La circolare della Madia: entro il 28 febbraio
la notifica dei dirigenti
ItaliaOggi, del 24-02-2015, di Nicola Mondelli
Ennesimo tentativo del ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione,
Maria Anna Madia, di favorire condotte omogenee
da parte delle pubbliche amministrazioni
nell'applicazione delle più recenti modifiche
legislative intervenute in materia di
soppressione dell'istituto del trattenimento in
servizio e di risoluzione unilaterale del
rapporto di lavoro.
Con la circolare n. 2 del 19 febbraio 2015 il
ministro Madia ha infatti fornito una serie di
indicazioni sulle modalità di applicazione delle
novità legislative, sia con riferimento
all'abrogazione dell'istituto del trattenimento
in servizio oltre l'età pensionabile, che alla
disciplina della risoluzione unilaterale del
rapporto. Che l'intervento del ministro fosse
necessario, soprattutto con riferimento al
comparto scuola, lo dimostra la sollecitudine
con la quale alcuni uffici scolastici
territoriali hanno immediatamente portato a
conoscenza dei dirigenti scolastici i contenuti
della circolare ministeriale con l'invito
perentorio a darne immediata applicazione per
quanto di loro competenza.
Per i dirigenti scolastici i chiarimenti
contenuti nella circolare ministeriale impongono
l'emissione di provvedimenti che devono essere
posti in essere perentoriamente entro sabato
prossimo, 28 febbraio. È entro questa data,
infatti, i dirigenti scolastici dovranno fare
pervenire ai docenti e al personale Ata
interessati, ancorché in servizio con contratto
a tempo indeterminato, il preavviso di
risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro
con effetto dal 1° settembre 2015. Un preavviso
notificato successivamente sarebbe nullo e non
produrrebbe gli effetti, indicati in premessa,
voluti dal legislatore. Nei soli confronti del
personale della scuola il preavviso di
risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro
non è utilizzabile in qualsiasi momento, come
avviene invece, per gli altri pubblici
dipendenti, ma solo entro e non oltre il 28
febbraio, conditio sine qua non per accedere al
trattamento pensionistico che nei confronti del
personale della scuola può decorrere solo dal
primo giorno dell'anno scolastico successivo a
quello di cessazione dal servizio.
Presupposto per la risoluzione unilaterale è il
possesso del requisito contributivo richiesto
dalla normativa vigente – decreto legge 201/2011
e successive modificazioni - per il
conseguimento della pensione anticipata (nel
2015, 42 anni e sei mesi per gli uomini e 41
anni e sei mesi per le donne). Il ministro Madia
ribadisce che il personale della scuola che ha
maturato il requisito per l'accesso al
pensionamento entro il 31 dicembre 2011 rimane
invece soggetto al regime previgente. Nei
confronti di questo personale l'amministrazione
scolastica potrà pertanto legittimamente
esercitare il recesso al raggiungimento del 65°
anno di età entro il 31 agosto 2015, nonché al
conseguimento dell'anzianità contributiva di 40
anni di servizio. In tutti i casi, la eventuale
decisione di risolvere il rapporto di lavoro
deve essere motivata con riferimento alle
esigenze organizzative dell'istituzione
scolastica.
Altra conferma è la persistente
abrogazione/soppressione dell'istituto del
trattenimento in servizio oltre i limiti di età
richiesti dalla normativa vigente (65 anni per
coloro che beneficiano della normativa
previgente l'entrata in vigore della riforma
Fornero), 66 anni e tre mesi per quanti sono
soggetti alla normativa in vigore( decreto legge
201/2011 e successive modificazioni). Il
rapporto di lavoro potrà invece proseguire nel
caso in cui il dipendente non maturi alcun
diritto a pensione al compimento dell'età limite
ordinamentale o al compimento del requisito
anagrafico per la pensione di vecchiaia. In tal
caso potrà rimanere in servizio, per maturare i
requisiti minimi per l'accesso alla pensione,
non oltre il raggiungimento dei 70 anni di età
(limite al quale si applica, si legge nella
circolare, l'adeguamento alla speranza di vita.
Per le nuove immissioni, nessun vincolo
geografico e trasferimenti bloccati per tre
anni. Cambiare scuola sarà necessario anche per
gli aumenti
ItaliaOggi, del 24-02-2015, di Carlo Forte
Cambiare sede non più solo per avvicinarsi alla
famiglia. La mobilità dell'era Renzi porrà in
cima alla classifica la ricerca del posto fisso
e degli aumenti di stipendio. Secondo gli
annunci fatti dal governo sulle nuove immissioni
in ruolo, in attesa di trovare conferma nel
testo del decreto legge sulla Buona scuola al
consiglio dei ministri di venerdì prossimo, non
seguiranno più la logica territoriale delle
graduatorie provinciali a esaurimento. Agli
aspiranti docenti aventi titolo assunzione a
tempo indeterminato, infatti, saranno offerte
cattedre lì dove risulteranno ubicate le
disponibilità. A prescindere dalle province (e
dalle regioni) dove gli aspiranti abbiano
presentato la domanda. E non sarà considerato un
limite nemmeno la classe di concorso.
Per agevolare ulteriormente l'individuazione
delle disponibilità, laddove non sarà possibile
assumere i docenti nella classe di concorso per
la quale hanno i titoli, sarà loro offerta
l'immissione in ruolo in classi affini. Ma per
ritornare a casa dovranno comunque seguire le
regole previste per la mobilità a domanda.
Regole che, giova ricordarlo, non sono state
scritte al tavolo negoziale da amministrazione e
sindacati, ma direttamente dal legislatore. Si
veda a questo proposito l'articolo 15 comma 10
bis del D.L. 104/2013. Che non può essere
derogato dalla contrattazione collettiva, perché
nel 2009, la legge 15 ha cancellato tale
facoltà. Pertanto, chi sarà immesso in ruolo
fuori provincia, con effetti a far data dal 1°
settembre 2015, non potrà presentare la domanda
di trasferimento per ritornare nella provincia
di residenza per tre anni. Sempre che, nel
frattempo, la legge non subisca ulteriori
modifiche (prima il limite di permanenza era di
5 anni). Fin qui la mobilità ai fini delle
immissioni in ruolo e la disciplina dei
trasferimenti interprovinciali di chi otterrà
l'immissione in ruolo dal prossimo 1° settembre.
E poi c'è la mobilità dei docenti di ruolo in
generale. Che almeno per quest'anno non dovrebbe
subire modifiche. Non fosse altro per il fatto
che il ministero dell'istruzione sta già
lavorando alle funzioni per consentire agli
interessati di presentare le domande. E la
relativa ipotesi di contratto è stata
sottoscritta il 26 novembre scorso.
Ma dal prossimo anno dovrebbe essere prevista
un'ulteriore opzione: il passaggio
dall'insegnamento su cattedra all'organico
funzionale. Secondo gli annunci del governo,
tale passaggio dovrebbe consentire al docente
interessato di essere svincolato
dall'insegnamento curriculare. La sua funzione,
infatti, dovrebbe essere quella di sostituire i
colleghi assenti e di svolgere il lavoro al
quale si dedicano attualmente i collaboratori
del dirigente. A ciò va aggiunta un'ulteriore
opzione: il trasferimento finalizzato alla
maturazione degli scatti di carriera. Il
governo, infatti, ha intenzione di abbassare
l'importo dello stipendio dei docenti,
cancellando gli adeguamenti retribuitivi legati
al crescere dell'anzianità di servizio. Stando a
quanto si è saputo, nella nuova progressione di
carriera, l'anzianità di servizio dovrebbe
assumere un ruolo marginale. Mentre a farla da
padrone dovrebbe essere il cosiddetto merito.
Ciò determinerà l'attribuzione degli aumenti
solo ad alcuni. E quindi chi resterà fuori dovrà
necessariamente ritentare cambiando scuola,
sperando di essere più fortunato.
Fino ad oggi, non sono stati ancora resi noti i
provvedimenti che dovrebbero fissare la nuova
disciplina retribuiva dei docenti. Secondo
quanto risulta a Italia Oggi, però, le nuove
regole non saranno scritte al tavolo negoziale,
ma direttamente dal governo.
E dunque, l'esecutivo starebbe sul punto di dare
il colpo di grazia al contratto collettivo di
lavoro dei docenti. Dopo i colpi micidiali
inferti dalla legge 15/2009 e dal decreto
Brunetta, infatti, l'unica materia che era
rimasta saldamente ancorata al tavolo negoziale
era la disciplina delle retribuzioni.
E dunque, se il governo interverrà per legge
anche su questo, la contrattazione collettiva
andrà in pensione definitivamente.
Molte voci sul Cdm di venerdì che approverà un
Ddl e una legge delega sulla scuola. I docenti
neoassunti potrebbero non essere 148 mila.
Il manifesto, del 24-02-2015, di ro. ci.
ROMA Alla kermesse Pd sulla scuola organizzata
domenica scorsa nell'auditorium di via Palermo a
Roma Renzi ha ribadito che «gli scatti di merito
per gli insegnanti sono giusti». Proprio quelli
che la consultazione online sulla «Buona
Scuola», che ha impegnato per mesi il governo,
ha bocciato. I160% dei partecipanti a quella che
è stata definita, con un filo d'enfasi, «una
grande consultazione», ha bocciato il piano di
Renzi sugli scatti stipendiali maturati in base
al «merito» individuale e non sull'anzianità dei
servizio. Il 46% è per un sistema misto su
stipendio e merito, il 14% per l'anzianità.
L'opposizione della «base» telematica auscultata
dal governo è comprensibile. Secondo le
intenzioni dei meritocrati al governo, la
riforma prevederebbe aumenti stipendiali fino a
60 euro ogni tre anni, ma solo per i 2/3 degli
insegnanti (il 66%). E non è detto che gli
aumenti agli stipendi tra i più bassi dei paesi
Ocse arriverebbero sempre alle stesse persone
ogni triennio. Stando al progetto iniziale della
riforma, la valutazione del «portfolio di
crediti e titoli» dei docenti dovrebbe essere
effettuata all'interno degli istituti da un
nucleo specializzato. Al termine di questo
esame, l'interessato potrebbe trovare una brutta
sorpresa. Secondo una serie di proiezioni,
pubblicate da tempo su riviste specializzate
come «Orizzonte Scuola», al nono anno il docente
pur meritevolissimo potrebbe essere scavalcato
in classifica da un collega valutato
diversamente. Sempre che questo non accada già
al terzo o al sesto anno. Nel sistema
competitivo concepito sotto il governo Renzi, lo
stipendio sarà una questione di probabilità.
Entrare nel 66% dei docenti premiati non è da
tutti. E non può essere per sempre. Poi c'è
l'aspetto oscuro della riforma, di cui pochi
ancora parlano. In questo sistema saranno tutti
a perdere a turno. Secondo le proiezioni,
infatti, un docente con 42 anni di servizio
potrebbe arrivare a perdere fino a 26 euro
mensili, 312 all'anno. E lo Stato potrebbe
risparmiare 200 milioni annui per 650 mila
docenti. Queste sono le ragione della bocciatura
alla quale il Partito Democratico, pur
abbozzando, aveva promesso di rimediare
all'indomani della sonora sconfitta. L'ipotesi
sarebbe quello di adottare un sistema misto (merito+anzianità)
di cui, ad oggi, non si conosce ancora il
contenuto. L'uscita di Renzi di domenica, scorsa
sembra avere cancellato questo difficile
passaggio per la sua riforma, ma il problema
resta. In attesa del consiglio dei ministri di
venerdì 27 che approverà un decreto legge e
disegno di legge delega, non hanno risolto uno
dei nodi principali della «riforma»,
l'aritmetica politica che governerà la
«meritocrazia» nella scuola «per i prossimi
trent'anni». Questo è il respiro che Renzi
intende dare al suo operato. Per ragioni
comprensibili alla propaganda i chiaroscuri sono
stati messi in secondo piano e ci si è
soffermati più volentieri sulle cifre dei
docenti neo-assunti dal 1 settembre. Per loro è
stato stanziato circa 1 miliardo di euro nel
2015, altri 3,7 quelli ancora attesi. Una°
stabilizzazione mai vista in Italia, sulle cui
cifre oggi non c'è certezza. Per mesi si è
parlato di poco più di 148 mila assunzioni dalle
graduatone in esaurimento (GaE). Oggi si oscilla
tra le 120 mila e le 134 mila, comprensive dei
vincitori del «concorsone» del 2012 e degli
idonei. Di questi, tra i 100 e i 110 mila
arriverebbero dalle GaE che però non saranno
svuotate del tutto, a differenza di quanto
promesso. Lo saranno secondo necessità: il
numero delle cattedre (tagliate dalla riforma
Gelmini) e dall'effettiva disponibilità dei
fondi stanziati. Se così fosse, questo significa
che, al momento, il governo non ha i soldi per
fare le assunzioni annunciate. La riduzione del
numero dei neo-assunti dalle GaE è avvenuto in
ragione della sentenza della Corte di Giustizia
Europea del 26 novembre scorso che ha imposto
all'Italia di assumere i circa 90 mila docenti
precari che hanno maturato 36 mesi di servizio
negli ultimi cinque anni nel rispetto della
direttiva europea 70 del 1999 contro la
reiterazione dei contratti a termine. Il governo
sembra essere intenzionato ad assumerne dai 14
ai 28 mila. E solo una minima parte lo sarà dal
primo settembre. Questo significa che è
possibile un piano pluriennale di assunzioni e
che le supplenze non spariranno. A tutto questo
bisogna aggiungere gli altri precari, che pur
avendo i titoli e le abilitazioni, non sono
rientrati nelle GaE e restano nella seconda
fascia. Su questa categoria ci sono altre voci.
Il listino delle quotazioni parla di 2 mila
supplenti su posto vacante nell'organico di
diritto: 755 dalla seconda fascia, 163 dalla
terza. Dalle GaE sarebbero 873 in possesso del
requisito (avere lavorato più di 36 mesi). Cifre
irrisorie rispetto ai 90 mila esclusi. Dal Cdm
dovrebbe arrivare anche un nuovo regolamento
sulle classi di concorso, oltre alla conferma di
un nuovo concorso nel 2016 per assumere altri 40
mila insegnanti. In attesa di venerdì, mentre al
Miur si macinano bozze su bozze, restano alcune,
forti, certezze. Per i docenti resta il `blocco
del contratto, fermo al 2009, gli stipendi più
bassi d'Europa. Da questo tourbillon di
anticipazioni, resta escluso il personale Ata.
I
nuovi prof un anno in prova. E il preside
diventa sindaco
Selezione,
risorse, materie: tutti i nodi della riforma
della scuola
Corriere della sera.it del
07-01-2015, di Orsola Riva
Di rinvio in
rinvio, la grande riforma della scuola di Matteo
Renzi dovrebbe finalmente vedere la luce alla
fine di febbraio. Lo ha annunciato il premier
due giorni fa. Gli ingredienti sono noti. Primo:
assunzione in blocco di quasi 150 mila «precari
storici». Secondo: introduzione del merito: a
essere valutati non saranno più solo gli
studenti ma anche i prof e il loro stipendio
varierà di conseguenza (ma su quali basi e chi
darà loro le pagelle è ancora tutto da
chiarire). Terzo: potenziamento di alcune
materie — arte, musica, informatica, inglese — e
più ore per laboratori e stage in azienda.
Ultimo ma non ultimo — Renzi ci ha messo la
faccia fin dal suo insediamento — l’edilizia
scolastica. Tutti ingredienti più che «buoni»
sulla carta, ma basteranno a mettere davvero in
sicurezza la scuola italiana e i nostri figli? I
nodi da sciogliere sono ancora tanti. Vediamo i
principali.
Stabilizzazione dei prof
I 150 mila neo assunti saranno tutti all’altezza
del ruolo? Molti di loro (uno su cinque) non
insegnano più da anni, altri hanno abilitazioni
per materie ormai uscite dai programmi.
L’allarme lanciato dagli esperti è stato
raccolto anche dal governo. «Forse dal piano di
assunzioni — ammette il sottosegretario Davide
Faraone — si potrebbero escludere i docenti di
materie non più utili come la dattilografia». E
tutti gli altri? Bisognerebbe formarli. Sì, ma
con quali soldi? E allora ecco che si profila
una soluzione più drastica: il cosiddetto anno
di prova previsto per legge ma finora solo sulla
carta. «Quell’anno deve diventare decisivo per
la permanenza dei neoassunti», taglia corto
Faraone. Più facile a dirsi che a farsi: come
non immaginare la valanga di ricorsi da cui
sarebbe sommerso il ministero?
Gli esclusi
Se è vero che l’assunzione dei precari storici è
stata pensata per sanare un’ingiustizia, in
realtà ne apre un’altra. Ci sono infatti decine
di migliaia di prof (circa centomila) che
prestano servizio nelle nostre scuole ma sono
rimasti tagliati fuori. Loro dovranno aspettare
il concorso del 2016. Unica concessione al
vaglio del governo: una «quota riservata» dei 40
mila posti in palio.
Il merito
È la vera incognita della riforma. Nel testo
della Buona Scuola si era ipotizzata
l’eliminazione tout court degli scatti di
anzianità per un sistema in teoria incentrato
appunto sul merito in realtà alquanto
arbitrario: scatti ogni tre anni a due prof su
tre, i «migliori» di ciascuna scuola. La norma è
saltata, gli scatti di anzianità sono tornati al
loro posto (anche se Faraone precisa che sullo
stipendio peserà molto di più la quota premiale
legata al merito) e soprattutto non è chiaro chi
valuterà cosa. Su tutto il sistema, però,
dovrebbe vigilare il preside, nuovo «sindaco
della scuola».
Nuove materie
Va bene puntare su musica, storia dell’arte ed
educazione fisica (20 mila nuove cattedre) e
pure sul «coding» (la programmazione informatica
tanto sbandierata anche se ammonta ad appena
un’ora di lezione all’anno) ma com’è che nessuno
si preoccupa dei pessimi risultati dei nostri
figli in italiano e in matematica? «I dati
Invalsi e Ocse dicono che i ragazzi italiani non
sanno leggere: dovrebbero maneggiare non solo
testi letterari ma anche scientifici, mentre noi
continuiamo a insegnare loro a contemplare i
libri, non a capirli. Molti dei problemi in
matematica hanno origine nella difficoltà di
lettura: spesso i risultati peggiori i ragazzi
li danno non sulle domande più ostiche ma su
quelle che hanno una forma meno scolastica»,
dice il professor Matteo Viale, docente di
linguistica italiana all’Università di Bologna.
Bisognerebbe adottare una nuova didattica
trasversale, ma di didattica nella Buona Scuola
di Renzi non si parla proprio.
Scuola-lavoro
Altro mantra del governo che più volte ha detto
di volersi ispirare al cosiddetto «sistema
duale» tedesco, anche se nella legge di
Stabilità sono saltati i 10 milioni che dovevano
servire a raddoppiare le ore di alternanza.
Vedremo nel decreto di fine febbraio. Con una
avvertenza: l’Italia non è la Germania ed è bene
che il governo vigili sulle storture già in atto
(vedi i 2.700 studenti del Centro-Sud che
venivano sfruttati come manodopera a basso costo
da alberghi e ristoranti del Nord proprio dietro
lo schermo dell’alternanza scuola-lavoro).
Edilizia scolastica
Infine i muri, la grande scommessa lanciata da
Renzi: un miliardo per 21 mila scuole. Tre i
capitoli: #scuolenuove (rifacimento o
costruzione di nuovi plessi), #scuolebelle
(piccola manutenzione) e #scuolesicure (messa a
norma e in sicurezza). Il più critico, al
momento, è anche quello più importante: ovvero
la sicurezza. A dicembre 500 sindaci hanno
marciato su Roma perché, pur avendo già
effettuato i lavori, non erano ancora riusciti a
riscuotere i fondi della prima tranche. Il
governo conta di far partire entro la fine di
quest’anno 1.600 cantieri di #scuolesicure ed
altrettanti di #scuolenuove ed altri 15.000 per
#scuolebelle entro primavera 2016. I conti, li
faremo alla fine.
La Tecnica
della Scuola.it, del 07-01-2015. Di Alessandro
Giuliani
Per
l’approvazione delle riforma la tabella di
marcia è pronta. Prima si cercherà di ottenere
il consenso, attraverso una manifestazione
nazionale organizzata nell’ultima decade di
febbraio da Partito Democratico. Subito dopo le
nuove norme arriveranno in Consiglio dei
Ministri.
Le indicazioni temporali sono arrivate dal
presidente del Consiglio, Matteo Renzi,
attraverso una delle sue enews. "E' arrivato il
momento di passare dalle parole ai fatti. Il 22
febbraio - primo compleanno del Governo - il Pd
organizzerà una manifestazione nazionale sul
tema della scuola. E nella settimana successiva
– si legge ancora nel messaggio del premier -
porteremo in cdm gli atti normativi su
insegnanti, abolizione del precariato e
supplenze, formazione tecnica e professionale,
alternanza scuola lavoro, su educazione motoria,
arte, educazione civica, inglese, valutazione
degli insegnanti e scuole, sul merito come
motore della scuola italiana".
L’elenco di temi prospettato da Renzi non sembra
contenere sorprese: si tratta di punti già
ampiamente annunciati da diverse settimane.
L’unico dubbio, semmai, riguarda quello sul
merito degli insegnanti: dopo aver archiviato la
formula del 66% di prof promossi e del 34%
bocciati in ogni istituto, ancora non si hanno
indicazioni certe sulla strada presa dal
Governo.
Da indiscrezioni sembrerebbe che si procede
verso un sistema “misto”, con il mantenimento
degli scatti di anzianità (ma aumenti periodici
ridotti rispetto ad oggi) ma anche con
l’introduzione di premi da assegnare a chi è
impegnato attivamente in funzioni centrali per
le scuole. Nei prossimi giorni ne sapremo di
più.
Dovrebbero
essere la data entro la quale il Governo
presenterà i testi di decreto legge e disegno di
legge per l'attuazione del progetto Buona Scuola
La Tecnica
della Scuola.it, del 07-01-2015, di Reginaldo
Palermo
Continuano
annunci e dichiarazioni di Giannini e Renzi a
proposito della riforma della scuola prossima
ventura. Ma - almeno per noi - lo scenario non è
ancora del tutto chiaro. Anzi, paradossalmente,
annunci e dichiarazioni stanno creando qualche
ulteriore confusione.
Dunque: poche settimane fa Giannini aveva
giurato che a gennaio la riforma sarebbe stata
presentata (peraltro senza spiegare bene a parte
del progetto intendeva riferirsi: piano di
assunzioni? stato giuridico del personale?
carriera dei docenti, o che altro?
Pochi giorni fa Renzi ha detto: "Il 22 febbraio
(segnatevi questa data) presenteremo il
progetto", ammettendo implicitamente che si sta
già slittando di qualche settimana.
Molti osservatori hanno interpretato la data
come il termine entro il quale il Governo
presenterà una proposta di legge o qualcosa del
genere. Ma nessuno ha detto che il 22 febbraio è
una domenica e questo potrebbe voler dire che in
realtà Renzi sta pensando ad un "evento"
pubblico (un convegno o qualcosa del genere) a
carattere informale.
Poche ore fa è arrivato il video-messaggio con
cui si aggiunge qualche tassello e si parla del
28 febbraio come data in cui dovrebbero essere
resi noti decreti legge e disegno di legge sulla
scuola.
A voler essere logici il decreto legge dovrebbe
riguardare certamente le assunzioni; ma quante?
150mila? Difficile crederlo perché per quanto
se ne sa al Ministero non hanno ancora dato
avvio al previsto monitoraggio delle graduatorie
ad esaurimento.
C'è anche un problema di tempi: il decreto, dopo
essere stato firmato dal Consiglio dei Ministri,
dovrà essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
per poter entrare in vigore (si possono
calcolare altri 10-15 giorni).
Sempre entro la fine di febbraio (parola di
Renzi e Giannini) dovrebbe arrivare un disegno
di legge per la riforma ordinamentale (nuove
discipline di insegnamento, per esempio).
Non si capisce ancora bene se la carriera dei
docenti starà nel decreto o nella legge, vediamo
se nei prossimi giorni se ne potrà sapere
qualcosa di più.
La sensazione è che il Governo sia in forte
difficoltà sul tema della scuola: se così non
fosse, non ci sarebbe nessun bisogno di fare
annunci a giorni alterni; basterebbe dire:
all'ordine del giorno del prossimo consiglio dei
Ministri ci sarà l'esame del decreto per
l'assunzione di 150mila precari, punto.
Per il momento l'unica cosa certa sono i tagli
previsti dalla legge di stabilità che
equivalgono, milione più milione meno, a quanto
necessario per effettuare le prime 50-60mila
assunzioni di cui si parla nel documento sulla
"Buona Scuola".
Il Fatto
Quotidiano.it, del 06-01-2015, di Marina
Boscaino
“Da qui alla
fine di febbraio sarà entusiasmante confrontarsi
con le decine di migliaia di contributi arrivati
in risposta alla nostra richiesta di commentare,
integrare, contestare le proposte della riforma
della “Buona scuola“. Abbiamo bisogno di almeno
mille persone in Italia innamorate della scuola
per portare in fondo la riforma”. Così Matteo
Renzi il 13 dicembre, dopo l’evento (sic!) del
Nazareno, per anticipare i dati dell’”ascolto”
sul documento extraparlamentare (ma citato
persino nella Legge di Stabilità!): la Buona
scuola.
