scopre però che le retribuzioni pubbliche segnano una
perdita di potere d'acquisto pari al 4,74%. E perfino
rispetto all'inflazione programmata, si evidenzia una
perdita pari al 3,34%. Se consideriamo un valore medio del punto di inflazione pari
a circa 20 euro, solo per effetto inflattivo, si può stimare
una perdita lorda media di circa 95 euro al mese pro-capite,
senza contare gli effetti del prelievo fiscale e il mancato
recupero di produttività. Tutto ciò si inserisce nella più
generale perdita del potere di acquisto dei salari, che sta
producendo un allargamento delle diseguaglianze e un aumento
della povertà. Così come si evince dalla riduzione dei
consumi delle famiglie.
-
Il Giano bifronte del
Regolamento valutazione
Per il
Governo, è un grande lavoro che va chiuso prima della fine
del mandato. Per una vasta platea di forze contrarie è una
scelta affrettata e politicamente scorretta. Per la scuola
reale è l’ennesima riforma calata dall’alto, senza
coinvolgimento e senza riconoscimento
La
Tecnica della Scuola, del
08/03/2013, di
Annamaria Bellesia
Per il ministro Profumo il
Regolamento sul Sistema nazionale di valutazione, inserito
all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri dell'8
marzo per l’approvazione definitiva, è un grande lavoro che
va chiuso prima della fine del mandato, un atto dovuto. In
ballo ci sono il miglioramento dell’efficienza e
dell’efficacia del servizio scolastico, l’innalzamento dei
livelli di apprendimento, lo sviluppo delle competenze degli
studenti. Tra gli effetti attesi, c’è lo sviluppo di una
autonomia responsabile, grazie alla rendicontazione sociale
e alla comparabilità dei risultati. Niente premialità,
almeno per ora. A sentire il sottosegretario Elena Ugolini, alla cui tenacia
va attribuito l’approdo finale del provvedimento in CdM, è
dal 2001 che si discute di valutazione: il testo attuale è
frutto di una mediazione e trae spunto dal lavoro di Governi
diversi. L’esistenza di un SNV, a detta del Governo, è
condizione necessaria per l'accesso ai fondi strutturali
europei della programmazione 2014-2020. L’altra faccia del Regolamento è il clima di forte tensione
che si è venuto a creare per la fretta di licenziare un
provvedimento di tale importanza fuori tempo massimo, con un
nuovo parlamento che si sta per insediare. Politicamente
poco corretto. C’è chi ha parlato di “un colpo di mano” e di
“un modo di procedere arrogante e autoritario”. Il fronte dei contrari è ampio e variegato. Non “contrari a
priori”, visto che l’introduzione di un SNV è considerato
necessario da tutti e già implicito nella riforma
dell’autonomia. Contrari ai tempi e ai modi. La solita
riforma calata dall’alto, si osserva, e per giunta ad opera
di un Governo “scaduto”. La solita riforma a costo zero, passata ai raggi X dal MEF,
in modo da certificare che non ci siano “nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica”. In Europa invece, alla quale
guardiamo per copiare ed importare modelli, i sistemi di
valutazione costano. Nella piccola provincia autonoma di
Trento, spesso citata come esempio del fare, dove già da
alcuni anni è stato implementato il controllo e la
valutazione dei risultati, è previsto un apposito fondo per
la qualità del sistema educativo. Altro punto debole sono le carenze strutturali della famosa
struttura a tra gambe del SNV: quella dell’Invalsi è
preponderante, quella dell’Indire debole, quella del corpo
ispettivo pressoché inesistente. La riforma, così come è nata, sarà vissuta passivamente
dalla scuola reale, destinataria e mai partecipe delle
scelte “strategiche” che la riguardano. Col rischio che
l’autovalutazione diventi una burocratica esecuzione di
formali protocolli predisposti dagli “esperti” e il
miglioramento sia di facciata. Non è stato recepito il suggerimento espresso dagli organi
consultivi di coinvolgere le scuole per renderle
“protagoniste” e non mero “oggetto” della valutazione.
Incerto anche il coinvolgimento degli enti locali. Chissà se
e come potrà essere valorizzato quel personale scolastico
sempre più schiacciato da vecchi e nuovi adempimenti. Ma “piuttosto che niente è meglio il piuttosto” dice un
vecchio adagio, assunto dai sostenitori di questa scelta. E
così il Governo tecnico potrà vantarsi di avere messo a
segno una riforma epocale.
-
I quindici mesi del
ministro Profumo
L'atto di
indirizzo del ministro Francesco Profumo è un
documento-testamento che spiega quindici mesi di governo
la
Repubblica, del 08/03/2013, di
Corrado Zunino
L'atto di
indirizzo del ministro Francesco Profumo è un
documento-testamento che spiega quindici mesi di governo
della scuola (e dell'università e della ricerca) da parte di
un tecnico. Un rettore di politecnico, laureato in
ingegneria, prestato alla politica. E che nella politica
avrebbe voluto restare. Il ministro Profumo chiede al successore - che non sarà
nessuno di quelli fin qui immaginati e che oggi non si
riesce neppure a immaginare chi possa essere - dieci cose.
Nell'ordine, eccole: sostegno e potenziamento delle
politiche di innovazione tecnologica; sviluppo di strategie
della crescita, rilancio e valorizzazione della ricerca;
promozione della qualità e incremento di efficienza del
sistema universitario; quindi diritto allo studio
universitario; sviluppo del sistema di valutazione della
performance del sistema scolastico; orientamento scolastico
e professionale; monitoraggio e completamento delle riforme
scolastiche e degli istituti tecnici superiori;
ammodernamento del sistema scolastico; edilizia scolastica e
messa in sicurezza delle scuole e, infine, riorganizzazione
e ammodernamento del ministero. Chi verrà potrà comprendere
il messaggio o appallottolare il foglio. Profumo, con un atto inedito, ha dimostrato di voler
garantire una continuità a un ministero, il suo, breve ma
ricco di novità. Ecco, sarebbe stato davvero interessante
riuscire a vedere un ministro consapevole della materia che
tratta misurarsi sul tempo di una legislatura vera: cinque
anni. In quindici mesi Profumo - che era partito assicurando
di non voler fare rivoluzioni, ma solo oliare i meccanismi -
in verità ha messo mano a un numero di cose da far girare la
testa. Rischiando di far collassare l'elefante ministeriale. Profumo passerà alla storia contemporanea dell'Istruzione
per aver riavviato un istituto di democrazia nelle scelte di
assunzione: il concorso di Stato per diventare insegnanti.
Ha messo le mani dentro un ginepraio inestricabile, con
spine acuminate e avvelenate, e ha tentato di cavarne una
regola buona da subito e per il futuro. Il reclutamento
nella scuola italiana è diventato nelle ultime tredici
stagioni una superfetazione di graduatorie, corsi
specialistici, esami post-laurea e pre-lavoro, una babele,
un enorme parcheggio di precari, molti dei quali già avevano
trovato lavoro altrove. Era certo che mettere mano a tredici
anni di sgoverno e provare a ridare una logica (abbassando
l'età media di ingresso) in questo ruolo strategico per ogni
paese - la selezione del corpo docente - avrebbe comportato
proteste. E proteste ci sono state. Ma il concorsone da 320
mila concorrenti è stato un successo. Tutto da ascrivere al
ministro. L'impronta tecnologica di Francesco Profumo - altra
questione - si è sentita, ma poi si è potuta esprimere solo
laddove consentiva un risparmio allo Stato (via la carta,
via i certificati, comunicazioni scuola-famiglia solo
online). I proclami di successo, per ora, si scontrano però
con ritardi forti dei singoli istituti. Un ministro sinceramente riformista e capace d'ascolto ha
avuto alcuni seri problemi. Ha dovuto fare tutto senza
soldi, e il suo governo, alla fine, sulla scuola ha tagliato
linearmente, alla Tremonti, alla Gelmini. A fronte della
dittatura dello spread su cui l'esecutivo Monti era
impostato, Profumo ha dovuto cedere, arretrare, rimediare.
Ha dovuto chiedere agli insegnanti di aumentare il monte ore
(24) a fronte di zero euro di aumento di stipendio
accettando in contropartita 15 giorni di ferie in più. Sul
tema ha subito una contestazione gelminiana, per intensità e
volumi, subendo una sconfitta pesante e incrinando in
maniera irreparabile i suoi rapporti con un Partito
democratico tutto intento a non disperdere potenziali voti
(di prof, di precari, di studenti). Ancora, Profumo ha agito come se avesse tempi lunghi davanti
a sé e ha dato accelerazioni improvvise ad alcuni temi
difficili senza avere copertura politica né economica: nudo
per le riforme. Le sconfitte, a volte cocenti, erano una
partitura già scritta. In altri casi il ministro si è
impuntato su un'idea del merito scolastica, questa sì,
rigida, libresca, quando invece i paesi che stanno offrendo
i migliori studenti nel mondo - la Finlandia e la Corea del
Sud - da tempo hanno sperimentato che sono le pari
opportunità iniziali (a prescindere dal censo) a regalare,
più avanti negli anni, gli studenti speciali. Ecco, la
lezione della platea scolastica più ampia possibile che fa
crescere tutti selezionando naturalmente, e in un secondo
tempo, le inclinazioni e i talenti non è sembrata una
priorità dell'ingegner Profumo. In altri momenti - l'incapacità di cacciare presidenti
clientelari dagli enti di ricerca dopo averli redarguiti -
il ministro ha mostrato una debolezza caratteriale che
quindici mesi di politica sul fronte non gli hanno ancora
irrobustito. Ha mostrato visione, ha indicato strade, ha sbagliato un
po'. In condizioni difficili. Ora Francesco Profumo torna al
Politecnico di Torino mentre la scuola, come il paese, resta
in balia della solita emergenza.
http://www.repubblica.it/rubriche/la-scuola-siamo-noi/2013/03/04/news/addio_ministro-53888219
-
Il Ministero
dell'Istruzione 'suggerisce' lo studio dell'Inno di
Mameli. Peccato che sia già obbligatorio
Gaffe di Viale
Trastevere sullo studio dell'inno di Mameli
Agenzia
Dire, del 08/03/2013, di Alessandra Migliozzi
ROMA -
Per la legge e' obbligatorio, per il ministero
dell'Istruzione no. Gaffe
di Viale Trastevere sullo studio dell'inno di Mameli,
introdotto da quest'anno nei programmi di scuola per effetto
della legge numero 222 del 23 novembre scorso. Il Parlamento
ha detto si qualche mese fa (fatta eccezione per le
rimostranze della Lega) al testo bipartisan (frutto
dell'unione di due provvedimenti, uno del Pd e l'altro del
Pdl) che introduce dall'anno scolastico in corso, il
2012/2013, lo studio obbligatorio fra i banchi dell'inno
nazionale e dei suoi fondamenti storici. La stessa legge
prevede anche che da quest'anno il 17 marzo si celebri la
'Giornata dell'Unita' nazionale, della Costituzione,
dell'Inno e della Bandiera'.
Ma proprio nella circolare
di due giorni fa che invita le scuole a celebrare la
ricorrenza il Miur scivola sull'inno. Il testo
'incriminato' e' firmato dallo stesso ministro Francesco
Profumo. Facendo riferimento alla legge di novembre la
circolare del ministro spiega che all'articolo 2 di quel
provvedimento "si suggerisce l'insegnamento dell'Inno di Mameli e dei
suoi fondamenti storici e ideali". Ma la norma dice altro.
Ovvero che nelle scuole da quest'anno "e' previsto
l'insegnamento dell'inno di Mameli e dei suoi fondamenti
storici e ideali". Insomma, tutt'altro che un suggerimento.
LE 'MADRI' DELL'OBBLIGO
- "La legge approvata a novembre dal Parlamento non
suggerisce, ma rende
obbligatorio lo studio dell'inno di Mameli a
scuola". È il commento di Paola Frassinetti, esponente di
Fratelli d'Italia ed ex parlamentare Pdl, alla circolare del
ministero dell'Istruzione inviata alle scuole in cui si
ricorda di festeggiare la Giornata dell'Unita' nazionale il
prossimo 17 marzo. "Non c'e' nessun suggerimento, ma un
obbligo- sottolinea alla DIRE Frassinetti, che della legge
e' stata una delle madri insieme alla Pd Maria Coscia- e mi
stupisce che un provvedimento così netto possa essere
reinterpretato. Mi auguro che il ministro Profumo, che si
era anche complimentato per quel testo, rettifichi e faccia
chiarezza". La legge "prevede lo studio dell'inno di Mameli a scuola, e'
una indicazione perentoria".
Così Maria Coscia, deputata democratica appena rieletta.
"Dalle scuole - prova a spiegare Coscia che della legge di
novembre e' stata una delle 'madri' insieme alla deputata
Pdl Paola Frassinetti - ai tempi dell'approvazione della
legge erano emerse, in nome dell'autonomia, delle
perplessità sul fatto che fosse introdotto questo obbligo.
Forse per questo il ministero fa questa interpretazione. In
realtà l'indicazione e' perentoria. Un dato certamente e'
che la circolare esce un po' tardivamente rispetto alla
scadenza del 17 marzo. Per fortuna molte scuole hanno già
organizzato iniziative per ricordare la Giornata dell'Unita'
nazionale".
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“Scarsi in matematica?
Colpa della volgarità”
l'Unità,
del 07/03/2013, di Benedetto
Vertecchi
L’ultimo bollettino di
Caporetto per la scuola italiana è costituito dal rapporto
sui livelli di apprendimento nella matematica pubblicato
dall’Associazione Iea (International Association for the
Evaluation of Educational Achievement). Ancora una volta, la
comparazione dei risultati ci vede relegati in una posizione
tutt’altro che esaltante. E, ancora una volta, i commenti
non sono andati oltre le consuete lamentazioni che, in un
modo o nell’altro, tendono a far passare in secondo piano le
ragioni degli insuccessi che, una rilevazione dopo l’altra,
si continuano ad accumulare. Anche in questo caso, si sono
sentiti i soliti richiami alla necessità di migliorare la
formazione professionale degli insegnanti e di individuare
soluzioni più efficaci per la didattica. Mi sembra di aver
sentito affermazioni analoghe già una quarantina d’anni fa,
quando incominciavano a diffondersi i dati delle rilevazioni
comparative tra i sistemi scolastici. In questi decenni, i risultati italiani hanno continuato a
peggiorare, ma i buoni propositi di volta in volta enunciati
sono rimasti tali. La formazione professionale degli
insegnanti costituisce ancora un nodo irrisolto, così come
non ci sono stati progressi di qualche rilievo
nell’organizzazione della ricerca didattica. Il fatto è che,
in ogni caso, interventi nelle due direzioni indicate, che
pure sarebbero auspicabili, non basterebbero a rovesciare la
dinamica negativa che sia l’Associazione Iea, sia l’altra
grande centrale della ricerca comparativa, l’Ocse, non
cessano di segnalare. Le indagini comparative non servono,
infatti, a stilare una graduatoria dal migliore al peggiore,
ma a rendere evidenti i contesti che si associano a livelli
di rendimento più o meno soddisfacenti. Per quel che riguarda l’apprendimento della matematica, si
dovrebbe incominciare con l’osservare che la crisi non
riguarda solo l’Italia, anche se nel nostro Paese ha assunto
dimensioni particolarmente preoccupanti. Si direbbe che un
settore della conoscenza cui si deve molto dello sviluppo
del pensiero europeo e del progresso scientifico e
tecnologico abbia esaurito la sua spinta propulsiva, almeno
a livello della cultura diffusa. Gli stili di vita
prevalenti nei Paesi industrializzati riducono
progressivamente l’uso delle competenze di base nelle
pratiche quotidiane. Si legge e si scrive di meno, e c’è
sempre minor bisogno di calcolare. Se in Italia la situazione si presenta più grave che
altrove, occorre ricercare quali siano gli aspetti non solo
dell’educazione formale (quella scolastica), ma anche di
quella informale (mi riferisco all’educazione che
implicitamente si acquisisce nei contesti di esperienza) che
concorrono a determinare atteggiamenti negativi nei
confronti dell’apprendimento della matematica. La mia
opinione, per quanto possa sembrare paradossale, è che il
livello deludente dei risultati che si riferiscono alla
matematica debba essere riferito non tanto alle difficoltà
specifiche che presenta tale area della conoscenza, quanto
ad una progressiva caduta della cultura diffusa nella
popolazione, a cominciare dalla qualità delle competenze
verbali. Credo che chiunque abbia qualche consuetudine con i
comportamenti dei bambini e dei ragazzi (ma il fenomeno si
va rapidamente estendendo alle età successive) non possa non
aver notato una progressiva attenuazione della capacità di
argomentare in modo proprio, corretto dal punto di vista
grammaticale e adeguato da quello sintattico, di un registro
appropriato agli argomenti sui quali ci si sta soffermando.
L’uso sociale della lingua non contribuisce a sostenere il
compito di apprendimento: i mezzi di comunicazione, e
soprattutto la televisione, diffondono messaggi sempre più
poveri di pensiero, il cui intento non è quello di stimolare
la comprensione, ma di attrarre l’affettività. La volgarità
dell’espressione verbale è stata, come si usa dire
«sdoganata»: in altre parole, si ricorre a espressioni
allusive e spesso scurrili per sollecitare una adesione
istintiva, che non comporta una riflessione specifica. I
bambini e i ragazzi sono immersi in un universo comunicativo
rispetto al quale i messaggi dell’apprendimento formale
appaiono lontanissimi ed estranei. È del tutto improbabile che il quadro negativo che le
rilevazioni internazionali pongono in evidenza possa essere
modificato solo con rettifiche nel modo di operare delle
scuole. Occorre, invece, definire un programma educativo di
ampio respiro, che tenda a conferire una nuova
qualificazione alla cultura della popolazione e ridefinisca
il ruolo della scuola nello sviluppo di bambini e ragazzi.