Da allora è
trascorso quasi un mese. Avevamo sperato che un
minimo di saggezza guidasse dichiarazioni e
azioni del premier. Il risultato risibile del
sondaggio, il pronunciamento contrario di tanti
collegi dei docenti, ci avevano fatto immaginare
una maggiore cautela e – illusi – una tensione
democratica che evidentemente non è proprio
nelle corde del premier. Invece eccolo: “Da qui
al 28 febbraio scriveremo i testi: il decreto e
il disegno di legge”. “Se riparte la scuola,
riparte l’Italia. Ci stiamo credendo e
investendo”; “Sarà entusiasmante che diventi la
più grande riforma dal basso mai fatta in un
Paese europeo”. Nonostante, cioè, il no o
l’indifferenza che le componenti della scuola –
docenti, studenti, personale Ata, genitori,
persino i proverbiali e immancabili nonni- hanno
tributato alla proposta del Governo, lui va
avanti, fidente nel fatto che il tempo è
galantuomo; e che forse quegli smemorati degli
italiani abbiano dimenticato il flop di un
documento scritto in un mese, infarcito di
strafalcioni, di ammiccamenti non velati al
mondo imprenditoriale, di anglicismi di matrice
bancaria; nonostante l’occupazione di ogni
spazio istituzionale e persino delle istituzioni
scolastiche (in cui si sono tenuti sedicenti
dibattiti senza contraddittorio), nonostante il
dispendio di fondi pubblici per spot, ricchi
premi e cotillon, i numeri dell’ “ascolto” sono
stati miseri e le evidenze non entusiasmanti
come il giovane rampante di fiorentino avrebbe
auspicato. Va avanti alla sua maniera:
subissando gli italiani
di chiacchiere inconsistenti. In cui trovano
spazio le gamme più variegate della sua trita
retorica; parole in libertà, senza alcuna prova
concreta, per annunciare la “Fase 2”: la
campagna di ascolto valutata “dalle istituzioni
europee come la più grande mai fatta a livello
continentale” (Chi? Quando? In quale contesto?).
Poi aggiunge: “Centinaia di migliaia di persone
ci hanno detto la loro, ci hanno anche
insultato, ci hanno dato suggerimenti,
criticato, fatto proposte alternative. Non c’è
dubbio che per la prima volta la riforma della
scuola anziché farsela in un ufficio con i
tecnici del ministero e di Palazzo Chigi, la
stanno facendo gli italiani e le italiane”.
Centinaia di migliaia di persone: mancano dati
concreti di come si siano pronunciati i 207mila
(rispetto ad un pubblico potenziale di circa 10
milioni di persone, considerando solo docenti,
studenti delle superiori, genitori; 207mila
diventati magicamente tali in 2 giorni, dal
momento che a due giorni dalla chiusura del
sondaggio le risposte erano 65mila) che hanno
compilato il questionario sulla Buona Scuola. E
poi, se sono arrivati critiche, insulti,
suggerimenti, proposte alternative, come farà in
un mese e mezzo il Governo a recepire tutta
questa messe di informazioni e canalizzarla in
dispositivi di legge? Non è malizia pensare che
ora più che mai saranno proprio dei tecnici
chiusi in uno studio a preparare la riforma.
Dapprima
un decreto d’urgenza, l’unico strumento
giuridico che consente di attuare la riforma in
tempo utile per il prossimo anno scolastico. Il
ddl successivo potrebbe servire invece a
predisporre un nuovo Testo unico della
Scuola(l’ultimo è del 1994). Infine la chiusa
visionaria: “Se riparte la scuola, riparte
l’Italia. Noi ci stiamo credendo, ci stiamo
lavorando e investendo, mettendoci tanti soldi,
che sono i soldi degli italiani”. Un’iniezione
di fiducia, di dinamismo efficentista, di
entusiasmo giovanilista mentre – nel silenzio
generale – solo
Il Fatto Quotidiano rivelava che proprio
alla sua spregiudicata volontà di mantenere il
potere ad ogni costo dobbiamo la cancellazione
della condanna di Berlusconi per frode fiscale.
Quando
questo Paese si sveglierà dallo stato di
sconvolgente torpore in cui agonizza da ormai 20
anni sarà davvero troppo tardi. La scuola
della Costituzione potrebbe essere cancellata da
un fiume di parole e da un colpo di mano
autoritario che, mentre dice “ascolto”,
concretizza (in un tempo record di un mese e
mezzo, indicativo ancora una volta della cura
che il Governo riserva a questa istituzione
della Repubblica) i diktat di poteri forti,lobby
economiche e le più viete espressioni
del neoliberismo imperante: diritti diversi, a
seconda della nascita; scuole di serie A, B, …
Z, a seconda del potere economico e culturale
delle utenze; invalsizzazione degli
apprendimenti degli studenti; dirigenti decisori
unici di carriere e destini professionali dei
docenti; scuole azienda, per formare lavoratori
efficienti, asserviti allo sponsor esterno, e
non menti critiche; scuola pubblica che si
compone e pone sullo stesso piano scuola statale
e scuola paritaria; e molto altro ancora.
Il messaggio
per la riapertura delle scuole dopo la pausa
natalizia ripiomba il mondo dell’istruzione in
un incubo addirittura peggiore di quello che si
poteva immaginare. La corsa del delfino di
Berlusconi, però, dovrà comunque fare i conti
con quella parte del mondo della scuola e della
società civile non anestetizzata dall’oppio
della velocità, dal fascino del giovane
condottiero, dalla prorompente ed esuberante
arroganza guascona dello sdoganatore del papi di
Arcore.
Proviamo a
svegliarci dalla seduzione della velocità. Dal
primo manifesto del Futurismo è passato molto
più di un secolo; e Marinetti prometteva
retoricamente di “distruggere i musei, le
biblioteche, le accademie d’ogni specie”; Renzi
minaccia concretamente di distruggere la scuola
statale e quel poco di democrazia rimasta in
questo Paese.
- Spariti gli scatti di
merito per gli insegnanti. Pesa ancora
l’anzianità
Dietrofront del Pd sulla
riforma della «Buona Scuola»
Corriere della sera.it, del
17-12-2014, di Claudia Voltattorni
ROMA Scatti di merito, addio.
Promessi a settembre, contestati con tanto di
raccolta firme dai sindacati, bocciati sabato
scorso dal Pd. Che fa retromarcia sulla Buona
Scuola, prima ancora che diventi un testo di
legge da discutere in Parlamento. Quello che è
(o era) uno dei cardini della bozza di riforma
del sistema educativo firmata Renzi-Giannini è
stato giudicato inadeguato dal Partito
democratico e dunque molto difficilmente potrà
restare nel progetto del governo.
Nella giornata dedicata alla discussione sulla
Buona Scuola, il partito del premier ha proposto
un modello alternativo di carriera per gli
insegnanti. Nella nuova bozza, che dovrà passare
al vaglio di ministero e maggioranza, non ci
sono più gli scatti per due terzi del corpo
docente, decisi dal preside di ogni scuola sulla
base dell’impegno e della bravura dell’
insegnante, al posto degli scatti di anzianità.
C’è invece un sistema misto: resta l’anzianità
(non è specificato con che cadenza) e compare
una nuova figura professionale, a metà tra
l’insegnante e il dirigente: è il «docente
esperto», un livello superiore rispetto a quello
di ingresso nella scuola al quale si accede con
una specie di formazione permanente, che nelle
intenzioni del documento Pd dovrà essere
obbligatoria, e una sorta di concorso: non più i
presidi ma commissioni provinciali esamineranno
i titoli dei docenti sulla base anche di un
esame o di un colloquio.
«Il meccanismo del 66% — spiega Maria Grazia
Rocchi del Pd — è stato quello più contestato
dai docenti nella consultazione della Buona
Scuola: la nostra ipotesi è quella di non
escludere una retribuzione basata sull’anzianità
perché un insegnante diventa un buon insegnante
anche grazie alla pratica». A regime, secondo il
piano Pd, dovranno essere tra il 15 e il 25% gli
insegnanti che possono accedere al livello di
«docente esperto».
Nel documento del Pd è molto duro il giudizio
sul sistema invece proposto a settembre dalla
Buona Scuola: il punto di partenza, si legge, è
che «nessuno (nel testo scritto tutto maiuscolo
per far capire che è proprio un no) condivide il
principio enunciato dalla Buona Scuola secondo
cui un insegnante mediamente bravo per ricevere
lo scatto di competenza dovrebbe cercarsi la
scuola dove vi sono insegnanti scarsi per poter
emergere visto che lo scatto di competenza sarà
assegnato solo al 66% del corpo docente. Lo
scatto così sarebbe semplicemente un diverso
sistema di fasce stipendiali non una
differenziazione delle carriere all’interno
delle scuole autonome». E ancora: va bene
valutare le competenze didattico-disciplinari,
cioè la bravura di un insegnante ma questa
«anche se posseduta al sommo grado non potrà
automaticamente tradursi in un passaporto per il
livello superiore».
La questione dello stipendio è centrale, perché
il docente esperto dovrà avere un «aumento
retributivo non simbolico e permanente anche in
caso di successivo trasferimento». Che cosa farà
il docente esperto? Può aspirare alla carriera
di dirigente ma dovrà «assumere incarichi e
responsabilità organizzative dentro la propria
scuola».
La proposta del Pd non è del tutto nuova.
Ricorda in parte l’idea proposta negli anni
scorsi da Forza Italia con Valentina Aprea e
durante l’estate l’opzione era circolata come
opzione alternativa agli scatti di merito ma
alla fine non era stata presa in considerazione
dal governo. «È una svolta positiva — spiega
Massimo Di Menna, leader della Uil scuola —.
L’idea degli scatti di merito a due insegnanti
su tre in ogni scuola era offensiva, siamo
soddisfatti di essere stati ascoltati».
Mentre il ministro Giannini
presentava i risultati sulla consultazione, il
Coordinamento delle scuole di Roma-lavoratori
autoconvocati si è presentato sulla scalinata
del dicastero di viale Trastevere con 200
mozioni, deliberate dai collegi docenti, tutte
critiche nei confronti del documento. Poco
distante manifestavano i precari dell’Invalsi:
questo progetto è privo delle risorse economiche
necessarie, i 60 dipendenti precari presto
licenziati.
La Tecnica della Scuola.it,
del 16-12-2014
Mentre il ministro Giannini
anticipava i primi risultati della consultazione
sulla “Buona Scuola”, esaltando la linea
innovatrice voluta dal Governo, davanti
all'ingresso del ministero dell'Istruzione
scattava una doppia protesta.
Una delegazione del Coordinamento delle scuole
di Roma-lavoratori autoconvocati si è presentato
davanti al dicastero dell’Istruzione con un
pacco di mozioni, deliberate dai collegi
docenti, tutte critiche nei confronti del
documento del Governo. "Ne abbiamo raccolte
oltre 200. Sostanzialmente bocciano il piano del
Governo e avanzano proposte concrete, ma non ce
le fanno consegnare", hanno detto i manifestanti
ai giornalisti.
Non troppo distante da loro manifestava un altro
gruppo di lavoratori: quelli dell'Invalsi.
"Nella Buona scuola un punto centrale riguarda
la valutazione. E il nostro Istituto che
dovrebbe coordinare il Sistema nazionale di
valutazione si trova oggi, 15 dicembre – riporta
l’Ansa - totalmente privo delle risorse
economiche necessarie per svolgere questo
importante compito. I 60 dipendenti a tempo
determinato termineranno il loro contratto di
lavoro il 31 dicembre e non ci sono soldi per
rinnovare i contratti. I 30 dipendenti a tempo
indeterminato non potranno in alcun modo
ottemperare ai compiti previsti, compresa la
prova Invalsi all'esame di Stato".
Una vera e propria campagna, quella
lanciata dalla Cgil emiliano romagnola, che arriva dopo
anni di denunce, appelli pubblici, scioperi e
manifestazioni, tutti inascoltati
Il Fatto Quotidiano, del 07-11-2014
Sono dipendenti dello Stato, eppure lo
Stato versa loro lo stipendio con mesi di ritardo,
costringendoli a rimandare il pagamento dell’affitto,
delle bollette, a chiedere aiuto alle famiglie. Così,
per centinaia di ‘supplenti brevi’ in Italia lavorare è
quasi un incubo. “Non si può più andare avanti in questo
modo – attacca Raffaella Morsia, segretario generale
della Flc Cgil Emilia Romagna – invito i supplenti a
inviare le bollette da pagare direttamente al
premier Matteo Renzi e al ministro Stefania Giannini,
perché o si protesta, o la situazione non cambierà mai”. Una vera e propria campagna, quella lanciata dalla Cgil
emiliano romagnola, che arriva dopo anni di denunce,
appelli pubblici, scioperi e manifestazioni, tutti
inascoltati, volti a chiedere provvedimenti utili a
snellire il procedimento burocratico che determina il
ritardo nel pagamento degli stipendi dei supplenti
brevi. Quei lavoratori, cioè, chiamati dalle scuole a
sostituire gli insegnanti assenti per periodi di tempo
limitati: giorni, settimane o, a volte, qualche mese.
Tanto che ogni anno sono centinaia i supplenti delle
scuole elementari, medie o superiori che si trovano a
dover fare i conti con una busta paga che non arriva, e
spese su spese da pagare: il denaro per spostarsi nella
città dove si trova la scuola che li ha chiamati, il
vitto, l’alloggio. “Qui in Emilia, ad esempio, è capitato più volte che il
proprietario di un’abitazione affittata da un supplente
chiamasse la scuola presso cui era impiegato per
chiedere una garanzia sull’affitto non pagato, così da
non buttarlo fuori di casa – racconta Morsia – o ancora,
che un preside prestasse di tasca propria qualche euro a
un supplente che non aveva il denaro necessario a
pagarsi il vitto”. Ad oggi, spiega la Cgil, nessuno dei
supplenti entrati in servizio a settembre ha ancora
visto un euro di stipendio. “Non sappiamo quantificare
di preciso quanti siano i lavoratori in questa
situazione in Italia – continua il segretario della Flc
Emilia Romagna – anche perché molti supplenti brevi, che
in pratica sono l’ultimo anello della catena alimentare
della scuola, i più precari tra i precari, spesso hanno
paura a denunciare queste difficoltà. Ma non credo di
sbagliare se dico che sono centinaia”. Il problema, ancora una volta, è la burocrazia. Le
scuole, infatti, comunicano le supplenze fatte dai
docenti al ministero dell’Economia, ma i fondi per le
retribuzioni arrivano dal bilancio del ministero
dell’Istruzione. E siccome la procedura spesso si
inceppa, scattano i ritardi. “Noi abbiamo provato a più
riprese a chiedere al Tesoro di risolvere la situazione
– sottolinea Morsia – ma il Miur dice che è colpa del
Mef, e il Mef che è responsabilità del Miur. E chi ne fa
le spese? Ovviamente il lavoratore, già costretto a
pagare di tasca propria trasferte e pernottamenti”. Così c’è chi è costretto a rinunciare a una supplenza
perché non ha il denaro per mantenersi in attesa che lo
Stato lo retribuisca. O chi, ancora, a metà incarico si
licenzia. E poi ci sono le scuole, che puntualmente
comunicano al ministero il fabbisogno finanziario
necessario a pagare i docenti temporanei senza ricevere
risposta. “Siamo a novembre – racconta Fernando Tribi,
direttore amministrativo delle scuole superiori Mattei
di Fiorenzuola D’Arda, in provincia di Piacenza – e non
abbiamo ancora ricevuto un euro dal ministero, quindi
non siamo in grado di pagare i colleghi che dall’inizio
dell’anno stanno sostituendo chi è assente consentendo
così il regolare funzionamento delle attività
didattiche. Tra l’altro molti di questi supplenti sono
fuorisede e vivono enormi difficoltà nel saldare i
debiti contratti, ad esempio, per affittare una casa o
una stanza. La situazione è drammatica e vergognosa.
Quando il governo Renzi aveva detto che stava studiando
un provvedimento per eliminare le supplenze non credevo
intendesse eliminare prima i supplenti”. In più, le scuole non hanno ancora ricevuto dallo Stato
i fondi necessari a finanziare l’attività didattica, ad
esempio per pagare le bollette o comprare nuovo
materiale. Solitamente tali risorse vengono erogate in
due tranche, una relativa ai primi 8 mesi dell’anno
scolastico, e una per gli ultimi 4. “Ma non sono
arrivati nemmeno quelli – conferma Tribi – quindi la
situazione è gravissima per tutti. Altro che ‘buona
scuola’, per ora abbiamo una scuola assolutamente
stracciona, che peraltro espone i propri lavoratori a
situazioni incresciose nello stesso luogo dove dovremmo
insegnare ai ragazzi il rispetto per il prossimo”.
Si aspira a un esame il cui esito sia il
più omogeneo possibile, dalle Alpi al Lilibeo,
improntato agli stessi criteri. Ma cosa vuol dire questo
e come può essere realizzato?
Tuttoscuola.it, del 07-11-2014
Nel dibattito sull’esame di Stato
conclusivo degli studi secondari stimolato da
Tuttoscuola, che ha già registrato nei giorni scorsi l’intervento
di Giorgio Allulli, pubblichiamo un contributo di
Giorgio Israel, docente di storia della matematica alla
Sapienza di Roma. Rallegriamoci che il governo abbia desistito (speriamo
definitivamente…) dall’intenzione di ridurre le
commissioni dell’esame di maturità a soli membri
interni. La motivazione della protesta – giova
ricordarlo – era che in tal modo si rendeva tale esame
un’inutile pantomima – tanto valeva attenersi all’esito
dello scrutinio finale – e si disattendeva l’esigenza di
rigore, di un giudizio esterno che desse maggiore
“oggettività” al giudizio finale. Ora, nella discussione
su come riformare l’esame di maturità dobbiamo ripartire
proprio dall’unico senso ragionevole che può darsi a
queste parole: rigore e oggettività. Si aspira a un
esame il cui esito sia il più omogeneo possibile, dalle
Alpi al Lilibeo, improntato agli stessi criteri. Ma cosa
vuol dire questo e come può essere realizzato? Qui
abbiamo sentito parlare di “standardizzazione”, di
correzione automatica alla maniera dei test Invalsi, che
si auspica siano introdotti anche all’esame di maturità,
persino di correzione automatica mediante i calcolatori
e software avveniristici: il tutto per escludere
l’arbitrarietà della soggettività umana, le
idiosincrasie dei commissari. In tal modo, non si vede
che, richiedendo a gran voce la persistenza di
commissioni a composizione mista si è richiesta
la presenza di altre soggettività oltre a quelle degli
insegnanti interni. Ma se l’unico obbiettivo sensato è
il raggiungimento dell’oggettività assoluta nel
giudizio, totalmente indipendente dalla soggettività dei
singoli, la soppressione pura e semplice delle
commissioni e la loro sostituzione con delle tecniche di
giudizio standardizzate addirittura per via informatica
era perfettamente ragionevole e la battaglia è stata
contraddittoria. Perché mai affannarsi a trasportare da
una parte all’altra del paese delle “soggettività” se
non è questo il modo di garantire l’oggettività e il
rigore? Qui, piaccia o no, si tocca una questione epistemologica
e cioè in che senso si possa intendere l’oggettività in
un ambito che non è quello delle scienze fisiche o del
mondo inanimato, ma è contrassegnato dalla presenza
attiva di soggetti autonomi, nella fattispecie
insegnanti e studenti. Qui ci si divide tra chi – non
soltanto di area umanistica, ma anche e talora
soprattutto di area scientifica – ha ben chiari i limiti
del trasporto meccanico in quell’ambito dell’idea di
oggettività tipica delle scienze fisico-matematiche, e
di chi ha scarsa attenzione per il contesto disciplinare
e per le modalità del processo di insegnamento e
apprendimento e si nutre esclusivamente di pane e
statistica. E qui non vale dire «in America si fa così».
Certo, come ha scritto lo storico della scienza
statunitense Theodore Porter nel suo Trust in Numbers,
la tradizione dell’uso del calcolo nel management è nata
in Europa, in particolare in Francia, ma «l’uso
sistematico dei test QI per classificare gli studenti, i
sondaggi di opinione per quantificare gli umori del
pubblico, metodologie statistiche sofisticare per
valutare il rapporto costo-benefici e le analisi di
rischio nelle opere pubbliche – tutto in nome di una
oggettività impersonale – sono prodotti distintivi della
scienza Americana e della cultura Americana». Tuttavia,
due osservazioni vanno fatte: a) non siamo in colonia e
non tutto quello che si pensa e si dice negli USA va
preso come verità rivelata (strano modo di essere
oggettivi); b) se c’è chi negli USA continua
imperterrito in quell’andazzo, proprio là sta montando
una reazione vivacissima, preoccupata dai disastri che
ha prodotto in numerosi campi la mitologia
dell’oggettività impersonale, mentre da noi sembra
imporsi il più piatto conformismo. Proviamo allora a mettere alcuni punti fermi. È indiscutibile che l’attribuzione di un peso non
esclusivo ma molto rilevante alle prove scritte sia un
modo per affermare l’imparzialità del giudizio;
quantomeno secondo il vecchio detto «carta canta e
villan dorme»: quel che è stato scritto non si presta a
contestazioni e a interpretazioni discutibili da
entrambe le parti. Ciò posto, la valutazione di quanto è stato scritto non
è assolutamente riducibile a un giudizio standardizzato
impersonale. Se un tema riguarda l’opera di Leopardi, è
ridicolo pensare che si possa definire un giudizio
standardizzato di tale opera che costituisca un crivello
cui deve ciecamente attenersi chi giudica e chi scrive
il compito. Il commissario ha inevitabilmente delle idee
personali al riguardo, e così lo studente, cui dobbiamo
lasciare la facoltà di esporre liberamente quanto ha
“maturato” e che può risultare originale e interessante
di per sé e anche per la commissione. Altrimenti, con
che coraggio deprecare la scuola nozionistica? Il
discorso vale per tutte le materie. Vale per una
traduzione dal greco o dal (al) latino: non esiste la
traduzione standardizzata ottimale e lo studente può
esibire capacità differenziate e anche imprevedibili al
riguardo. Sono queste le capacità da valutare (a meno
che non si chiuda un occhio sulla prassi di scaricare le
traduzioni via cellulare dalla rete…) e cui non può
rispondere un correttore automatico. E – si badi bene –
questo vale anche per un problema di matematica, in cui
la determinazione della soluzione esatta – un numero,
un’espressione finale – è , in fin dei conti, l’aspetto
meno importante del compito: gli aspetti più rilevanti
sono come si è giunti alla soluzione (talora la fantasia
nel trovare una via originale), il modo con cui si sono
descritti i vari passaggi, il rigore e la precisione
esplicativa. Tutto questo non può darlo alcuna
correzione standardizzata, a meno di non decidere di
sottoporre lo studente a prove standardizzate di modesto
livello culturale, che non consentono altro che una
risposta univoca: questionari, quiz, e analoghi. A tale
degrado dovremmo arrivare in nome di una mitologia
dell’oggettività impersonale estranea alla sfera
dell’umanità? Proviamo a rovesciare il discorso e a considerare
l’esame di maturità – senza prove Invalsi, questionari,
quiz e altre miserie – come uno strumento di valutazione
del sistema dell’istruzione. In diverse università
straniere si procede alla valutazione al seguente modo:
l’intero dossier dell’esito di un esame (scritto) viene
inviato ad altri docenti di un’altra università, i quali
lo esaminano e inviano il loro giudizio che diventa
materia di un confronto e di valutazione dell’operato
dell’università (e della commissione o del docente) di
partenza. Perché non fare qui la stessa cosa? Sottoporre
il dossier dei giudizi di una commissione di maturità a
un’altra commissione o a commissioni costituite allo
scopo? Si aprirà così un processo di confronto che avrà
come esitotrasparenzaemiglioramento della qualità
del sistema. La valutazione non può essere altro che
intesa come un processo di crescita culturale che mira a
far sì che le attività di attività di giudizio – emesse
da soggetti, e inevitabilmente soggettive – siano quanto
più possibileimparzialiedequanimi: questi sono
gli aggettivi da usare al posto di una “oggettività”
mutuata in modo meccanico dalla prassi delle scienze
fisico-matematiche. È un processo lungo e complesso, ma
è l’unico che non svilisce la ricchezza intellettuale –
diciamo pure la ricchezza delle conoscenze e delle
competenze – del professore e dell’allievo, riducendoli
a macchine per somministrare test di verifica e a
macchine per ingurgitare nozioni atte a superarli. Quindi: commissioni miste, compiti scritti quanto più
sia possibile (senza per questo escludere una fase di
colloquio verbale), valutazione incrociata (di tipo
ispettivo) dei giudizi emessi, quantomeno per una quota
percentuale significativa delle prove di esame.
La Cgil e i docenti pagati con mesi di
ritardo “Invieremo le bollette a premier e ministro”
la Repubblica.it, del 06-11-2014
SARA ha cominciato a lavorare il 19
settembre in una scuola elementare a Sant’Agata
bolognese. Una sostituzione sino ai primi di novembre.
Terminata. Ma non ancora pagata. Lo stipendio per i
supplenti non arriva. «Già il viaggio, trenta chilometri
al giorno, e i pasti erano a mio carico, ma pur di
lavorare accetti tutto. Però insegnare senza essere
pagati, se non dopo mesi, è assurdo. Ho fatto anche una
sostituzione di una settimana a Castenaso, ma la scuola
mi ha già detto che non ha i soldi. Non si può
continuare così, io ho 35 anni e sono costretta a vivere
ancora con i miei genitori, un’umiliazione». Nella
situazione di Sara ci sono decine di insegnanti in
provincia di Bologna chiamati per supplenze brevi dagli
istituti, dalla primaria alle superiori. Le scuole
comunicano al ministero dell’Economia le supplenze fatte
dai docenti. I ritardi sono nell’accreditamento dei
soldi, che arrivano dal bilancio del dicastero
all’Istruzione. Non c’è coordinamento, il sistema si
inceppa continuamente. Anche prima dell’estate: chi
aveva lavorato a maggio è stato pagato a fine settembre.
La Cgil protesta: «Il Tesoro deve pagare, senza più
fumosi passaggi. È inaccettabile che si ignori il
diritto di chi lavora e ha più bisogno». Bussano i
supplenti, ma anche i loro padroni di casa. «In qualche
caso chiamano le scuole chiedendo la garanzia per
l’affitto», racconta Raffaella Morsia. «Così non si può
andare avanti», aggiunge Francesca Ruocco. «Diremo ai
supplenti di inviare le bollette da pagare a Renzi e al
ministro Giannini».
una manifestazione che per la prima volta
vedrà uniti tutti i sindacati dei servizi pubblici
OrizzonteScuola.it, dello 06-11-2014, di Patrizia Del
Pidio
L’8
novembre si terrà a Roma ; per i sindacati della scuola,
potrebbe essere un’importante banco di prova prima delle
elezioni Rsu. La manifestazione, che partirà da Piazza della
Repubblica a Roma alle 13,30, sfilerà in corteo per le
strade della capitale per giungere verso le ore 17,00 a
Piazza del Popolo, dove si terrà il comizio conclusivo
cui interverranno i segretari generali Cgil, Susanna
Camusso, Cisl, Annamaria Furlan, e il segretario
aggiunto della Uil Carmelo Barbagallo. Successivi
dettagli saranno resi noti durante la conferenza stampa
che sarà tenuta per presentare l’iniziativa il 7
novembre. La manifestazione di protesta coinvolgerà una platea di
4 milioni di persone essendo rivolta ai lavoratori di
tutti i settori del pubblico impiego, dalla scuola alla
sanità, dalla Pa centrale ai servizi locali. Una manifestazione unica in difesa di servizi pubblici e
dei settori della conoscenza, della sicurezza e del
soccorso per “sfidare il Governo degli illusionismi e
delle divisioni; per chiedere una vera riforma delle Pa,
dei comparti della conoscenza, dei servizi pubblici. E
per rivendicare il diritto al contratto nazionale di
lavoro tanto per i lavoratori pubblici quanto per quelli
privati”. “Cinque anni di tagli lineari forsennati, di blocco
delle retribuzioni, oltre dieci di blocco del turn-over,
un esercito di precari senza certezze e tutele, riforme
fatte in fretta e male: il sistema è al collasso, mentre
la spesa continua a crescere nonostante i tagli al
welfare e il caro prezzo pagato dai dipendenti pubblici,
oltre 8 miliardi di euro in 5 anni. Qui non è in gioco
solo il futuro delle lavoratrici e dei lavoratori, ma
quello dell’intero Paese. Come pensa il Governo Renzi di
garantire salute, sicurezza e soccorso, istruzione,
prevenzione, assistenza, previdenza, ricerca e sviluppo
senza fare innovazione, senza investire nelle
competenze, nella formazione, nel lavoro di qualità,
senza aver messo in campo un progetto?” rilevano i
sindacati concludendo che saranno in piazza l’8 novembre
ma saranno presenti anche in tutti i posti di lavoro per
spiegare ai lavoratori “una per una le bugie del
Governo. “.
Hanno
aderito alla manifestazione Fp-Cgil, Fp-Cgil Medici, FLC
CGIL, Cisl-Fp, Cisl-Scuola, Cisl-Medici, Fns-Cisl,
Fir-Cisl, Cisl-Università-Afam, Uil-Fpl, Uil-Fpl Medici,
Uil-Pa, Uil-Scuola, Uil-Rua.
La
manifestazione punta a chiedere un miglioramento della
qualità del sistema dell’istruzione e della ricerca. I
settori della conoscenza per migliorare hanno bisogno
innanzitutto di adeguati finanziamenti ma anche di una
adeguata formazione del personale sostenuta anche da un
salario adeguato per i lavoratori che offrono tale
servizio. I sindacati con questa grande manifestazione chiedono
una riapertura della contrattazione oltre ad una
stabilità e certezza per il lavoro del personale
precario. Inoltre, a tutela dell’Università, costi e
servizi standard. Come leva di crescita, si chiede
ancora, una valorizzazione dell’istruzione e della
formazione. I sindacati della scuola sono sul piede di guerra per
quel che riguarda non solo il rinnovo del contratto di
lavoro, ma il contenuto del documento governativo “La
Buona Scuola”, argomento che sarà trattato largamente
nell’incontro nel quale sono stati convocati per il12
novembre. La parte che riguarda le assunzioni non può che piacere
ai sindacati anche se nel documento molti sono i punti
che non soddisfano i rappresentanti dei lavoratori. Uno dei punti che meno piace è quello che riguarda il
sistema meritocratico che andrebbe a penalizzare i
neoassunti portando, di fatto ad un taglio degli
stipendi, che premierebbe solo il 66% dei docenti
penalizzando il restante 34%. C’è molto da discutere anche su quello che riguarda il
nuovo sistema per le supplenze che dovrebbe sostituire
le graduatorie di istituto, attualmente in fermento. Ma ciò che maggiormente pesa ai sindacati è
l’istituzione dello scardinamento degli scatti
stipendiali per anzianità degli insegnanti. La parte
della riforma legata agli stipendi è, quindi,
pesantemente bocciata dai sindacati.
La
manifestazione dell’8 novembre potrebbe essere un banco
di prova per le prossime elezioni sindacali per la
rappresentatività delle sigle.
Le elezioni
per il rinnovo delle Rsu sono dal 3 al 5 marzo 2015 e
sono chiamate al voto 3.343.999 persone di cui 1.005.840
che lavorano nella scuola. La legge 165/2001 prevede che per ottenere
rappresentatività sindacale i sindacati devono
raggiungere la soglia del 5% calcolando la media tra
iscritti e voti riportati alle elezioni delle Rsu. Il
mancato raggiungimento di tale soglia comporterà
l’esclusione dai tavoli di negoziazione sindacale. Lo
scorso anno ha partecipato alle elezioni l’80% del
personale del pubblico impiego. Questa manifestazione
potrebbe rappresentare, quindi, un importante banco di
prova prima delle elezioni per il rinnovo delle Rsu.
La ricetta degli industriali in 100
punti. Alternanza scuola-lavoro nell'ultimo triennio
ItaliaOggi, del
14-10-2014, di Giovanni Scancarello
Intramoenia per i docenti, sistema
duale estivo e its consortili, via gli scatti di
anzianità e sì alla chiamata diretta dei prof. Sono
alcune delle 100 proposte per la buona scuola di
Confindustria. «Serve sostegno soprattutto all'autonomia
e all'istruzione tecnica e professionale», dice Ivan
Lobello, capo Education di Confindustria, «ma anche
orientamento, valutazione e curriculum». Ecco alcuni punti. Autonomia. Le scuole possono gestire solo l'1,8% dei
costi globali dell'istruzione, dice Confindustria. Non
possono scegliere i propri insegnanti e devono
rispondere a discipline e orari rigidamente definiti. Il
ministero, sostiene Confindustria, deve dimagrire e
occuparsi della determinazione delle risorse
finanziarie, delle norme generali e dei livelli
essenziali di prestazione, dello stato giuridico dei
docenti, delle abilitazioni, della valutazione esterna
dell'apprendimento e della valutazione dei presidi. Alle
regioni il collegamento con il mercato del lavoro, la
programmazione del fabbisogno di insegnanti e della rete
scolastica. Alle scuole, o alle reti, anche il
reclutamento dei docenti. Tra le proposte, anche quella
dell'intramoenia per i docenti, perché tornino a scuola
al pomeriggio a tenere lezioni private ai loro studenti. L'istruzione tecnica e professionale. Viale
dell'Astronomia chiede di abolire la denominazione di
istituto di istruzione superiore e restituire le
tradizionali denominazioni di istituto tecnico e
istituto professionale e chiede anche di ripristinare la
direzione generale dell'istruzione tecnica al Miur. Bisogna spingere, fa sapere Confindustria, sulle formule
di stage e sperimentazioni estive del sistema duale. C'è poi da semplificare l'apprendistato, alleggerendo il
carico dei costi per le imprese per quello di primo e
terzo livello, introdurre l'alternanza negli ultimi tre
anni di tutti gli istituti tecnici e ed estenderla di un
anno ai professionali, aumentando i tempi di alternanza
rispetto alle 600 ore della terza area nel triennio.
Semplificare infine la creazione degli Its perché
possano essere attivati nell'ambito di società
consortili e non solo nella forma di fondazioni di
partecipazione. Orientamento. Bisogna fare di più per aumentare l'attrattività
dell'istruzione tecnica e professionale. Solo così, dice
Confindustria, si potrà contenere il fenomeno della
dispersione. Bisognerebbe cominciare a parlare di
orientamento fin dalle elementari, come pure orientare
gli studenti verso gli Its sin dalla scuola media. C'è
bisogno poi di facilitare i passaggi tra licei,
istruzione tecnica e IeFP, ma bisogna pensare anche alle
quote rosa nell'istruzione tecnica. Ancora troppo poche,
infatti, le ragazze ai tecnici. Valutazione e merito. Per Confindustria va abolito il
più possibile il riferimento all'anzianità in carriera.
Vanno valutati i presidi e reclutati i docenti
attraverso chiamata diretta, valutandone il merito che
deve pesare per un terzo dello stipendio. La
retribuzione degli insegnanti deve essere articolata in
orario di servizio, funzione docente e conseguimento di
obiettivi. L'organico funzionale dovrebbe servire anche
per consentire ai docenti di fruire di periodi sabbatici
e resta poi da ripristinare l'obbligo della formazione. Curriculum. Prima di tutto va anticipato di un anno
l'uscita dalla scuola superiore e abolito il valore
legale del titolo di studio. Sul piano dell'innovazione
didattica, sostengono gli industriali, c'è da aumentare
le ore di laboratorio e diminuire il numero delle
discipline del curricolo. Va infine riservato spazio per
le lingue e la Clil, favorire tra gli studenti il
pensiero computazionale, il coding, le fablab.
La FLC CGIL chiede che la lotta alla
dispersione sia considerata la prima priorità delle
politiche scolastiche 'ordinarie', sia generalizzata la
scuola dell'infanzia, siano stanziate risorse
finanziarie ed umane
Tuttoscuola.it, del 14-10-2014
"La forte riduzione delle risorse
contrattuali per le aree a rischio, l'episodicità degli
interventi e delle risorse previsti dal Decreto Carrozza
(art. 7 del D.L. 104/13), l'utilizzo preponderante dei
Fondi Europei aggiuntivi rispetto alle politiche
ordinarie, il tentativo di appaltare una parte cospicua
degli interventi sulla dispersione a soggetti esterni
alle scuole, sono la testimonianza di una politica
scolastica sbagliata, inconcludente e a favore degli
interessi dei soliti noti". Lo sostiene Domenico
Pantaleo, segretario generale della Federazione
Lavoratori della Conoscenza Cgil. Pantaleo segnala come i dati sulla dispersione
scolastica in Italia restino molto gravi: "A fronte
della media dell'Unione Europea pari al 12 per cento, in
Italia si registra una percentuale di circa il 17 per
cento, con punte di oltre il 25% in Sicilia,
lontanissima dal target previsto da Europa 2020 di
riduzione dell'abbandono al 10%". E aggiunge: "Persino l'attivazione del Sistema nazionale
di valutazione, che doveva avere come primo obiettivo
quello di ridurre i tassi di abbandono scolastico, è
stata piegata verso una deriva tutta ideologica fatta di
classifiche ed esclusioni. La FLC CGIL chiede che la
lotta alla dispersione sia considerata la prima priorità
delle politiche scolastiche 'ordinarie', sia
generalizzata la scuola dell'infanzia, siano stanziate
risorse finanziarie ed umane cospicue soprattutto nei
territori più in difficoltà, sia affermata la centralità
delle istituzioni scolastiche negli interventi di
contrasto all'abbandono scolastico, sia ribadita l'aggiuntività
delle risorse provenienti dai Fondi Europei. Se anche su
questo tema non saranno fornite risposte concrete e
attendibili e a fronte di ulteriori tagli di risorse
che il governo intenderebbe effettuare nella legge di
stabilità nei settori della conoscenza, continueremo con
le iniziative di mobilitazione fino allo sciopero".
Intanto il governo taglia 5 mila posti
Ata, le segreterie saranno sempre più informatizzate
ItaliaOggi, del 14-10-2014, di Nicola
Mondelli e Alessandra Ricciardi
Il governo si appresta a tagliare 5
mila posti dall'organico del personale ausiliario,
tecnico e amministrativo. Quelli sui quali sarebbe stato
possibile fare assunzioni in pianta stabile, quelle
assunzioni a cui la Buona scuola non fa nessun cenno,
avendo concentrato il piano da 150 mila stabilizzazioni
sui soli docenti. Per le segreterie scolastiche, invece, la Buona scuola
punta alla maggiore informatizzazione che dovrebbe
portare a una riduzione del fabbisogno di personale. Nel frattempo però il Miur riapre, da regolamento, le
graduatorie Ata di terza fascia per consentire a
chiunque sia interessato di mettersi in lista per essere
chiamato dalle scuole per contratti di brevissima
durata, per sostituire un segretario, un bidello oppure
un assistente momentaneamente assente. Secondo una stima
di ItaliaOggi, hanno presentato domanda per il primo
ingresso non meno di 200 mila persone. Chance di
lavorare? Vicine allo zero. L'organico Ata ammonta
complessivamente a circa 205mila unità. I precari che
hanno alle spalle, oltre ai titoli di studio necessari,
anche un periodo di servizio non inferiore ai 24 mesi
dovrebbero essere circa 20 mila. Terminata l'8 ottobre 2014 la corsa per la presentazione
in forma cartacea della domanda di inserimento nella
terza fascia nelle graduatorie di circolo e di istituto
di terza fascia, valide per il triennio 2014-2017, da
parte degli aspiranti alle supplenze di personale Ata,
si chiuderà alle ore 14.00 del 5 novembre quella per la
scelta delle trenta scuole nelle cui graduatorie si
vuole essere presenti. Un scelta che, per espressa
disposizione ministeriale, deve essere effettuata
esclusivamente con modalità online utilizzando la
sezione «Presentazione istanze online – inserimento
modello D3» disponibile sull'home page del sito internet
del ministero dell'istruzione. Il Miur non ha reso noti né i numeri delle domande
presentate in forma cartacea direttamente dagli
interessati nella scuola scelta come capofila né quello
delle domande inviate per posta raccomandata. In base ad alcuni elementi, l'affluenza registrata sia
presso gli uffici scolastici territoriali che presso le
segreterie delle singole scuole e presso le sedi delle
organizzazioni sindacali, oltre a dati a campione
raccolti da ItaliaOggi, è possibile però stimare che
complessivamente le domande potrebbero essere state non
inferiori a duecentomila: il cinquanta per cento in più
di quelle presentate per il triennio 2011-2014. Tenuto conto della attuale drammatica situazione
occupazionale, non è l'eccezionale numero delle domande
l'elemento che lascia sconcertati gli addetti ai lavori.
Quello che stupisce è che in questa tornata le domande
di aspiranti a incarichi di supplenze brevi e
temporanee, per svolgere mansioni di assistenti
amministrativi o tecnici, di addetti alle aziende
agrarie, di cuochi, di guardarobieri e di collaboratori
scolastici (già bidelli), sono state presentate non solo
da coloro che sono in possesso di una qualifica
professionale di durata triennale o di un diploma di
maturità (titoli espressamente richiesti dalle norme
vigenti in materia e in particolare dal decreto
ministeriale 717 del 5 settembre 2014), ma anche da
coloro che sono in possesso di una laurea triennale o
addirittura specialistica. Così, è stato consentito a migliaia di giovani di
entrare nelle graduatorie di terza fascia senza avere
fornito loro preventivamente un quadro, per quanto
approssimativo, delle reali possibilità di ottenere una
supplenza in un settore, quello dei non docenti della
scuola statale, da tempo oggetto di tagli negli organici
oltre che, in molti casi, di resistenze da parte degli
istituti a conferirle dovendole retribuire direttamente
con risorse non sempre disponibili. Per la stragrande maggioranza degli aspiranti inclusi
nelle graduatorie le probabilità di ottenere una
supplenza sono ridotte al lumicino, se non addirittura
inesistenti. Il valore residualità che contraddistingue
la natura delle graduatorie di terza fascia comporta
infatti che eventuali supplenze potranno essere
conferite solo agli aspiranti che occuperanno, potendo
fare valere più titoli e periodi di servizio prestato in
precedenza, i primi posti nelle prevedibili
chilometriche graduatorie. Intanto però crescono le
illusioni e le aspettative che la sola iscrizione possa
bastare per avere un piccolo contratto e magari vantare
in futuro il diritto a una stabilizzazione. In questo
modo si replica quel fenomeno diffuso del precariato che
ha contraddistinto la categoria dei docenti e per il
quale il governo ha annunciato di voler trovare una
soluzione definitiva.
Abbiamo incontrato Francesco Luccisano, capo
della segreteria tecnica del ministro Giannini ed
estensore del rapporto sulla Buona Scuola, a Catania
durante un incontro organizzato nella mattina del 10
ottobre dai Giovani Imprenditori Confindustria della
città etnea.
La Tecnica della
Scuola, del 14-10-2014
Francesco Luccisano,
32 anni, ha curato con Alessandro Fusacchia, capo di
gabinetto del Ministro (classe 1974) alla stesura delle
linee guida del Governo Renzi sulla “Buona Scuola”. Durante il suo intervento ha esposto a grandi linee il
documento, soffermandosi soprattutto sulla necessità di
“un’alleanza” con i docenti per far fronte alle nuove
sfide di alfabetizzazione, come l’introduzione del
digitale e del Clil sin dalla scuola primaria. A proposito del digitale, ha affermato che l’Italia sarà
il primo Paese ad introdurre almeno per una settimana
l’anno nella scuola primaria il coding (ovvero
la stesura di un programma), anche se le difficoltà da
superare non sono poche. Infatti, ad oggi solo il 10% di
scuole primarie e il 26% delle scuole medie hanno il
wifi. Infine ha parlato della necessità di aumentare il numero
di studenti che attuano l’alternanza scuola-lavoro: ad
oggi lo effettua solo il 9% dei giovani delle scuole
superiori, ma quel che è peggio è che solo l’0.75% delle
aziende si propongono per evitare complicazioni
burocratiche. Alla fine del seminario che ha visto la presenza, oltre
degli esponenti dei giovani industriali e di una
trentina di dirigenti e docenti, del sindaco di Catania,
Enzo Bianco, e dell’assessore all’istruzione, Valentina
Scialfa, abbiamo posto alcune domande al Capo della
segreteria tecnica. Francesco Luccisano non ha voluto però essere ripreso
per cui riportiamo solo la traccia audio dell’intervista
e la sua trascrizione. Come mai nel rapporto sulla Buona Scuola non si menziona
il personale Ata? Ovviamente la politica ha il compito di dettare delle
priorità. Abbiamo analizzati i problemi del sistema
scuola e abbiamo pensato che inizialmente dovessimo
occuparsi della grossa falla, quella riguardante la
carriera degli insegnanti. Come si può fare una riforma della scuola senza pensare
al personale amministrativo? Sono quasi 200.000 persone. Sicuramente è nel nostro interesse risolverlo e abbiamo
proprio lavorato per evitare il pregiudizio che il
personale Ata, e in particolare i bidelli, non facciano
neanche le pulizie… In pratica, invece, fanno
praticamente tutto. Di quale parte del Rapporto si è occupato? Praticamente tutte, è stato un grande lavoro ma ci è
stato un grande staff di esperti che ci ha supportato
(durante il suo intervento Luccisano aveva dichiarato
che aveva passato tutta l’estate a stendere il rapporto
e che gli erano saltate le vacanze e l’organizzazione
del matrimonio, ndr). E’ notizia di oggi che sono stati previsti tagli
di 500 milioni di euro per l’istruzione? Come
pensate di attuare la riforma? Io penso che faccia fede il fatto che il Governo
investirà in modo massiccio. In passato ci sono stati
storie di tagli ed è vero, ma noi stiamo investendo
sugli insegnanti, sull’alternanza scuola-lavoro, sui
laboratori, sulle competenze. Questo va messo a
registro. Carriera degli insegnanti: ci sarà un nucleo di
valutazione. Da quante persone sarà formato? Perché è
stato determinato proprio il 66% e perché permettere che
i docenti valutino altri colleghi? Innanzitutto inserire un meccanismo che permetta agli
studenti e alle famiglie di valutare i docenti, i
dirigenti e le scuole credo che sia difficilmente
criticabile. Gli studi Ocse dicono che i docenti
vogliono essere formati e valutati. Non ci saranno gare
di bellezza né tra scuole, né tra gli insegnanti. Ogni
scuola deve valutare come sta “performando” e quando può
migliorare. Noi parliamo di un piano di miglioramento
triennale. Dunque, il liceo del centro città non farà la
gara con l’istituto professionale della periferia. Perché il 66%? Perché non interessava selezionare una
quota troppo ristretta, “un’elite” di docenti
all’interno della scuola, ma una quota più ampia. La
cosa che non viene sottolineata è che la valutazione
avverrà ogni tre anni, oggi gli scatti di anzianità che
vengono dati a tutti indistintamente sono ogni 9, 7
anni. Questo significa che la valutazione che avviene
ogni tre anni e si azzera ogni tre anni, l’accesso
possibile è aperta a tutti. Questo significa che è aperta a tutti e che non si va a
premiare sempre una piccola quota, ma si incoraggia la
coesione verso l’alto dell’istituto scolastico. Un’ultima domanda. In nove mesi, cioè entro settembre
2015, si dovrebbe riuscire a mettere in atto il piano
del Governo. E se dalla consultazione dovesse venire un
“no” a queste linee guida, che farete? Cancellerete
tutto? Stiamo furiosamente lavorando sull’attuazione del
Rapporto. Dall’a.s. 2015/2016 dovrà essere attivato il
Piano e i tempi sono ristretti. Il Governo ha l’obbligo
di fare una proposta politica. La consultazione si può
fare sul sesso degli angeli o su un documento politico
che produce il Governo. La consultazione non è un voto. La scuola è un sistema complesso che può essere
migliorato solo sentendo gli utenti. La consultazione è
realizzata proprio per migliorare la nostra proposta.
Stiamo già leggendo tutto quello che arriva.
- Il monito del Consiglio
d'Europa: nelle scuole più spazio alla convivenza e
più soldi ai prof.
Lo ha chiesto l'assemblea
parlamentare di Strasburgo con il rapporto "buona
governance e migliore qualità dell'istruzione" del sen.
Paolo Corsini (Pd): servono politiche che promuovano la
libertà di pensiero e favoriscano l'apertura verso
l'altro e lo spirito critico. Ma anche che assicurino
stipendi adeguati agli insegnanti in modo da rendere la
professione più attrattiva.
La Tecnica della
Scuola, del 01-10-2014, di Alessandro Giuliani
Le politiche scolastiche devono
prevedere maggiori risorse e qualità. A chiederlo è
stata, il 30 settembre, l'assemblea parlamentare del
Consiglio d'Europa, attraverso il rapporto "buona
governance e migliore qualità dell'istruzione" del
senatore Paolo Corsini (Pd). Nel documento, presentato a Strasburgo, si denuncia che
ancora oggi la scuola europea non sarebbe all'altezza
delle sfide come crisi economica, disoccupazione,
immigrazione, razzismo crescente, che la società sta
affrontando. Si chiede quindi agli Stati dell’UE di
promuovere politiche scolastiche che lottino contro
l'esclusione, che promuovano l'uguaglianza dei sessi,
che facciano della scuola uno spazio di convivenza
civile, un ambito dove si rispetta la libertà di
pensiero e di coscienza, e che favorisce l'apertura
verso l'altro e lo spirito critico. Le nuove politiche dovrebbero anche assicurare stipendi
adeguati agli insegnanti in modo da rendere la
professione più attrattiva (l’Italia è uno dei Paesi UE
che da questo punto di vista sta messo peggio n.d.r.).
Oltre che prevedere un tutoraggio dei docenti affinché
possano assumere le migliori pratiche di insegnamento. E
andrebbero messe in atto procedure per valutare la
qualità dell'insegnamento. Nel rapporto UE si chiede, infine, di fare particolare
attenzione alla corruzione in ambito scolastico. Questo,
spiega Corsini, ha due risvolti: "Innanzitutto la scuola
deve dare gli anticorpi contro la corruzione, per
esempio introducendo codici etici, ma bisogna anche
assicurare che le risorse finanziarie date per la scuola
non siano sottratte dalla corruzione, come può succedere
con gli appalti di costruzione dei complessi
scolastici".
Tullio De Mauro: “La scuola di Renzi è
un passo nel vuoto”
Scuola, inglese, riforme, parole.
Intervista a Tullio De Mauro, linguista ed ex ministro
della Pubblica Istruzione Retescuole, del 30-09-2014
«In Francia è stata fatta una
consultazione sulla scuola, ma vennero prima formulate
le domande. È stato un metodo serio. La consultazione di
di Renzi non mi sembra seria».
di Carmelo Caruso
Si abusa delle parole? «Si abusa
spesso, ma è impossibile sanzionare l’abuso di parola».
E’ la parola “scuola” la nostra parola abusata? «L’abuso
è largo, ampio». Matteo Renzi abusa della parola scuola
come abusa dell’inglese? «Il primo abuso è la parola
riforma. Ormai si usa per il più banale provvedimento».
Le piace la “Buona scuola” del governo? «Mi sembra vaga.