Per cominciare, c’è bisogno di definire una politica che
valorizzi il patrimonio immateriale e le testimonianze
storiche della tradizione italiana ed europea, e che sia
aperta, in chiave di incremento e non di riduzione, agli
apporti di altre culture. Essenziale in questa prospettiva è
un forte incremento della presenza della scuola
nell’organizzazione della vita di bambini e ragazzi: si
tenga conto che i risultati migliori sono quelli che si
ottengono nei sistemi scolastici che operano su tempi
distesi e impegnano una parte più consistente del tempo
degli allievi. L’importanza di qualificare la cultura diffusa è più
evidente se ci si riferisce all’apprendimento della
matematica, ma non è inferiore se prendiamo in
considerazione altri campi della conoscenza: la povertà del
linguaggio parlato, e peggio che mai di quello scritto,
costituisce un segnale predittivo dei risultati scadenti che
si conseguono nella scuola. Sarebbe utile orientare il maggior impegno nella valutazione
istituzionale del sistema educativo all’analisi dei problemi
posti in evidenza dagli insuccessi nelle rilevazioni
comparative. Continuare a prendere atto delle differenze fra
le aree geografiche o fra città e campagna è utile solo se
si persegue l’intento di assicurare l’equità delle
opportunità educative.
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Profumo vuole un nuovo
concorso
Domani il
Consiglio dei ministri in limine mortis dovrebbe approvare
il regolamento che introduce il nuovo sistema di valutazione
nazionale delle scuole italiane.
il
manifesto del 07/03/2013
Ro.Ci.
Domani il Consiglio dei
ministri in limine mortis dovrebbe approvare il regolamento
che introduce il nuovo sistema di valutazione nazionale
delle scuole italiane. Il decreto fortemente voluto dal
ministro dell'Istruzione Francesco Profumo, che continua a
credere di avere una vita politica oltre la fine della
legislatura appena trascorsa. Rivoluzionerà la vita di 9
mila istituti, 1 milione di dipendenti e 7 milioni studenti.
Profumo ha anche comunicato di avere avviato le procedure
per un nuovo concorso a cattedre nella scuola. E prega il
prossimo governo di continuare le pratiche, proprio nel
giorno in cui la direzione nazionale del Pd ha assicurato di
volere procedere con la stabilizzazione dei precari iscritti
nelle graduatorie ad esaurimento. Per Francesca Puglisi,
responsabile scuola del partito di Bersani, «Profumo si
arroga un compito che non gli compete». Rincara la dose
Mimmo Pantaleo (Flc-Cgil): «È arrogante e autoritario,
qualcuno lo fermi, Cgil è pronta a tornare in piazza». E
Marcello Pacifico dell'Anief: «È il preludio
all'assegnazione delle risorse solo alle scuole migliori. Ma
questi signori lo sanno cosa significa insegnare nel
quartiere Zen di Palermo o in quelli Spagnoli di Napoli. E
lo sanno che in questi giorni l'Istat ha collocato lo
stipendio attuale di un dipendente pubblico in servizio a
quello di 24 anni fa?».
-
Crollo degli iscritti
nelle università italiane
I dati diffusi
dal Cineca: solo 267.076 nuove immatricolazioni,
settantamila in meno di dieci anni fa. L'ultima volta che
gli iscritti hanno toccato questo livello era il 1988.
Tengono le facoltà scientifiche, dimezzato l'afflusso a
quelle sociali. E gli atenei italiani toccano il fondo nelle
classifiche mondiali
la
Repubblica, del 07/03/2013
ANCORA giù le
immatricolazioni all'università e gli atenei italiani
precipitano in basso nelle classifiche internazionali. I
dati relativi all'anno accademico in corso, forniti dal
Cineca - il consorzio interunivesitario che gestisce
l'anagrafe degli studenti universitari italiani - confermano
il grido d'allarme lanciato qualche settimana fa dal
Consiglio universitario nazionale (Cun) e se possibile lo
aggravano ancora. In appena tre anni, si sono persi 30.000
nuovi iscritti negli atenei italiani e in meno di 10 anni,
nove per la precisione, addirittura più di 70.000. Era da 25 anni che in Italia non si registrava un numero di
matricole così basso: nel 1988/1989 gli immatricolati erano
276.249. Quest'anno appena 267.076. Il calo maggiore lo hanno subito i corsi triennali, che in
meno di un decennio hanno perso quasi un terzo degli
iscritti: 92.749 iscritti per l'esattezza. Nell'anno in
corso se ne registrano 226.283, oltre 8.000 in meno rispetto
a 12 mesi fa. Nello stesso periodo il numero dei diplomati è
addirittura cresciuto di oltre 11.000 unità. Perché in
Italia sempre meno giovani si iscrivono all'università? La
recente crisi economica e occupazionale ha probabilmente
fatto la sua parte: ormai tutti, laureati compresi, trovano
difficoltà a centrare il primo impiego. Perché laurearsi? Ma con tutta probabilità, l'interruzione degli studi dopo il
diploma dipende anche dai costi sempre più alti che le
famiglie sono costrette a sostenere, prima per la
preparazione alla lotteria dei test di ammissione - ormai diffusi nella
maggior parte degli atenei - e una volta ammessi, per le
tasse di iscrizione, i trasporti e il vitto e l'alloggio per
i fuorisede. Spese che evidentemente scoraggiano famiglie e
giovani. Una situazione che rischia di fare precipitare l'Italia
ancora più in basso nella classifica degli iscritti
all'università. Attualmente, il nostro paese è al
quart'ultimo posto in Europa, con 3.302 iscritti
all'università per 100.000 abitanti. Un valore che, se
allarghiamo lo sguardo, ci colloca dietro l'Egitto, la
Thailandia e il Paraguay. Un trend che rischia di farci precipitare all'ultimo posto
anche nella classifica europea dei giovani laureati. Nel
2011 l'Italia - col 21% di laureati tra 25 e 34 anni -
occupava il poco lusinghiero penultimo posto, precedendo
solo la Turchia. La Romania è al 24% e la Norvegia ci
surclassa: 46,1%. Le aree disciplinari che hanno subito la
maggiore contrazione sono quella sociale - ovvero Scienze
sociali, Scienze economiche, Scienze della comunicazione,
Sociologia - che in meno di un decennio è passata da 135.000
immatricolati triennali ad appena 72.000: meno 46%. Perdono un terzo degli immatricolati triennali i corsi
dell'area umanistica - come Lingue, Lettere, Filosofia - e
lasciano sul campo più di un quarto (il 27%) degli
immatricolati i corsi dell'area sanitaria - Medicina,
Odontoiatria, Veterinaria e Professioni sanitarie. Tengono i
corsi dell'area scientifica - Ingegneria, Matematica,
Chimica, Fisica, Statistica, tanto per citarne alcune - che
perdono appena il 3% di new entry. Le cose cambiano poco se
si prende in considerazione il totale degli immatricolati
nei corsi triennali e a ciclo unico, che si assottigliano
del 21%. E anche in questo caso le defezioni maggiori si
registrano nei corsi dell'area sociale: meno 29%. Intanto, nella classifica 2012/2013 redatta dal The (il
settimanale Times higher education), resa nota pochi giorni
fa, le poche università italiane presenti nelle prime 400
d'Europa scendono verso il fondo della classifica. Nel
ranking relativo al 2011/2012, gli atenei di Bologna, Milano
e Milano Bicocca figuravano tra il 226° e il 250° posto.
Nessun ateneo italiano si piazzava tra i primi 200 posti.
Quest'anno, le prime tre università italiane (Milano, Milano
Bicocca e Trieste) si ritrovano tra il 251° e il 275° posto.
Gli atenei di Bologna, Trento e Torino figurano tra il 271°
e il 300° posto. Al primo posto si piazza Harvard e, in Europa, Oxford.
Limitandosi alle sole università europee, tra le prime 250
posizioni c'è almeno una università di tutti i paesi dell'ex
Europa occidentale, tranne appunto Grecia, Italia e
Portogallo. Tra le prime 200 d'Europa figurano ben 7 atenei
francesi, 11 tedeschi e 31 del Regni Unito. E anche atenei
austriaci, finlandesi e danesi e irlandesi. Ma nessun
italiano.
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L'Ocse all'Italia:
accelerare e investire più risorse su scuola digitale
L'Ocse, pur
apprezzando la volontà dell'amministrazione di incrementare
l'uso delle tecnologie e di internet nelle scuole italiane,
sprona il Belpaese a fare di più
Il Sole
24 Ore del 07/03/2013, di Claudio Tucci
L'Italia deve accelerare e
investire più risorse per diffondere le tecnologie digitali
a scuola. Altrimenti, di questo passo, «sarebbero necessari
altri 15 anni» per raggiungere, ad esempio, la Gran Bretagna
«dove l'80% della classi può contare su strumenti didattici
informatici e digitali». Lo scrive l'Ocse nel rapporto «Review of the Italian
Strategy for Digital Schools», presentato oggi al ministero
dell'Istruzione, dal ministro Francesco Profumo e dal capo
dipartimento, Giovanni Biondi. Servono più fondi L'Ocse, pur apprezzando la volontà dell'amministrazione di
incrementare l'uso delle tecnologie e di internet nelle
scuole italiane, sprona il Belpaese a fare di più. Sotto
osservazione (su richiesta dello stesso ministro Profumo) è
stato il «Piano nazionale scuola digitale», nato nel
2007/2008 e implementato di anno in anno con un budget
limitato, circa 30 milioni di euro l'anno (vale dire quasi 5
euro per studente). I suggerimenti dell'Ocse Come rimediare? Intanto - suggerisce l'Ocse - si ricorra a
finanziamenti integrativi, da parte di Regioni, Fondazioni e
scuole e poi si apra ad altre tecnologie meno costose e
scelte dalle scuole (kit composto da computer di classe,
visualizzatore e proiettore). Sarebbe di aiuto, inoltre, lo
sviluppo di una piattaforma virtuale di scambio delle
risorse digitali per insegnanti, la possibilità per le
scuole di organizzare la formazione dei docenti in modo
flessibile, l'istituzione di premi per gli insegnanti e
fiere dedicate all'innovazione nonché la definizione di
obiettivi e criteri di valutazione dei risultati. Sul fronte
dei cambiamenti si raccomanda di concentrare le risorse su
Scuola 2.0 e interrompere l'iniziativa Classe 2.0, pensando
anche al varo di reti scolastiche 2.0. Impulso andrebbe,
inoltre, dato all'editoria digitale scolastica. La situazione attuale Secondo gli ultimi dati, aggiornati al 31 agosto 20122, su
una rilevazione dell'85% delle scuole di ogni ordine e
grado, ha aggiunto Giovanni Biondi, i computer presenti
nelle scuole sono: 169.130 nella primaria (1 pc ogni 15
studenti); 150.385 nella secondaria di primo grado (1 pc per
ogni 11 studenti); 334.079 nelle superiori (1 pc per ogni 8
studenti). I dispositivi portatili (pc/tablet) in uso
individuale agli studenti sono 13.650. Le Lim attualmente
installate sono 69.813, per una copertura del 21,6% delle
aule scolastiche. Le aule connesse in rete sono circa il
54%, mentre l'82% circa delle scuole possiede una
connessione internet. Inoltre, sono attive 416 Cl@ssi 2.0 e
14 Scuole 2.0. E dal prossimo anno scolastico saranno
installate nelle scuole altre 4.200 Lim (lavagne interattive
multimediali), attivate altre 2.600 Classi 2.0, 16 Scuole
2.0 e istituiti Centri scolastici digitali in 6 regioni. Complessivamente, dunque, lo sviluppo del Piano Nazionale
Scuola Digitale consentirà di avere nelle scuole 74.013 Lim,
passando dal 21,6% al 23% delle aule coperte da questo nuovo
strumento didattico. Allo stesso modo il totale delle Cl@ssi
2.0 salirà a 3mila e quello delle Scuole 2.0 a 30. A margine della presentazione dello studio dell'Ocse il
ministro Profumo ha chiesto al nuovo governo e al nuovo
parlamento di investire nella scuola, e non bloccare il
nuovo concorso a cattedra - relativo al triennio 2015-2017 -
che, nelle intenzioni del Miur, dovrebbe essere bandito in
primavera. Il ministro ha detto poi «No» all'ipotesi di un
nuovo blocco degli scatti d'anzianità del personale per il
2013: «La scuola ha già dato», mentre sul regolamento sulla
valutazione che venerdì arriverà in Cdm ha evidenziato come
sia un provvedimento «da chiudere».
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Università, gli atenei
italiani fuori dai 100 più prestigiosi. Vince Harvard
A dirlo è la
classifica sulla reputazione delle università mondiali
realizzata dal magazine Times Higher education (The)
Agenzia
Dire, del 06/03/2013, di
Alessandra Migliozzi
ROMA -
Atenei italiani fuori dai
100 brand universitari più apprezzati al mondo, dal
top delle realtà accademiche più prestigiose. A dirlo è la
classifica sulla reputazione delle università mondiali
realizzata dal magazine Times Higher education (The), che si affianca a
quella annuale che valuta la qualità complessiva di queste
istituzioni. In entrambi i casi il nostro paese se la cava
male: l'Italia non ha nemmeno un ateneo fra i 200 migliori
al mondo messi in graduatoria da The a ottobre
in base alla qualità di
didattica e ricerca e non ne ha nemmeno uno fra i
100 più prestigiosi. Ci batte persino la Turchia. Il nostro
brand universitario, insomma, non si esporta bene. E lo
confermano i dati (bassissimi) degli studenti stranieri che
si iscrivono ai nostri corsi. In testa alla classifica c'è
Harvard, come lo
scorso anno. Confermati anche il secondo (Massachusetts
Institute of Technology) e terzo posto (University of
Cambridge). Al quarto posto Oxford scalza Stanford.
Il mondo anglosassone
spadroneggia. Gli Stati Uniti hanno 43 presenze
nella classifica, ma sono in calo: erano 44 l'anno scorso e
45 due anni fa. Il Regno Unito ha 9 presenze nella top 100
(erano 12 nel 2011) di cui 7 nella top 50. Russia e
Germania, fanno notare da The, "guadagnano nuove posizioni
nella top 100" delle università più famose. A livello
europeo la prima istituzione che appare nella classifica, al
20mo posto, è lo Swiss federal Institute of Techonology.
Niente posizionamenti alti per Francia e Paesi Bassi. La
prima ha 4 atenei nella top 100, ma tutti oltre le prime 50
posizioni. Scala posti (dal 91 al 51) l'ateneo turco Middle
East Techincal University. La classifica viene stilata attraverso il supporto di 16mila
esperti sparsi nel mondo che forniscono le loro opinioni.
L’area di
diecimila metri distrutta dal rogo non è un semplice museo
che si affaccia sul golfo.
La
Stampa, del 06/03/2013,
di Marco Rossi-Doria
La Città della Scienza di
Napoli è un simbolo. E’ nata nel 1996 nell’area della grande
dismissione dell’Ilva di Bagnoli. Nel luogo simbolo della
Napoli produttiva e operaia, che era stata lasciata solenne
e vuota, mai più dedicata a una prospettiva di sviluppo,
come invece è stato per le aree industriali dismesse di
Torino. La dolorosa Dismissione narrata da Ermanno Rea.
Così, la vastissima area ricordava alla città una perdita
operosa e cosciente – gli operai delle fonderie poi degli
altoforni e dei laminatoi – che avevano donato per decenni
l’ossatura di una vera presenza democratica e lasciavano un
gigantesco vuoto. Ebbene, è proprio in questa area dolente che la nascita
della Città della Scienza – unica porzione attuata di un
piano regolatore disatteso per colpevole inconsistenza dei
ceti politici - aveva ritrovato un significato vero, che
restituiva un senso di vita alla città. Perché la
progressiva costruzione, con meticolosa cura scientifica,
della Città della Scienza - negli edifici stessi degli
impianti industriali riattati - ci diceva che ogni cosa è
possibile, può riprendere vita, andare avanti. E’ così che
il simbolo di una mancanza è diventato di nuovo un luogo
vivo. E un luogo per apprendere. 350 mila visitatori
all’anno, per il 65 per cento bambini e ragazzi delle scuole
di ogni quartiere della città, delle città dell’entroterra e
del Lazio e della Puglia e di tutta Italia. Il luogo per
eccellenza dove, nel Mezzogiorno, con i nuovi media e con i
laboratori, si impara a capire il mondo, le trasformazioni
attuali e future, le leggi della chimica e della fisica, il
cielo stellato e i suoi moti, le grandi questioni
dell’ecologia e i sensi complessi della nostra biosfera…
Finalmente un passaggio di consegna tra generazioni, che
parte dalla storia, ben documentata, di un posto dove si
produceva il ferro la ghisa e l’acciaio e arriva a mostrare
come funzionano le cose e cosa può fare l’uomo per garantire
tutela del pianeta e, insieme, innovazione, sviluppo. La ferita di questo incendio è, dunque, radicale,
intollerabile. E noi napoletani, mentre ci interroghiamo su
quale probabile dolo lo abbia causato, dobbiamo chiederci
come reagire. Perché dobbiamo presto restituire il lavoro
didattico alle quasi duemila classi all’anno che dalle
scuole andavano ad imparare insieme a centinaia di
insegnanti competenti lì proprio lì dove l’incendio ha
distrutto tutto. Quanti di noi insegnanti hanno fatto capire
le cose lì anche a ragazzi distratti, con «poche basi», i
quali, nelle ore passate nella Città della Scienza ogni
volta hanno potuto ritrovare curiosità, dubbio, domanda,
motivazione. Non c’è che una cosa da fare: la Città della Scienza deve
rinascere presto e migliore di prima. Il compito non sarà
facile. Ma come diceva Giovan Battista Vico, il grande
filosofo europeo della città: «Sono traversie ma sono anche
opportunità». In queste ore centinaia di scuole fanno le
prime raccolte di denaro, le associazioni degli studenti si
attivano, i Ministri dell’Istruzione e della Coesione
territoriale si sono subito sentiti con il Presidente della
regione e con il sindaco. E si stanno cercando fondi sui
capitoli di bilancio. In un’Italia e in una città affaticate
è davvero tempo di darsi da fare - insieme ai nostri ragazzi
- di riprendere la marcia, di riparare i danni e pensare a
come possono rinascere le città, gli apprendimenti, le
speranze.