Quali risorse? Quali tempi? Ho l’impressione che sia un
passo nel vuoto». Nel suo appartamento romano, anzi romanesco, direbbe lo
storico che ha nobilitato sillabe e dialetti, Tullio De
Mauro sorveglia gli innesti dell’idioma, i guasti della
lingua che ha contribuito a elevare a scienza sfidando
perfino le raccomandazioni del patriota Niccolò Tommaseo
che considerava la linguistica la disciplina dei
barbari. «Sono e rimango un linguista». Ministro per
responsabilità? «In realtà da un bottone ho fatto un
cappotto». De Mauro è il più integro dei ministri
restituitoci da Trastevere, un ministero che ha
flagellato carriere di storici, rettori, politici, il
vero cimitero delle buone intenzioni italiane. E infatti
il professore, restituito al diletto e al divagare, è un
indulgente uomo di lettere di 82 anni vestito come un
preside tutto sintassi e disciplina, un brevilineo che
si controlla a tavola, tradito da orecchie alate che gli
tolgono severità accademica. Renzi riuscirà a riformare la scuola? «C’è sicuramente
più comprensione rispetto al passato, ma si deve capire
dove e come riformare. Antonio Ruberti, ex ministro
della Pubblica Istruzione, usava la formula “suscitare
attese”, annunciare cose che non si possono realizzare.
Ho questa stessa impressione leggendo la “Buona Scuola”.
Sono buoni annunci, ma vengono ignorati i meccanismi di
realizzazione». Si possono assumere 148 mila precari in
un anno? «No, è fuori dalla realtà per ragioni
finanziarie. Non si sa dove possano essere recuperati
nel bilancio del 2015». De Mauro si protegge dalla conversazione inutile
resistendo al telefonino che si ostina a non acquistare
e dice che così tesaurizzi tempo, «se lo avessi le
sollecitazioni alla conversazione sarebbero tante», un
capitale munifico di ore che rendiconta e spartisce,
insomma esaurisce. Ed esaurimento è la parola che
utilizza la scuola per indicare i supplenti che sono
appunto a (rischio) esaurimento, daex haurire: dissolti,
consumati e dissipati. È giusto assumere in blocco i
precari delle graduatorie ad esaurimento? «Anche questo
aspetto mi sembra discutibile. Si dice: assumiamo tutti.
In realtà, molti precari sono bravi, molti no. Hanno
insegnato con mille difficoltà. E’ stato impossibile per
loro aggiornarsi». Si possono lasciare fuori gli
insegnanti che si sono abilitati negli ultimi anni e gli
idonei dell’ultimo concorso? «Comprendo le loro
proteste. Hanno ragione. Sono i sopravvissuti che
vengono così lasciati ancora nell’indeterminatezza.
Servivano concorsi con cadenza biennale, come del resto
era previsto dalla legge». Basta un riconoscimento di 60
euro per motivare i nostri professori? «Da ministro feci
avere un aumento di 100 euro. L’Ocse dice che c’è una
relazione tra retribuzione economica e produttività. Il
deprezzamento finanziario attrae solo santi missionari».
La convince il sistema di valutazione degli insegnanti?
«Mi lascia perplesso così come la parte che riguarda i
presidi». La biografia di De Mauro, che ha accettato di pubblicare
per il Mulino, forno nazionale di idee, è un esempio di
scrittura parca dal titolo gozzaniano Parole di giorni
un po’ meno lontani, un incrocio di vocali e atenei, la
vita piena e militante dello studioso di sinistra. La
sinistra ha rallentato l’evoluzione della scuola? «La
sinistra è stata riottosa di fronte allo sviluppo della
scuola. Ha dominato l’idea paritaria, promossa dai
sindacati, che i dipendenti pubblici siano tutti uguali.
Anche uno studioso vicino al Pci come Concetto Marchesi
non voleva l’innalzamento dell’obbligo scolastico». L’inglese della “Buona scuola” sarà sempre quello di
Nando Mericoni, americano che parla come i sonetti del
Belli? «Nel piano del governo si dice che bisogna
studiare più lingue straniere, ma gli insegnanti alle
elementari non ci sono. Manca la competenza. Si è
provato a formare docenti d’inglese con 50 ore,
purtroppo non è così che si impara a insegnare».
L’inglese di Renzi è l’ultima polverosità della
politica? «Utilizzato in quel modo è inutile, ma ci fa
sentire più sicuri, ci veste di internazionalità a buon
mercato. Non è altro che il latino usato
dall’Azzeccagarbugli con Renzo. Chi sa parlare davvero
l’inglese ha imbarazzo a parlarlo». Nella “Buona scuola”, che De Mauro ha letto, c’è il
diluvio dell’inglese, l’alluvione dello slang
manageriale: comfort zone,problem solving, design
challenge, digital divide, gamification, nudging,
digitalmakers, hackathon, la nuova antilingua che
imbroglia ma non spiega. I neologismi illuminano o
oscurano? «Credo che il nostro premier ricorra ai
neologismi perché gli mancano le parole o non vuole
usare le parole giuste». È la supplentite la sciagura
della scuola? «La sciagura non sono i supplenti, ma i
vecchi programmi, l’aggiornamento, i bassi stipendi, la
confusione amministrativa». E deve essere proprio il disordine l’avversario di De
Mauro. La sua casa rispetta la grammatica dell’uomo di
tempra solida, la rigidità morale dei filosofi campani,
l’etica di Croce e l’empirismo di Vico. E c’è la stessa
essenzialità nelle sovrane maniere, nell’arredamento
delle sue stanze che divide con la moglie anch’essa
studiosa della lingua, nella libreria che è una
composizione immune da bizzarrie che invece di riempirsi
si svuota di libri, «li dono. Gli ultimi che ho regalato
sono testi dialettali». Perché la scuola è irriformabile? «Non si è mai riuscita
a riformare perché la classe politica, imprenditoriale
ha sempre nutrito una diffidenza verso l’istruzione.
Queste classi non amano la crescita del livello
d’istruzione. Norvegia e Finlandia erano paesi poveri ma
hanno puntato sull’istruzione a partire dalla bellezza
degli edifici. Qui gli unici edifici di valore sono
quelli di Reggio Emilia e Ferrara». Non sono le stesse
parole di Renzi? «Giuseppe Bottai che era un razzista,
ma un grande ministro, per i primi sei mesi preferì
ispezionare le scuole senza nessun preavviso. Questo
significa andare a vedere seriamente le scuole». Il
primo giorno di scuola con i ministri è stato solo
passerella? «No. E anche se fosse, meglio questa
passerella che Porta a Porta». Le riforme si
condividono? «In Francia è stata fatta una consultazione
sulla scuola, ma vennero prima formulate le domande. È
stato un metodo serio. La consultazione di Renzi non mi
sembra seria». Detesta la velocità? «La politica deve
essere veloce, ma la velocità è diversa dalla fretta.
C’è la voglia di accelerare di affrettarsi per poter
spendere eventualmente questi provvedimenti in una
competizione elettorale». Ha smesso di insegnare? «Da
quattro anni». Le manca? «Mi manca e tornerei. Negli Usa
non c’è un limite di età. Tuttavia è giusto lasciare il
passo». È un parruccone, un “professionista della
tartina” come dice il premier? «Mi sembra aria fritta
questa polemica». Si stanca a volte di leggere? «Di
leggere no, di leggere scemenze sì. Per i buoni libri ho
ancora tempo».
http://www.panorama.it/news/politica/tullio-de-mauro-scuola-renzi-vaga-cosi-passo-nel-vuoto/
Ieri l’incontro
Renzi-Giannini sulle linee guida
La
Stampa, del 02-09-2014, di Lorenzo Vendemiale
L’ultima rifinitura prima
del l’appuntamento decisivo, ancor più atteso dopo l’improvviso
rinvio della settimana scorsa. Matteo Renzi ha incontrato
Stefania Giannini per definire i dettagli della riforma della
scuola. Verrà annunciata domani, probabilmente sul nuovo sito
dei «Millegiorni », senza conferenza stampa (anche se qualcosa
potrebbe essere organizzato all’ultimo momento). Come
sottolineato dal premier, il pacchetto «è pronto da tempo»
grazie a «mesi di lavoro comune». Il vertice a Palazzo Chigi è
servito allora per chiarire gli ultimi punti della presentazione
(la Giannini mercoledì dovrebbe essere a Bruxelles). E un po’
anche per mettere a tacere le voci sui presunti dissapori tra i
due: dopo il mancato incontro della settimana scorsa, la
Giannini era stata inclusa nella lista dei ministri in bilico in
caso di rimpasto. Eventualità già smentita ma non del tutto
archiviata (anche se non sarebbe stata discussa ieri). Non c’è
ancora un provvedimento vero e proprio da illustrare, piuttosto
quattro-cinque linee guida su cui orientare il lavoro dei
prossimi mesi. Subito – ha spiegato Davide Faraone, responsabile
istruzione del Partito Democratico – partirà «una grande
consultazione con tutti i soggetti del la scuola ». Poi
comincerà la partita delle coperture, da definire nell’ambito
della Legge di stabilità: il governo si è impegnato per un
miliardo di euro, ma col Tesoro per il momento non c’è stato un
vero confronto. L’attesa maggiore è per il piano di immissioni
in ruolo, che dovrebbe coinvolgere direttamente circa 100mila
insegnanti da assumere, e indirettamente tutti i 500mila precari
iscritti nelle graduatorie, con un superamento dell’attuale
sistema di supplenze. È la misura più impegnativa anche dal
punto di vista economico: il Ministero spende già il 70% del suo
bilancio per gli stipendi del personale; e sulla realizzazione
del progetto pesano diverse incognite. Ma il sindacato Anief
insiste: «L’anno scolastico inizia con un posto su sette
scoperto. La stabilizzazione dei precari dev’essere la priorità
del governo e va fatta subito». Renzi ha comunque precisato che
la riforma «non si articola » su questo. E che «il Paese chiede
di valutare il lavoro degli insegnanti». Di sicuro, dunque, si
parlerà di revisione dell’attuale contratto, che consentirebbe
di introdurre criteri più meritocratici nell’avanzamento di
carriera (e forse anche di recuperare risorse). Ma sul tema
sindacati e insegnanti hanno sempre fatto le barricate. «Gli
scatti di anzianità non si toccano », avverte Rino Di Meglio,
dell’associazione di categoria Gilda. Il capitolo docenti
dovrebbe chiudersi con la riforma del sostegno ai disabili, con
una riorganizzazione quantitativa e qualitativa dell’organico .
Il resto riguarderà la didattica. Da una parte più informatica e
decisa accelerazione sull’alternanza scuola/lavoro (su cui è
arrivato il plauso di Confartigianato: «Giusto valorizzare
l’apprendistato)»; dall’altra recupero di materie tagliate in
passato, come storia dell’arte e geografia. Tutto nel report «La
buona scuola», di cui Renzi ha mostrato in conferenza stampa la
copertina: per il contenuto bisognerà attendere ancora 24 ore.
Le Linee guida domani sul
sito del governo. Pronta la piattaforma per la consultazione.
Renzi pronto a cedere sul piano di assunzioni, sì al turnover
ItaliaOggi. Del 02-09-2014,
di Alessandra Ricciardi
ll sito, passodopopasso.it,
c'è. Così come è stata ultimata la piattaforma su cui saranno
raccolte e analizzate le opinioni delle categoria e dei semplici
cittadini (molto simile, pare, a quello che l'ex ministro delle
riforme Gaetano Quagliariello strutturò per le consultazioni
sulle riforme istituzionali nel 2013). La macchina delle Linee guida sulla riforma della scuola insomma
è pronta. Così come lo slogan, «la buona scuola», che campeggia
sulla copertina del programma. Programma ormai definito. Matteo
Renzi ieri ha avuto un vertice con il ministro dell'istruzione,
Stefania Giannini, che è stato definito dai presenti molto
positivo. Domani le Linee guida andranno direttamente sul sito
passodopopasso che raccoglie il programma di governo dei
prossimi millegiorni. Salvo sorprese dell'ultima ora, non ci
sarà a Palazzo Chigi la conferenza stampa che avrebbe dovuto
dare peso, anche mediatico, alla riforma della scuola. «Per un
po' basta con le conferenze stampa», ha dichiarato ieri il
premier. Un ridimensionamento comunicativo che è conseguenza diretta, è
questo il rumors di palazzo, del ridimensionamento delle
immissioni in ruolo, il capitolo più atteso dall'esercito dei
500 mila precari. Il condizionale è d'obbligo, ma pare proprio
che il premier sia addivenuto a più miti consigli, rinviando,
almeno nell'immediato, il mega piano per 120 mila-130 mila
assunzioni da fare in un solo anno, il 2015. Quello che
concretamente può essere fatto, è stato detto dal Tesoro, è
assumere sui posti lasciati vacanti dai pensionamenti che ci
saranno nei prossimi tre anni e forse anche sui posti di ruolo
disponibili che normalmente vengono dati a supplenze annuali.
Tra l'altro, per questo vulnus, ossia la copertura dei posti di
organico di diritto con personale a tempo determinato per
periodi superiori ai tre anni, lo stato italiano potrebbe essere
a breve sanzionato dalla Corte di giustizia europea. In tutto si tratterebbe di immettere in ruolo 100 mila docenti
in tre anni. Un'operazione che tra l'altro aveva già avviato il
governo Letta. In tal senso era già pronto un accordo da
sottoporre alla firma dei sindacati per garantire la piena
invarianza economica delle nuove assunzioni: prolungamento del
servizio necessario a maturare il passaggio al secondo scatto
stipendiale. Per i nuovi assunti la prima posizione sarebbe di
durata 0-11 anni di servizio (come stabilito dall'ultimo
accordo), la seconda risulterebbe di durata 12-14. Una riduzione
in pratica del peso della busta paga in cambio dell'assunzione a
tempo determinato. Del resto, gli aumenti potrebbero invece arrivare con la
carriera, che è l'altro punto forte del programma di riforma per
la buona scuola. Per superare le critiche di chi però accusa il
governo di volere di fatto attuare il programma del
centrodestra, Renzi attende il consenso di chi nella scuola
lavora. In tal senso, il dettaglio sulla strutturazione della
carriera dei docenti potrebbe aversi più tardi, a gennaio quando
la consultazione sarà ultimata. Strettamente connessa alle
azioni di miglioramento del sistema, c'è poi la valutazione
nazionale degli istituti scolastici, già prevista dalla legge e
che inizierà da quest'anno. Il sistema è pronto, la relativa
direttiva è fatta, si attende solo la circolare per le scuole.. E poi c'è l'altro capitolo, quello delle misure per gli
studenti: più apprendistato, stage nelle imprese anche per i
liceali, apertura dei laboratori ai finanziamenti dei privati,
introduzione flessibile di alcune discipline, dalla storia
dell'arte alle superiori al potenziamento dell'inglese alle
elementari. E più nidi, raccogliendo in questo il consiglio
degli esperti di scuola del Pd. «La parola d'ordine di questo
governo è coinvolgimento, non riforme catapultate ma costruite
insieme», commenta Davide Faraone, responsabile scuola del
partito democratico.
Concorsi biennali. Fine degli organici di
diritto. Valutazione. Autonomia. Parità. Costi standard.«Se
Renzi ci sta, la pubblica istruzione mette le ali».
TEMPI, del 03-07-2014, di Luigi Amicone
INCONTRIAMO STEFANIA GIANNINI, ministro
dell'Istruzione, in una Roma subtropicale di sole che si
avvicenda agli scrosci d'acqua a catinelle. Sarà il monsone,
sarà che le vestigia della dinastia Flavia sembrano più recenti
dell'urbanizzazione recente, la città capitolina nell'anno 14
del secondo millennio sembra racchiusa in un aforisma di Kafka.
«Le carte della burocrazia sono le catene dei popoli». Varchiamo
la soglia del ministero da cui dipendono qualcosa come un
milione di addetti statali. E non c'è niente che rammenti una
possibile via di fuga dalle catene se non un lesto e impeccabile
portavoce del ministro (il manager giramondo Alessandro Leto,
«ma la famiglia non la porto in Italia, per adesso sta a
Ginevra, vedremo come andrà questa avventura»), lo stesso tonico
e allegro ministro, la sua silenziosa équipe. «Tra la fine di
luglio e gli inizi di agosto annunceremo con il presidente del
consiglio i provvedimenti che insieme a quelli sulle
infrastrutture completeranno l'agenda di riforme dei primi mille
giorni di governo Renzi», ci prospetta subito il ministro. Tu
vieni dalla notizia del suicidio di una ragazzina che si è
buttata giù dal tetto di una scuola a Forlì e capisci che per
quanto abbiano affidato ai sacerdoti delle procure di "fare
giustizia", la somma iniuria è proprio che non si riesca a fare
un passo oltre l'obitorio giudiziario. Altro vestibolo della
morgue? «L'accanimento terapeutico così lo definisce Giannini
con cui, in ambito scolastico e universitario, si è insistito e
riformato sul piano procedurale. Gli ultimi quindici anni di storia del sistema educativo
italiano è stato fatto sulle procedure». Riflettiamo: «Abbiamo
avuto quattro diverse forme di reclutamento del corpo docente e
l'interruzione del flusso di reclutamento medesimo. Risultato,
dati Ocse di settimana scorsa, l'Italia è il paese con gli
insegnanti più anziani, età media 48,9 anni e 50 per cento oltre
i 50». La scuola più vecchia del mondo Più in dettaglio
l'anagrafica della scuola italiana è la seguente: detiene il
primato della classe insegnante più vecchia (6 anni in più
rispetto alla media Ocse) ed è rappresentata per il 79 per cento
da donne. Il 39,2 per cento dei prof di scuola primaria e
secondaria ha tra i 50 e 59 anni, 1'11,1 60. Sotto i 40 anni
sono solo il 16,7 per cento e under 30 appena 11. Le ragioni di
questo nostro sistema che si regge sulle generazioni dai capelli
imbiancati? Lenin una volta disse: «Date a un capitalista
abbastanza corda e si impiccherà da solo». È quello che ha fatto
lo Stato con il '68. Da quella corda data ai profeti della
"scuola di massa", unica, centralizzata, uguale per tutti,
inquadrata nell'ideologia del funzionariatodemocrat, un esercito
di insegnanti, non docenti, bidelli, figure da stato
assistenziale (in cambio di un voto ai partiti assistenziali e
di una tessera sindacale) è andato a ingrossare le fila del
precariato. E così, una marea di azzeccagarbugli, leggi,
regolamenti, conflitti giuridici, corsi e controricorsi, piazze
in subbuglio, hanno infine prodotto muffa burocratica e infinita
"guerra tra poveri". Oltre che, ovviamente, l'annientamento di
ogni possibilità di liberare risorse per investimenti
nell'istruzione. Se oltre il 90 per cento della spesa pubblica per la scuola
finisce nei (miserabili) stipendi degli insegnanti e nei sussidi
all'esercito dei precari, cosa vuoi cambiare in un comparto che
da cinquant'anni funziona come "posto fisso statale", surclassa
nei costi la scuola paritaria che svolge lo stesso identico
servizio pubblico di quella statale (ma costa mediamente allo
Stato 500 euro ad alunno, contro i 7.319 euro che invece spende
per ogni allievo di scuola statale) e ha il "vantaggio" di
tenere unita per tutto il Regno una certa fissità ideologica e,
soprattutto, assicura un certo gigantesco serbatoio di voti? Al
via i concorsi biennali La categoria dei cosiddetti precari
storici, quelli delle graduatorie a esaurimento, consta di circa
170 mila unità. «Saranno riassorbiti in dieci anni», aveva
anticipato Giannini nella sua prima audizione in Senato. Come?
Nei concorsi a cadenza biennale, annuncia il ministro, «a
partire dal 2015, mentre già quest'anno mandiamo i test
preselettivi dei Tirocini formativi attivi» (Taf, porta di
ingresso all'insegnamento). Ma che tra questa "rivoluzione del
reclutamento" e una cattedra di insegnante ci sia di mezzo il
mare lo dicono i numeri. Per 147 mila candidati al concorso 2015
i posti a disposizione saranno solo 22.748. Gli aspiranti a una
cattedra sono per lo più donne (70 per cento) di età media 33,6
anni. Ma per i primi otto anni la metà delle cattedre
disponibili andranno ai precari storici, mediamente quarantenni
e over. Insomma, non si intravvede la fuoriuscita da un sistema
ingessato. Voi del "fenomeno" Renzi ci credete ancora alla luce
infondo al tunnel? «Per intanto cerchiamo di dare un taglio
netto all'impostazione che ha inchiodato il nostro modello
educativo a una prassi quasi esclusivamente procedurale e
proviamo a rispondere non alla domanda di quali nuove leggi ha
bisogno la scuola, ma per quale scuola e per quale società
vogliamo lavorare. E allora il disegno che stiamo pian piano
cercando di comporre non agisce sulle procedure, ma agisce sulla
visione». Concretamente? «Primo pilastro: la valutazione
necessaria. Se tu non riesci ad avere una misurazione
quantitativa e una valutazione qualitativa del processo
educativo, non sei poi in grado di verificare quali sono i punti
di forza e quali di debolezza del sistema, statale o non statale
che sia. Ci sono regioni come la Lombardia che hanno un sistema
educativo avanzato anche sotto questo profilo e aree del paese
in cui non è mai successo niente di tutto questo. Si è lavorato
molto bene sull'introduzione del sistema Invalsi che, a dispetto
del nome che scatena allergie, ha una sua nobiltà di intenti
perché va a diagnosticare e misurare le competenze molto
specifiche di due punti basilari: matematica e comprensione
linguistica testuale. Ma Invalsi da solo non è strumento
sufficiente, devi collegarlo e siamo al secondo pilastro a una
gestione autonoma e responsabile delle scuole». Interrompiamo il ministro e domandiamo se per "autonomia"
intenda finalmente qualcosa di più della libertà di gestire
carte. Per esempio: parliamo di autonomia nei termini auspicati
dalle berlusconiane Gelmini e Centemero ma anche dal
postcomunista Berlinguer e dal responsabile scuola del Pd
Faraone, ovvero, per dirla con un tweet della deputata renziana
doc Simona Malpezzi, «Scuola: diamo una reale autonomia
finanziaria e progettuale agli istituti»? I "pilastri" di una
rivoluzione Risposta del ministro: «Non voglio e non posso
anticipare le conclusioni tecniche e operative del provvedimento
istruzione che annuncerà il presidente del Consiglio alla fine
dei necessari approfondimenti che esige questo nostro dibattito.
Ma l'autonomia gestionale esiste già perché già c'è una legge
sull'autonomia delle scuole. Però se poi tu non dai al dirigente
scolastico e a cascata ai suoi docenti gli strumenti e i metodi
per esercitarla, l'autonomia rimane un nobile principio un po'
come la legge Berlinguer sulle scuole paritarie. La parità ce
l'abbiamo, no? Di che dobbiamo lamentarci? Già, ma se poi non
c'è ossigeno, non ci sono le risorse per attuarla concretamente,
la parità non significa niente. Dunque, personalmente mi aspetto
un provvedimento che realizzi una autonomia reale. Che non
significa arbitrio di gestione: significa che tu hai un budget.
Chiaro che per fare questo occorrono risorse adeguate». Dunque,
valutazione, autonomia, responsabilità. «E verifica delle
politiche di gestione. Perché se dai autonomia al dirigente
scolastico devi poi essere in grado di premiare o di ritirare
risorse». Altro? «Sì, vogliamo superare subito quell'altra
camicia di forza tipicamente italiana che sono i cosiddetti
organici di diritto. Si tratta sostanzialmente di un organico
programmato sulla base del numero degli studenti e che viene
assegnato da Roma in maniera rigida alle singole Regioni, poi da
lì alle singole circoscrizioni provinciali. Vogliamo trasformare
questo organico di diritto in organico tecnicamente chiamato
"funzionale", cioè modellato sulla realtà». Cosa significa?
«Significa avere i docenti secondo il bisogno, ovvero completare
gli organici là dove c'è necessità di completarli e alleggerirli
là dove questa necessità non c'è. Le assicuro che questa è una
rivoluzione attesa da molti anni dal mondo della scuola». Scusi,
l'altra rivoluzione attesa è il rispetto da parte dello Stato
italiano delle proprie leggi. La legge Berlinguer 62 dell'anno
2000 sostiene che il sistema della scuola pubblica italiana è un
tronco a due rami, la scuola statale e la scuola non statale
paritaria. D'altra parte siamo il fanalino del mondo libero. Nel
1950 le scuole non statali in Italia rappresentavano il 27 per
cento del nostro sistema di istruzione. Oggi sono più che
dimezzate e rappresentano solo il 12 per cento. Una tendenza
completamente opposta a quella di tutti gli altri paesi Ocse. In
Olanda, per esempio, le scuole non statali finanziate dallo
Stato perché riconosciute come parte del sistema pubblico di
istruzione sono addirittura il 71 per cento del totale. Cosa
aspetta l'Italia ad allinearsi all'Europa, stabilendo parità di
trattamento economico per tutte le scuole, ad esempio mediante
la definizione di un "costo standard" per studente? Cos'altro
occorre per buttare giù l'assurdo Muro di Berlino che resiste
solo in Italia? Un corso di perestroika tenuto da Gorbaciov per
spiegare (anche a qualche genio della Fondazione Agnelli) che la
Guerra Fredda è finita, sono finite le ideologie, viviamo in una
società aperta e plurale, "parità scolastica" non significa
"privilegi", non è "sottrarre risorse alla scuola pubblica", ma
è esattamente il contrario? C'è bisogno di un master ad Harvard
per capire che "pubblico" secondo la legge Berlinguer e secondo
tutte le leggi del mondo libero non è sinonimo di "statale"?
Ministro, il governo Renzi riuscirà ad abbattere questo muro?
«Guardi la mia sensazione è la seguente: premesso che ? ?i tempi
sembrano maturi perché questo possa avvenire e dico "maturi"
perché c'è un indirizzo garbatamente rivoluzionario in questo
governo mi parrebbe curioso che nell'ambito della scuola questa
coraggiosa azione di riforma strutturale non avvenisse. Però le
dico "sì", se e solo se: primo, si riesce a fare per la scuola
quello che si è fatto col decreto Poletti sul lavoro, cioè ci si
libera di alcuni pregiudizi culturali. Perché la confusione da
lei citata tra pubblico, privato e, vado avanti
absitiniuriaverbis, pubblico-privato-cattolico-clericale, perché
questa è la filiera semantica, è frutto di una struttura
pregiudiziale del dibattito italiano sino ad oggi. Questo è un
dato oggettivo. Pensi alla discussione veramente fuorviante che
abbiamo avuto lo scorso anno a proposito del referendum sulle
scuole paritarie a Bologna. Mi stupì che anche persone di alto
livello culturale sostenessero allora proprio ciò che ha
censurato lei, e cioè che pubblico è sinonimo di statale. Questo
no. Questo non è così. Ma non è così oggettivamente. Tu devi
distinguere tra servizio e gestione che più attori debbono e
possono svolgere, e finalità e obbiettivi che nel campo
dell'istruzione si riassumono in un'educazione di qualità
ispirata a modelli plurali. Perché è questo ciò che una società
avanzata deve fare. Voglio dire, lo facevano i classici greci!
Sarebbe singolare che in età postmoderna si ritornasse a
qualcosa che è addirittura precedente alla classicità. Dunque,
per prima cosa occorre che ci si liberi da questi pregiudizi e
credo che ci siano delle buone condizioni perché ciò possa
avvenire». Esemplifichiamo. «La prima condizione è che la parità
scolastica non sia più un tema di parte e, per dirla
brutalmente, il tema di una certa sinistra che è contro il
paritario perché diventa privato, perché diventa cattolico e
perché diventa clericale. Ma è e deve essere un tema condiviso
alla luce di uno schema europeo e di un principio di libertà di
scelta educativa che è principio inoppugnabile, qualunque sia la
politica alla quale si appartenga». Una scuola alla Robben Altre
condizioni? «Sì, il governo può abbattere quel muro, se e solo
se ci saranno risorse aggiuntive per questo capitolo». Oddio. Ma
per recuperare risorse non basterebbe introdurre il "costo
standard"? Lo state facendo con la riforma della Pa. Ma le
sembra possibile che nelle condizioni attuali di già ampio
disagio strutturale, quando il governo valuta a tre miliardi il
costo di interventi sul solo versante dell'edilizia scolastica,
si registri l'incredibile divario tra statale e non statale, per
cui il costo medio di ogni studente statale supera i 7 mila euro
anno, così, di default, sia lo studente scolarizzato a Scampia o
lo sia a Bolzano; sia che frequenti un istituto statale
sgarrupato come quello dei famosi alunni del Marcello d'Orta o
l'aristocratico liceo classico statale Berchet di Milano? È
difficile trovare scuole paritarie (e perfino scuole private di
eccellenza) con rette superiori ai 7 mila euro... Non pensa che
la definizione di un "costo standard" per studente consentirebbe
di risparmiare e reperire risorse adeguate da ripartire
equamente tra scuole statali e scuole non statali che svolgono
lo stesso identico servizio pubblico? «Ci stavo arrivando.
Infatti la terza condizione è l'applicazione del "costo
standard". Ergo, la dimostrazione che se per assurdo le due
condizioni dette sopra non si realizzassero, magari non sotto il
governo Renzi ma tra cinque-sei anni, il sistema delle paritarie
si spegnerebbe. Ma se si spengono le paritarie, saranno 6
miliardi e spiccioli in più che graveranno sul bilancio del già
oneroso bilancio dello Stato. Dunque, al di là delle
considerazioni culturali e di principio fatte sopra, mettiamoci
pure la benda della cecità politica: a noi Stato italiano cosa
conviene? Alla fine ci conviene parità e costo standard».
Esatto. Infatti il simpatico conto della serva fatto da uno
studioso della Fondazione Agnelli in un articolo per il Corriere
della Sera ha due limiti evidenti: primo, che non siamo più
all'epoca per cui tu fai l'accordo col Pcus e via tutti a
produrre Fiat a Togliattigrad. Fuor di metafora: in base a quale
principio europeo vuoi obbligare gli studenti delle paritarie ad
andare a prendere un posto a tavola nelle statali? Secondo
limite: vuoi far risparmiare lo Stato ma non gli chiedi di fare
economia di scala sulla base del sistema che costa di più, ma su
quello che costa di meno. Dunque, il ragionamento della
Fondazione Agnelli andrebbe rovesciato. O meglio, andrebbe
applicato fino alle sue ultime conseguenze: abolizione della
scuola di Stato e libera concorrenza di scuole non statali. In
questo modo avrai la sicurezza matematica che la concorrenza
abbatterà i costi dell'istruzione (d'altronde, cari Agnelli, ma
se nel mondo libero le scuole non statali sono in crescita
esponenziale una ragione ci sarà e non sarà certamente di natura
confessionale, ma squisitamente culturale, economica e di
efficienza). Dunque, allo Stato italiano conviene passare da un
sistema scolastico che non esiste più neanche a Togliattigrad a
un sistema alla olandese che produce i Robben così noi tifosi
speriamo dopo l'eliminazione dei nostri campioni del
mondo.
Nel nuovo piano stipendi più alti orari e
flessibilità Una legge delega per cambiare l'istruzione in
Italia. Nel piano del ministero l'apertura pomeridiana degli
istituti e l'estensione a 36 ore di tutti i docenti di ruolo.
Resta il nodo dei precari storici.
l'Unità, del 03-07-2014
Una legge delega per cambiare verso alla scuola
italiana. Con apertura degli istituti anche di pomeriggio,
orario a 36 ore settimanali per tutti i docenti di ruolo con un
aumento dello stipendio ma solo per chi svolga incarichi
supplettivi particolari, cancellazione delle supplenze brevi e
delle graduatorie di istituto, e molto altro. A questo lavora al
Miur il sottosegretario Roberto Reggi con il gruppo chiamato a
elaborare proposte sulla carriera degli insegnanti (su cui è
arrivata anche un'indicazione Ue per una maggiore
diversificazione dei percorsi dei docenti), con l'obiettivo
appunto di portare una bozza di legge sul tavolo del premier
Renzi tra meno di 15 giorni. Al centro dell'impianto una parola
chiave, flessibilità, e una figura, quella del dirigente
scolastico chiamato a gestire tutta l'organizzazione degli
orari. Un impianto che non dovrebbe comportare costi aggiuntivi
ma piuttosto risparmi, per 1.5 miliardi, grazie appunto
all'addio alle chiamate esterne per supplenze inferiori ai 15
giorni (gli assenti saranno sostituiti dai colleghi di ruolo
dello stesso istituto). Ma anche all'ipotesi di taglio di un
anno nel percorso delle superiori, da ridurre da 5 a 4 anni. Si
prevedono poi l'apertura prolungata fino a sera degli istituti e
il calendario allungato fino a luglio, per costruire l'idea di
una scuola come «spazio educativo permanente», dove possa
studiare chi deve recuperare e più in generale aperta al
territorio e alle sue associazioni. Per fare questo però il
governo chiederebbe «la disponibilità» degli insegnanti a un
impegno di 36 ore settimanali, il doppio delle attuali 18 ore di
lezione in classe delle superiori (si arriva a 24 e 25 in
materne ed elementari). In cambio, oltre agli scatti stipendiali
ci sarebbero premi per i docenti che prestano il tempo eccedente
le lezioni a ruoli di coordinamento, «al recupero, alla
formazione di altri docenti, a laboratori di musica inglese o
informatica piuttosto che al supporto amministrativo», spiega il
sottosegretario. Insomma si guadagnerà di più, ma solo lavorando
di più. Una filosofia già anticipata dal ministro Giannini.
Quanto agli aumenti contrattuali "di base" (a prescindere cioè
da nuove funzioni da ricoprire) che sindacati e insegnanti
chiedono a gran voce da tempo per adeguare ai livelli europei un
contratto bloccato da 7 anni, «su quelle ragioneremo, non ho
risposte a tutto. Sono un ingegnere ricorda Reggi -, ho in mente
un modello che mutua da altre esperienze di tipo aziendale». FLESSIBILITÀ E RISORSE AGGIUNTIVE Il sottosegretario cerca di
parare le critiche che già travolsero analoghi progetti.
Critiche centrate su un dato di fatto: le lezioni rappresentano
solo una parte dei compiti dei docenti, tra preparazione,
correzioni, progetti e rapporti con le famiglie già oggi si va
ben oltre la fantomatica soglia delle 18 ore. «Se ognuno sta
fermo sulle proprie posizioni non si vince la sfida del
rinnovamento della scuola arringa allora Reggi -. E se vado al
Ministero dell'Economia con un nuovo Patto per la scuola, come
questo, e più flessibilità ho certo più possibilità di portare a
casa risorse aggiuntive». Un nodo, quello delle risorse, su cui
sindacati e docenti vorrebbero il vero cambio di passo dopo anni
di tagli. Reggi auspica intanto che «il bilancio del Miur
rimanga stabile per i prossimi tre anni, altrimenti è
impossibile fare una buona programmazione». La rassicurazione
per gli insegnanti è che «così realizzeremo veramente
l'autonomia scolastica, sarà ciascun dirigente a valutare come
usare al meglio le singole risorse umane. So che già oggi c'è
chi fa anche più di 40 ore, ora chi continuerà così ma a scuola
avrà degli incentivi, chi non potrà o non se la sentirà si
accorderà con il dirigente». Resta da chiarire come il «Patto
sulla scuola» gestirà l'anomalia italiana degli oltre 150 mila
precari storici e strutturali. La proposta indica assunzioni
dalle Graduatorie a esaurimento finché non saranno svuotate.
Dunque ci saranno 150 mila assunzioni? «So che abbiamo un
precariato di qualità, un bacino di insegnanti formati, è un
tema aperto e un problema che andrà affrontato», ammette Reggi.
Assicurando che comunque le assunzioni «saranno moltissime, tra
il 2017 e il 2022 andrà in pensione il 40% dei docenti». La
svolta immaginata da Reggi dovrebbe arrivare appunto per via
legislativa, per poi aprirsi «a un momento di consultazione
generale: siamo solo all'inizio di un percorso e tutti potranno
migliorare questa che è la mia personale proposta. Spero venga
accolta senza pregiudizi».
Se l’istruzione pubblica è in questo stato
non è solo per la crisi. E se deve essere rifatta non è solo
nelle mura. Bisogna mutare strada rispetto a quella battuta
la Repubblica.it, del 12-06-2014, di Adriano
Prosperi
CI SONO tante emergenze nel nostro paese. Ma
il rapporto del Censis sugli edifici scolastici statali e le
lettere dei sindaci al premier Renzi ne segnalano una
gigantesca. Edifici vetusti, cadenti, pericolosi per
l’amianto o perché il tetto e le mura non ce la fanno più.
Lo chiamiamo patrimonio edilizio, ma più che un patrimonio è
un debito: è vecchio, arretrato, è stato lasciato indietro
mentre l’edilizia privata conosceva il boom. È tempo di
cambiare marcia. Ma se la scuola statale è in questo stato
non è solo per la crisi finanziaria e il patto di stabilità.
E se deve essere ricostruita non è solo nelle mura e nei
soffitti, negli impianti e nella eliminazione di rischi per
la salute. Bisogna mutare strada rispetto a quella battuta
da tempo: non solo in Italia. Quella che ci ha portato qui è una strada lunga: e si è
aperta davanti alle classi dirigenti e all’opinione pubblica
quando ha vinto la convinzione che la scuola dovesse essere
assoggettata alle leggi del mercato capitalistico. Leggi
nuove: all’idea della scuola pubblica come canale formativo
del cittadino e luogo di accesso ai più alti gradi del
sapere sono subentrate le leggi della concorrenza per
attirare i clienti-studenti e dell’efficienza che obbligava
a sfornare un “capitale umano”. Inutile spreco è apparso
l’obbligo dell’insegnante di formare l’allievo come
personalità matura e cittadino cosciente dei suoi diritti e
doveri. Occorreva addestrarlo per essere immesso sul
mercato. Questa la dottrina entrata in vigore nel mondo
occidentale coi governi di Margaret Thatcher e con Ronald
Reagan negli Usa. Dunque, scuole pubbliche e private
entravano in concorrenza. La svolta fu segnata negli Usa dal
rapporto 1983 della commissione insediata da Reagan che
denunziava lo stato fallimentare del sistema scolastico: la
signora Thatcher ne seguì l’esempio con l’Education Reform
Act del 1988. Non parliamo delle conseguenze nel mondo anglosassone:
importa invece osservare quelle che si ebbero in Italia. Il
nostro paese aveva all’epoca una scuola pubblica e una
università tutt’altro che disprezzabili, anche se messe a
dura prova nelle loro strutture da un aumento della
popolazione scolastica — dovuto al progresso economico e
sociale del paese che viveva un primo avvio di correzione
della ripartizione della ricchezza. Anche l’Italia subì gli
effetti della nuova dottrina. Qui l’unica forma di
concorrenza possibile era tra scuola pubblica e scuole
confessionali: in quella direzione fu accelerato il flusso
dei finanziamenti e si moltiplicarono le forme di servilismo
verso le istituzioni educative di marca confessionale. La
scuola pubblica dovette aprire le sue porte a insegnanti di
religione nominati dai vescovi, in barba alla Costituzione.
Da allora lo smantellamento della scuola pubblica e
dell’università non ha conosciuto interruzione. Si poteva
sperare qualcosa dalla costruzione europea. Ma qui ci siamo
trovati davanti alla vittoria di un’idea di modernizzazione
che recepiva in pieno il dogma liberista. Intanto, da noi si
è venuta scatenando nella comunicazione pubblica
un’offensiva tesa a convincere che è inutile perdere tempo a
scuola. Siamo precipitati all’ultimo posto in Europa come
percentuale di laureati e continuiamo a discendere nelle
statistiche sul grado di istruzione della popolazione, la
quantità di libri letti, la conoscenza e il rispetto del
nostro patrimonio culturale. È una corsa all’indietro che talvolta si veste di nuovi
panni e si maschera da volontà riformatrice. Di recente la
ministra Giannini ha promesso di abolire i concorsi
universitari: non riformarli, non ricondurli alla funzione
di selezionare realmente i migliori, non liberarli dalle
pastoie di leggi scritte e non scritte, di bardature
burocratiche soffocanti: no, cancellarli. Eppure la
Costituzione, recependo un principio fondamentale della
cultura illuministica, impone che agli impieghi nelle
pubbliche amministrazioni si acceda mediante concorso: e
ricorda che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo
della Nazione. Con l’abolizione dei concorsi il carattere
pubblico, statale, di scuola e università si intenderebbe
forse anch’esso cancellato? E quali interessi privati si
sostituirebbero così all’interesse pubblico, che è o
dovrebbe essere quello primario di tutto l’ordinamento
scolastico?
Le somme accantonate a fine novembre
(250milioni di euro circa) servono tutte per pagare gli
scatti di anzianità
La Tecnica della Scuola.it, del 12-06-2014,
di Reginaldo Palermo
Le somme accantonate a fine novembre
(250milioni di euro circa) servono tutte per pagare gli
scatti di anzianità. Per il futuro la situazione non potrà
che peggiorare dal momento che fra qualche mese si aprirà
anche la questione degli scatti maturati nel 2013. Per capire meglio i numeri contenuti nell’accordo
sottoscritto fra Aran e sindacati in materia di scatti di
anzianità bisognerà forse attendere la firma definitiva che
ci sarà dopo il visto del MEF e quindi non prima della metà
di luglio. Per intanto una cosa è già chiara e riguarda le risorse del
fondo di istituto dell’anno in corso che erano state
concordate fra Ministero e sindacati a fine novembre. In quell’accordo, infatti, si era partiti dalla somma
dell’anno precedente (984milioni di euro) e si era
ipotizzato che se ne dovessero tagliare circa 230milioni per
pagare gli scatti (il costo totale è di 350milioni, ma 120
derivano dai risparmi di sistema derivanti dalla riduzione
degli organici). Si disse allora che, per maggior sicurezza, alle scuole
sarebbe stata assegnata una somma complessiva di 521milioni
restando inteso che - alla fine di tutti i conti - sarebbe
stato forse possibile riassegnare qualche decina di milioni
di euro in più alle istituzioni scolastiche. Adesso, arrivati alla conclusione di tutta la procedura, si
scopre però che tutta la somma accantonata a suo tempo (e
cioè circa 450milioni) è interamente necessaria per coprire
il costo degli scatti: 124 milioni verranno recuperati dal
fondo di istituto dell’esercizio finanziario 2013 e 550
dall’esercizio finanziario 2014. I fondi per il 2014/2015 sembrano solo sfiorati dall’accordo
odierno, ma in realtà quando si dovrà esaminare il problema
degli scatti maturati nel 2013 il problema si ripresenterà e
in modo decisamente drammatico, perché a quel punto
bisognerà intaccare il fondo di altri 350milioni di euro o
forse anche più. Nel commentare l’intesa raggiunta oggi da Aran e sindacati
il Ministro ha detto che adesso si tratta di darsi da fare
per ripristinare adeguatamente il fondo di istituto. Ma a dire il vero non si capisce proprio come si possano
reperire e risorse necessarie.
ScuolaOggi.org, del 20-03-2014, di Simonetta
Fasoli
La scuola e le sue politiche tornano ad
essere tra le priorità dichiarate e a quanto sembra
realmente perseguite nell'agenda di governo: il lancio di un
piano per l'edilizia scolastica, annunciato e oggetto di
provvedimenti a breve-medio termine da parte dell'Esecutivo,
sta a segnalare un'inversione di tendenza di cui non
possiamo che compiacerci. Tuttavia, quando si ragiona in
termini di interventi ”strutturali”, contestualmente alle
strutture materiali in cui quotidianamente si fa scuola, si
deve pensare a quegli aspetti non immediatamente visibili ma
altrettanto sostanziali che attengono agli assetti
istituzionali, organizzativi, gestionali. Anche sotto questo
profilo è urgente un investimento di natura
politico-culturale da parte dei decisori politici,
accompagnato da un rilancio del dibattito tra tutti gli
attori del sistema, a partire dalla stessa società in tutte
le sue articolazioni, anche quelle variamente organizzate.
Il punto focale di questo movimento non può che essere
l'autonomia scolastica, più che mai ineludibile nella
prospettiva della riforma del Titolo V°, altro nodo cruciale
nell'agenda politica. E' maturo il tempo per superare
definitivamente una concezione riduttiva dell'autonomia
quale quella che abbiamo visto consolidarsi nell'ultimo
decennio, sotto una duplice forma: da un lato, la ripresa
neanche tanto strisciante di spinte neocentralistiche, che
ne hanno depotenziato la carica innovativa a favore di una
pura dislocazione di procedure amministrativo-burocratiche;
dall'altro, il prevalere di una deregulation senza
correttivi, che ha abbandonato le istituzioni scolastiche
al destino di antiche e nuove disparità. Bisogna dunque
ripensare l'autonomia all'interno di un sistema delle
autonomie, dentro un quadro nazionale unitario. In questa
prospettiva, si rende indispensabile procedere alla
definizione dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni):
non è solo un atto dovuto, la collocazione di un tassello
mancante nel disegno complessivo degli assetti. E' molto di
più: bisogna pensare i LEP come “presidio di diritti”, per
cui diventano parte del patto educativo e criterio per
un'effettiva rendicontazione. Si segnala, al riguardo,
l'interessante articolato del Disegno di legge 1260 (Puglisi
e altri ) attualmente in discussione presso la 7^
Commissione al Senato, che disciplina il sistema integrato
di educazione e istruzione 0-6 anni : all'art. 6 troviamo
definiti proprio i LEP relativi al sistema delineato. E' a
tutti evidente che si tratta di una decisione di natura
schiettamente politica, e proprio per questo ineludibile. Un
intervento contestuale ritengo debba riguardare il governo a
livello di singola istituzione scolastica, con la ripresa
dell'azione legislativa in materia di revisione degli OO.CC.
Si tratta di raccordare i diversi testi depositati agli atti
parlamentari, rendendoli coerenti con le istanze complessive
della governance, nella prospettiva delle riforme, per
arrivare in tempi rapidi, operate le necessarie mediazioni,
ad un esito concreto. La scuola non può permettersi di
restare in una posizione fragile, e in definitiva
subalterna, rispetto ai suoi interlocutori sul territorio,
per mancanza di strumenti di indirizzo e di gestione
adeguati alla sua funzione e alle crucialità della posta
in gioco: superati gli steccati di natura ideologica,
bisogna pensare a dispositivi che possano garantire la
rappresentatività di tutte le componenti della scuola e del
territorio, l'effettiva possibilità di partecipare al
processo decisionale, nel rispetto di ruoli e prerogative,
la collegialità sostanziale che valorizzi saperi e
competenze dei diversi soggetti, la democrazia interna
capace di coniugare efficacia dell'azione ed espressione
della libertà di insegnamento sancita costituzionalmente.
Finora ci si è soffermati, seppure sinteticamente, su
elementi di “cornice”; ma questa disamina sarebbe monca,
senza una ricognizione che riguardi anche i “contenuti”. Su
questo terreno, la vera riforma sta, per così dire, scritta
già nel passato; si tratta di compiere un passo che nel
nostro sistema-Paese suona spesso “rivoluzionario”: dare
attuazione a quel che c'è. Mi riferisco al Regolamento
dell'autonomia (D.P.R. 275/99) che a suo tempo intese
tradurre un disegno istituzionale in quelle che uso definire
“immagini di funzionamento”. Non si tratta solo di
aspetti, pur fondamentali, di natura gestionale, ma anche
delle risorse normative per sostenere quell'autonomia di
ricerca, sperimentazione e sviluppo che sembra essere, in
definitiva, la ragion d'essere dell'intero disegno e che può
portare a sistema le buone pratiche realizzate nelle scuole.
Se è l'innovazione l'orizzonte di senso dell'autonomia, essa
postula la ricerca e la sperimentazione come proprio volàno
e guarda allo sviluppo, anche professionale, come fine e
strumento. Stanno scritti nell'articolato del Regolamento
quei dispositivi di organizzazione didattica, di
flessibilità virtuosa che permettono di modulare i percorsi
secondo criteri di individualizzazione (non di
“personalizzazione”, che interviene invece differenziando
all'origine gli obiettivi), di articolazione del
gruppo-classe inteso come ambiente di apprendimento e non
mera unità amministrativoburocratica. Perché tutto questo
scenda dall'empireo delle buone intenzioni sul terreno della
fattibilità sono necessarie anzitutto risorse professionali
e materiali adeguate, in netta controtendenza rispetto alle
politiche di tagli lineari e indiscriminati operati dagli
Esecutivi precedenti (spesso nel silenzio assordante della
cosiddetta società civile...). Anche questa è una riforma
“strutturale” che interpella la responsabilità degli attuali
decisori politici. L'individuazione dei “contenuti”
intercetta necessariamente una questione fondamentale,
quella del tempo-scuola. Sull'argomento molto è stato detto,
volta a volta per ribadire, chiarire, fraintendere.
Nell'economia di questo contributo, basterà partire da
un'ovvietà troppo spesso rimossa: non c'è processo
educativo, né percorso di insegnamento-apprendimento che non
si misuri con la variabile del tempo, che perciò non è mai
neutrale. Stiamo parlando di un tempo-scuola inteso come
“tempo educativo”, e non come sommatoria di orari
giustapposti e frammentati, come è accaduto
nei provvedimenti dell'ultimo decennio: il tempo frutto di
una proposta organica che strutturi l'esperienza dei ragazzi
e delle ragazze in modo che possano costruire cultura,
consapevolezza e competenze sociali. Ancora una volta,
disegno complessivo, risorse e contenuti si saldano
in un'unica visione, come parti di un'unica strategia.
L'organico funzionale (altrimenti detto, non a caso,
“organico dell'autonomia”) è la tessera che idealmente
chiude questo quadro, che non pretende di essere esaustivo,
ma si propone di essere paradigmatico. Componendo esigenze
gestionali, dispositivi didattici, scelte progettuali,
emerge con tutta evidenza che i criteri attuali di
determinazione dell'organico, ancorati a parametri
puramente numerici e a dati quantitativi, non solo sono
obsoleti, pensati per una scuola fordista che non sta
più nelle cose, ma diventano fattori moltiplicatori di
iniquità e punti di rottura del sistema. Vale la pena, al
riguardo, porre qualche questione. Si parla di “organico di
rete”: bene, forse è il caso di sgomberare il campo da
ambiguità e confusioni. L'organico di rete è funzionale ad
una progettualità territoriale che ha un senso: sostiene lo
scambio professionale, accompagna le singole istituzioni
scolastiche verso una prospettiva meno angusta ed
autoreferenziale, le aiuta a pensarsi, appunto, come parti
di un sistema educativo e non come protagoniste di
competizioni e lotte darwiniane all'interno di un
territorio. Ma l'organico di rete, nella prospettiva in cui
stiamo ragionando, non può essere l'alternativa secca
all'organico funzionale di istituto, che resta invece
l'opzione necessaria per il progetto di scuola: in
quest'ottica, la certezza e la continuità delle risorse,
professionali e materiali, vanno assicurate alla singola
istituzione scolastica. Mi avvio alla conclusione, senza
aver fatto cenno esplicito nemmeno una volta alla “scuola
inclusiva”. Non è un'omissione, ma una scelta intenzionale.
Sul principio che la scuola debba essere inclusiva (mi
spingerei ad affermare che una scuola non inclusiva è una
sorta di contraddizione in termini, oltre che un vulnus
costituzionale) siamo tutti d'accordo, se non altro per
osservanza delle retoriche politiche. Il punto dirimente è
compiere le scelte strategiche, di natura culturale prima
ancora che politica, per farlo valere. Partendo da alcune
condizioni e priorità come quelle indicate in questo
contributo.