-
Effetto Grillo a viale
Trastevere
Vista
l'incertezza politica, oggi il sì finale del governo al
decreto sulla valutazione
ItaliaOggi del 05/03/2013,
di Alessandra Ricciardi
Contrordine. Nessun dossier va lasciato in sospeso. Vista
l'incertezza politica determinata dalle elezioni, con il
boom del Movimento5Stelle di Beppe Grillo che ha fatto
saltare gli equilibri preelettorali, basati sulla vittoria
del centrosinistra, a viale Trastevere il ministro Francesco
Profumo ha dato disposizioni per chiudere tutte le partite
ancora aperte. E così oggi il consiglio dei ministri, secondo quanto
risulta a ItaliaOggi, darà il via libera al decreto sul
«sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e
formazione». Si tratta del sì finale, che porta a regime la
sperimentazione già in corso nelle scuole, e su cui invece
Pier Luigi Bersani aveva chiesto di soprassedere, perché su
un tema così importante la decisione non fosse assunta da un
governo tecnico e per giunta a fine mandato. Nel giro di una
decina di giorni, il ministro dovrebbe ufficializzare anche
il pacchetto di nomine per la presidenza e i cda di Indire e
Invalsi, gli istituti che, insieme al corpo degli ispettori,
hanno un ruolo strumentale rispetto alla valutazione. Verso
la chiusura è dato anche il decreto sui Tfa speciali, i
tirocini abilitativi riservati ai docenti precari, che ha
ricevuto, al pari della valutazione, il via libera delle
commissioni parlamentari. Il
provvedimento sul sistema di valutazione accantona
definitivamente l'ipotesi di brunettiana memoria di
utilizzare le rilevazioni sui rendimenti degli studenti per
dare premi ai docenti più bravi. Essenzialmente il
regolamento consentirà di valutare l'efficacia dell'azione
didattica, i punti deboli e le azioni possibili di
miglioramento. Il decreto parte dall'autovalutazione delle
istituzioni scolastiche del servizio offerto, in base a dati
resi disponibili dal sistema informativo del ministero, alle
rilevazioni sugli apprendimenti e alle elaborazioni sul
valore aggiunto restituite dall'Invalsi. Alla valutazione
interna si accompagnerà una valutazione esterna da parte
dello stesso Invalsi che individuerà le scuole da
«sottoporre a verifica», in base a controlli di un ispettore
e due esperti. L'obiettivo è definire con le scuole azioni
di miglioramento, con il supporto dell'Indire ed
eventualmente anche di università, enti di ricerca,
associazioni professionali e culturali. Ogni scuola dovrà
fare la rendicontazione sociale del lavoro svolto e dei
risultati raggiunti. I piani di miglioramento, correlati
dagli obiettivi centrati, vanno sempre comunicati al
direttore scolastico regionale, che «ne tiene conto ai fini
della individuazione degli obiettivi da assegnare al
dirigente scolastico in sede di conferimento del successivo
incarico e della valutazione» per la retribuzione di
risultato. Che dunque non potrà più essere distribuita a
pioggia, come invece accaduto finora.
-
Cervelli in fuga, il
flop dell’operazione rientro “Illusi dall’Italia:
dovremo emigrare di nuovo”
Bandi a
rilento e incertezza sui fondi, l’allarme dei ricercatori
tornati a casa
la
Repubblica del 05/03/2013
L’iniziativa fu intitolata
a Rita Levi Montalcini per festeggiare i suoi cento anni,
nel 2009. Quattro anni e 6 milioni di euro più tardi, il
bilancio del Programma per giovani ricercatori, anche detto
“Rientro dei cervelli”, ha al suo attivo appena 29
scienziati tornati in Italia. Solo il bando del primo anno
ha concluso il suo iter. Gli altri sono ancora in fase di
digestione. Lasciati nella pancia buia del ministero
dell’Università. Per i vincitori della prima edizione,
intanto, si avvicina la scadenza del contratto. E loro non
sanno ancora se il loro futuro sarà di nuovo all’estero. Il
bando del 2010 invece è stato pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale il 28 febbraio 2012. La commissione di valutazione
è stata nominata il 10 settembre dell’anno scorso, il 17
dicembre si è insediata e il 21 febbraio di quest’anno ha
fatto sapere che “concluderà i suoi lavori entro sei mesi
dall’insediamento, salvo eventuali ritardi”. Il bando del
2011 non è mai uscito. Quello del 2012 è scaduto domenica
scorsa, con il concorso di due anni prima ancora aperto e i
candidati informalmente invitati a ripetere la domanda, a
ogni buon conto. I giovani scienziati disposti a tornare nel loro complicato
paese hanno iniziato a fiutare l’aria. Dalle 363 domande per
31 posti presentate nel 2009 si è passati a 81 domande per
24 posti nel 2010. Nel frattempo i finanziamenti stanziati
dal Ministero per l’università e la ricerca sono scesi da
sei a cinque milioni. E gli anni di contratto da ricercatore
universitario offerti ai giovani si sono dimezzati: da sei a
tre. L’entrata in vigore della riforma Gelmini
dell’università nel 2010 vieta infatti che i contratti
triennali della categoria prevista dal Programma Montalcini
siano rinnovabili. I vincitori del bando del 2009 (scelti e nominati il 10
novembre 2010) stanno tranquillamente insegnando e facendo
ricerca in varie università italiane con uno stipendio di
40mila euro lordi l’anno. Sono filosofi, chimici, biologi,
medici, giuristi, geologi, archeologi, linguisti, storici,
fisici, antropologi, matematici. Provengono da New York,
Londra, Baltimora, Oxford, Berlino, Chicago, Zurigo,
Cambridge, Montreal. Il bando prevede che “il loro contratto
abbia durata triennale e possa essere rinnovato per una
durata complessiva di sei anni”. Ma “possa” non vuol dire
“debba”. E lo scorso ottobre 23 dei cervelli rientrati hanno
pubblicato sul loro sito una lettera di protesta,
indirizzata al Ministero che li lasciava nell’incertezza.
«Qual è il senso — chiedevano — del programma per il rientro
dei cervelli? Un contratto proiettato in un cul de sac
accademico? Una fellowship di tre anni per giovani
ricercatori qualificati che però non saranno più così
giovani allo scadere del contratto triennale da potersi
rimettere in gioco sul mercato internazionale?». Per disinnescare l’ipotesi cul de sac il Ministero ha
incontrato due volte i rappresentanti dei “cervelli
rientrati”. «La maggior parte dei loro contratti — spiega
Daniele Livon, che al Ministero è direttore generale del
settore università — scade nel 2014. Quindi possiamo
inserire i soldi per il loro rinnovo nel Fondo per il
finanziamento ordinario alle università del 2013. Ne abbiamo
parlato con il ministro Francesco Profumo, che si è detto
d’accordo ». Senza risposte da piazzale Kennedy sono invece rimasti i
candidati del bando 2010. A un ragazzo che chiedeva
informazioni un anno dopo aver presentato domanda, il
Ministero ha risposto che presto risponderà: “Si informa — è
il testo della mail ricevuta dal ricercatore — che il
Comitato nel più breve tempo possibile procederà ad
informare i candidati con un avviso nel quale sarà presente
lo stato dei lavori dello stesso”.
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Licei musicali
condannati alla chiusura
Gli enti
locali non coprono le spese. «Intervenga lo Stato»
Il
Messaggero del 05/03/2013, di
Alessia Campione ROMA Sono ventuno, ci lavorano ottocento insegnanti, ci
studiano oltre settemila ragazzi. Gli istituti superiori di
studi musicali sono gli ultimi condannati dalla penuria di
risorse nel mondo della scuola. Ex scuole pareggiate che
sono diventate formalmente pubbliche ma che restano senza
soldi. Sono state equiparate ai Conservatori con la legge di
riforma del settore artistico-musicale del 1999. E, anche
geograficamente, sono andati a “coprire” città e capoluoghi
lontani dai conservatori. Ora sono ad un passo dalla
chiusura. Gli enti locali protestano, e avvertono di non
farcela più se non interviene lo Stato. Solo quest’anno gli
istituti musicali pesano sulle casse dei Comuni e Province
per 42 milioni. 21 Gli istituti superiori di studi musicali che rischiano di
sparire. Troppi per i loro bilanci. E la chiusura sembra
l’unica soluzione possibile. Il che vuol dire che gli alunni
saranno costretti a completare gli studi in un
conservatorio, magari affrontando ogni giorno anche 200
chilometri di distanza per poter seguire le lezioni. Ma,
soprattutto, va a impoverirsi un’offerta formativa che, per
la musica, è legata alla cultura italiana. Facendo chiudere
i battenti a scuole che hanno un secolo di storia sulle
spalle. «Un patrimonio culturale e un prestigio nazionale che
rischiamo di perdere – avverte Maria Cleofe Filippi, per
conto dell’Anci, l’Associazione dei Comuni -. La situazione
è drammatica, i costi gravano per la quasi totalità sui
Comuni e le Province». Il passaggio a scuola pubblica è
avvenuto sulla carta. «Un passaggio riconosciuto legalmente,
ma non finanziariamente. Siamo nel guado di una situazione
irrisolta. Che almeno lo Stato paghi gli stipendi agli
insegnanti», chiede Dario Miozzi, docente di storia della
musica all’istituto di Catania, il più grande d’Italia: 800
alunni, novanta docenti. Che spiega: «Qui a Catania la
situazione è critica. Ma altri istituti rischiano
l’immediata chiusura come ad esempio Ancona, Pavia e
Taranto». In un comunicato diffuso dalla Flc Cgil e
sottoscritto anche dalla Cisl e Uil scuola, si denuncia che
«la pesante congiuntura economica, che i consistenti tagli e
i vincoli imposti ai bilanci degli enti locali, stanno
mettendo in serio pericolo lo svolgimento delle normali
attività di questi istituti». Con una dead-line che i
sindacati individuano, per molte di queste scuole, in una
data drammaticamente vicina: il 31 ottobre prossimo.
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Napoli, Città della
scienza distrutta da un incendio: area sequestrata
Il rogo si è
sviluppato ieri sera dal lato del mare: sei padiglioni del
museo tecnologico divorati dal fuoco.
Il
Mattino del 05 marzo 2013
NAPOLI
La Procura della Repubblica
di Napoli ha posto sotto sequestro l'area della «Città della
scienza» del capoluogo campano, distrutta
da un incendio divampato
ieri sera. La Polizia ha avviato
indagini per accertare le cause del rogo che ha interessato
il museo interattivo considerato tra i gioielli culturali di
Napoli, oltre che uno dei suoi maggiori fattori di
attrazione turistica, con una media di 350mila visitatori
l'anno. L'incendio non ha causato feriti; all'interno della
struttura non c'erano persone dal momento che il lunedì è
giorno di chiusura settimanale. I danni invece sono
ingentissimi: restano solo i muri perimetrali mentre
l'interno dei padiglioni è devastato. Il fronte del fuoco si
è esteso per oltre un centinaio di metri ed è stato spento
da decine di vigili del fuoco dopo ore di lavoro. Solo un
edificio è stato risparmiato dalle fiamme. I vigili al
momento non formulano ipotesi anche se la pista del dolo
prende sempre più corpo.
Sopralluogo degli
investigatori. Un sopralluogo degli inquirenti è in
corso all'interno dell'area della Città della Scienza. Vi
partecipano polizia, vigili del fuoco e il magistrato.
L'area è stata posta sotto sequestro mentre gli uomini della
Scientifica stanno effettuando ulteriori rilievi. Ancora non
ci sono indicazioni chiare sulle cause del rogo che ha
interessato un fronte di 12 mila metri quadrati e distrutto
quattro padiglioni della struttura. L'incendio è stato
completamente domato. I vigili del fuoco stanno ultimando lo
spegnimento di alcuni focolai.
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Scuola, i precari
vincono il ricorso. Scatta il licenziamento per 20
neoassunti
La decisione
del MIUR: dovranno lasciare il posto per consentire la
stabilizzazione dei precari disposta dal giudice del Lavoro.
La Cgil sul piede di guerra
da BARI TODAY del
04/03/2013
A Bari e provincia sono
all'incirca 20: bidelli, tecnici, docenti e
personale amministrativo, assunti quest'anno a tempo indeterminato dopo il
regolare scorrimento della graduatoria,
e che si trovano in questi
giorni a ricevere una lettera di licenziamento da
parte dell'Ufficio scolastico regionale e provinciale. Il
MIUR, infatti, ha deciso che dovranno lasciare il posto
appena ottenuto per
permettere la stabilizzazione dei precari che nel frattempo
hanno vinto il ricorso contro il Ministero dinanzi
al Tribunale del Lavoro.
Un vero e proprio pasticcio
burocratico denunciato dalla Cgil, in cui,
sottolinea il sindacato, ad essere penalizzati sono solo i
lavoratori: "Il MIUR - scrive in una nota il segretario
generale FLC CGIL Claudio Menga - ritiene che
il riconoscimento del
diritto alla stabilizzazione per un lavoratore non può
avvenire se non a discapito di altri lavoratori. Il
tentativo, evidente anche in questo caso, è di mettere gli
uni contro gli altri, di dividere i lavoratori e di impedire
che insieme possano rivendicare e ottenere la
stabilizzazione di tutti coloro che ne abbiano diritto per
merito o per sentenza passata in giudicato del Giudice del
lavoro". E di fronte alla decisione del Ministero,
il sindacato annuncia
iniziative di protesta e controffensive legali.
"Contro questa inaudita condotta, preannunciata da una
circolare interna - spiega ancora Menga - la FLC CGIL di
Puglia e Bari hanno inviato, già 15 giorni fa,
agli uffici periferici
dell'Amministrazione scolastica una lettera di diffida
con la quale si invitano USR e USP a desistere da questo
comportamento, minacciando di aprire un nuovo contenzioso a
tutela dei lavoratori licenziati che non hanno alcuna colpa
che legittimi la revoca del contratto".
Ai licenziamenti si
aggiunge anche il fatto che, per rispettare le
sentenze definitive, l'Amministrazione sta comunicando
ad altre decine di
lavoratori già in ruolo lo slittamento della decorrenza
giuridica della propria nomina, con conseguenti
disagi e danni anche economici per i dipendenti. Proprio per
questo in questi giorni gli uffici del sindacato sul
territorio osserveranno degli orari di apertura
prolungati(martedì, mercoledì e giovedì pomeriggio presso la
sede di Japigia), per offrire assistenza a tutti i
lavoratori che si trovano in qualche modo penalizzati dalla
decisione del Ministero e organizzare un'azione legale.
Il ministro
Profumo firma l’ultima circolare: sarà questa la priorità
del prossimo governo
la
Repubblica del 04/03/2013
SALVO INTRAVAIA
ROMA— Tra
le priorità del prossimo governo dovrà esserci la riduzione
di un anno della durata del percorso scolastico. È questo
l’auspicio che il ministro Francesco Profumo ha scritto
nell’atto di indirizzo sulle priorità politiche per il 2013
del ministero dell’Istruzione, dell’università e della
ricerca. «Occorre superare - scrive Profumo —-la maggiore
durata del corso di studi procedendo alla riduzione di un
anno, in connessione anche alla destinazione delle maggiori
risorse disponibili per il miglioramento della qualità e
della quantità dell’offerta formativa, ampliando anche i
servizi di istruzione e formazione ». Il tutto per «adeguare
la durata dei percorsi di istruzione agli standard europei».
Nei mesi scorsi Profumo avrebbe anche messo in piedi una
commissione con l’incarico di studiare le ipotesi di
riduzione del percorso scolastico. Da 13 a 12 anni. Ma il
ministero non ha mai confermato l’indiscrezione. Alla fine degli anni Novanta fu Berlinguer a tentare la
strada dell’accorciamento - compattando in un unico ciclo
scuola elementare e media, con una durata di sei anni, e
ampliando la scuola secondaria ad altri sei, suddivisi in
due trienni -ma poi, travolto dalle contestazioni, non fece
in tempo a vedere realizzato il suo progetto perché il
secondo governo D’Alma cadde e arrivò Giuliano Amato, con un
esecutivo tecnico. «Mettere mano alla riforma degli ordinamenti è semplicemente
assurdo», sbotta a proposito della proposta di Profumo,
Francesco Scrima, segretario nazionale della Cisl scuola.
«La scuola non ha bisogno di ulteriori interventi
strutturali perché non ha ancora assorbito le riforme
recenti. E poi chiediamo: meglio arrivare prima o arrivare
più preparati? Non mettiamoci a scimmiottare quello che
avviene in Europa senza sapere dove tagliare. Creiamo
piuttosto le migliori condizioni di vivibilità nelle scuole
per lavorare al meglio». In Europa, il percorso scolastico dura da 12 a 13 anni. In
Francia e Inghilterra i ragazzi concludono il loro percorso
all’età di 18 anni, i liceali tedeschi a 19, ma in
Finlandia, nazione presa a esempio per le eccezionali
performance dei quindicenni nei test internazionali, il
periodo di scolarizzazione - materna esclusa - dura 13 anni
e i ragazzi escono dal liceo quando ne hanno 19. «L’esito
del voto ha dato una chiara indicazione: le proposte del
ministro Profumo non possono essere tenute in alcuna
considerazione - dichiara Francesca Puglisi, responsabile
Scuola del Pd - Dopo i tagli e le riforme contraddittorie
calate dall’alto in questi anni, il prossimo ministro
dell’Istruzione ha un unico dovere: restituire alla scuola
risorse, stabilità, fiducia. Serve una costituente della
scuola pubblica. E poi, nemmeno gli studenti sembrano
convinti che accorciare la durata degli studi, possa giovare
alla loro formazione». Si schiera invece in difesa dell’intervento del ministro,
Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione nazionale
presidi «La disparità tra il percorso scolastico in Italia e
quello nelle maggior parte delle nazioni europee rende
auspicabile una riduzione della durata dell’età di uscita
dal percorso scolastico», spiega Rembado. «Ovviamente, per
le modalità occorrerà discuterne col prossimo governo. Le
ipotesi più accreditate al momento sono due: anticipare
l’avvio del percorso a cinque anni oppure ridurre di un anno
la durata degli studi superiori. Ma una riduzione che
consenta ai giovani italiani di uscire dalla scuola a 18
anni è necessaria».
Bruno Ugolini
l'Unità
del 04/03/2013
Col senno di poi oggi
appare chiaro che sarebbe stato meglio aprire un confronto
in campagna elettorale con i «contenuti» delle posizioni di
Grillo e dei grillini, più che con le battute del teatrante,
come quella relativa alla necessità di «abolire i
sindacati». Sarebbe stata necessaria una battaglia politica
aperta, anche per fare chiarezza tra i suoi stessi elettori,
quelli che hanno contribuito senza esitazioni a una
imponente ondata di consensi nelle roccaforti operaie e nel
tumultuoso mondo composito dei giovani precari. Ovverosia i
protagonisti di uno dei libri di Grillo SchiaviModerni in
cui si parla, tra l'altro, di «Call center organizzati come
istituti di pena». Avremmo dovuto, ad esempio, contestare
l'idea che per soddisfare la collera giovanile bisogna
conquistare non tanto esperienze di lavoro tutelate e
dignitosamente pagate, bensì un reddito di cittadinanza
sovvenzionato con il sacrificio di altri lavoratori, quelli
occupati nei servizi pubblici. Ovverosia vigili del fuoco,
infermieri, insegnanti, impiegati delle agenzie delle
entrate, ministeriali, e via elencando. Tutti coloro per i
quali proprio in questi giorni si discute di un ulteriore
blocco delle retribuzioni per due anni. Grillo aveva scelto
la strada della contrapposizione, già battuta da esponenti
del centrodestra come Brunetta. È così si poteva leggere sul
suo Blog dell'esistenza di due blocchi. Il primo composto
«da milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro
precario o disoccupati» che «cercano una via di uscita,
vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il
tavolo». L'altro blocco é composto «da una gran parte di
dipendenti statali, da chi ha una pensione superiore ai 5000
euro lordi mensili, dagli evasori» nonché da politici di
varie specie. Fatto sta, denunciava il Blog, che «Ogni mese
lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di
stipendi pubblici», un peso insostenibile. Bisogna
aggredirlo per dare il reddito di cittadinanza ai precari.
Ed ecco la proposta finale: «Licenziamenti di decine di
migliaia di dipendenti della Pubblica amministrazione e
taglio delle pensioni sopra a un certo tetto con
l'introduzione della pensione massima che potrebbe essere di
2000 euro al mese». Altro che articolo 18, licenziamenti ad
libitum, senza tener conto, tra l'altro, delle conseguenze.
Ha spiegato bene Rossana Dettori, segretaria della funzione
pubblica Cgil: «Dietro le parole che usa Grillo (posto di
lavoro pubblico), ci sono ospedali e pronto soccorso,
commissariati di polizia e caserme dei vigili del fuoco, ci
sono asili nido e scuole di ogni ordine e grado, ci sono
servizi sociali per anziani e non autosufficienti, ci sono
istituzioni democratiche che assicurano funzioni essenziali
per i cittadini». Altre risposte polemiche sono state
pubblicate sullo stesso Blog di Grillo. Così leggiamo Jeremy
da Cagliari: «Io sono un dipendente statale e ho votato M5S.
Non credo che noi statali siamo la causa del male italiano,
almeno non tutti, e il mio potere d'acquisto è fermo da 10 e
più anni». È ancora: «Io non mi sento un parassita o uno che
toglie il pane di bocca al lavoratore privato. Lavoro ogni
giorno e rischio pure la vita in mezzo alla strada e mi
piacerebbe che in questo blog si precisasse di più e si
facessero meno generalismi!». Mentre Paolo da Roma osserva:
«E no, caro Beppe, mi era sembrato di capire che le risorse
per sostenere il reddito di cittadinanza dovessero provenire
dalla lotta al malaffare, dallo stop immediato alle opere
inutili (vedi Tav ecc), dai tagli alle spese della politica,
dal ritiro dei contingenti militari, dalla revoca degli
acquisti dei cacciabombardieri, dal dimezzamento delle
pensioni e degli stipendi d'oro, ma non dal mettere per
strada dipendenti pubblici e pensionati che lottano per
arrivare a fine mese!». E così un altro, Maurizio, si sfoga:
«Ma lo sai quanti dipendenti statali hanno votato M5S? Lo
sai??? Lo sai quante tasse per la crisi si sono presi senza
permesso dal mio stipendio di statale sti quattro farabutti
? Lo sai??? Lo sai quanto prende un insegnante come me a 60
anni con moglie disoccupata e un figlio? Vuoi saperlo???
1530 euro!!!! (e ci pago un mutuo di 500 per altri 28
anni)». Mentre c'e chi riflette: «L'unico scontro
generazionale gradito, anzi auspicato, nel Paese è quello
tra la casta e gli emergenti del M5S. Questi giochetti di
mettere i padri contro i figli, i lavoratori precari contro
quelli fissi, lasciateli fare ai Casini e ai Monti, anche
perché non riescono: non si possono mettere i figli contro i
padri. Il lavoratore precario non vuole che anche gli altri
lo siano, ma vuole proprio il contrario: non esserlo più
lui. Quest'analisi A e B è di una superficialità avvilente
oltre che smentita dai fatti: io, oggi posto fisso, 60 anni
e 40 contributivi, pensione trombata e prossima pensionata
da fame ho votato M5S e con molti altri come me ero anche a
San Giovanni. Analisi di questo acume sono degne di un
Gasparri, non di una forza che rivendica la più alta
connessione con la realtà italiana». Un dibattito
interessante in cui non mancano, certo, voci di diverso
avviso, coerenti con le proposte di imbracciare la mannaia
per colpire il pubblico impiego dei «fannulloni». Ora questo
altalenarsi di opinioni avrà un peso sul vertice grillino e
nella disputa sul nuovo governo e sulle cose da fare magari
con l'appoggio dei grillini? Quel che appare certo é che per
il Movimento a Cinque Stelle il fuggire da un impegno
costruttivo significherebbe deludere speranze e attese di
quegli oltre otto milioni di elettori, appartenenti al mondo
del lavoro privato e pubblico, nonché al mondo di pensionati
e precari, imprenditori in crisi. Tutta gente che si aspetta
risultati e non solo grida di guerra. Cosi suona, tanto per
fare un esempio, l'appello di Franco da Modena: «Grillo ma
quale alternativa proponi, al non votare la fiducia a
nessuno, quindi a non dare la possibilità che ci sia un
nuovo governo? Punti allo sfascio? Ricordati che se ci
saranno nuove elezioni molti ti riterranno colpevole del
disastro e non ti rivoteranno come farò io e molti che la
pensano come me». http://ugolini.blogspot.com
-
“Idea sconcertante,
serve più tempo per lo studio”
Benedetto
Vertecchi, ordinario di Pedagogia sperimentale
all’Università di Roma: “Il punto non è ridurre, ma
ridisegnare il percorso educativo”
la
Repubblica del 04/03/2013
L’intervista
«SONO
contrario a qualunque ipotesi di riduzione, credo anzi che
bisognerebbe aumentare da 13 a 18 anni il percorso
scolastico italiano». Parole di Benedetto Vertecchi,
ordinario di Pedagogia sperimentale alla Facoltà di Scienze
della formazione dell’università Roma Tre. Cosa ne pensa della «priorità» indicata dal ministro
Profumo?«Detta così mi lascia parecchio perplesso: tentò
qualcosa di simile alcuni anni fa Berlinguer, ma senza
riuscirci». Perché l’idea non la convince? «Il problema non è ridurre di un anno il percorso, ma
ridisegnare il sistema educativo italiano ». Ma potrebbe anche accettare una eventuale riduzione da 13 a
12 anni della scolarizzazione? «Assolutamente no. Sono contrario a qualunque riduzione
perché non è l’uscita dalla scuola a 18 o 19 anni che
risolve il problema. Sarei anzi per allungare l’intero
percorso da 13 a 18 anni, partendo proprio dal basso». Ci può spiegare i motivi? «Nel resto d’Europa le scuole sono aperte tutta la giornata
e i ragazzi restano a scuola molte più ore che in Italia. In
tutto il mondo si fanno laboratori di fisica, biologia,
chimica e tanto altro. In Italia, quelle poche scuole che
avevano i laboratori li hanno distrutti per fare spazio ai
computer. Occorre una interazione tra pensiero e azione che stabilizzi
le conoscenze per rilanciare il sistema scolastico
italiano». Spesso si prende come esempio la Finlandia, come sono
organizzati in quel Paese? «In Finlandia negli anni Novanta la situazione era
disastrosa: i ragazzi uscivano dalla scuola alle 13 e c’era
una percentuale di suicidi molto elevata. Poi il governo ha
studiato la giornata tipo dei giovani finlandesi e ha capito
che doveva farli stare a scuola più tempo. Sono stati aperti
laboratori di ogni sorta — da quello di cucina a quello di
musica — e gli alunni applicavano i contenuti teorici delle
lezioni a situazioni pratiche in un contesto con regole
precise da rispettare». Con quali risultati? «La situazione è migliorata fino a raggiungere le migliori
performance scolastiche d’Europa. Ma anche in Francia i
ragazzi restano a scuola molto più tempo che in Italia».(s.i.)
-
Blocco stipendi nel
2014 allarme pubblico impiego
Il governo si
è limitato, con una nota serale del ministero Economia, a
precisare che «nulla è stato deciso» e che della questione
si occuperà il prossimo consiglio dei ministri, previsto per
la prossima settimana
Il
Messaggero del 01/03/2013
IL CASO
ROMA Il governo prepara una
proroga al 2014 del blocco degli stipendi nel pubblico
impiego e degli scatti di anzianità nella scuola? A lanciare
l’allarme è stata Rossana Dettori, segretario generale della
Funzione pubblica Cgil che ha chiesto al governo di smentire
le indiscrezioni che da qualche giorno hanno messo in
fibrillazione se non tutti, almeno una buona parte dei 3
milioni di dipendenti pubblici. «Sarebbe davvero inopportuno
- ha osservato la sindacalista ieri mattina - un decreto
approvato dal Governo Monti, una forzatura ai danni dei
lavoratori delle pubbliche amministrazioni. Il ministro
della Funzione pubblica Patroni Griffi dovrebbe smentire le
voci che lo annunciano come imminente». «Un’altra proroga al
blocco dei contratti pubblici sarebbe inaccettabile»,
aggiungono i segretari generali Funzione pubblica e Scuola
della Cisl, Giovanni Faverin e Francesco Scrima, ricordando
che le retribuzioni sono già ferme dal 2010, «mentre la
spesa pubblica continua a crescere». Dello stesso tenore le
dichiarazioni Ugl. Il governo si è limitato, con una nota serale del ministero
Economia, a precisare che «nulla è stato deciso» e che della
questione si occuperà il prossimo consiglio dei ministri,
previsto per la prossima settimana. In verità, la situazione
è complessa perché l’intervento del governo sarebbe
tutt’altro che discrezionale ma espressamente previsto dal
primo decreto sulla spending review, convertito in legge nel
luglio 2012. Tuttavia, per attuarlo si starebbe valutando la
possibilità di ricorrere a un Dpr, come quello previsto
dalla manovra Tremonti dell’estate 2011. In quel decreto si
prevedeva infatti la possibilità, non l’obbligo, di
prorogare di un ulteriore anno il blocco degli statali con
un Decreto del Presidente della Repubblica (Dpr). Questa
formula avrebbe se non altro il vantaggio di trasferire al
nuovo governo la scelta definitiva. Infatti, la procedura
prevede un primo passaggio in consiglio dei ministri, poi la
consultazione del Consiglio di Stato, quindi un passaggio
alle Camere e infine l’approvazione definitiva del
provvedimento con l’invio al Quirinale. Tempi? da 4 a 6
mesi, del tutto compatibili con il blocco esistente, che
resterà in vigore fino al 2013. La decisione finale spetterà a Palazzo Chigi e al ministro
dell’Economia Grilli, ma un testo circola già e indica il
blocco «senza possibilità di recupero» delle procedure
negoziali e contrattuali del biennio 2013-14 e dei
riconoscimenti contrattuali eventualmente previsti dal 2011.
Quanto all’indennità di vacanza contrattuale per il triennio
2015-2017 verrebbe erogata a partire dal 2015 con nuovi
criteri di calcolo. Infine, il testo stabilisce il blocco
degli scatti di anzianità, a valere sul 2013, per tutti i
dipendenti della scuola (docenti e non). Insomma, una nuova batosta. Il blocco delle retribuzioni
sarebbe costato circa 1500 euro ai dipendenti pubblici
secondo i calcoli della Cgil.
Barbara Corrao
-
Ridurre di un anno la
durata della scuola. Ecco il lascito di Profumo al nuovo
Governo
Ecco ora - al
termine del proprio mandato - il ministro dell'Istruzione,
Francesco Profumo mette nero su bianco una delle priorità
per il prossimo Governo
Il Sole
24 Ore del 01/03/2013
L'idea era stata rilanciata
quasi subito dal sottosegretario, Marco Rossi Doria. Si era
poi costituito un gruppo di lavoro per approfondire la
questione di come modernizzare il nostro sistema scolastico
alla luce dei migliori standard europei. Tante riunioni,
qualche ipotesi. E polemiche. Ma di concreto, più nulla.
Ridurre la scuola di un
anno
Ecco ora - al termine del
proprio mandato - il ministro dell'Istruzione, Francesco
Profumo mette nero su bianco una delle priorità per il
prossimo Governo. Quella cioè «di superare la maggiore
durata del corso di studi in Italia procedendo alla relativa
riduzione di un anno». Le risorse così liberate - si legge
nell'«Atto d'indirizzo 2013» appena pubblicato dal ministero
di Viale Trastevere - potranno essere destinate «per il
miglioramento della qualità e della quantità dell'offerta
formativa, ampliando anche i servizi di istruzione e
formazione».
documenti
Completare il sistema
nazionale di valutazione Il ministro Profumo indica poi, tra le altre priorità,
quella di «completare l'attuazione del sistema nazionale di
valutazione», e quella di «potenziare l'istruzione
tecnico-professionale sino a livello post secondario per il
rilancio della cultura tecnica e scientifica, l'occupazione
dei giovani e lo sviluppo del territorio».
-
Statali, stipendi
congelati per due anni
Pronto un
decreto per fermare gli aumenti. Il Tesoro: nulla di deciso
Corriere
della sera del 01/03/2013
ROMA —
Rischio di stipendi congelati fino a tutto il 2014 per gli
oltre 3 milioni di dipendenti pubblici. Lo stabilisce un
decreto ministeriale (Economia e Funzione Pubblica) che
dovrebbe essere pubblicato a giorni. «Non si dà luogo — si
legge nella bozza del decreto diffusa dall'agenzia Agi —
senza possibilità di recupero al riconoscimento degli
incrementi contrattuali e negoziali ricadenti negli anni
2013-2014 del personale dipendente dalle amministrazioni
pubbliche». Tale disposizione era prevista nell'ambito del
decreto sulla spending review. Ieri sera, davanti
alla montante protesta sindacale, il ministero dell'Economia
ha diffuso una nota per dire che «nulla è stato ancora
deciso». Nel provvedimento vengono fissate anche le modalità di
calcolo relative all'indennità di vacanza contrattuale per
gli anni 2015-2017 e ulteriori misure di risparmio,
razionalizzazione e qualificazione della spesa delle
amministrazioni centrali. Il decreto ministeriale prevede
anche il blocco degli scatti di anzianità per il 2013 per i
lavoratori della scuola (personale docente, amministrativo,
tecnico e ausiliario). Interpellato nel pomeriggio, il
ministero della Funzione Pubblica aveva detto di non saperne
nulla: parole che evidentemente non avevano per nulla
rassicurato Cgil, Cisl e Uil e gli altri sindacati, già
pronti alla mobilitazione. Per Giovanni Faverin, segretario generale della Cisl
funzione pubblica, «un'altra proroga al blocco dei contratti
pubblici sarebbe inaccettabile, negli ultimi 5 anni il
numero dei dipendenti è calato del 7,5% ma la spesa aumenta,
a riprova che la zavorra sono gli sprechi e la cattiva
organizzazione». Contraria anche la segretaria generale
dell'Fp-Cgil, Rossana Dettori: «Sarebbe davvero inopportuno
un decreto approvato dal governo Monti a urne chiuse,
l'esecutivo uscente non può permettersi di prendere scelte
politiche così importanti proprio in questi giorni». «Credo che fin quando il quadro politico non sarà più
chiaro— continua Dettori— in una fase di instabilità come
quella attuale il governo non possa procedere, soprattutto
in assenza di un confronto con i lavoratori e con un tavolo
ancora aperto all'Aran». Dal precariato, con la minaccia di
licenziamenti solo in parte posticipata a luglio, agli enti
locali, con casi sempre più frequenti di perdita di salario
e in una situazione quasi schizofrenica per il sistema
contrattuale di secondo livello, fino alle cosiddette
eccedenze nelle funzioni centrali e nel resto del lavoro
pubblico, «le questioni sono tali e così importanti da
richiedere un confronto a tutto campo». Protesta anche il
segretario generale della Uil Scuola, Massimo Di Menna.