Parlando a Radio 1, il Ministro dice che è
giunta l’ora di valorizzare chi lavora meglio:
La Tecnica della Scuola.it, del 20-03-2014
Parlando a Radio 1, il Ministro dice che è
giunta l’ora di valorizzare chi lavora meglio: altrimenti
quel poco che c'è, non solo non serve a migliorare la
qualità complessiva ma neppure a valorizzare le singole
persone. Anche perché gli insegnanti italiani, a differenza
dei colleghi europei, non hanno alcuna prospettiva di
carriera. Però i diretti interessati spingono per un
adeguamento della busta paga almeno al costo della vita. Il
responsabile del Miur parla anche di spending review: mi
stupirei se ci fossero tagli di risorse già prosciugate
negli anni. Dal ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, continuano
ad arrivare segnali di apertura verso gli incentivi
stipendiali limitati alla frangia di docenti più meritevoli.
Stavolta ne ha parlato a Radio 1, la mattina del 20 marzo,
mentre si discuteva degli stipendi degli insegnanti. Il
ministro non ha perso l’occasione per bacchettare i
rappresentanti dei lavoratori. "Se si fa la contrattazione e i sindacati spingono solo per
salvaguardare il minimo garantito per tutti e non per
valorizzare chi lavora meglio – ha tenuto a dire - quel poco
che c'è, non solo non serve a migliorare la qualità
complessiva ma neppure a valorizzare le singole persone". Il ministro ha poi aggiunto: "non è solo una questione di
meno soldi - ha detto - ma di soldi spesi male. Gli
insegnanti italiani, a differenza dei colleghi europei, non
hanno alcuna prospettiva di carriera nel senso di
differenziazione di funzioni che vengano riconosciute,
valutate e premiate". Insomma, sul nuovo contratto la sua
posizione è ormai chiarissima. Resta da capire quanta
intenzione hanno i sindacati di contrastarla: dalla base,
dai lavoratori, infatti ci sono forti spinte per attuare un
aumento generalizzato. Soprattutto dopo che nell'ultimo
triennio il blocco dei contratti ha determinato il sorpasso
dell'inflazione sulle buste paga. A proposito della eventualità che la scure della spendig
review si abbatta anche sul settore dell'istruzione, il
responsabile del Miur si è invece vestita quasi da
sindacalista del settore. "Mi stupirei se ci fossero tagli
di risorse che già sono state prosciugate negli anni", ha
detto Giannini. Per poi sottolineare che "se ci fosse una
distrazione del genere nell'ambito del governo o di un
Consiglio dei Ministri che ha messo questo tema come una
bandiera al centro dell'agenda politica, dovrei essere a
ricordare che ciò non è coerente con quanto abbiamo detto.
Certamente non si fanno miracoli ma - ha concluso - bisogna
avere il coraggio di investire, l'ambizione di migliorare il
sistema e spendere meglio quello che c'è". Nei prossimi
giorni capiremo se il ministro dovrà sgomitare in CdM oppure
se il suo dicastero, come è stato più volte indicato dai
rappresentanti del Governo Renzi, verrà esentato dai
“ritocchi” del piano Cottarelli.
No secco dei rappresentanti dei lavoratori
all’invito di Giannini di abbandonare la difesa degli
aumenti stipendiali a ‘pioggia’. Pantaleo (Flc-Cgil): se
vuole premiare pochi e penalizzare tutti gli altri non ci
stiamo.
La Tecnica della Scuola.it, del 20-03-2014 No secco dei rappresentanti dei lavoratori all’invito di
Giannini di abbandonare la difesa degli aumenti stipendiali
a ‘pioggia’. Pantaleo (Flc-Cgil): se vuole premiare pochi e
penalizzare tutti gli altri non ci stiamo. Scrima (Cisl): è
paradossale che si polemizzi sui contenuti di una
contrattazione ancora inesistente. Di Menna (Uil): getti il
cuore oltre l'ostacolo e faccia una proposta. Pacifico (Anief):
ormai gli insegnanti guadagnano meno degli operai, perché il
Ministro non dice che meritano tutti uno stipendio
dignitoso? I sindacati in blocco rispediscono al mittente, il ministro
Giannini, gli inviti ad abbandonare la linea della difesa ad
oltranza degli aumenti stipendiali a ‘pioggia’. "Se si fa una contrattazione e se anche le forze sindacali
spingono sempre e soltanto per salvaguardare il minimo
garantito a tutti e non per valorizzare chi lavora meglio -
aveva detto in mattinata il ministro
ai microfoni di Radio 1 -
quel poco che c'è non solo non serve a migliorare la qualità
complessiva ma nemmeno a valorizzare le singole persone".
"Non è solo una questione di meno soldi - ha aggiunto - ma
anche di soldi spesi male. Gli insegnanti italiani, a
differenza dei colleghi europei, non hanno alcuna
prospettiva di carriera, non solo nel senso di una
progressione, di un avanzamento, ma nel senso di una
differenziazione di funzioni (dal coordinamento alla
direzione di progetti) che vengano riconosciute, valutate e
premiate". Le dichiarazioni di Giannini hanno determinato, nel corso
della giornata, una serie di reazioni indignate da parte dei
rappresentanti dei lavoratori. "Siamo pronti a discutere di valorizzazione professionale
dei docenti ma nell'ambito dei rinnovi contrattuali, se
invece la Ministra Giannini vuole premiare pochi e
penalizzare tutti gli altri troverà la nostra ferma
opposizione" replica il segretario generale della Flc-Cgil, Domenico
Pantaleo, invitando il Governo a a rinnovare il contratto
dei lavoratori pubblici. "Basta con le polemiche assurde, si rinnovi il contratto" ha
commentato il segretario generale della Cisl
Scuola, Francesco Scrima, giudicando le parole del ministro
"irrispettose non tanto per i sindacati quanto per i
lavoratori della scuola, delle cui retribuzioni la ministra
è evidentemente all'oscuro". "E' persino paradossale, a dire
il vero - ha concluso il leader della Cisl Scuola - che si
polemizzi sui contenuti di una contrattazione di cui al
momento non si vede nemmeno l'ombra". Il segretario della Uil Scuola, Massimo Di Menna, il
ministro Giannini "evoca una sorta di miracolo di San
Gennaro". E spiega perché: "Mentre i Governi Berlusconi,
Monti, Letta hanno bloccato i contratti, fermato le
retribuzioni e, nel solo 2013, è stato disposto un prelievo
di 300 milioni dalle retribuzioni senza destinarli alla
valorizzazione professionale, è colpa dei sindacati se non
c'è il miracolo". Invita quindi il ministro a "gettare il
cuore oltre l'ostacolo", a fare una proposta concreta di
valorizzazione e di possibilità di carriera e - assicura -
"ci troverà disponibili per un rapido negoziato e anche con
la firma pronta". Esterrefatta la Gilda. "Le esternazioni della Giannini
dimostrano che il ministro non conosce affatto la drammatica
situazione in cui si trovano gli insegnanti italiani a causa
di una politica miope basata su tagli continui e
indiscriminati" dichiara il coordinatore nazionale, Rino
Di Meglio,
aggiungendo di non capire "questi attacchi apodittici al
sindacato che il ministro non si è degnato neanche di
salutare dopo il suo insediamento a viale Trastevere". "Gli insegnanti guadagnano meno degli operai, il Ministro
dovrebbe saperlo" ricorda Marcello Pacifico, presidente
dell'Anief. Che a Giannini non le manda a dire: "le
istituzioni e la politica devono garantire uno stipendio
dignitoso. Trovando le risorse adeguate: il prossimo rinnovo
contrattuale del comparto Scuola diventa quindi il banco di
prova per capire se questo Esecutivo è in grado di fornire
tale prerogativa. Se il Ministro non lo comprende o non è
d'accordo, allora faccia pure un passo indietro". Il nodo della questione, insomma, è sempre lo stesso: il
rinnovo del contratto. E dalle premesse non sarà facile
arrivare ad una mediazione. Soprattutto se i fondi a
disposizione saranno esigui.
L’invito radiofonico (Rai 1) rivolto dal
ministro Stefania Giannini ai sindacati a smettere di
“salvaguardare il minimo garantito per tutti” e a
valorizzare invece “chi lavora meglio” ha suscitato un coro
di proteste da tutte le organizzazioni dei lavoratori della
scuola, confederali e autonome.
Tuttoscuola.it, del 21-03-2014
L’invito radiofonico (Rai 1) rivolto dal
ministro Stefania Giannini ai sindacati a smettere di
“salvaguardare il minimo garantito per tutti” e a
valorizzare invece “chi lavora meglio” ha suscitato un coro
di proteste da tutte le organizzazioni dei lavoratori della
scuola, confederali e autonome. Per Francesco Scrima, segretario della Cisl Scuola, le
parole del ministro “suonano irrispettose non tanto per i
sindacati, quanto per i lavoratori della scuola, delle cui
retribuzioni la ministra è evidentemente all’oscuro. Forse
non sa quanto guadagna una categoria che mediamente sta
sotto lo stipendio con cui, a detta del premier, si fa
fatica a vivere. Conosce poco anche come si fa un contratto,
la ministra Giannini. La invitiamo a riflettere sul fatto
che la contrattazione avviene sulle risorse che il governo
rende disponibili: se queste bastano appena a soddisfare 'il
minimo garantito', come lei sprezzantemente lo definisce,
non è certo colpa dei sindacati”. Anche Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil, sottolinea
che “dal 2006 non è stato più firmato alcun contratto che
garantisca le risorse necessarie per un adeguato recupero
salariale e che migliori la qualità formativa attraverso la
contrattazione decentrata”. Il sindacalista si dichiara “pronto a discutere di
valorizzazione professionale dei docenti ma nell’ambito dei
rinnovi contrattuali. Il Governo s’impegni perciò a
rinnovare il contratto dei lavoratori pubblici. Se invece la
ministra Giannini vuole premiare pochi e penalizzare tutti
gli altri troverà la nostra ferma opposizione. Argomenti
complessi come retribuzioni e carriere necessitano di una
discussione seria con le organizzazioni sindacali e non
essere affidati a interviste”.
«Dare ai meritevoli, ma sanzionare quelli che
non garantiscono un livello minimo di qualità», dice il ministro
dell'Istruzione. A chi spetta decidere? «Chi dirige un istituto
dovrebbe avere questa responsabilità»
Corriere della sera.it, del 21-03-2014,
intervista di Vittorio Zincone
A trentuno anni era professore associato. A
trentotto ordinario. Stefania Giannini, leader di Scelta civica
ed ex rettore dell'Università per stranieri di Perugia, è il
nuovo ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca. La
incontro in viale Trastevere, nella sede storica del dicastero:
stanze gigantesche, arredi ottocenteschi, corridoi vuoti. È
glottologa. Le mostro il video di Sara Maria Forsberg, la
ragazza finlandese che ha spopolato su Youtube imitando 12
lingue inventandosi le parole. Commenta (renzianamente?): «La
vita è ritmo». Provo a prenderla in contropiede: «Ha visto il
film Smetto quando voglio? Quello con i ricercatori universitari
sfigatissimi che si mettono a spacciare una droga sintetica
inventata da loro?». Risponde ridendo: «Certo. Ho pure trovato
un piccolo errore: uno dei protagonisti attribuisce alla lingua
srilankese una derivazione inesistente dal sanscrito». Liberale orgogliosa, Giannini si dà come obiettivo da ministro
di portare "semplificazione e responsabilità". A un certo punto,
mentre racconta delle capriole necessarie per portare a termine
la nomina di 36o dirigenti scolastici a causa dei possibili
ricorsi al Tar, azzarda: «Se dobbiamo lavorare con la spada di
Damocle delle sentenze dei giudici, sarà difficile migliorare i
servizi scolastici. Ma non mi faccia dire queste cose, che poi
mi licenziano». Appena le ricordo le polemiche causate dal
suo esordio con la visita a una scuola paritaria cattolica,
replica thatcherianamente: «Lo Stato deve garantire la qualità
dell'istruzione, ma ogni famiglia deve avere la possibilità di
scegliere». E quando definisco "inciampo" l'intervista in cui
disse che andava superato il meccanismo degli scatti di
anzianità e che ha causato una reazione indignata dei sindacati,
dice: «Per me non è stato un inciampo». Ministro, perseverare
è diabolico. «Ribadisco con forza: solo in un sistema statico
come il nostro l'anzianità è l'unico modo per valorizzare la
figura dell'insegnante con un aumento dello stipendio».
L'alternativa? «Premiare i più capaci, disponibili e preparati.
I dirigenti scolastici dovrebbero avere l'autonomia per farlo e
si dovrebbero assumere la responsabilità delle loro scelte. Un
insegnante può essere premiato con un aumento dello stipendio,
ma anche con il ruolo di coordinamento di un'area didattica». Perché non si è mai andati in questa direzione? «I sindacati
hanno sempre preteso di tutelare tutta la categoria: non si
valorizza chi ha più merito, ma si dà a tutti una garanzia
minima. Tanti iscritti garantiti allo stesso modo vogliono dire
più potere del sindacato. I tempi sono maturi per cambiare». Renzi ha detto che questo governo ascolterà tutti, ma poi andrà
dritto per la sua strada. «Esatto. E il sindacato potrebbe
rinnovare se stesso, diventando il garante e il custode della
qualità del servizio degli insegnanti». Oltre ai premi anche
le punizioni? «So dove vuole arrivare. Da una parte i più
meritevoli promossi con un premio di produttività...». Un premio
di produttività? «...se può trovi un'altra espressione dato che
questa non è molto amata. Dall'altra si dovrebbe infrangere un
tabù...». E punire gli insegnanti incapaci? «Anche con
sanzioni, se non viene garantito un livello minimo di qualità». E chi decide se viene garantito questo livello minimo? Gli
studenti? I loro genitori? «No. Non si può mettere la carriera
di un insegnante nelle mani di dieci genitori che si lamentano.
Chi dirige un istituto e deve rendere conto della qualità dei
servizi si dovrebbe prendere anche questa responsabilità. Gli
strumenti per procedere ci sono già, ma è sempre mancata la
volontà politica. Basterebbe seguire l'esempio delle
università». Le università italiane non sono esattamente un
esempio di limpida meritocrazia: fioccano i concorsi truccati,
con accordi tra professori per premiare ricercatori
segnalati... «Possiamo evitare di usare la parola concorso? È un
termine che non è nemmeno traducibile. Concorso? Parliamo di
selezione: credo che una selezione corretta permetta sempre a
chi lo merita di essere premiato». I concorsi sono fatti
apposta. «Già. Ma secondo lei, se un professore vuole promuovere
un asino, ci riesce meglio attraverso una complicata, ma
manovrabile, procedura concorsuale o mettendoci la faccia?». Si dia una risposta. «Con il concorso». Vuole abolire i
concorsi? «Non ho detto questo. Ma penso che non sia un delitto
voler promuovere un proprio allievo. L'importante è metterci la
faccia e prendersi la responsabilità didattica delle proprie
scelte. Questa responsabilità ha dei costi di reputazione che incidono
sulla sopravvivenza e la sostenibilità di un ateneo». Lei è favorevole al finanziamento delle università pubbliche
da parte dei privati? «Sono favorevole a un'integrazione tra
mondo del lavoro e mondo della formazione. Mi piacerebbe un
sostegno degli imprenditori anche per il settore umanistico.
E sì, penso che non sia un problema se un mecenate si offre
di sponsorizzare una cattedra. Ma so che ci sarebbero molte
resistenze». Si temono ingerenze: la ricerca pubblica messa troppo al
servizio dei privati... «C'è un'interpretazione inadeguata
del concetto di pubblico. Pubblico in Italia vuol dire
gestito dallo Stato». E invece... «Invece dovrebbe voler
dire al servizio della comunità. Lo Stato deve garantire,
vigilando, che chiunque gestisca un determinato servizio
pubblico lo faccia in favore della comunità. Pro populo.
Questo è il modello liberale. Ma in Italia c'è ancora molto
da fare». Lei che studi ha fatto? «Elementari e medie a Lucca.
Università a Pisa. Dottorato a Pavia. Sono stata la prima a
ottenere una laurea in famiglia. Mio padre aveva un bar
pizzeria, ereditato da suo padre». Era adolescente negli Anni Settanta. Ha mai fatto
politica? «No. Ma ero impegnata con un gruppo di
volontariato cattolico». È molto religiosa? «In realtà non ho il dono della fede. Ma
sono cresciuta con quei valori, nella Lucca bianca. I miei
due figli, Enrico ed Edoardo, sono battezzati». Hanno frequentato scuole cattoliche? «Uno sì e l'altro no.
Ora sono al Politecnico di Milano». Favorevole o contraria ai matrimoni gay? «Sono per i diritti
delle coppie omosessuali». Farete una legge sulle coppie gay? «Non credo che sia nelle
priorità di questa legislatura. Con questa maggioranza...». Chi l'ha coinvolta in politica? «Luca Cordero di
Montezemolo. Nel mio mi chiamò per collaborare con
ItaliaFutura per disegnare un'idea diversa di università». Dopo soli tre anni è senatrice, ministro e segretaria di
Scelta civica. «È l'ultima cosa che avrei immaginato». Scelta civica a Palazzo Madama ha otto senatori. Sono
determinanti per la sopravvivenza del governo Renzi. Lei ha
un notevole potere contrattuale. «L'ho detto in Aula: voglio
far cambiare verso al mondo dell'Istruzione. Non sarò un
ministro che insegue Padoan per raccogliere qualche
briciola». A cena col nemico? «Con Susanna Camusso. Ma non mi piace
definirla nemico». L'errore più grande che ha fatto? «Forse non trasferirmi
negli Usa, a metà degli Anni Ottanta». La scelta che le ha cambiato la vita? «Scegliere
l'Università di Perugia. Dopo il dottorato sarei potuta
andare anche a Siena o a Roma Tre». Che cosa guarda in tv? «Le news, qualche talkshow e i film». Il film preferito? «Match Point di Woody Allen. Un film
geniale». La canzone? «Canale in the wind di Elton John. Drammatica.
La colonna sonora della mia adolescenza, invece, era di
Jackson Browne. Ricorda? Stay... just a little bit longer...». Il libro? «Domani nella battaglia pensa a me di Javier
Marías. Eros e Thanatos». Il libro che darebbe a uno studente di dieci
anni? «Pinocchio. Dentro c'è davvero tutto». Conosce i confini della Siria? «Libano, Giordania...». Quanto costa un pacco di pasta? «Circa un euro». Conosce l'articolo 139 della Costituzione? «Conosco il 138». Il 139 dice che la forma repubblicana non è
modificabile. Quale parola inserirebbe nella Costituzione?
«Felicità. Come in quella degli Stati Uniti».
Si accende il dibattito sull’impoverimento
degli studi letterari e filosofici e, allo stesso tempo,
prende corpo l’ipotesi di una campagna antiscientifica. Ma
il pensiero critico ha bisogno di difendere una visione
umanistica
Il Messaggero, del 16-03-2014, di Giorgio
Israel
CASO Cresce l’allarme per lo svilimento degli studi filosofici,
storici e letterari: alcuni corsi di laurea hanno eliminato
filosofia dalle tabelle e cresce la pressione a ridurre la
durata dei licei a quattro anni. Roberto Esposito e Dario
Antiseri hanno accusato l’“ignoranza attiva” di voler
cancellare il pensiero critico dall’istruzione. Ma secondo
altri, in Italia, è la cultura scientifica a essere
nell’angolo; e la carenza di laureati in materie
scientifiche sarebbe dovuta a una campagna antiscientifica
che proscrive ciò che è misurabile, quantitativo e utile.
Giovanni Reale ha replicato criticando l’idea che il sapere
derivi tutto dalla scienza e che la tecnologia risolva ogni
problema. Appare incancrenito il conflitto tra le “due
culture”, divise da una barriera che lascia come unica
possibilità la definizione dei rispettivi spazi di
influenza. In realtà, le scienze “esatte” che hanno creato la
tecnologia non si basano sull’idea di essere l’unica fonte
di conoscenza. La contrapposizione tra scienza e filosofia
(tra scienze “esatte” e il “resto”) è artificiosa. È
legittimo, invece, paventare che l’indirizzo attuale della
ricerca scientifica dissolva la funzione conoscitiva della
scienza, privilegiando una prassi puramente manipolativa. Ma
si tratterebbe di qualcosa di molto più grave dell’attacco
alla filosofia: sarebbe un attacco alla conoscenza, vista
come un inutile orpello di cui la tecnologia può fare a
meno. È possibile che il crescente protagonismo della
“tecnoscienza” stia dissolvendo la scienza che conosciamo da
qualche secolo. Ma quali sarebbero le conseguenze? In
realtà, gli immensi progressi della tecnologia sono prodotto
di concetti teorici: l’esempio più evidente è dato
dall’oggetto tecnologico che più di ogni altro ha cambiato
il mondo, il computer digitale, prodotto di modelli teorici
(la macchina di Turing e l’architettura di von Neumann).
Quindi, la storia suggerisce che un approccio manipolativo
possa condurre al declino di una tecnologia priva di linfa
teorica. È un tema cruciale che investe sia le prospettive
della società tecnoscientifica che il ruolo della
conoscenza: la posta in gioco va oltre la definizione per la
filosofia di uno spazio da riserva indiana, in cui potrebbe
finire anche la scienza e ogni attività conoscitiva. L’OSSERVAZIONE Una pessima divulgazione accredita l’idea secondo cui
Galileo avrebbe fondato la scienza moderna sull’osservazione
empirica. È proprio il contrario: Galileo parte da ipotesi
matematiche e le confronta con la realtà costruendo
esperimenti, “cimenti”, con cui interroga la natura. Chi
confonde il metodo sperimentale con l’empirismo non ha
capito nulla della scienza moderna. Si cita spesso la famosa
frase di Galileo secondo cui l’essenza del mondo «è scritta
in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto
innanzi agli occhi (e dico l’universo), ma non si può
intendere se prima non s’impara a intender la lingua, a
conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in
lingua matematica … senza cui è un aggirarsi vanamente per
un oscuro labirinto». Su questa “matematica purissima”
Galileo ha costruito la sua fisica. Ma “il mondo è
matematico” è un’asserzione metafisica, è un’ipotesi
indimostrabile che deve confrontarsi perpetuamente con i
fatti e la cui sopravvivenza dipende dal suo successo. I
trionfi della fisica hanno dato ossigeno all’ipotesi che “il
mondo è matematico”, ma l’estensione del concetto di “mondo”
al di là della sfera naturale è stato come scendere nelle
sabbie mobili: i modesti risultati conseguiti nel campo dei
fenomeni biologici, economici, sociali non hanno certo
convalidato l’ipotesi che (tutto) il mondo è matematico. IL TEORICO Tuttavia, quell’ipotesi è stata il fondamento della scienza
moderna, come ha spiegato il grande storico della scienza
Alexandre Koyré: «Una scienza di tipo aristotelico, che
parte dal senso comune e si basa sulla percezione sensibile,
non ha bisogno di appoggiarsi a una metafisica. Essa vi
conduce, non parte da questa. Una scienza di tipo
cartesiano, che postula il valore reale del matematismo, che
costruisce una fisica geometrica, non può fare a meno di una
metafisica. E anzi, non può far altro che cominciare da
essa. L’abbiamo dimenticato. La nostra scienza va avanti
senza occuparsi molto dei suoi fondamenti. Il suo successo
le basta fino al giorno in cui una “crisi” – una “crisi dei
principi” - le rivela che le manca qualcosa, cioè capire ciò
che fa». È una descrizione tanto chiara che non vi sarebbe
nulla da aggiungere circa i rapporti tra scienza e
filosofia: l’architrave della scienza moderna è una
metafisica ed è illusorio affrontare le crisi senza
occuparsi dei fondamenti. SERVONO VITAMINE I veri scienziati hanno sempre difeso il primato della
teoria. Leonardo da Vinci ammoniva che «quelli che s’innamoran
di pratica senza scienza son come ‘l nocchier ch'entra in
navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si
vada. Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica,
nata da essa scienza». Roba “vecchia”? Leggiamo allora il
fulminante aforisma di uno scienziato contemporaneo (che ha
dato una cosa tanto concreta come la vitamina C), Albert
Szent-Gyorgy: «Lo scoprire consiste nel vedere ciò che tutti
hanno visto e nel pensare ciò che nessuno ha pensato». Senza
il pensiero teorico l’osservazione empirica è cieca. E
François Jacob, uno dei padri della biologia molecolare,
dopo aver ridicolizzato il concetto di “quoziente
intellettivo”, scriveva: «Come se la cosa più importante
nella scienza fosse misurare! Come se, nel dialogo tra la
teoria e l’esperienza, la parola fosse in primo luogo ai
fatti! Una simile credenza è semplicemente falsa. Nel
procedere scientifico è sempre la teoria ad avere la prima
parola. I dati sperimentali non possono essere acquisiti,
non assumono significato, altro che in funzione di questa
teoria». EMPIRISMO Proprio gli scienziati cui dobbiamo la tecnologia che ha
cambiato il mondo – computer digitale, biologia molecolare,
genetica — sapevano che scienza ed empirismo sono agli
antipodi e che poggiare la formazione scientifica, anche a
livello scolastico, sul secondo è un errore madornale. Ogni
scuola deve possedere un laboratorio di scienze, ma perché
serva a qualcosa occorre entrarvi per confrontare con
l’esperimento conoscenze teoriche apprese. È un apparente
paradosso che la necessità strategica del pensiero teorico
sia chiara soprattutto a chi lavora in ambito tecnologico,
come gli ingegneri, che ben sanno che un’avanzata, per
esempio nella progettazione di nuovi sistemi di trasporto,
richiede un ripensamento teorico. La storia da torto a chi
crede che la tecnologia possa essere più innovativa se
libera dell’“impaccio” del lento procedere della ricerca di
base. Una scienza capace di ripensare continuamente i propri
fondamenti teorici ha assoluto bisogno di pensiero
filosofico. Ha ragione Roberto Esposito quando dice che
abolendo la filosofia si abolisce il pensiero critico. Vado
oltre: colpendo così il pensiero critico si colpisce la
democrazia. Ma garantire alla filosofia uno spazio da
riserva indiana non garantisce la sopravvivenza dello
spirito critico. Occorre anche difendere la scienza come
progetto di conoscenza. Questo è un dovere primario, senza
divisioni in zone d’influenza; ed è l’unico modo per
difendere una visione umanistica senza cui le nostre società
non hanno futuro.