R. Ba
-
Pa, braccio di ferro
Monti-Grilli
Il
provvedimento del Tesoro fermo a Palazzo Chigi. Cgil, Cisl e
Uil: atto ingiustificato
ItaliaOggi del 01/03/2013,
Alessandra Ricciardi
L'affare è complicato. Gli
stipendi di 3 milioni di dipendenti pubblici sono fermi dal
2010. Il governo Monti dovrebbe ora comunicare che non
cresceranno di un euro per altri due anni, fino a tutto il
2014. Il decreto di congelamento, come anticipato in
esclusiva da ItaliaOggi martedì scorso, è pronto, messo a
punto dai vertici del dicastero della Funzione pubblica e
dell'Economia. Ma Cgil, Cisl e Uil sono scesi in campo, anche se
separatamente, per dire che non se ne parla proprio e il Pd,
nonostante la fase di confusione, ha detto chiaramente che
sarebbe un atto improprio da parte di un governo a fine
mandato. Ma a essere decisiva sulla partita che si è aperta
sarà la valutazione che farà lo stesso Monti, pressato in
queste ore dal ministro dell'economia, Vittorio Grilli, per
firmare un provvedimento che sarebbe inevitabile, ragiona il
Tesoro, anche per un governo politico di centrosinistra. Un
braccio di ferro, quello tra Tesoro e Palazzo Chigi, che
dovrà avere un risultato nel giro di pochi giorni. E su cui
pesano inevitabilmente anche le incertezze dell'attuale fase
politica, in cui da un lato ci sono i timori di una
imminente gestione caotica, che non consentirebbe più di
assumere quelli che a via XX Settembre sono stati definiti
«atti responsabili e non rinviabili». E dall'altro lato le
prospettive dello stesso Mario Monti di riavere un incarico
di transizione per il disbrigo delle pratiche ordinarie e di
garanzia presso l'Unione europea, lasciando al parlamento il
compito di fare le riforme. Ieri, una nota del ministero d dell'economia chiariva che
«nulla ancora è deciso». Intanto la Cisl di Raffaele Bonanni
ha aperto il fuoco di sbarramento del fronte sindacale. «Il
decreto non sarebbe un atto dovuto, ma un atto sbagliato che
colpirebbe il bersaglio sbagliato», dicono Giovanni Faverin
e Francesco Scrima, rispettivamente segretari di Funzione
pubblica e Scuola della Cisl, che mettono all'indice la
contraddizione di una stretta sulla spesa pubblica che non
servirebbe a risparmiare: «Non è la spesa per il personale
che zavorra le finanze pubbliche, ma gli sprechi e la
cattiva organizzazione. Dal 2006 in 5 anni il numero dei
dipendenti pubblici è calato del 7,5%, nella scuola il calo
è stato ancora più marcato. Le retribuzioni sono ferme dal
2010. Mentre la spesa pubblica continua a crescere». E
ragiona Rossana Dettori, segretario generale dell'Fp-Cgil:
«In una fase di instabilità come quella attuale il governo
non può procedere in assenza di un confronto con i
lavoratori. Un confronto», spiega la sindacalista, «che
parta dalla necessità imminente di riformare e innovare la
pubblica amministrazione senza cercare capri espiatori, come
sembrano fare anche in questi giorni alcune forze
politiche». Sta di fatto che, nelle stesse retrovie del
sindacato di Corso Italia, si considera inevitabile un nuovo
intervento restrittivo sul settore pubblico visto
l'andamento negativo dei saldi di bilancio. Il decreto
predisposto prevede per tutto il 2013 e 2014 il blocco di
ogni aumento contrattuale, anche per fondazioni, enti
previdenziali, società partecipate come l'Anas. Un raggio
che sarebbe più ampio dell'attuale blocco. E che andrebbe a
incidere anche sul futuro: gli aumenti non dati non si
recuperano e anzi dal 2015 di procederà con un nuovo tasso
di inflazione. Intanto, all'Aran si è tenuto ieri il primo
vertice per evitare che dal primo agosto 2013 i precari con
contratti che superano il tetto dei tre anni, fissato dalla
legge Fornero, siano licenziati dallo stato. «Non sono
arrivate proposte chiare, non c'è nessuno spiraglio per un
percorso di stabilizzazione», commenta Antonio Foccillo,
segretario confederale Uil con delega per il pubblico
impiego, «navighiamo a vista. Con la prospettiva a breve di
più disoccupati e meno servizi pubblici». Probabile che
anche di questa partita, come quella sui contratti, si dovrà
occupare il prossimo esecutivo
-
“Scoperte solo sul web”
L’ultima rivoluzione è la scienza gratis per tutti
Adesso anche
gli Usa non faranno più pagare le riviste
la
Repubblica del 28/02/2013,
ELENA DUSI
Ma è
ancora poco rispetto a quel che chiedono i ricercatori.
L’accesso gratuito agli studi scientifici finanziati con le
tasse degli americani avverrà infatti solo un anno dopo la
pubblicazione. Per i primi 12 mesi gli esperimenti potranno
essere letti a pagamento. Dal giorno successivo entrerà in
vigore quel regime di libera circolazione delle scoperte che
i ricercatori cominciano a chiedere con una voce che ormai
assomiglia a un boato. In Europa un provvedimento simile a
quella della Casa Bianca è stato preso l’anno scorso dalla
Commissione ed entrerà in vigore gradualmente a partire dal
2016. Ma prima di arrivare alla decisione è stata necessaria
una petizione firmata da 13mila scienziati che si sono
impegnati al boicottaggio di una delle più esose fra le case
editrici di riviste scientifiche. La pressione dei ricercatori contro tariffe a volte
decisamente sproporzionate (gli abbonamenti arrivano a
40mila dollari e quasi sempre le riviste non possono essere
acquistate singolarmente, ma in pacchetti) sta diventando
sempre più dirompente. Da un lato ci sono gli editori,
aggrappati agli introiti degli abbonamenti e alle regole
della proprietà intellettuale. Dall’altro gli scienziati
sono desiderosi di scrivere e farsi leggere, firmano
petizioni, fondano nuovi giornali ad accesso libero, stirano
le regole del copyright e pubblicano i loro studi sulle
pagine web personali o su siti internet senza barriere. Quella per la libertà e la gratuità della scienza sta
diventando una battaglia mondiale. La decisione di
smantellare il muro delle tariffe — sia pure con 12 mesi di
ritardo dalla pubblicazione — è stata presa dalla Casa
Bianca a seguito di una petizione di 35mila cittadini. Le 19
agenzie federali che finanziano la scienza Usa con almeno
100 milioni di dollari l’anno avranno tempo fino al 22
agosto per decidere come rendere pubblici gli esperimenti.
Ogni anno, calcola l’ufficio della Casa Bianca specializzato
nelle politiche per la scienza e la tecnologia, 180mila
articoli scientifici potranno essere letti senza pagare. Un
analogo provvedimento preso in Gran Bretagna nel 2012
diventerà efficace il prossimo primo aprile. Parallelamente alle decisioni ufficiali, cresce il lavoro di
quelle riviste che dell’ “open access” fanno il loro ideale.
Fra i pionieri ci fu, nel 2003, la prestigiosa “Public
Library of Sciences” (nata sempre a seguito di una
petizione, questa volta avviata da un biochimico di
Stanford). Ieri dal suo sito la rivista cantava vittoria:
“La decisione della Casa Bianca è il segno che il principio
del libero accesso si sta affermando con forza”. L’anno scorso,
sull’onda della petizione europea dei 13mila scienziati,
sono nati altri giornali liberi, fra cui “eLife”, finanziato
dalla fondazione britannica Wellcome Trust. Le riviste gratuite vivono grazie a istituzioni non profit
(è il caso di eLife o delle case editrici universitarie),
alla pubblicità o a un contributo che si aggira tra i 500 e
i 3.500 dollari pagato dagli autori degli articoli. La
comunità di fisici e matematici ha creato un proprio sito
(www. arxiv. com) su cui ognuno è libero di pubblicare le
proprie ricerche e di leggere le altrui. L’abitudine è ormai
talmente consolidata da non essere nemmeno più osteggiata
dalle case editrici. Su un totale di quasi due milioni di
articoli scientifici pubblicati nel mondo ogni anno, uno su
cinque oggi è gratuito. Il giro d’affari degli editori è
ancora enorme: 10 miliardi di dollari, pagati in gran parte
da università ed enti di ricerca per gli abbonamenti. Ma la
scienza libera, con l’aiuto un po’ titubante anche dei
governi, sembra destinata a guadagnare posizioni
Grilloeconomics, i soldi per
pagare a tutti il reddito di cittadinanza? Per Beppe Grillo
basta eliminare le pensioni e gli stipendi pubblici
Qualche
domanda inizia ad avere risposta. Dove si trovano i soldi
per pagare a tutti i cittadini un reddito di cittadinanza
come promesso da Beppe Grillo? Semplice. Basta non pagare
più gli stipendi pubblici e le pensioni. Parola del leader
del Movimento 5 Stelle.
HUFFINGTON POST del 28/02/2013
- Andrea Bassi
Qualche
domanda inizia ad avere risposta. Dove si trovano i soldi
per pagare a tutti i cittadini un reddito di cittadinanza
come promesso da Beppe Grillo? Semplice. Basta non pagare
più gli stipendi pubblici e le pensioni. Parola del leader
del Movimento 5 Stelle.
In un blog postato ieri e intitolato
"gli italiani non votano mai a caso", Grillo scrive:
"Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4
milioni di stipendi pubblici. Questo peso è insostenibile, è
un dato di fatto, lo status quo è insostenibile, è possibile
alimentarlo solo con nuove tasse e con nuovo debito
pubblico, i cui interessi sono pagati anch'essi dalle tasse.
E' una macchina infernale che sta prosciugando le risorse
del Paese. Va sostituita con un reddito di cittadinanza".
-
Tre milioni di under 18 a
rischio povertà
Eurostat: in
Italia sono un terzo, uno dei livelli più alti tra i
ventisette
la
Repubblica del 27/02/2013,
VALENTINA CONTE
ROMA— Tre
milioni di bimbi e ragazzi italiani sotto i 18 anni sono a
rischio di povertà o esclusione sociale. In pratica, uno su
tre. In Europa è uno su quattro. Che in percentuale
significa il 32,3 contro una media del 27. Livello che
colloca l’Italia quasi al pari di Irlanda, Lituania,
Ungheria e Croazia. Mentre peggio di noi, nella preoccupante
classifica diffusa ieri da Eurostat, solo Bulgaria, Lettonia
e Romania, dove quasi la metà dei minori conosce gli stenti.
«Dati allarmanti, inaccettabili per il nostro Paese»,
commenta Giacomo Guerrera, presidente di Unicef Italia.
Secondo il fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, «in
Italia 723 mila minorenni vivono in povertà assoluta, così
come un milione e 297 mila famiglie, di cui 440 mila con
minorenni e il 10% concentrate nel Meridione». Nell’Europa a 27 Paesi, dice Eurostat, i giovanissimi sono i
più fragili e dunque i più esposti al rischio che la crisi
li dirotti nell’indigenza. La media del 27%, calcolata sul
2011, è difatti tre punti sopra quella relativa agli adulti
nello stesso periodo e ben sei punti sopra la categoria
degli anziani. A peggiorare la situazione, due fattori:
educazione e provenienza della famiglia d’origine. Un
ragazzo su due è candidato alla povertà o all’emarginazione
se i suoi genitori hanno un titolo di studio basso. Uno su
tre, se un genitore è immigrato. A questo si aggiunge il
lavoro che manca e che giorno dopo giorno porta a «gravi
deprivazioni di beni». Dunque povertà. Proporzioni rispecchiate anche da noi. Ben il 46,3% di chi è
figlio di genitori con la licenza elementare, o privo di
titoli, è a rischio. Contro il 22,6% di chi ha mamma o papà
diplomati e il 7,5% appena dei discendenti di laureati.
«Minori competenze e scarse aspirazioni si traducono spesso
in gravidanze in età adolescenziale e in maggiori
possibilità di consumo di droghe e alcol », spiega Guerrera.
«Non possiamo più assistere a questa deriva che peggiora
sempre più la situazione dei nostri ragazzi». Anche perché,
prosegue il suo ragionamento, «il tasso di povertà tra i
bambini e gli adolescenti è tra i più importanti indicatori
di salute e benessere di una società». Senza dimenticare
«che la povertà tra i più piccoli ha spesso un effetto
trainante sulla disuguaglianza e l’esclusione nella società
nel suo insieme ». Il legame tra rischio povertà e Pil, dunque politiche
sociali, è indubbio. In Germania e Francia il tasso sui
minori è al 19%. Nei Paesi del Nord Europa siamo attorno al
16% (Svezia, Danimarca e Finlandia). Percentuali basse anche
in Slovenia (17), Paesi Bassi (18) e Austria (19). I Pigs,
già nel pieno della recessione nel 2011, hanno invece pagato
pegno alla crisi anche sulla pelle dei più piccoli, meno
protetti e tutelati: Irlanda con il 37,6%, Grecia al 30,4,
Spagna al 30,6 e Portogallo con il 28,6. L’Italia, come
detto, presenta un conto ancor più amaro: tre milioni dei
suoi nove di under 18, un terzo pieno, soffre stenti,
sopporta sacrifici, incassa privazioni. E rinuncia a un
pezzo di futuro.
-
Statali a digiuno fino al
2014
Ecco il
decreto che Monti firmerà prima di lasciare il governo.
Economia: atto dovuto. Nessun aumento anche per la scuola
ItaliaOggi del 26/02/2013
di Alessandra Ricciardi
Dalle parti di via XX Settembre, dove il decreto è
stato lavorato in tandem con i tecnici del ministro della
Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, spiegano che si
tratta di un atto dovuto. Vista la situazione del bilancio
dello stato, non ci sarebbero le condizioni per far fronte a
un aumento di stipendio in sede di rinnovo contrattuale per
i 3 milioni di dipendenti pubblici. Il decreto che sarà nei prossimi giorni alla firma del
premier Mario Monti, su proposta di Patroni Griffi e del
ministro dell'economia, Vittorio Grilli, è dunque solo un
mettere nero su bianco un blocco dei contratti che era
nell'aria già ai tempi dell'approvazione della legge di
Stabilità. E su cui nessuno, neanche un esecutivo di
centrosinistra, dicono rumors governativi, potrebbe fare
diversamente. Il provvedimento, che ItaliaOggi ha letto,
recita che «non si dà luogo, senza possibilità di recupero,
alle procedure contrattuali e negoziali ricadenti negli anni
2013-2014 del personale dipendente dalle amministrazioni
pubbliche cosi come individuate ai sensi dell'articolo 1,
comma 2, della legge 31 dicembre 2009 n. 196 e successive
modificazioni». Nel novero del blocco contrattuale ricade
dunque la scuola, che con il suo milione di lavoratori è il
settore più corposo dell'intero pubblico impiego. La proroga
comporta anche per il 2013 il blocco degli scatti di
anzianità di docenti, ausiliari e amministrativi, che per
gli anni passati sono stati recuperati in sede negoziale tra
governo e sindacati. «Per il medesimo personale non si dà
luogo, senza possibilità di recupero, al riconoscimento
degli incrementi contrattuali eventualmente previsti a
decorrere dall'anno 2011». Ma non è finita, per gli anni 2013 e 2014 non ci sarà
neanche la corresponsione dell'indennità di vacanza
contrattuale: «In deroga alle previsioni di cui all'articolo
47 bis, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2011, n.
165 e successive modificazioni, e all'articolo 2, comma 35
della legge 22 dicembre 2008, n. 303, per gli anni 2013 e
2014 non si dà luogo, senza possibilità di recupero, al
riconoscimento di incrementi a titolo di indennità di
vacanza contrattuale che continua a essere corrisposta nelle
misure di cui all'articolo 9, comma 17, secondo periodo, del
decreto legge 31 maggio 2010, n. 78/2010. L'indennità di vacanza contrattuale relativa al triennio
contrattuale 2015-2017 è calcolata secondo le modalità e i
parametri individuati dai protocolli e dalla normativa
vigenti in materia». Ci sarà infatti un nuovo meccanismo per
individuare anche l'inflazione da recuperare, avendo mandato
in soffitta il parametro europeo dell'Ipca.
La Stampa (la
stampa.it) del 21/02/2013
-
Università, aprono le
facoltà in lingua inglese
Profumo
“Questo progetto apre la formazione ad una dimensione
internazionale”
Aprono in sei università
italiane le iscrizioni alle prime facoltà in lingua inglese,
da medicina a ingegneria. Lo ha spiegato il ministro
dell’Istruzione, Università e Ricerca, Francesco Profumo, a
margine della presentazione del master in Istituzioni e
Politiche spaziali presso la Società Italiana per
l’Organizzazione Internazionale (Sioi). «È necessaria una maggiore apertura internazionale - ha
affermato Profumo - anche nel settore dell’istruzione, e
proprio in questa prospettiva abbiamo attivato dei test per
facoltà in lingua inglese». Sono state infatti aperte da tre giorni le iscrizioni in sei
università italiane per le prime facoltà, in vari ambiti da
medicina a ingegneria, interamente in lingua. Le iscrizioni,
che hanno registrato già 700 candidati, proseguiranno fino a
fine marzo. Secondo il ministro, è necessario aprire di più il mondo
dell’istruzione agli studenti stranieri, così come il
mercato del lavoro ha bisogno di un respiro internazionale.
«Per migliorare la nostra competitività - ha proseguito il
ministro - è necessario interiorizzare maggiormente
l’appartenenza all’Europa. Gli studenti stranieri nelle
nostre università sono appena il 2.5%, un dato troppo basso
che dobbiamo assolutamente aumentare».
Precari e sottopagati, ecco i
diplomati: il 44% dice di aver «sbagliato scuola»
A un
anno dalla maturità, un ventenne può guadagnare 925 euro
netti. Roberto Ciccarelli, il manifesto del
21/02/2013. L'apprendistato come unica soluzione alla precarietà
giovanile? Un fallimento. Per l'Isfol i contratti di
apprendistato sono crollati del 17% tra il 2009 e il 2011.
Una tendenza confermata da un rapporto Unioncamere di inizio
febbraio secondo il quale gli imprenditori preferiscono
utilizzare la formula più semplice del primo contratto a
tempo determinato e non l'apprendistato esteso fino ai 29
anni dalla riforma Fornero. Una realtà ribadita anche dal
nuovo rapporto AlmaDiploma sulla condizione occupazionale
dei diplomati a uno, tre e cinque anni dalla maturità. Tra i diplomati 2011 che risultano impegnati esclusivamente
in un'attività lavorativa (il 31% degli intervistati) la
tipologia contrattuale più diffusa non è l'apprendistato, ma
il contratto a tempo determinato. Tra i ventenni la quota
degli assunti con contratti formativi è del 27%, mentre il
13% dei diplomati nei tecnici e nei professionali non ha un
contratto regolare. Una quota che sale al 19% tra i liceali,
cioé i ragazzi che hanno studiato materie scientifiche,
linguistiche o umanistiche e hanno preferito non iscriversi
all'università. Solo 15 su 100 sono assunti stabilmente. Il data base di AlmaDiploma, unico in Italia, conferma la
distanza tradizionale tra i diplomati dei
tecnici-professionali e i liceali, ma registra una netta
spaccatura anche tra i diplomati delle scuole professionali
e quelli dei tecnici. Il 42% dei ragazzi che possiedono un
titolo di studio nei tecnici sostiene di non utilizzare «per
niente» le competenze acquisite durante gli studi. I
diplomati nei professionali, invece, valorizzanomaggiormente
ciò che hanno appreso a scuola: il 22,6% dichiara di
utilizzare le competenze acquisite durante gli studi. Questo
dato diventa ancora più interessante se si considera che il
90% dei diplomati nei professionali ha già effettuato uno
stage in azienda, dandone peraltro un giudizio largamente
positivo. Senza contare che una quota minoritaria, ma
significativa, cioè il 19% ha lavorato anche durante il
periodo della scuola. Ciò non basta però a garantire
un'assunzione stabile e nemmeno uno stipendio decente. In
media i neodiplomati guadagnano 925 euro mensili netti, dopo
5 anni il guadagno sale a 1.169 euro, uno stipendio simile
ad un laureato assunto da un anno. Quasi nessuno lavora nel
«pubblico»: dopo un anno 12 diplomati su cento. Dopo tre
anni sono 8, dopo cinque 6 su cento. Il campione analizzato da AlmaDiploma (29.231 diplomati del
2011, 12.339 diplomati del 2009, 6.786 diplomati del 2007)
rappresenta la platea a cui si rivolgono la riforma Fornero,
la triplice dei sindacati che ha sottoscritto un «documento
d'intenti» con Confindustria, lo stesso Pd che vuole
estendere l'apprendistato per tamponare la disoccupazione
giovanile (al 32% tra i 15-24enni secondo AlmaDiploma, il
36,6% per l'Istat). Tutti sembrano ignorare, o comunque
sottovalutare, la volontà delle imprese di non usare questo
contratto e, in generale, di stabilizzare i giovani. Una situazione che non può essere, evidentemente, addebitata
alla scuola o all'università, colpevoli di non avere
«professionalizzato» a sufficienza la loro «offerta
formativa». E tantomeno ai ragazzi che nell'indagine
AlmaDiploma dimostrano di essere preparati e pronti ad
applicare le competenze acquisite sul lavoro. Precari, pagati poco di più di un salario di sussistenza,
che non svolgono un lavoro coerente con gli studi
effettuati, il 44% dei diplomati 2011 sostiene di avere
sbagliato scuola. Nel 40% dei casi si dichiara pentito della
scelta. Davanti a loro c'è un muro difficile da aggirare,
anche per chi ha seguito alla lettera i criteri indicati
dalle forze di governo, dai «tecnici», come dal senso
comune: scegliere a 14 anni il lavoro da fare per tutta la
vita, rinunciando alle illusioni che potrebbe dare la
laurea. Per il direttore di Almalaurea Andrea Cammelli, curatore
dell'indagine, il malcontento rispetto alle scelte formative
iniziali si sta acutizzando non solo tra i tecnici, ma anche
tra i diplomati professionali, coloro che invece dovrebbero
essere più soddisfatti di tutti. «In tempi di crisi - ha
detto - bisogna investire sul capitale umano, non tagliare
su tutto». Ma se poi le aziende non assumono?
da
Orizzontescuola del 20/02/2013
Almadiploma ha
pubblicato un Rapporto sulla situazione dei diplomati dopo la fine
della scuola: cosa fanno? Trovano lavoro o si iscrivono
all'università? E con quali risultati?
Giulia Boffa - Almadiploma
ha pubblicato un
Rapporto sulla situazione dei diplomati
dopo la fine della scuola: cosa fanno? Trovano lavoro o si iscrivono
all'università? E con quali risultati? I diciannovenni sono in calo nel nostro Paese, del ben 37% negli ultimi
27 anni, ma è aumentato il numero di coloro che si diplomano: nel 2011 è
stato il 74%, ben il doppio degli anni '80. Nel passaggio dal diploma
all'università invece il tasso è rimasto pressoché invariato, attorno al
29%, per diverse cause: il ridotto interesse, le difficoltà economiche
delle famiglie e la mancanza di politiche per il diritto allo studio,
rispetto all'accesso agli studi universitari di questa fascia di
popolazione giovanile. Nello stesso tempo diminuisce il tasso di occupazione giovanile, cresce
quello di disoccupazione (pari al 36,6% tra i 15- 24enni), calano del
32% le assunzioni di diplomati nel 2012 (Sistema
Excelsior-Unioncamere-Ministero del Lavoro). E diventa sempre più
rilevante il numero di coloro che non fanno nessuna scelta e che
ricadono nella categoria dei NEET (Not in Education, Employment or
Training), giovani che non studiano e non cercano lavoro. L'indagine è stata rivolta ad oltre 48mila diplomati del 2011, 2009 e
2007 intervistati a uno, tre e,per la prima volta, cinque anni dal
conseguimento del diploma di scuola secondaria superiore. Nello specifico, sono stati coinvolti 29.231 diplomati del 2011,
provenienti da 246 istituti d'istruzione superiore, indagati ad un anno
dal diploma; 12.339 diplomati del 2009, di 98istituti, intervistati a
tre anni; 6.786 diplomati del 2007, di 55 istituti, contattati a cinque
anni dal diploma. I ragazzi sono contenti della scelta
fatta? Il 44% dei diplomati 2011 dichiara di aver sbagliato a scegliere la
scuola fatta; dopo un anno gli stessi ragazzi rivedono il loro giudizio
e si dichiarano "pentiti della scelta" nel 40% dei casi. Alla vigilia
della conclusione degli studi il 56% dei diplomati 2011 dichiara che,
potendo tornare indietro, sceglierebbe lo stesso corso nella stessa
scuola, mentre il 44% dichiara che compierebbe una scelta diversa: un
quarto dei diplomati cambierebbe sia scuola sia indirizzo, il 10,5%
ripeterebbe il corso ma in un'altra scuola, il 9% sceglierebbe un
diverso indirizzo/corso nella stessa scuola. Con il trascorrere del
tempo il giudizio si modifica. Prima della conclusione degli studi i diplomati meno convinti della
scelta compiuta a 14 anni risultano i liceali e quelli degli istituti
professionali. I diplomati professionali, invece, nel corso del primo
anno successivo al conseguimento del titolo, sono i più insoddisfatti
della scelta compiuta. Infine, i diplomati degli istituti tecnici
risultano invece generalmente più appagati.
Quanti si iscrivono all'Università e
con quali risultati? Ad un anno dal diploma, 61 diplomati su cento si iscrivono
all'Università (49 su cento hanno optato esclusivamente per lo studio,
12 su cento frequentano l'università lavorando); il 19% ha invece
preferito inserirsi direttamente nel mercato del lavoro, tanto che ad un
anno dal titolo si dichiarano occupati. I restanti 20 su cento, infine, si dividono tra chi è alla ricerca
attiva di un impiego (14,5%) e chi invece, per motivi vari (tra cui
formazione non universitaria, motivi personali o l'attesa di una
chiamata per un lavoro già trovato), non cerca un lavoro (5%). La quota di diplomati dediti esclusivamente allo studio universitario è
nettamente più elevata tra i liceali (72%; un altro 16% studia e lavora)
rispetto ai diplomati del tecnico (37%) e del professionale (21,5%). Al contrario, come è normale attendersi, i diplomati che esclusivamente
lavorano sono poco diffusi tra i liceali (4%), rispetto ai diplomati del
tecnico (28%) e del professionale (37%).
Quanti lavorano e con quale titolo di
studio? A tre anni dal diploma, aumenta la quota di occupati: sono dediti
esclusivamente al lavoro il 24% dei diplomati, mentre è ancora impegnato
con gli studi universitari il 44% (tra questi, il 21% coniuga studio e
lavoro). A cinque anni l'analisi mette in luce un apprezzabile aumento della
quota di occupati: infatti è dedito esclusivamente al lavoro il 40% dei
diplomati (+4 punti rispetto a quando furono intervistati a tre anni dal
diploma), mentre è ancora impegnato con gli studi universitari poco più
del 30% dei ragazzi. Infine, il 17% degli intervistati coniuga studio e
lavoro. Chi cerca lavoro è l'8%. Rimane assai elevata, ancora dopo
cinque anni dal diploma, la quota di liceali che studia - esclusivamente
- all'università: 58%, contro il 27% del tecnico e l'11% del
professionale. Il voto di diploma è importante nella
ricerca del lavoro. Il voto di diploma influenza in modo rilevante gli esiti occupazionali e
formativi dei diplomati. La percentuale di differenza ad un anno dal titolo è pari a 8 punti
percentuali: risulta esclusivamente impegnato in attività lavorative,
infatti, il 15% dei diplomati con voto alto e il 23% di quelli con voto
basso. A tre anni le quote di quanti lavorano solamente sono
rispettivamente 19% e 30%, mentre a cinque 33% e 47,5%. Se l'impegno in un'attività lavorativa pare essere caratteristica
peculiare dei diplomati con voto più modesto, la prosecuzione degli
studi all'opposto, è una scelta che coinvolge soprattutto i diplomati
più brillanti: indipendentemente dalla condizione lavorativa, infatti,
risultano iscritti all'università nella misura del 70% (contro il 51% di
quelli con voto basso). Chi ha ottenuto voti più alti continua a studiare anche a distanza di
tre e cinque anni dal diploma: la percentuale è pari al 74% e 58%,
contro il 54% e il 40%, rispettivamente, dei colleghi meno "bravi".
Chi si iscrive all'università e chi
invece cambia idea. I diplomati 2011 iscritti all'Università, dopo un anno, sono il 61%.
Alla vigilia dell'Esame di Stato, l'82% di questi aveva dichiarato di
volersi iscrivere all'università e ha successivamente confermato le
proprie intenzioni. All'opposto, l'11% ha invece cambiato idea
soprattutto tra i diplomati professionali (38%), seguiti da quelli tecnici (18%); praticamente irrilevante (4%), invece,
tra i liceali. Fra chi non intendeva iscriversi ad un corso di laurea il 15% ha
successivamente cambiato idea; tale percentuale sale al 35% tra i
liceali, mentre scende considerevolmente tra i diplomati professionali
(10%). Fra i diplomati 2011 di estrazione borghese, contrariamente a ciò che
avviene tra i giovani di famiglia operaia, è nettamente più frequente
l'iscrizione all'università (78% contro 48%). Anche il titolo di studio dei genitori influenza le scelte formative dei
giovani: l'89% dei diplomati provenienti da famiglie in cui almeno un
genitore è laureato ha deciso di iscriversi all'università. Oltre un quinto dei diplomati del 2011 iscritti all'università ha optato
per un corso di laurea nell'area economico-sociale (la percentuale sale
al 35% tra i ragazzi degli istituti tecnici); il 20% ha invece scelto un
percorso nell'area umanistica (quota che sale al 25% tra i diplomati
professionali) mentre il 19% si è orientato verso una laurea in
ingegneria o architettura (il valore sale al 22% tra i diplomati degli
istituti tecnici e scende al 7% tra i professionali). Il livello di coerenza tra percorso universitario prescelto e diploma di
scuola secondaria conseguito, non è particolarmente elevato,anche se la
scelta di un corso di laurea affine agli studi secondari superiori
facilita la riuscita universitaria. Più dei tre quarti dei diplomati del 2011 iscritti all'università
frequentano regolarmente le lezioni. È noto che ogni anno di studio
universitario "dovrebbe" consentire allo studente di maturare 60 crediti
formativi (ogni credito, definito CFU, corrisponde a 25 ore di "lavoro",
compresa la frequenza alle lezioni, le esercitazioni, lo studio a casa,
ecc.). Gli intervistati hanno dichiarato di aver ottenuto, dopo un anno dal
diploma, poco meno di 34,5 crediti formativi (in media): gli studenti
dei licei si dimostrano i più brillanti (in un anno hanno ottenuto in
media 38 crediti), seguiti dai colleghi degli istituti tecnici (31
crediti). Faticano decisamente a tenere il passo i diplomati degli istituti
professionali, che hanno maturato "solo" 25 crediti. A un anno dal titolo, per 12 diplomati su cento la scelta universitaria
fallisce: il 6% ha deciso di abbandonare l'università fin dal primo
anno, mentre un ulteriore 6% è attualmente iscritto all'università ma ha
già cambiato ateneo o corso di laurea (i dati ufficiali dicono che
abbandonano nei primi 12 mesi 18 studenti su cento). Dopo tre anni sale
a 18 diplomati su cento la quota di insoddisfatti della propria scelta
universitaria: in particolare, l'8% ha abbandonato gli studi
universitari, quota quest'ultima che aumenta leggermente per i diplomati
degli istituti tecnici (10%), resta in media per i professionali e
diminuisce al 4% per i liceali. Un ulteriore 10% è attualmente iscritto
all'università ma ha cambiato ateneo o corso di laurea.
La disoccupazione coinvolge soprattutto
i diplomati liceali. Ad un anno dal conseguimento del titolo trovano lavoro 31 diplomati su
cento: questa percentuale raggiunge il suo massimo in corrispondenza dei
diplomati professionali (41%), mentre tocca il minimo tra i liceali
(21%). A tre anni dal titolo la percentuale di occupati cresce al 45% (quota
che oscilla tra il 69% dei diplomati professionali e il 35 dei liceali). A cinque anni dal diploma il 57% risulta occupato, quota che raggiunge
il 68% fra i diplomati professionali. La disoccupazione coinvolge 33 diplomati su cento; una quota
significativa, che si riduce tra i liceali (29%) ma che raggiunge ben il
37,5% dei diplomati professionali. Il tasso di disoccupazione, a tre anni dal titolo, è pari al 21% ;
cresce fino a raggiungere il 24% tra i tecnici mentre scende al di sotto
della media tra i liceali (15,5%). A cinque anni, invece, è pari al 17%
ed è più consistente in particolare tra i diplomati professionali (19%. Tra i diplomati 2011 che risultano impegnati esclusivamente in
un'attività lavorativa la tipologia di attività più diffusa risulta
essere il lavoro non stabile, che coinvolge il 31% degli occupati (in
particolare si tratta di contratti a tempo determinato). La quota di assunti con contratti formativi è del 27%. D'altra parte, il
lavoro stabile riguarda 19 diplomati occupati su cento: 15 impegnati in
contratti a tempo indeterminato, la restante quota in attività autonome. Elevata è la quota di chi non ha un contratto regolare (13% per il
totale dei diplomati, in particolare 19% fra i liceali). A tre anni dal diploma, tra chi è dedito solamente al lavoro il
contratto formativo risulta essere quello più diffuso, con il 34,5% dei
diplomati. Aumenta la quota di lavoratori stabili (che raggiunge il
32,5%) mentre si riduce la quota di precari (18%) e diminuiscono coloro
che lavorano senza alcun contratto (4%). A cinque anni, il quadro generale migliora ulteriormente; in particolare
cresce fino al 60% la quota di chi lavora stabilmente. Il lavoro in nero
si riduce al 3%. L'attività nel settore pubblico risulta decisamente poco diffusa tra i
diplomati di scuola secondaria superiore, nonché tendenzialmente in calo
tra uno e cinque anni dal titolo: ad un anno dichiarano infatti di
lavorarvi 12 diplomati su cento, a tre anni sono 8 e a cinque 6 su
cento. Circa tre occupati su quattro, ad un anno dal diploma, sono inseriti in
un'azienda che opera nel settore dei servizi (in particolare del
commercio, 32%); 18 su cento lavorano invece nell'industria (predomina
la metalmeccanica, che assorbe il 6% degli occupati), mentre è
decisamente contenuta la quota di chi lavora nell'agricoltura (circa
3%). I diplomati che lavorano a tempo pieno (senza essere contemporaneamente
impegnati nello studio universitario) guadagnano in media, a un anno dal
diploma, 925 euro mensili netti. Quanto guadagnano e soprattutto sono
soddisfatti? A tre anni dal conseguimento del titolo il guadagno mensile netto dei
diplomati è pari in media a 1.084 euro (1.146 per i diplomati
professionali). La retribuzione, a cinque anni dal diploma, sale
lievemente: 1.169 euro. Tra i diplomati del 2007,a cinque anni dal conseguimento del diploma
emerge un grado di soddisfazione abbastanza elevato (voto medio pari a
7,2 su una scala 1-10). I diplomati si dichiarano particolarmente
appagati dai rapporti con i colleghi (7,8), dal luogo di lavoro e dal
grado di autonomia (7,4). Non soddisfano invece aspetti come la coerenza
con gli studi fatti (5,3), le prospettive di carriera (5,6) e di
guadagno (5,7), la corrispondenza tra attività lavorativa e i propri
interessi culturali (5,9). Ad un anno dal termine degli studi, sono in particolare i neodiplomati
degli istituti tecnici a non utilizzare "per niente" le competenze
acquisite con il diploma in misura rilevante (42%). I diplomati nei professionali, invece, impiegano maggiormente ciò che
hanno appreso a scuola: il 22,6% dichiara di utilizzare le competenze
acquisite durante il percorso di studi in misura elevata, mentre per il
44% l'utilizzo è più contenuto. Con il passare del tempo invece
l'utilizzo delle competenza scolastiche aumenta.
l'Unità del 20/02/2013
Benedetto Vertecchi,
CONTINUA LO STILLICIDIO DI
PROVVEDIMENTI (O DI ANNUNCI DI PROVVEDIMENTI) SU QUESTO O QUELL'ASPETTO
DEL FUNZIONAMENTO DELLE SCUOLE e delle università. Di volta in volta
si tratta - sono solo alcuni esempi del calendario scolastico, della
scelta dei libri di testo o delle prove di ammissione ai corsi di
laurea. Si procede all'insegna della casualità, senza tener conto
che in attività complesse, come sono quelle educative, non si
possono modificare alcuni aspetti senza produrre mutamenti anche
negli altri. A dispetto del gran parlare che si fa dell'educazione
scolastica come di un sistema, tutto si può dire dell'azione di
governo tranne che sia sostenuta da interpretazioni di sistema.