La segretaria generale della Cgil, Susanna
Camusso, al congresso degli studenti medi a Perugia ha
sostenuto che bisogna aumentare l’obbligo scolastico: questa
è la vera riforma della scuola. Interventi organici
sull’istruzione
La Tecnica
della Scuola.it, del 17-03-2014, di P.A.
Al terzo congresso nazionale della Rete degli
studenti medi a Perugia, la segretaria generale della Cgil,
Susanna Camusso, ha ripreso la vecchia questione
dell’aumento dell’obbligo scolastico: “L’obbligo scolastico
va innalzato per diventare il punto di partenza
dell’istruzione come grande vettore di sviluppo”. “Questa è
la vera grande riforma che la Cgil sostiene nel suo piano di
lavoro”. “Noi siamo tra i paesi cosiddetti sviluppati, ma siamo uno
dei pochi paesi che continua ad avere nei fatti l’obbligo a
15 anni, visto che a 15 anni è l’ingresso al lavoro anche se
la teorica affermazione del diritto allo studio è quella dei
16”. E poi ha detto ancora : “Noi oggi abbiamo un obbligo
scolastico che sta a metà di un ciclo di istruzione, è come
dire faccio una norma per garantirne l’evasione, perché non
ha avuto invece ovviamente l’effetto di allungare un obbligo
generalizzato fino alla fine del ciclo scolastico”.
“Intervenire sull’istruzione”, ha poi sottolineato Camusso,
“non per fare un’ennesima riforma un po’ confusa affrontando
un pezzetto, poi un altro, in un’idea che l’investimento
sullo studio non è la risorsa fondamentale. Bisognerebbe
fare un intervento organico”. E visto che c’era e la platea rappresentava una occasione
importante per esprimere il suo pensiero, la segretaria si è
pure intrattenuta sui progetti del presidente del Consiglio
Renzi relativi alla scuola e all’edilizia: “Dire che si fa
uno stanziamento consistente, intervenire rispetto
all’edilizia scolastica e rimettere in sicurezza le scuole è
un’esigenza che abbiamo manifestato in tantissime occasioni,
è una scelta assolutamente importante, però non può essere
l’unica risorsa che si spende per la scuola in questa
stagione”. “A fianco noi stiamo ancora aspettando che si rimettano le
risorse che le tante leggi precedenti hanno tolto.
Giustamente gli insegnanti rivendicano i loro contratti e le
loro retribuzioni, ma se li paghi con le risorse dei fondi
scolastici vuol dire che nella scuola non fai progetti
formativi e non vai oltre”.
NELL’ULTIMO DECENNIO I DIPLOMATI SONO CALATI
DEL 6% E IL PIL È FERMO SOTTO IL 3%. UN CASO?
l'Unità, del 17-03-2014, di Carlo Buttaroni -
Presidente Tecnè
In Italia,negli ultimi cinquant’anni,la
crescita dei livelli di scolarizzazione e l’andamento del
Pil sono andati di pari passo. Negli anni Sessanta, i
diplomati nelle scuole secondarie superiori sono cresciuti
del 105% rispetto al decennio precedente, con una crescita
del Pil del 56%. Negli anni Settanta, il numero di diplomati
è cresciuto del 91% e il Pil del 45%. Tendenza positiva
proseguita fino al 2000, anno in cui è iniziata
un’inversione di tendenza che ha visto, nella decade
2000-2010, un calo del numero deidiplomatidel6% rispetto al
decennio precedente e il Pil fermo sotto il 3%. Un caso? Non
proprio. L’istruzione, nelle economie avanzate, è il più
importante fattore di crescita. Proprio come per gli
investimenti in «capitale fisico», un Paese investe in
istruzione e formazione per migliorare il proprio «capitale
umano» sostenendo dei costi che in futuro si trasformano in
maggiori guadagni. Se si analizza la capacità di creare
valore aggiunto, cioè l'incremento di valore che si verifica
nell' ambito dei processi produttivi a partire dalle risorse
iniziali, ci si rende conto che l’elemento della
«competenza» è fondamentale, perché si traduce in migliore
qualità dei beni e servizi, insieme da performance
produttive più alte. I differenziali di conoscenza incidono
sulla competitività più dei costi di produzione che, seppur
rilevanti, hanno una valenza che si misura soprattutto nel
breve termine, mentre il miglioramento degli standard
produttivi, ottenuti attraverso l’aumento delle conoscenze e
delle competenze, migliora la competitività nel lungo
periodo. Il livello di capitale umano, dunque, è un fattore
decisivo per la crescita economica di qualunque Paese. Ed è
anche un fattore attrattivo degli investimenti esteri,
diventati, in questi ultimi anni, la principale leva di
finanziamento dello sviluppo. Agli inizi degli anni ’70, i
paradigmi della finanza sono cambiati radicalmente con la
scelta del governo USA di sospendere la convertibilità in
oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi
di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei
capitali. Da quel momento, enormi quantità di ricchezza sono
uscite dai radar dei governi nazionali e hanno iniziato a
muoversi a livello globale. Oggi,per esempio,le grandi
centrali finanziarie mondiali possono scegliere se sostenere
il debito pubblico di un Paese e questa decisione, al netto
delle speculazioni, dipende dalla capacità di trasformare il
debito in crescita. Una scelta che avviene tenendo in
considerazione, come variabile fondamentale, il potenziale
produttivo di un Paese e la sua capacità di generare valore
aggiunto. I grandi fondi di private equity mondiali, che
raccolgono risorse in tutto il mondo e hanno portafogli
d’investimento di centinaia di miliardi di dollari,
finanziano imprese che operano nel campo della meccanica di
precisione, del chimico, del farmaceutico, dell’high-tech,
in base a parametri dove il «capitale umano» non conta meno
del costo del lavoro. Un elevato livello di capitale umano,
alimentato da una costante crescita delle conoscenze e delle
competenze, rappresenta, infatti, il presupposto di
miglioramenti continui degli standard produttivi e nella
capacità di creare valore. Oltretutto, attraverso il
movimento internazionale dei capitali, è possibile
incrementare il trasferimento di nuove conoscenze e
tecnologie ottenendo un progressivo avanzamento della
frontiera della produzione. Investire in conoscenza, quindi,
conviene all’intera economia di una nazione. A livello
globale, gli investimenti in conoscenza vedono in prima fila
le economie emergenti, che stanno scalando le classifiche
mondiali non solo in termini di Pil ma anche di livelli
d’istruzione e qualità delle università. L’Italia, invece,
sta perdendo questa sfida sul futuro, non solo a livello
mondiale ma anche all’interno dell’Europa. I dati sul
livello del capitale umano delle persone occupate nel nostro
Paese misurato ad esempio attraverso il livello d’istruzione
degli occupati non sono confortanti, soprattutto se
confrontati con quelli della media europea. E ancor più
sconfortanti sono quegli indicatori che la Ue utilizza come
obiettivo strategico per il 2020. Nell'Europa dei 27
l'Italia è terza per quanto riguardala quota dei NEET, i
giovani che non lavorano, non studiano e non sono impegnati
in percorsi formativi. Un primato negativo che ci vede
preceduti solo da Grecia e Bulgaria. Un paese, il nostro, a
fondo scala per quanto riguarda la classifica sull'
istruzione universitaria, nel gruppo di testa per
l'abbandono scolastico e al 16° posto in merito alle
competenze matematiche dei nostri studenti. La Strategia di
Lisbona aveva posto,tra i cinque obiettivi da raggiungere
entro il 2010, la riduzione al 10 per cento della quota di
giovani che lasciano la scuola senza un adeguato titolo di
studio, e il piano «Europa2020» ha posto il tetto di almeno
il40 per cento di giovani che ottiene un titolo di studio
universitario. L’Italia ha fallito il primo obiettivo ed è
assai lontana dal raggiungere il secondo. Una condizione che
non stupisce, perché l'Italia è nella parte bassa della
classifica anche per quanto riguarda la spesa pubblica per
l'istruzione e la formazione, ben al di sotto la media
europea. E gli esempi non mancano: la Danimarca, per citarne
uno, investe una quota pari al 7,8% del PIL, contro il 4,2%
dell’Italia. Un’impostazione, la nostra, che nel medio/lungo
periodo porterà a un minore tasso di sviluppo dell’Italia
anche rispetto ai propri partner europei, con un conseguente
deterioramento dei processi produttivi. L’Italia, quindi, se
non cambia strada,si andrà ad attestare su livelli di
competitività più arretrati rispetto agli altri Paesi
dell’Unione Europea, con conseguenze inevitabilmente
negative sui tassi di crescita economici. Nelson Mandela
ricordava spesso che «L’istruzione e la formazione sono le
armi più potenti che si possono utilizzare per cambiare il
mondo» e,sicuramente, sono l’unico strumento per non
scivolare verso un futuro assai meno glorioso del nostro
passato. Senza istruzione manca la conoscenza di base
necessaria per il progresso tecnico e scientifico, ma anche
per quello umano, senza il quale ogni forma di progresso
rischia di rimanere sterile e priva di frutti.
L’ipotesi di aumento di 80-85 euro annunciata
da Renzi fa tornare in auge la pochezza delle buste paga del
personale scolastico, tra le più basse d’Europa
La Tecnica della Scuola.it, del 17-03-2014,
di Alessandro Giuliani
L’ipotesi di aumento di 80-85 euro annunciata
da Renzi fa tornare in auge la pochezza delle buste paga del
personale scolastico, tra le più basse d’Europa. Per la Cisl
il governo su questo punto si gioca la credibilità degli
impegni assunti. La Cgil avverte: se si vogliono continuare
a pagare gli aumenti con le risorse dei fondi scolastici non
si va lontano. E l’Anief chiede perché aumentano solo gli
stipendi dei privati. La questione stipendiale del personale scolastico continua a
tenere banco. Dopo il probabile scampato pericolo sugli
scatti, se ne è tornato a parlare negli ultimi giorni.
L’occasione sono state le parole del premier, Matteo Renzi,
sugli stipendi mensili da 1.500 euro, “con cui si fa fatica
a vivere”. Così a quelli della scuola, uno dei comparti a
cui il nuovo governo ha detto di tenere in modo particolare,
lo stesso Renzi ha detto di voler applicare, già da maggio,
una tassazione ridotta. Facendo innalzare la busta paga di
80-85 euro netti. I sindacati hanno preso la ‘palla al balzo’: hanno
ricordato, ad esempio, che quelli italiani sono gli
insegnanti sono gli insegnanti tra i meno pagati d'Europa.
Con un gap a fine carriera che sfiora i 10mila euro l’anno
di media. Ma non solo. I numeri, del resto, parlano chiaro: “in un comparto che
impiega 935.000 addetti più della metà (500.000 circa)
riceve retribuzioni con cui “si
fa fatica a vivere”
– ha scritto la Cisl Scuola - e il quadro avrebbe tinte
ancora più fosche se prendessimo in considerazione gli
stipendi delle scuole paritarie e della formazione
professionale”. Per il sindacato guidato da Francesco Scrima,
quindi, “quella salariale è un’emergenza a cui dare
immediata risposta, sapendo che passa anche da questo la
credibilità degli impegni assunti (dal governo Renzi n.d.r.)
rispetto alla centralità della scuola e alla dignità del
lavoro che vi si svolge”. Il governo, insomma, è avvisato. Anche la Cgil non fa sconti. Dicendo che non
bastano i fondi per l’edilizia scolastica:
l’istruzione pubblica va sostenuta a e rilanciata a 360
gradi. È il pensiero espresso domenica 16 marzo dal
segretario generale della grande sindacato Confederale,
Susanna Camusso. "Dire che si fa uno stanziamento consistente, intervenire
rispetto all'edilizia scolastica e rimettere in sicurezza le
scuole è un'esigenza che abbiamo manifestato in tantissime
occasioni, è una scelta assolutamente importante – ha detto
Camusso - , però non può essere l'unica risorsa che si
spende per la scuola in questa stagione". "A fianco - ha continuato il segretario generale della Cgil
- noi stiamo ancora aspettando che si rimettano le risorse
che le tante leggi precedenti hanno tolto". E il pensiero va
agli stipendi degli insegnanti. Che non possono essere
“rimpinguati” solo defiscalizzando quelli inferiori ai 1.500
euro. Bisogna mettere mano al contratto, il prima possibile.
"Giustamente - ha concluso Camusso - gli insegnanti
rivendicano i loro contratti e le loro retribuzioni, ma se
li paghi con le risorse dei fondi scolastici vuol dire che
nella scuola non fai progetti formativi e non vai oltre". Forti pressioni arrivano anche dall’Anief: per il sindacato
autonomo, il personale della scuola ha “bisogno di sbloccare
il contratto di lavoro e di risorse vere: l’aumento di 80
euro per coloro che ne guadagnano meno di 1.500 al mese,
annunciato dal premier Renzi, rappresenta poco più di un
‘obolo’, visto che tra i paesi moderni europei i nostri
docenti continuano ad avere lo stipendio più basso dopo la
Grecia. Perché mentre si fanno passare questi aumenti come
motivo di attenzione per il settore, nel frattempo l’Istat dice che
l’ultimo indice generale delle retribuzioni contrattuali
orarie disponibile registra incrementi tendenziali sopra la
media nel settore
privato (+1,9%)
e, in particolare nei settori dell’agricoltura (+3,4%),
dell’industria (+2,1%) e dei servizi privati (+1,6%). Mentre
in tutti i comparti della pubblica amministrazione
(dirigenti e non dirigenti, contrattualizzati e non), si
continuano a registrare variazioni nulle”. “Le modifiche attuate sui contratti del personale statale,
in particolare quello scolastico, nell’ultimo ventennio –
spiega Marcello Pacifico, presidente Anief – hanno
determinato un paradosso: per mere ragioni di finanza
pubblica, si sono ereditate le condizioni di lavoro del
settore privato, con le nuove norme privatistiche che hanno
cambiato l’organizzazione e il funzionamento della macchina
amministrativa statale e dei dipendenti, anche in deroga a
precise scelte negoziali e diritti non comprimibili. Ma
nello stesso periodo gli stipendi sono stati sempre più
depauperati. Sino ad essere superati dall’inflazione, come
è accaduto nel 2013”.
Sì al
bonus maturità e alla riforma della scuola media, ni alla
tecnologia e al ciclo breve di studi, no ai concorsoni.
Corriere
della sera, del 25-02-2014, di Valentina Santarpia
Sì al
bonus maturità e alla riforma della scuola media, ni alla
tecnologia e al ciclo breve di studi, no ai concorsoni. È
arrivata a viale Trastevere da qualche ora, ma il ministro
all’Istruzione, Stefania Giannini, ha già un’idea precisa
della scuola che verrà. Anche sfidando a viso aperto gli
errori del passato, come il famigerato bonus maturità,
introdotto dal ministro Francesco Profumo sotto il governo
Monti e poi cancellato dal nuovo titolare del dicastero,
Maria Chiara Carrozza, il giorno stesso in cui circa 100
mila studenti partecipavano ai test di accesso per 10 mila
posti nella facoltà di Medicina: «Non era il bonus maturità
in sé, ma il fatto di aver cambiato le regole in corso, ad
aver scatenato il putiferio. Che la carriera scolastica
conti per me è importante, lo studente non deve andare
all’università vergine, ignorando tutto quello che ha fatto
prima: il voto di maturità non è altro che la sintesi che
uno ha fatto nei precedenti anni di carriera scolastica,
quindi deve esserci, bisogna valutarlo insieme a tutte le
altre cose che gli vengono richieste nell’esame di
selezione». Per quest’anno, difficilmente rivedremo il bonus
in azione, visto che il bando per i test di accesso alle
facoltà a numero chiuso, previsti per aprile, è ormai già
stato pubblicato. Ma qualcosa potrebbe cambiare dall’anno
prossimo, governo permettendo. Cambio di corsa, quindi? Sembra proprio di sì. Anche la
sperimentazione del ciclo breve (4 anni anziché cinque) che
la Carrozza aveva lanciato in cinque licei e che contava di
estendere a tutte le scuole superiori, lascia piuttosto
tiepidina il nuovo ministro. «Non sono contraria a
continuare la sperimentazione ma non sono un’entusiasta
sostenitrice dell’idea che eliminare un anno alle scuole
superiori sia la carta vincente. Piuttosto, penso che
abbiamo tre cicli di scuola, due funzionano molto bene, uno,
quello intermedio, molto meno. La scuola media inferiore è
quella che ha bisogno di maggiore attenzione», sottolinea
Giannini. Prefigurando così una riforma del ciclo
intermedio, pardon , una rivisitazione, visto che la parola
«riforma» le evoca «grandi e lunghi processi» che si
attirano critiche e polemiche. Ma questo non significa che i progetti non siano ambiziosi:
da brava riformista, l’ex segretario di Scelta civica boccia
anche i concorsoni alla Profumo: «Così come sono stati fatti
hanno creato più problemi che soluzioni — sostiene — tra
ricorsi, procedure sbagliate, riformulazioni». E come si
reclutano allora, gli insegnanti? «Le scuole, come strutture
pubbliche che devono rendere conto delle scelte che fanno,
possono prendere delle decisioni e assumere chi credono, e
poi in base a queste scelte essere valutate: dobbiamo
trovare gli strumenti giusti per attuarlo». E i 120 mila
precari che pure la Commissione europea ci ha rimproverato?
«È una situazione drammatica — dice Giannini —. La conosco
bene perché ho amici cinquantenni ancora in attesa di
supplenze. Ma si può curare il male antico introducendo
sistemi per non rigenerarlo». Una vera rivoluzione, dunque, quella che immagina il nuovo
ministro, in cui gli istituti scolastici hanno sempre più
autonomia, la valutazione acquisisce un valore
importantissimo — «l’Invalsi ha pregi e difetti ma va
sviluppato e migliorato» — e la tecnologia invece sbiadisce:
«È una priorità non sostitutiva», spiega e, a costo di
sembrare datata, ammette: «Ho l’idea che se spariscono i
libri non va bene, deve esserci anche un contatto con la
dimensione cartacea della cultura». Che le gatte da pelare che la aspettano al varco siano tante
lo sa bene: è ancora fresco il ricordo del prelievo dei 150
euro in busta paga degli insegnanti, scongiurato in zona
Cesarini da Carrozza e Saccomanni, che non si erano parlati
sull’argomento. «Chiamerò spesso Padoan e parleremo di tutto
in Consiglio dei ministri, che sarà il luogo
dell’integrazione: bisogna evitare che i ministri restino
nel loro isolamento», assicura. Con la speranza che la nuova
tegola in arrivo non faccia male: a marzo dovrebbe partire
il prelievo sullo stipendio degli Ata (i collaboratori
scolastici) per compensi dati erroneamente, secondo il
ministero dell’Economia. «Sono appena arrivata, so del problema e lo affronterò.
Datemi tempo, ho tante idee e buona volontà, ma non tutte
le soluzioni».
In un Paese in cui un
insegnante guadagna mediamente 1.200-1.300 euro al mese, uno
stipendio che si colloca al penultimo posto in Europa,
parlare di blocco degli automatismi significa ''non tenere
conto della realtà''
La Tecnica
della Scuola.it, del 25-02-2014, di P.A.
Ma
significa anche non tenere conto del fatto che l'anzianità è
l'unico modo per difendere il potere d'acquisto dei salari e
che per premiare davvero il merito occorrono risorse. I
sindacati replicano così al neo ministro dell'Istruzione
Stefania Giannini che in un'intervista ha auspicato che si possa
superare per gli stipendi degli insegnanti il meccanismo degli
scatti automatici. ''Queste idee meritocratiche, queste vecchie impostazioni
di stampo gelminiano non tengono conto della realtà, ovvero
che il contratto nazionale della scuola è bloccato dal 2006
e che gli stipendi degli insegnati italiani sono tra i più
bassi d'Europa'', commenta il segretario generale della Flc
Cgil Domenico Pantaleo. Il sindacalista evidenzia poi che ''in tutta Europa
l'anzianità contribuisce alla valorizzazione della
professionalità. Quindi c'è tutta la nostra disponibilità a
discutere ma si deve aprire un tavolo perché in questi anni
con il blocco dei contratti i salari nella scuola, e in
tutto il settore della conoscenza, hanno subito un vero e
proprio attacco''. ''Valorizzare il lavoro professionale degli insegnanti, e
dunque il merito, è anche una nostra priorità - commenta il
segretario della Uil Scuola Massimo Di Menna - ma deve
essere considerato che lo stipendio degli insegnanti
italiani è al penultimo posto dei Paesi europei. La media è
di 1.200-1.300 euro al mese e i salari sono praticamente
fermi da anni. Se davvero si vuole promuovere il merito
occorrono risorse. Accettiamo dunque la sfida del neo
ministro e aspettiamo l'apertura di un negoziato
contrattuale ma sapendo che serve un cambiamento'' rispetto
a quanto fatto fino ad oggi. ''Non bisogna considerare l'anzianità in maniera
dispregiativa, negativa, perché in tutta Europa è
considerata un elemento della carriera'', dice Francesco Scrima, segretario generale della Cisl Scuola che però
invita il neo ministro Giannini ''ad affrontare le vere
emergenze in atto del settore scuola, dal personale Ata al
quale stanno scippando la retribuzione dopo un lavoro
regolarmente fatto ai dirigenti scolastici che per una
interpretazione del ministero dell'Economia si vedono
decurtare lo stipendio. Poi tutta la nostra disponibilità a
sederci attorno ad un tavolo per affrontare'' come sostenere
gli stipendi degli insegnanti.
I
sindacati contro il ministro: prima pensi ad alzare gli
stipendi
la
Repubblica.it, del 25-02-2014
C’è Matteo
Renzi, al Senato, che mette la scuola al centro del paese e
chiede la fiducia. Il neopremier, spiega, entrerà nelle aule
d’Italia ogni mercoledì perché «l’educazione che si dà nelle
scuole è motore dello sviluppo, di fronte alla crisi
economica non puoi non partire dalle scuole». Poi c’è il suo
ministro di riferimento che alla terza intervista è già in
urto con il mondo della scuola tutto, e pure con
l’università. Repubblica Stefania Giannini, 53 anni, neoministro dell’Istruzione per
nove stagioni e fino al 2013 rettore dell’Università per
stranieri di Perugia, aveva detto: «I soldi sono necessari
per la scuola pubblica e quella paritetica, ma il modello
scatti d’anzianità va rivisitato con coraggio. Premi a chi
si impegna, chi si aggiorna, chi studia. Tutti i mestieri
che si rispettino prevedono premi». Altrove aveva ribadito
il concetto. Ottenendo una risposta corale da un fronte sindacale
compatto: «Nessuna cancellazione degli scatti». Reduce dall’errore di Natale del governo Saccomanni-Carrozza
(la sottrazione in busta paga dell’ultimo scatto d’anzianità
nonostante accordi firmati lo avessero mantenuto), Rino Di
Meglio del sindacato Gilda ha attaccato: «Con le prime
esternazioni il ministro Giannini ci ha gelato dimostrando
di non sapere che l’anzianità di servizio è riconosciuta
agli insegnanti in tutti i paesi europei e in Italia è la
più bassa in termini assoluti». La Cgil (Flc) con Domenico
Pantaleo dettaglia lo stipendio medio di un docente
italiano: 1.200-1.300 euro al mese, penultimi in Europa.
«Queste vecchie impostazioni di stampo gelminiano non
tengono conto che il contratto nazionale della scuola è
bloccato dal 2006». Francesco Scrima, segretario della Cisl,
ricorda le ultime emergenze contratto: «Al personale
amministrativo stanno scippando la retribuzione dopo un
lavoro regolarmente fatto e i presidi oggi si vedono
decurtare lo stipendio ». Marcello Pacifico dell’Anief:
«Macché blocco degli scatti, alla scuola servono risorse
aggiuntive. Il ministro Giannini prima di tutto ha l’obbligo
di allineare le buste paga all’inflazione ». I Cobas vedono
nelle proposte del Pd renziano («il superamento di alcune
rigidità del contratto nazionale») e in quelle del ministro
di Scelta civica («sì ai licei in quattro anni») un disegno
comune e annunciano «un rafforzamento delle mobilitazioni in
corso». Gli universitari a loro volta si sono irretiti di fronte
alla riproposizione — a proposito delle borse di studio —
del prestito d’onore, questione di memoria gelminiana e
tradizione anglosassone (negli Usa molti laureati non
riescono a restituire i soldi prestati e in Italia
l’istituto non è mai decollato). Venerdì prossimo gli
studenti della Link saranno sotto le finestre del Miur per
la prima contestazione al neoministro. Ecco, quelle di Renzi sono «parole belle e importanti», come
dice il segretario Scrima. Ma sulla scuola belle parole le
pronunciò all’insediamento l’ex rettore Mario Monti, che poi costrinse
Profumo a tagliare ancora, e pure Enrico Letta («di fronte a
nuovi tagli mi dimetterò»), che poi lasciò diverse partite
in deficit. Già oggi il neoministro Giannini dovrà decidere
sui 24 mila addetti alle pulizie a rischio licenziamento
(pronta una proroga di un mese), l’abrogazione della quota
96 sul pensionamento dei prof (pronta la proposta di legge
Ghizzoni) e, appunto, gli scatti d’anzianità. Le ipotesi
pre-Giannini parlavano di un reintegro di quelli congelati,
non della loro cancellazione.
È la proposta contenuta nel documento
“Impegno Italia 12 febbraio 2013”, presentato dal premier,
frutto del ‘patto di coalizione’ per condurre l’Esecutivo
sino a fine legislatura.