L'effetto è una crescente incertezza fra gli insegnanti e gli
allievi, che vedono cambiare le condizioni del loro impegno senza
che sia possibile individuare un disegno d'insieme. E non potrebbe
essere altrimenti, se solo si considerasse che da troppo tempo alla
base degli interventi di politica scolastica non c'è l'intento di
sviluppare l'educazione adeguandola al mutare della domanda sociale,
ma solo quello di fornire un livello minimo di servizio che realizzi
il massimo beneficio col minor impegno di risorse. Sarà bene essere
chiari. Adeguare l'educazione alla nuova domanda sociale non
significa necessariamente abbracciare qualunque proposta incontri un
diffuso consenso, senza chiedersi se tale consenso sia il risultato
della generale consapevolezza della necessità di conferire certe
caratteristiche al profilo degli allievi (un tempo solo bambini,
ragazzi, giovani, ma ora, e sempre più, anche adulti), oppure se non
si tratti di una convergenza frutto di un senso comune
prevalentemente condizionato da logiche di utilità a breve termine
(e non è questa l'ipotesi peggiore) o da condizionamenti operati
attraverso gli apparati della comunicazione sociale. Un nuovo senso
comune è quello che vorrebbe ottenere una migliore qualità
dell'educazione riducendo le risorse a disposizione delle scuole. Se
nel caso dell'adeguamento alla domanda c'è, anche se in modo
parziale e deviato, una qualche attenzione all'evoluzione dei quadri
d'intervento, quando si pretende di mettere sullo stesso piano la
riduzione della spesa e il miglioramento della qualità ci si limita
a esibire un'ideologia gradita a chi propugna tale riduzione in sede
di decisione politica. Da troppo tempo ci siamo abituati ad
affermazioni che non meriterebbero alcuna attenzione se non fossero
riprese e riproposte in sede politica. Basti pensare alla
disinvoltura con la quale si sostiene (ci sono forze politiche che
hanno ritenuto di farne un punto qualificante della loro proposta
programmatica in vista delle elezioni) l'esigenza di affermare
criteri meritocratici nella valutazione degli allievi, degli
insegnanti e delle scuole. Sembra non ci si renda conto del ridicolo
di ricorrere ad una parola (meritocrazia) che deve la sua fortuna ad
un'opera di fantasociologia (mi riferisco a un libro di Michael
Young pubblicato oltre cinquant'anni fa, nel quale la parola
designava uno scenario da incubo, una sorta di utopia negativa,
nella quale gli individui sono apprezzati in relazione al loro
quoziente intellettivo e allo sforzo che pongono nel realizzare ciò
in cui sono impegnati). Ma, soprattutto, si mostra di non capire
quanto siano vari i fattori che concorrono a determinare gli effetti
dell'educazione, e come tali effetti non siano da considerarsi
realizzati una volta per tutte, ma costituiscano solo
l'approssimazione raggiunta in un momento determinato, modificabile
in momenti successivi. La politiche di contenimento della spesa per
l'educazione, pur imbellettate con esibizioni ideologiche dalle
quali si dovrebbe rifuggire se appena le si conoscesse, sono
rivelatrici della mancanza di una cultura dell'educazione. Non si
capisce, del resto, come potrebbe affermarsi una cultura
dell'educazione in assenza di interventi volti a promuovere la
ricerca e a sostenere la conoscenza educativa, ai diversi livelli e
nei diversi modi in cui è necessario che cresca la consapevolezza
dei problemi. C'è bisogno di una ricerca istituzionale, di
approfondimenti su tematiche specifiche, di riflessione sulla
sapienza che gli insegnanti accumulano cercando soluzione per le
tante difficoltà che incontrano nel loro lavoro quotidiano.
Riversare sulle scuole provvedimenti abborracciati e scoordinati fra
loro è proprio ciò che dovrebbe essere evitato. L'innovazione di cui
c'è bisogno non può che derivare dall'affermazione di una nuova
politica per la scuola, nella quale non ci sia posto per la
distribuzione di perline colorate. Occorre pensare a un progetto di
ampio respiro, che sostenga il lungo corso della vita che attende i
nostri bambini e i nostri ragazzi. Quelli che al momento sono gli
oggetti del desiderio, così come le trovate per razionalizzare
questa o quella pratica nell'attività delle scuole, non possono che
veder cadere la loro capacità di attrazione in tempi sempre più
brevi, perché soggetti da un lato allo sviluppo della tecnologia e,
dall'altro, alla pressione del mercato.
19/02/2013
Un gruppo di dirigenti
scolastici ha dato vita al manifesto sulla scuola, una serie di
proposte rivolte al leader del Pd in cui si spiega come dovrebbe
essere la scuola italiana.
In un
momento in cui di scuola di parla solo nei termini strillati della
campagna elettorale, arrivano una serie di proposta dal basso. Un
gruppo di dirigenti scolastici ha dato vita all'idea di un
"Manifesto sulla scuola" rivolto in particolare alle forze politiche
che si troveranno a governare dopo le elezioni. L'obiettivo è quello
di rimettere la scuola e gli studenti a centro dell'attenzione del
Paese: digitalizzazione, edilizia, alternanza scuola - lavoro e
scuola intesa come centro di aggregazione, sono solo alcuni dei
pilastri sui cui poggia l'idea del Manifesto. Il leader del Pd,
Pierluigi Bersani, ha letto il manifesto e risposto al suo primo
firmatario, Salvatore Giuliano, noto per l'esperienza di "Book in
Progress". LA SCUOLA DEVE FORMARE PROFESSIONALITÀ Questo uno dei punti
nodali del "Manifesto della scuola". L'alternanza scuola - lavoro
deve essere fondamentale nelle classi e tutti gli studenti
dovrebbero iniziare le loro esperienze lavorative già dai banchi di
scuola in modo da poterle inserire nel loro curriculum vitae. Questo
risolverebbe il problema delle aziende che cercano personale con
esperienza e dei giovani che, appena terminato il loro ciclo di
studi, di esperienza ancora non ne hanno per niente. Per farlo,
basterebbe che le aziende introducano la certificazione
dell'esperienza lavorativa fatta dallo studente per un periodo come
tirocinio lavorativo a tutti gli effetti. SCUOLA 2.0, PREMERE START Se gli studenti fanno parte di
quella generazione di nativi digitali, la scuola deve stare al loro
passo. Un altro degli obiettivi del Manifesto è avviare, finalmente,
quella rivoluzione digitale che non sta trovando pieno compimento
tra le mura scolastiche. LIM, laboratori online, registri
elettronici ed eBook, accanto ad un'adeguata formazione degli
insegnanti, devono diventare la quotidianità per gli studenti e per
i docenti stessi. Questo, non solo permetterebbe ai ragazzi di
interessarsi maggiormente alle lezioni, ma di rispondere anche ad un
mercato del lavoro che richiede un'accelerazione sempre più evidente
e professionalità che abbiano competenze ed esperienze nell'utilizzo
delle tecnologie dell'informazione. SCUOLE AD IMPATTO ZERO E DAVVERO SICURE In questi ultimi
tempi è diventato sempre più lampante il problema relativo
all'edilizia scolastica. Obiettivo del Manifesto è riportare il
problema al centro dell'attenzione dei governanti con un piano di
interventi che possa portare alla risoluzione del problema, come già
iniziato da recenti provvedimenti legislativi. Ma non solo. Nel
Manifesto si parla anche della necessità di costruire nuove scuole
dotate di tutti quegli accorgimenti strutturali che la rendano
verde, ad impatto zero rispettando tutte le norme sulla sicurezza e
che abbia spazi adatti all'insegnamento e all'apprendimento per
riportare la centralità sulla persona. SCUOLA APERTE H24 Altra idea centrale del Manifesto in
questione è una scuola intesa non solo come centro di formazione, ma
anche di aggregazione. Strutture scolastiche aperte tutto il giorno
che possano continuare a formare i ragazzi, ma che possano allo
stesso tempo fornir loro un ampio ventaglio di opzioni a scelta.
Sport, attività di volontariato, educazione alla legalità e alla
tutela dell'ambiente potrebbero essere solo alcune delle scelte che
gli studenti potrebbero ritrovarsi a dover effettuare in una scuola
che resti aperta anche in orario extra - scolastico. Insomma, una
scuola come "presidio dello Stato" in ogni quartiere. L'APPROVAZIONE DI BERSANI L'iniziativa intrapresa dal
gruppo di dirigenti che ha dato vita al "Manifesto sulla scuola"
rivolto, in maniera principale, a Pierluigi Bersani, ha trovato la
sua approvazione. Infatti, il leader del Pd ha affermato che terrà
conto di quanto espresso nei punti nodali del Manifesto, rispondendo
direttamente a Salvatore Giuliano, primo firmatario e tra gli
ideatori di "Book in Progress", l'iniziativa attraverso la quale
dirigenti ed insegnanti creano libri scolastici multimediali a cui
le scuole possono attingere a prezzi irrisori (circa ?3,99) e,
talvolta, persino gratuitamente.
19/02/2013
Osvaldo Roman (Retescuole)
La settimana scorsa la Commissione
Cultura del Senato, stimolata da una solerte sottosegretaria, almeno
forse fino alla scorso mese di maggio componente del Comitato di
indirizzo (decaduto) dell'INVALSI, ha approvato un ridicolo parere
favorevole allo schema di Regolamento sul Sistema nazionale di
Valutazione. Ridicolo perché fra l'altro si apre con una clamorosa
contraddizione. Infatti come si può formulare un parere favorevole
su uno schema di Decreto quando lo si ritiene redatto sulla base di
una legge di delegificazione che, eludendo quanto prevede l'art. 17
della legge n.400/1988, "risulta priva della necessaria
indicazione delle norme generali regolatrici della materia"? Questo è il primo problema che si trova davanti un Consiglio dei
ministri che voglia azzardarsi prima del voto di domenica prossima
ad approvare una siffatta schifezza. Ma ce ne sono numerosi altri che vale la pena di rappresentare. Innanzitutto va ricordato che il suddetto Regolamento nasce da una
legge (la n.10 del 26/02/2011) che si sarebbe dovuta occupare di uno
snodo legislativo fondamentale oltre a quello enunciato di "individuare il sistema nazionale di valutazione definendone
l'apparato". E cioè di ricostruire una normativa primaria
relativa all'Invalsi e all'Indire che risultasse compatibile con il
dettato del decreto legislativo n.213 riguardante gli Enti di
ricerca approvato nel dicembre 2009. Infatti dopo l'approvazione di questo Decreto alcune delle
disposizioni in esso contenute risultavano non compatibili con
disposizione presenti nella normativa primaria (Decreto legislativo
n.286/2004, in primis). Questa circostanza può essere agevolmente dimostrata sia per
l'Invalsi che per l'Indire e in parte, compatibilmente con le
caratteristiche di questa nota, lo faremo più avanti. Tutto ciò con ogni evidenza, come confermano sia il Consiglio di
Stato che la stessa Commissione cultura, non venne fatto. E' così potuto accadere che gli Statuti dell'Invalsi prima (DM n.11
del 2/9/ 2011) e dell'Indire dopo (DM del 21/12/2012), siano stati
redatti direttamente dai ministri dell'epoca, prima Gelmini e poi
Profumo avvalendosi dello stato di Commissariamento dei due Enti e
dell'assenza di organi deliberanti. Nel primo caso, l'Invalsi, lo
Statuto venne redatto a cura del Direttore generale degli
ordinamenti scolastici Carmela Palumbo, nel secondo caso, l'Indire,
a cura del Commissario straordinario, nonché capo Dipartimento del
MIUR, Giovanni Biondi, nominato a tale incarico con un DPCM del
3/8/2012. Ora tralasciando ogni considerazione sulle singolari modalità di
attuare una potestà statutaria che il DLgvo 213/2009 fa risalire
all'art. 33 sesto comma della Costituzione, si può restare entro una
valutazione del rispetto della legislazione vigente, alla luce
dell'ovvia considerazione che a tali Statuti non è conferita la
facoltà di modificare la legislazione primaria che regola nel
momento della loro adozione i rispettivi Enti. Ciò invece è avvenuto ripetutamente perché entrambi gli Statuti
danno per scontato quel adeguamento della legislazione vigente al
dettato del Dlgvo 213/09 che neppure lo schema di Regolamento,
presentato alle Camere, come abbiamo visto, realizza. Di conseguenza risulta che gli Statuti così redatti sono largamente
illegittimi e questo potrà essere fatto valere in ogni momento nelle
opportune sedi giudiziarie. Solo con una stesura degli Statuti realizzata dopo che un diverso
Regolamento avrà omogeneizzato la normativa primaria degli enti che
compongono il SNV, ivi compreso il corpo ispettivo da riorganizzare
con un apposito Regolamento, tale situazione di illegalità potrà
essere sanata. Tale omogeneizzazione e modifica dovrà consentire agli enti di
disporre di organi deliberanti degli Statuti che possano operare
secondo tutte le garanzie di trasparenza e di democraticità previste
dagli articoli 2 e 3 del Dlgvo 213/09. Il percorso finora adottato é quindi da invertire completamente:
prima si dovrà definire un nuovo Regolamento sulla base di una nuova
e adeguata delegificazione, poi potranno essere approvati gli
Statuti. Con tutta evidenza si tratta di un compito che potrà essere
affrontato solo nella prossima legislatura e da un nuovo Governo. Il ministro Profumo quindi nei prossimi giorni ha il compito
primario di accertare le illegittimità che caratterizzano gli
Statuti esistenti per avviare l'individuazione delle modalità di
formulazione e di approvazione di un nuovo Regolamento che consenta
di rimediare a tali gravi anomalie. Per facilitare il suo compito voglio segnalare alcuni esempi delle
anomalie attualmente esistenti. Al momento dell'approvazione di entrambi gli Statuti erano
completamente vigenti, oltre ad una serie di altre norme, fra cui da
segnalare quella che all'art.19 comma 1 della legge n.111 del
15/7/2011 ripristina l'INDIRE: a) il Dlgvo n. 286 del 2004, di cui il Dlgvo 213/09 aveva abrogato
solo il comma 1, dell'art.3; b) gli articoli 2 e 3 del Dlgvo n.258/1999; c) il DPR n. 415/2000 (Regolamento dell'Indire) e il DPR. n.
190/2001(Regolamento degli IRRE). Questi due ultimi DPR che avevano perduto nel passato la loro
efficacia solo perché era cambiata la denominazione e la
collocazione delle rispettive competenze e funzioni, risulterebbero
abrogati solo con l'approvazione del Regolamento (art.8). Da questo quadro legislativo, pienamente operante dopo
l'approvazione del DLgvo 213/09 e in larga misura anche dopo
l'approvazione dello schema di Regolamento in questione, derivano
alcune questioni di illegittimità degli Statuti che è opportuno
richiamare. In primo luogo per l'Invalsi. Infatti in base all'art.5 del Dlgvo 286/04, come modificato
dall'art. 1, comma 612 , lett. c) della legge 296/06 il Presidente
dell'Invalsi deve essere nominato con DPR del Presidente della
Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su
designazione del Ministro, tra una terna di nominativi proposti dal
Comitato di Indirizzo fra i propri componenti. L'incarico ha durata
triennale ed è rinnovabile, con le stesse modalità, per un ulteriore
triennio. In difformità con tale previsione lo Statuto dell'Invalsi approvato
con il ministro Gelmini si rifà alle disposizioni di cui al Dlgvo
213/09 e per la nomina del Presidente prevede la procedura di
selezione delle candidature di cui all'art.11 di questo Decreto, la
nomina del Presidente si deve effettuare con Decreto del Ministro e
si prevede una durata in carica quadriennale rinnovabile una sola
volta. Il Dlgvo 213/09 non ha automaticamente modificato le norme di cui al
Dlgvo 286/04 anzi all'art. 17 le ha riconfermate in blocco salva
l'abrogazione prevista solo per l'art.3, comma 1. Ne conseguiva una situazione di dualità che si sarebbe potuta
risolvere proprio in sede di Regolamento di delegificazione con una
opportuna previsione al riguardo. Circostanza questa che non si è
neppure verificata. Di conseguenza la nomina del Presidente dell'Invalsi così come
prevista dallo Statuto risulta chiaramente illegittima. Analoga situazione di dualità si determina per quanto concerne il
Comitato direttivo dell'Invalsi di cui tratta l'art.6 del Dlgvo 286.
Infatti nell'art.6 ,cosi come modificato dall'art. 1, comma 612 ,
lett. c) della legge 296/06 e dall'art.1 comma 5 della legge
n.176/2007. Il C.D. si chiama Comitato di indirizzo e risulta composto dal
Presidente e da due esperti nel rispetto del principio di pari
opportunità, in possesso dei requisiti di qualificazione scientifica
e conoscenza riconosciuta dei sistemi di istruzione e valutazione in
Italia e all'estero. Almeno uno dei membri deve provenire da mondo
della scuola. I componenti del Comitato sono scelti dal Ministro tra
esperti nel settore di competenza dell'Istituto, sulla base di una
indicazione effettuata da un'apposita commissione, previo avviso da
pubblicare sulla G.U. finalizzato alla acquisizione dei curricula.
La commissione esaminatrice nominata dal ministro, è composta da tre
membri compreso il Presidente, dotati delle necessarie competenze
amministrative e scientifiche. Rispetto a tale disposizione legislativa vigente lo Statuto attua
quanto previsto dal Dlgvo 213/09. Denomina il Consiglio di indirizzo
Consiglio di amministrazione e prevede ai sensi dell'art.8 del
Decreto che la nomina del componenti e del Presidente si effettui
con Decreto del Ministro e che la durata dell'incarico sia
quadriennale. Lo Statuto per la selezione delle candidature richiama
le disposizioni di cui all'art.11 del Dlgvo 213/09 che differiscono
alquanto da quelle in vigore con il Dlgvo 286/04 e successive
modificazioni. Inoltre fra le difformità dello Statuto con la legislazione
previgente il Dlgvo 213/09, oltre alle molte che lasciamo
individuare al ministero, si deve collocare anche la previsione di
indicare tra gli organi dell'ente anche l'esistenza di un Consiglio
tecnico-scientifico di cui fra l'altro vengono stabilite la
composizione e le modalità di nomina. Per quanto riguarda l'INDIRE si deve osservare che fino alla
presentazione alle Camere (14 gennaio 2011) di uno schema di
Regolamento dell'Ansas il MIUR non aveva preso in considerazione
l'ipotesi di considerare l'Agenzia, istituita i base agli artt. 7 e
8 del Dlgvo n. 300/1999, fra gli Enti da regolamentare in base al
Dlgvo 213/09. Si deve ricordare che l'Ansas, è stata istituita con la legge
296/2006 art 1 commi 610-611 che sopprimono l'INDIRE e gli IRRE. L'Ansas venne dimenticata e sostituita dall'Indire, senza una sua
contestuale soppressione, nella formulazione della legge n.10 del
26/02/2011, là dove si prevede il Regolamento sul SNV. Essa viene successivamente soppressa con la legge n.111 del
15/7/2011 che all'art.19 comma 1 ripristina l'INDIRE E' così potuto accadere che mentre dal gennaio al febbraio 2011 le
Camere si affannavano nel formulare le loro osservazioni sullo
schema di regolamento dell'Ansas (Atto di governo n.326) le stesse
nel successivo mese di luglio erano chiamate ad approvare la
soppressione dell'Ansas! L'Ansas in tal modo fin dalla sua istituzione, cioè dal 2006 ad
oggi, è rimasta senza regolamento e organi di gestione e sottoposta
ad un continuo regime commissariale. Quando si dice che l'amministrazione ha cura della formazione e
della valutazione dei docenti! Solo il 15 settembre 2010 essa è stata dotata di una sorta di
regolamento di organizzazione provvisorio. Su tale deserto è
piombata la decisione di Profumo di far approvare dal nuovo
Commissario straordinario, Giovanni Biondi il nuovo Statuto
dell'Indire. Tale Statuto risulta conforme alle disposizioni previste per gli
Enti di Ricerca dal DLgvo 213/09 ma non risulta compatibile con la
normativa prevista per l'Indire ritornata in vigore o mai soppressa.
Tali risultano essere il DPR n.415/2000 e l'art.2, commi 1,2 e 3 del
Dlgvo n 258/1999. Anche in questo caso sarebbe dovuto essere un compito del
Regolamento di delegificazione istitutivo del SNV quello di
modificare la normativa vigente per l'Indire uniformandola alle
disposizione del Dlgvo 213/09 riguardante gli enti di ricerca. Ciò si è invece tentato di fare con la definizione di uno Statuto
che non ha il potere di modificare o abrogare la legislazione
vigente che fra l'altro il DLgvo 213/09 non avrebbe potuto abrogare
perché in parte rientrata in vigore solo nel 2011 con la
soppressione dell'Ansas. Se gli Statuti non sono legittimi perché danno per scontata
l'esistenza di un Regolamento del Sistema Nazionale di Valutazione
che all'epoca della loro emanazione ancora non esisteva, come si può
varare a pochi giorni dal voto un Regolamento che ignora tutto ciò?
Il sistema educativo
italiano, avverte l'Ocse nel rapporto annuale Going for Growth
(Obiettivo Crescita), appena pubblicato, presenta un basso
rendimento rispetto alla spesa sostenuta (l'espressione impiegata è
"Education gives low value for money") e dovrebbe fare di più
sia sul versante dell'efficacia sia su quello dell'equità per
offrire migliori opportunità di formazione e di guadagno soprattutto
alle persone con basso livello di qualificazione. Nella scheda sull'Italia contenuta nel citato
rapporto, l'Ocse raccomanda in particolare di proseguire nello
sforzo di migliorare la valutazione nella scuola secondaria cercando
di convincere gli insegnanti dei benefici che ne potrebbero trarre
(non è specificato se si tratti di benefici di tipo economico legati
al merito individuale o più genericamente del miglioramento delle
condizioni nelle quali gli insegnanti operano: probabilmente sono
fondate entrambi le interpretazioni). L'Ocse insiste inoltre sulla necessità di rafforzare l'offerta di
percorsi di formazione professionale postsecondaria, compresi quelli
in apprendistato, dando atto all'Italia di essersi positivamente
avviata in questa direzione con il varo di 27 istituzioni (il
riferimento è agli Istituti Tecnici Superiori). La terza e ultima
raccomandazione consiglia di aumentare le tasse universitarie
introducendo contestualmente un sistema di prestiti per studenti con
rimborso condizionato al reddito. Il riferimento dell'Ocse al basso rendimento della spesa per
l'istruzione tiene conto, verosimilmente, dei non brillanti
risultati ottenuti dalla scuola italiana nel programma PISA, della
tuttora bassa percentuale di lavoratori occupati in possesso di
laurea o di diploma e degli elevati tassi di dispersione scolastica
e di giovani "Neet" (Not in Education, Employment and Training).
18/02/2013
La protesta è trasversale:gli studenti di tutti gli
schieramenti hanno chiesto al ministro della Pubblica Istruzione
profonde modifiche
l'Unità
Mario
Castagna
Dopo le critiche delle regioni e le proteste nelle
facoltà, arriva lo stop anche dei rappresentanti del
Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari. Il decreto
di riforma del diritto allo studio del ministro Profumo
sembra essere destinato ad uno stop quasi definitivo.
Giovedì l'organo di rappresentanza degli universitari,
eletto direttamente dagli studenti nelle elezioni del 2010,
ha espresso il proprio parere negativo allo schema di
decreto proposto dal ministro. Alla riunione hanno
partecipato solo gli studenti delle liste di centro destra e
gli studenti di Comunione e Liberazione, mentre gli studenti
delle liste democratiche e di sinistra hanno addirittura
disertato la riunione per esprimere con maggior forza la
propria contrarietà al decreto. Lo stop è comunque ormai
trasversale e gli studenti di tutti gli schieramenti hanno
chiesto al ministro Profumo profonde modifiche. «La
maggioranza del Cnsu ha approvato il parere necessario, nel
tentativo di non risparmiare critiche, ove necessario, al
ministro Profumo, ma sottolineando il proprio auspicio che
si possa presto giungere all'approvazione delle riforma - ha
dichiarato Marco Lezzi, componente del Cnsu, aderente al
Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio,
l'organizzazione studentesca di Comunione e Liberazione - se
corretto così come richiesto, il decreto costituirebbe un
notevole passo avanti». Venerdì è arrivata anche la notizia
chela conferenza Stato-Regioni, convocata per il 21 febbraio
anche per discutere del decreto sul diritto allo studio, è
stata posticipata al 28 febbraio, accogliendo in parte le
richieste degli studenti. Ed in quella seduta sarà ancora
più difficile per il Miur procedere con l'approvazione della
contestata riforma. Infatti le elezioni avranno decretato
una nuova maggioranza che potrebbe anche voler modificare lo
schema di riforma ed anche i rappresentanti della regione
Lombardia e della regione Lazio, chiamati ad esprimere un
parere, dovranno probabilmente aspettare qualche settimana
per sapere chi saranno i nuovi assessori competenti. Ma le
regioni sono indispettite anche dal fatto che, per il 2014
ed il 2015, il ministero abbia stanziato per il diritto allo
studio solamente 13 milioni di euro l'anno. Un taglio del
90% rispetto al 2013 che impedisce agli enti locali
qualsiasi politica integrativa per gli studenti
universitari. Se rimanesse il taglio, per garantire
l'attuale copertura delle borse, largamente insufficiente,
le regioni sarebbe obbligate ad un esborso inaccettabile.
Già oggi esse sono costrette a coprire i mancati
stanziamenti dello stato centrale. Ma se il taglio avesse
questa consistenza, per loro non sarebbe possibile garantire
alcun servizio. La strada si fa quindi talmente in salita
che gli studenti chiedono al presidente Errani, coordinatore
della conferenza Stato-Regioni, di togliere dall'ordine del
giorno della riunione del 28 febbraio la discussione sul
diritto allo studio. «Chiediamo al Presidente Vasco Errani
un segnale: rinvii la discussione sul diritto allo studio in
modo da far partecipare il nuovo ministro - chiedono ad
esempio gli studenti della Rete Universitaria Nazionale,
vicina ai Giovani Democratici - il 28 febbraio infatti, a
rappresentare il governo ci sarà ancora il ministro Profumo,
oggi dimissionario e per quella data non più legittimato
politicamente a prendere decisioni importanti. L'università
è un corpo fragile, non si faccia del welfare studentesco
uno strumento di campagna elettorale. Sia il nuovo governo,
con un processo di partecipazione e confronto, a indicare le
linee di una riforma necessaria al diritto allo studio». La
palla quindi passa ora al presidente Errani, che dovrà
decidere se il decreto dovrà essere discusso il 28 o qualche
settimana dopo con il nuovo ministro.
18/02/2013
In parlamento, promossa dalla Cgil e con migliaia di firme
della società civile,c'è una proposta di legge di iniziativa
popolare che è ora di tirare fuori dai cassetti.
l'Unità
Fulvio Fammoni - Presidente Fondazione Di
Vittorio
FINALMENTE. IN UNA CAMPAGNA ELETTORALE IN CUI SI DISCUTE
DAVVERO TROPPO TEMPO DI MERITO E POCHISSIMO del ruolo della
formazione, è stata avanzata da parte di Bersani una
proposta concreta. Basata su investimenti, sicurezza delle
scuole, ruolo degli insegnanti, interventi sulla precarietà.
È esaustiva? No, sicuramente serve anche altro. Ma almeno si
sfugge a insopportabili banalità e luoghi comuni e si
comincia ad entrare nel merito. La differenza eclatante con
gli anni del centrodestra è passare da tagli a investimenti
e affrontare temi drammatici come la dispersione scolastica
non con slogan, o ancora peggio abbassando di fatto l'età
per il lavoro minorile. Partiamo allora da un concetto di
fondo: se la piena realizzazione della persona è l'unità di
misura della legittimazione dell'agire economico e della sua
equità sociale, la conoscenza non può che essere un tratto
fondamentale del lavoro e della società. I dati dimostrano
la nostra arretratezza: ad una quota di analfabetismo
strutturale si aggiunge l'analfabetismo di ritorno; è sotto
la media europea la diffusione e l'uso di internet; troppo
alta la quota di abbandono scolastico; basso il numero di
iscrizioni all'università, ma nonostante questo troppa
precarietà per i neolaureati; la formazione per e nel lavoro
è agli ultimi posti in Europa nonostante un fortissimo
addensamento nelle qualifiche più basse. Non è un caso, sono
dati che riflettono l'arretratezza del nostro sistema
formativo ma anche della qualità del modello produttivo. È
per questo e tanto altro che l'aspirazione a una migliore
condizione sociale per effetto di una maggior
scolarizzazione sta perdendo la «sua spinta propulsiva». Amarthia Sen ricorda che proprio un nuovo modello di
sviluppo economico richiede anche una solida e diffusa
cultura umanistica, capace di alzare il livello di civismo
della società. Poco più di un anno fa, il Presidente del
Consiglio ebbe a dire: «Il 54% della popolazione ha un
titolo di diploma nel nostro Paese, contro una media Ocse
del 73%. È troppo poco, dobbiamo studiare di più».La realtà
è ancor più grave della segnalazione del Premier. Ma cos'è
stato concretamente fatto, in particolare in quel settore dell'istruzione e formazione professionale, ancora lontano
da un assetto in grado di offrire una chance di qualità a
una larga fascia di giovani? È cresciuta l'attenzione e gli
interventi per l'istruzione tecnica ma questo indirizzo
porterà buoni risultati se non sarà separato o peggio,
pensato come alternativo, al settore di
istruzione-formazione professionale. Tentazione questa
troppo spesso ricorrente. Finalmente si apre una discussione
vera a cui aggiungo almeno un tema: in Italia è non è stata
ancora approvata una legge per l'educazione permanente. In
queste settimane si è discusso molto di apertura delle
scuole nei mesi estivi, senza neppure sfiorare il problema
del loro funzionamento e della loro chiusura tutti i giorni
in orario pomeridiano e serale. Quanto ci costerebbe tenerle
aperte con il concorso di risorse pubbliche, private, del
volontariato per avviare una formazione permanente degli
adulti? Potrebbe essere una bella proposta e un sicuro
vantaggio per il Paese.
(Lo Snals-Confsal ha inviato a tutte le forze
politiche, in vista delle future elezioni, un manifesto
politico-programmatico con le sue proposte per l'istruzione.
(Fonte: Ansa )
pubblicato il 15 febbraio 2013
Per il sindacato autonomo il rilancio della scuola è "un
obiettivo prioritario per l'intera collettività". "Chi
si candida a governare il Paese deve impegnarsi per
consentirle di adempiere alla propria funzione
costituzionale. Soprattutto - afferma lo Snals - deve
individuarla come un 'investimento produttivo', su cui
adottare misure coerenti di ampio respiro e non, come
avvenuto da molti anni, un 'settore di spesa da
tagliare'. Il rilancio della scuola è il solo modo - fa
notare il sindacato - per dare un futuro occupazionale
alle giovani generazioni, in un Paese come l'Italia, che
non dispone di materie prime, la cui ricchezza è data
dalla formazione di persone capaci d'inventiva e
d'innovazione. Per dare delle risposte, necessariamente
articolate secondo i bisogni e i soggetti interlocutori
del territorio, va garantito anzitutto l'esercizio di
una vera autonomia scolastica. Per far questo è
necessario istituire l'organico pluriennale di istituto
e di rete dando attuazione a quanto previsto dall'art.
50 del decreto sulle 'semplificazioni', convertito nella
legge 35/2012. Sul piano strettamente sindacale, lo Snals rivendica la
necessità di garantire un sollecito rinnovo del
contratto del personale della scuola, con un adeguamento
delle retribuzioni in linea con quelle europee del
settore; dare stabilità agli organici e ridurre il
precariato dando continuità al piano pluriennale di
assunzioni in ruolo, individuando un'equa soluzione alla
questione del reclutamento che garantisca l'assorbimento
progressivo del precariato inserito nelle graduatorie ad
esaurimento; realizzare, dopo tanti tentativi, la
riforma degli organi di governo della scuola,
un'occasione per la valorizzazione dell'autonomia della
scuola, della dimensione tecnico-professionale dei
docenti e del ruolo fondamentale non solo del dirigente
scolastico, ma anche del personale Ata".
15/02/2013
Grazie ai voti a favore di Pdl e Lega, con il Pd contrario
sino all'ultimo, il provvedimento passa ora all'esame del
Governo
La Tecnica della Scuola
di Alessandro Giuliani
Grazie ai voti a favore di
Pdl e Lega, con il Pd contrario sino all'ultimo, il
provvedimento passa ora all'esame del Governo. Che potrebbe
anche varare un decreto ad hoc all'ultimo momento. E dare il
là ai maggiori poteri alla triade Invalsi, Indire e corpo
ispettivo. Ma la strada per i riscontri reali è ancora lunga. L'atteso parere della Commissione Istruzione e Cultura
del Senato sulla valutazione delle scuole e dei suoi
dirigenti è arrivato. Ed è stato positivo. Ma, come su
queste pagine già preventivato, non si è trattato di un sì all'unisono.
Il Pd ha tentato sino all'ultimo, vista la delicatezza dell'argomento
per le sorti della scuola pubblica italiana, di far slittare
la sua approvazione alla prossima legislatura. La
responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi, ha detto al
ministro dell'Istruzione Francesco Profumo che "a dieci
giorni dal voto, dopo oltre due mesi dallo scioglimento
delle Camere, è grave e inopportuna ogni forzatura
nell'approvazione del provvedimento sulla Valutazione, che
richiede profondi correttivi e nella nomina, a tempo
abbondantemente scaduto, dei Presidenti di Invalsi e Indire"
ha scritto. E contrari a soluzioni affrettate si erano detti
pure i sindacati, in particolare Flc-Cgil e Gilda degli
Insegnanti. L'approvazione al provvedimento, che ora passa
al Governo, è arrivata comunque con i voti favorevoli di Pdl
e Lega. Si tratta, è bene ricordarlo, di linee generali che
dovranno comunque essere ratificate attraverso provvedimenti
ulteriori attuativi. E che difficilmente potranno in qualche
modo incidere nella stipula del nuovo contratto di lavoro.
Al momento, comunque, se il Governo dovesse dare seguito al
provvedimento, emanando probabilmente un decreto ad hoc,
l'indirizzo generale della scuola italiana dovrebbe essere
segnato: nei prossimi anni cresceranno, infatti, le
competenze in questo settore dell'Invalsi, dell'Indire del
settore ispettivo. Saranno loro i protagonisti principali
della valutazione dei scuole italiane e dei loro dirigenti.
15/02/2013
l'Unità
Vannino Chiti
L'istruzione è il pilastro di un paese.
Questa non è una considerazione vuota e retorica ma il
presupposto per un programma di governo che voglia guardare
al futuro. Gli anni dei governi Berlusconi-Tremonti-Maroni hanno
prodotto un disastro: il più grande licenziamento di massa;
tagli; misure che hanno ridotto la qualità del nostro
sistema scolastico, come il maestro unico, il l'abolizione
del tempo pieno, le "classi pollaio". Servono misure urgenti e una continuità d'impegno per
recuperare il terreno perduto. Per il Pd l'istruzione è una
priorità. Noi pensiamo che la scuola abbia bisogno di
stabilità, fiducia e risorse. Bisogna contrastare
l'abbandono scolastico, realizzando gli obiettivi della
strategia Europa 2020′, l'abbandono deve essere inferiore
al 10% mentre oggi in Italia è al 18%. Metteremo in campo un
piano straordinario perché gli asili nido coprano il 33%
della domanda e per rilanciare il tempo pieno: le scuole
devono essere una risorsa a disposizione per l'intera
giornata, dedicando spazi allo sport, alle attività di
gruppo, all'insegnamento delle tecnologie. Per il ciclo superiore, vogliamo un primo
biennio d'obbligo unitario: la scelta della scuola specifica
a cui iscriversi per la propria specializzazione - come
avviene nel resto d'Europa - deve venire dopo. In questo
quadro, è fondamentale il rafforzamento della formazione
tecnica e professionale. Ridare fiducia alla scuola significa anche garantire un
organico di docenti stabile, attraverso un nuovo piano
pluriennale di esaurimento delle graduatorie per
stabilizzare i precari. Anche l'università ha la necessità di un rilancio: un
rifinanziamento pluriennale per raggiungere le medie europee
in 5 anni; la cancellazione dell'inutile "fondo per il
merito" e il finanziamento di un "Programma nazionale per il
merito e il diritto allo studio", che affianchi gli
interventi regionali; un contratto unico per i ricercatori
che ponga fine alla loro situazione di precari; meno
burocrazia e più autonomia per gli atenei; incentivi fiscali
per l'assunzione di dottori di ricerca qualificati. Il rilancio economico, sociale e etico del
nostro paese passa da un'istruzione di qualità per tutti. Il
Pd vuole partire da qui.
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