13/02/2014
La Tecnica
della Scuola.it, del 13-02-2014, Alessandro Giuliani
È la proposta contenuta nel documento “Impegno
Italia 12 febbraio 2013”,
presentato dal premier, frutto del ‘patto di coalizione’ per
condurre l’Esecutivo sino a fine legislatura. Si parte con
una sperimentazione, ma si cercherà da subito di
incrementare il numero di scuole materne. Largo al merito,
portando a termine il regolamento sulla valutazione. In
arrivo 2 miliardi di euro per la sicurezza degli edifici.
Sui precari invece non si cambia: GaE blindate fino a
chiusura naturale; confermati i corsi abilitanti
universitari e i concorsi triennali. Università: serve un
nuovo sistema della ripartizione del fondo ordinario, di
contribuzione e delle borse di studio. Avviare i cicli di istruzione scolastici formativi a 5 anni
anziché 6, senza anticipare la primaria, ma considerando
quella d’infanzia scuola a tutti gli effetti. E concludere,
di conseguenza, le superiori a 18 anni. In modo da adeguare
l’Italia agli standard europei. È la proposta contenuta nel
documento “Impegno Italia 12 febbraio 2013”, presentato dal
premier Enrico Letta in conferenza stampa, frutto delle
intese raggiunte attraverso il ‘patto di coalizione’ che
porterebbe l’attuale esecutivo sino alla fine della
legislatura “Cominciare e finire prima”, ha detto il capo del governo,.
“Vogliamo un grande piano per il Paese perché la scuola – ha
aggiunto Letta - cominci a 5 anni e finisca a 18". Il
Governo sulla scuola prevede "un impegno significativo" che
si aggiunge anche a quello per "scuole sicure e cablate".
"Un piano ambizioso con bambini al centro", ha concluso
Letta. Andando a scorrere il progetto, che “nasce per rendere
chiara, di fronte al Paese, l’assunzione di responsabilità
che il governo chiede al Parlamento e ai partiti”, si evince
che l’attuale premier indica la scuola tra le “priorità” del
Paese, da centrare attraverso “azioni precise, con un
cronoprogramma certo”. Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, nel documento
viene reputata come una parte formativa a tutti gli effetti,
con “un ruolo fondamentale nello sviluppo personale, sociale
e cognitivo del bambino. Valorizzare questa fase – si legge
ancora - integrandola nel ciclo di istruzione ha lo scopo di
mettere gli studenti nella condizione di iniziare ad
apprendere prima e meglio, con la possibilità di terminare
gli studi in anticipo con un livello di conoscenze e
occupabilità pari, o superiore, a quello garantito dal
sistema attuale”. Il concetto è chiaro: iniziare prima per
finire prima. A tal fine, il governo si impegna ad “avviare la
sperimentazione di un modello, da introdurre in modo
graduale, in cui la scuola dell’infanzia costituisca il
primo grado nel ciclo di istruzione obbligatoria”. E a
“ristrutturare i cicli scolastici in modo da consentire ai
giovani italiani di diplomarsi prima in linea con gli
standard europei”. Considerando l’esiguità di scuole
dell’infanzia, “entro il terzo trimestre saranno individuate
risorse per l’istituzione, in via sperimentale, di sezioni
aggiuntive di scuola dell’infanzia”. Letta si impegna anche a “introdurre criteri più stringenti
di valutazione e valorizzazione del merito: è essenziale
poter contare su un sistema condiviso e affidabile di
valutazione delle scuole, che permetta di premiare il
merito”. Questo obiettivo si attuerà portando a termine,
entro il 2014, “il regolamento sulla valutazione al fine di
assicurare la piena operatività del Sistema nazionale di
valutazione delle scuole pubbliche e delle istituzioni
formative incentrato sull’Invalsi. Investire nell’edilizia scolastica è fondamentale per
contribuire alla ripresa economica e alla rigenerazione
urbana. Importanti iniziative sono state già assunte e vanno
ora rese tutte operative. Tra gli impegni figura un
investimento “nel periodo 2013-2015” di “oltre due miliardi
di euro per gestire la sicurezza e l’adeguatezza delle
strutture scolastiche”; il completamento “dell’Anagrafe
dell’edilizia scolastica, ferma al 1996”; una accelerazione
sugli “interventi in corso di realizzazione a partire dai
692 già avviati con il DL Fare. Entro il secondo trimestre
saranno adottati i necessari provvedimenti attuativi”. Solo conferme, invece, sul reclutamento dei nuovi insegnanti
e per il superamento del precariato. “Gli interventi devono
prevedere un sistema di selezione di alta qualità che
abiliti i giovani insegnanti alla professione attraverso
l’università, e in numero adeguato alla domanda”. L’impegno
è quindi quello di “confermare la chiusura definitiva delle
graduatorie a esaurimento”, con buona pace degli abilitati
dell’ultimo triennio (che così per essere immessi in ruolo
dovranno necessariamente passare attraverso il concorso
pubblico). Il governo conferma anche la volontà d “avviare
corsi universitari abilitanti calibrati sul fabbisogno
effettivo” e “indire concorsi a cadenza triennale”. La
novità arriverà, “entro l’anno”, dalla “riforma dei percorsi
di formazione iniziale e di reclutamento”. La rivisitazione di alcuni assi portanti del sistema
formativo riguarderà anche il sistema di finanziamento delle
università e il diritto allo studio accademico. “Il sistema
attuale di finanziamento degli atenei – sostiene il Governo
Letta - ha il limite di penalizzare gli istituti che operano
nei contesti socio-economici più difficili. Le università
che per mancanza di risorse esterne e infrastrutture non
sono in grado di innovare la propria offerta si trovano oggi
a non poter competere per l’assegnazione di risorse
pubbliche. Nel caso invece in cui l’offerta sia attraente,
si possono creare ostacoli alla frequenza di tutti gli
studenti interessati così come alla loro mobilità
geografica, anche all’interno della UE, con ricadute sulla
mobilità sociale”. L’impegno è quello di “proseguire
l’azione avviata di incremento delle risorse ordinarie per
le Università e definire un nuovo sistema per la loro
ripartizione, in modo da valutare i risultati della ricerca
e della didattica con gli indicatori socio-economici del
territorio nel quale l’università si trova a operare, e il
loro impatto sulla sua performance”; oltre che “riformare il
sistema di contribuzione degli studi universitari sulla base
di criteri di equità e progressività” e “aumentare il numero
degli studenti beneficiari di borse di studio e di forme di
welfare studentesco”. “Lettera aperta ai miei studenti”, lo sfogo
di un'insegnante fabrianese: “Hanno passato davvero il
segno: ci chiedono di lavorare gratis, ce lo chiedono ad
anno scolastico iniziato”.
'Cari studenti, vi confesso che tante volte
ho avuto la tentazione di togliere il disturbo e battere in
ritirata. Ancora di più negli ultimi anni: anni di degrado
culturale, ormai ne sono convinta, pianificato, voluto, non
casuale'. Questa la lettera, che riceviamo e pubblichiamo,
di un'insegnante fabrianese ai suoi studenti.
"Ho sempre creduto nel motto di don Lorenzo
Milani secondo cui 'non c’è niente di più ingiusto che fare
parti uguali tra disuguali'. La scuola costruisce la
democrazia se riesce a colmare la disuguaglianza, a
eliminare lo svantaggio, a far crescere tutti, ma
soprattutto chi ha meno mezzi (sociali, economici,
culturali). Non può adempiere al suo ruolo di educatore chi
viene continuamente mortificato; non si può combattere
contro questa cinica guerra alla cultura, all’istruzione, ai
giovani, al futuro, alla democrazia, con l’individualismo,
il menefreghismo e la rassegnazione di chi lavora nella
scuola, di chi la frequenta e di chi ci manda i propri
figli. Sento un senso di nausea insopportabile ogni volta che
all’improvviso qualcuno scopre che 'bisogna rimettere al
centro dello sviluppo del paese la scuola (quella pubblica,
ca va sans dire), la ricerca e la cultura': sono solo
slogan, cari ragazzi e cari genitori, solo prese per il
culo, di solito immediatamente smentite da votazioni in
commissione contro il ripristino delle ore di storia
dell’arte, da tagli del ministero alle risorse per il
miglioramento dell’offerta formativa, dai soliti contributi
alle scuole paritarie o dal mortificante trattamento
ricevuto dai nostri ricercatori, veri talenti che appena
possono ci abbandonano. Io ho da poco saputo che quest’anno scolastico nè io nè i
miei colleghi riceveremo un centesimo per i lavori già
pianificati, programmati e soprattutto necessari, per più
della metà già svolti, visto che siamo a metà anno
scolastico (perché le istituzioni quelle che dovremmo
insegnare a rispettare, sono talmente corrette e rispettose
dei cittadini e dei lavoratori, che ce lo comunicano a fine
gennaio). Mi riferisco alle attività dell’alternanza scuola
lavoro, dell’orientamento professionale, delle attività
pomeridiane di recupero e sostegno, di approfondimento
disciplinare o di laboratorio. Perché? Perché quei soldi servirebbero a coprire gli scatti
di anzianità (peraltro dovuti) anche per il 2013. Hanno
passato davvero il segno: ci chiedono di lavorare gratis, ce
lo chiedono ad anno scolastico iniziato, senza il minimo
rispetto per la nostra dignità umana e professionale. Così
ho deciso di aderire alla protesta indetta dal sindacato Flc
CGIL di astenermi dal 21 febbraio al 22 marzo da qualsiasi
attività aggiuntiva. E se alla data del 22 marzo niente sarà cambiato (come
purtroppo credo) presenterò le dimissioni dai miei incarichi
e rifiuterò di svolgere anche una sola ora di recupero
pomeridiano o altre attività extra. Dovremmo farlo tutti in
massa e mettere l’opinione pubblica e le famiglie in
condizione di capire che il male lo stanno facendo a voi e
al vostro futuro, senza contare che lo schiavismo è stato
abolito da più di due secoli! Recentemente alcuni di voi,
miei cari studenti, hanno svolto un saggio breve dal titolo
“il lavoro: diritto, dovere, dignità” o in alternativa un
tema su libertà uguaglianza e fratellanza. Mi chiedo perché
continuo a raccontarvi certe balle, ostinandomi a credere in
certi principi e a pretendere di trasmetterli,
costringendovi a riflettere sulla vostra vita. Presuntuosa
vero? A volte quando affermo queste cose con convinzione, mi sorge
il dubbio se sto recitando, se le parole che dico
corrispondono ancora alla mia convinzione di poter incidere
sulla vostra formazione umana e civile o se sono solo un
mero quanto inutile atto di volontà. Comincio a sentirmi
inadeguata. Amavo tanto questo lavoro, lo svolgevo con entusiasmo e
creatività, con passione e la giusta dose di caparbietà. Ora
no, lo svolgo solo per senso del dovere, quello che i miei
genitori mi hanno trasmesso con il dna. E meno male che il
sangue non è acqua. Così qualcosa, sebbene poco, posso
ancora darvi. E scusate, davvero, se è poco".
Giuseppina Tobaldi – docente di letteratura e
storia all’istituto tecnico per il turismo Morea.
l'Unità, del 11-02-2014, di Benedetto
Vertecchi
MENTRE SI CONTINUA A DISCETTARE SULLA
POSIZIONE MODESTA (PER USARE UN EUFEMISMO) CHE LE NOSTRE
SCUOLE OCCUPANO NELLE GRADUATORIE messe a punto in base ai
risultati delle rilevazioni comparative dell’Ocse, non
sembra suscitare altrettanto interesse la ricerca delle
ragioni del malessere del sistema educativo. Tutti si
affannano a dichiarare la centralità dell’educazione per lo
sviluppo del Paese, ma pochi si sforzano di superare
interpretazioni di breve momento per individuare le radici
di un malfunzionamento sempre più evidente. Accade anche di
peggio, e cioè che si pretenda di superare la crisi con
annunci sempre meno credibili di innovazioni che starebbero
per essere introdotte, senza peraltro mai indicare elementi
obiettivi che dovrebbero giustificare un atteggiamento di
fiducia. Si direbbe che ormai si sia rinunciato a spiegare
le ragioni della crisi e si utilizzino cascami
interpretativi presi a prestito da altri settori della vita
sociale, o si sfruttino gli aloni positivi associati a
elementi di razionalità impliciti nello sviluppo
tecnologico, per coprire l’assenza di interpretazioni e
progetti originali per lo sviluppo del sistema educativo.
Eppure, proprio cercando di capire quali siano gli scenari
che nei diversi Paesi caratterizzano l’attuale fase di
trasformazione dei sistemi educativi, si potrebbero trarre
utili indicazioni circa le direzioni verso cui tendere.
Anche se in modo schematico, potremmo separare nelle
politiche scolastiche alcuni principali orientamenti. Il
primo è quello di Paesi in cui l’analfabetismo continua a
costituire una piaga diffusa e nei quali la miseria diffusa,
unita a condizioni politiche sfavorevoli, impedisce che si
promuova la crescita dei sistemi educativi. Un secondo
orientamento è quello di Paesi che hanno effettuato scelte
per uscire dalla marginalità delle condizioni postcoloniali
e seguire un percorso di sviluppo che riguardi insieme la
vita civile e politica, il sistema produttivo e
l’educazione. Il terzo orientamento è quello che si
manifesta in Paesi tesi a un potenziamento dalle strutture
produttive che prescinde dal perseguimento di traguardi
ugualmente impegnativi nella vita sociale. Infine, c’è da
considerare l’orientamento dei Paesi europei e di quelli
che, in altri continenti, si pongono in continuità con la
medesima tradizione. Le comparazioni Ocse riguardano
soprattutto quest’ultimo orientamento. Sono poste in
evidenza le diversità che si manifestano tra un Paese e
l’altro, ma le graduatorie sulle quali si richiama
l’attenzione indicano, bene che vada, che ci sono Paesi che
ottengono risultati migliori di altri, ma non che quei
risultati sono da considerare di per sé positivi. Ciò ha
favorito l’inserimento in chiave concorrenziale nelle
posizioni elevate delle graduatorie del terzo orientamento,
presente soprattutto in alcuni Paesi dell’estremo Oriente e,
dall’ultima rilevazione (2012), in Cina, o almeno nella
provincia presa in considerazione, quella di Shangai. Solo
per il prevalere nell’attività dell’Ocse di una logica di
globalizzazione si è potuto accettare di comporre in un
unico quadro modelli educativi tanto lontani fra loro come
sono quelli europei rispetto a quelli di alcuni Paesi che
recentemente hanno conosciuto un rapido sviluppo
dell’educazione scolastica, come quelli che prima sono stati
menzionati. In quei Paesi il livello di competitività alla
base del successo scolastico è incomparabile rispetto a
quello che si osserva in Europa. Il successo è perseguito ad
ogni costo, anche a quello di sacrificare altri aspetti
importanti dell’educazione scolastica, sono quelli che si
collegano alla socializzazione e allo sviluppo affettivo.
Gli esami sono fortemente selettivi, e in conseguenza già a
quindici anni (l’età presa in considerazione per le
comparazioni Ocse) il percorso educativo appare segnato
dagli effetti di una competizione esasperata, non di rado
all’origine di un’autodistruttività che contraddice il ruolo
dell’educazione, quello di favorire l’adattamento alla vita
delle nuove generazioni. Ha senso comparare dati sul
successo scolastico che si riferiscono a situazioni così
diverse? Ma, anche restando all’interno del quarto
orientamento, quello della scuola europea, ci si trova di
fronte a differenze che riducono fortemente la capacità
delle graduatorie di dar conto della capacità dei sistemi
educativi di perseguire determinati intenti. Si passa da
sistemi scolastici che si sono progressivamente
caratterizzati per la loro capacità di organizzare una parte
prevalente del tempo di vita degli adolescenti a sistemi che
si limitano ad assicurare un certo numero di lezioni, senza
tener conto della necessità di radicare l’apprendimento
degli allievi attraverso attività che comportino l’esercizio
di un saper fare intelligente. Nelle comparazioni
internazionali non sono i nostri allievi che scapitano
rispetto ai loro coetanei europei, ma è il nostro sistema
scolastico che denuncia l’angustia delle scelte effettuate,
sul piano della quantità (orari rachitici di funzionamento)
e della qualità, ovvero, in primo luogo, dell’uso delle
risorse. Quando si fanno annunci mirabolanti sulle
prospettive salvifiche di un’innovazione fondata su
soluzioni delle quali nessuno è in grado di dimostrare
l’efficacia (e spesso è stato, invece, dimostrato che
possono indurre effetti negativi), la comparazione non ha
nulla a che fare con le prestazioni degli allievi, ma con le
scelte dissennate operate a livello del sistema.
La creazione dell'area unica inciderà sui
trasferimenti
ItaliaOggi, del 11-02-2014, di Carlo Forte
L'unificazione delle aree del sostegno nelle
scuole superiori si farà già da quest'anno. E con lei sono a
rischio moltissimi posti di lavoro nella scuola. Il ministero dell'istruzione sta spingendo il piede
sull'acceleratore e ha già presentato alle organizzazioni
sindacali una bozza di accordo. La proposta dell'amministrazione centrale è diretta a
modificare l'ipotesi di contratto sui trasferimenti e sui
passaggi siglata il 17 dicembre scorso ed inviata alla
funzione pubblica il 22 gennaio. L'intenzione del dicastero di viale Trastevere è quella di
procedere celermente così da chiudere l'accordo in tempo per
le prossime operazioni di mobilità. Che secondo quanto risulta a ItaliaOggi dovrebbero partire
nel mese di marzo con la presentazione delle domande on line.
Se non ci saranno intoppi, la sottoscrizione definitiva
dell'ipotesi di contratto potrebbe avvenire già il 24
febbraio prossimo. Fermo restando che, per l'unificazione
delle aree, bisognerà sottoscrivere un accordo a parte, che
gli addetti ai lavori chiamano «sequenza contrattuale». Il testo del nuovo accordo andrà a sostituire l'articolo 30
del contratto sulla mobilità è disporrà l'unificazione delle
4 aree (AD01, AD02; AD03; AD04) in cui attualmente sono
suddivise le specialità del sostegno delle superiori. Il
tutto in analogia con quanto già avviene nelle scuole
secondarie di I grado. In buona sostanza, dunque,
l'amministrazione scolastica avrebbe deciso di non attendere
la mobilità annuale per dare attuazione all'articolo 13, del
decreto legge n. 104/92 (così come modificato dall'art. 15,
comma 3 bis, della L. 128/2013). E ciò, sempre secondo quanto risulta a ItaliaOggi,
coinciderebbe con precise indicazioni che sarebbero state
impartite direttamente dal ministro, Maria Chiara Carrozza. Il rischio che si corre, con l'applicazione della nuova
disciplina, è quello di ingenerare una forte riduzione dei
posti di lavoro per i docenti a tempo determinato. E la fase
più rischiosa per i precari è proprio quella dei
trasferimenti. Al momento, infatti, il passaggio sul
sostegno (che si configura giuridicamente come un
trasferimento) può essere chiesto solo con riferimento
all'area di appartenenza. E ciò limita fortemente le
probabilità di ottenere il movimento richiesto. Ma se la possibilità del passaggio sarà consentita su
qualsiasi area, a prescindere da quella di appartenenza, il
numero dei docenti che otterranno il passaggio è destinato a
salire vertiginosamente. Ciò determinerà una forte
contrazione delle disponibilità di posti sul sostegno già
nell'organico di diritto. E poi il colpo di grazia interverrà al momento delle
utilizzazioni. In tale fase, infatti, oltre ai movimenti e
alle conferme dei docenti della Dos (dotazione organica del
sostegno) e cioè dei docenti di sostegno di ruolo che
insegnano alle superiori, verranno disposti anche più
provvedimenti di utilizzazione sul sostegno. Proprio perché,
mancando il vincolo dell'area di appartenenza, gli
interessati avranno molte più probabilità di ottenere i
movimenti richiesti (sulla Dos). E ciò farà diminuire
sensibilmente le disponibilità per gli incarichi di
supplenza. Di qui il rischio, più che fondato, che molti
docenti precari rimangano senza lavoro. Va detto subito, però, che l'interpretazione del ministero
non è indenne da elementi di criticità. Il decreto Carrozza,
infatti, nel disporre in generale l'unificazione delle aree
del sostegno, reca una serie di disposizioni di dettaglio
che sembrerebbero orientare l'interprete nel senso
dell'applicabilità delle nuove disposizioni solo ai fini del
reclutamento. Per giunta, ai soli concorsi che saranno
banditi dopo l'entrata in vigore della riforma. Salvo una
graduale applicazione anche alla disciplina delle supplenze
da conferire tramite lo scorrimento delle graduatorie di
istituto. Ed è proprio il mantenimento in vita delle disposizioni sul
reclutamento, tramite lo scorrimento delle graduatorie a
esaurimento e dei concorsi ordinari già esistenti, che
induce a ritenere che gli organici continueranno ad essere
compilati recando l'indicazione della tipologia di posto. E l'assenza di disposizioni di legge modificative dei
criteri di compilazione degli organici non fa che confortare
la tesi, secondo la quale, i docenti di ruolo che sono stati
assunti con il vecchio sistema dovrebbero continuare ad
insegnare su posti dell'area per la quale sono stati
assunti. In caso contrario si andrebbe in rotta di collisione con il
principio di infungibilità degli insegnamenti. Che preclude
la spendibilità in altri insegnamenti dei titoli
professionali posseduti dai docenti attualmente in servizio. Sussistono, dunque, rischi concreti di incrementare il
contenzioso. Specie se si pensa che, cambiare le regole del
gioco mentre si sta ancora giocando, proprio adesso che il
ministero ha emanato la circolare con le disposizioni per le
immissioni in ruolo sul sostegno (la n. 362 del 6 febbraio
scorso, si veda anche ItaliaOggi di martedì scorso) rischia
di mandare in fumo le legittime aspettative di centinaia di
precari giunti, dopo anni di attesa, a un passo
dall'assunzione.
Nonostante la riforma Fornero abbia bloccato
in cattedra tantissimi insegnanti pronti a passare la mano
ai più giovani, si profila un consistente incremento di
uscite dal lavoro a partire dal primo settembre 2014
la Repubblica.it, del 10-02-2014
SALVO INTRAVAIA BOOM di pensionamenti in arrivo nella scuola. Nonostante la
riforma Fornero abbia bloccato in cattedra tantissimi
insegnanti pronti a passare la mano ai più giovani, si
profila un consistente incremento di uscite dal lavoro a
partire dal primo settembre 2014. I dati, che Repubblica è
in grado di anticipare, sono ancora provvisori ma in ogni
caso abbastanza significativi per descrivere la voglia che
hanno gli insegnanti italiani di gettarsi alle spalle un
lunghissimo periodo di lavoro nelle classi senza troppe
soddisfazioni, almeno dal punto di vista economico. E per
presentare domanda ci sarà tempo ancora fino al 14 febbraio,
giacché il termine dello scorso sette febbraio è stato
prorogato. L’anno scorso, quando la riforma del governo Monti sulle
pensioni fece crollare i pensionamenti nelle scuole, gli
insegnanti che abbandonarono la cattedra furono appena
10.860. Quest’anno, stando alle anticipazioni provenienti
dagli uffici di viale Trastevere, saranno parecchi di più se
sul finire della scorsa settimana le domande online
inoltrate avevano già superato le 12mila e 500 unità. Con un
incremento del 15 per cento che potrà soltanto incrementarsi
visto che il precedente termine del 7 febbraio per inoltrare
le domande è stato prorogato al 14 febbraio prossimo. Ma perché coloro che hanno maturato i requisiti per la
pensione non ci pensano due volte a fare largo ai giovani?
Secondo il segretario della Cisl scuola, Francesco Scrima,
si tratta di un «chiaro messaggio di stanchezza da parte
della categoria». «Chi va in pensione — continua Scrima —
non lo fa a cuor leggero ma, secondo quanto ci risulta
ascoltando ogni giorno i docenti, per frustrazione:
insegnare oggi richiede fatica e impegno che non vengono
riconosciuti. Ecco perché in tanti hanno deciso di andare
via dalla scuola. E per questa ragione chiediamo al governo,
al parlamento e alla politica di attivare tutte le azioni
per il riconoscimento del lavoro degli insegnanti e di
aprire il confronto per il rinnovo del contratto di lavoro». I docenti e gli Ata (gli ammini-strativi, i tecnici e gli
ausiliari) hanno il contratto scaduto ormai dal 2009, con
stipendi tra i più bassi d’Europa. In più, l’ultimo governo
Berlusconi e il governo Monti hanno bloccato gli scatti
stipendiali automatici previsti dal contratto per consentire
almeno un piccolo recupero dell’inflazione. E nei casi in
cui gli scatti sono stati pagati, i sei anni tra un
avanzamento di stipendio e il successivo si sono dilatati a
sette o ad otto. «Gli insegnanti, appena raggiungono il
requisito, fuggono dalla scuola», commenta Domenico Pantaleo,
leader della Flc Cgil». «Il perché è presto detto: tra
tagli, disorganizzazione crescente e condizioni di lavoro
sempre più gravose il pensionamento è un’ancora di
salvataggio». Ma non solo: «Le persone, insegnanti compresi,
temono che si metta mano ancora alla legge Fornero per
allungare la permanenza al lavoro. E chi può se ne va».
Opportunità negata anche ai cosiddetti docenti “quota 96”
(con almeno 36 anni di servizio e 60 anni di età o 35 anni
di servizio e 61 di età) che avendo già maturato i requisiti
per andare in pensione con la vecchia normativa sono stati
bloccati a scuola fino a 67 anni dall’entrata in vigore
della legge Fornero perché non è stato previsto che nella
scuola l’anno scolastico termina il 30 agosto e non il 31
dicembre. Una “ingiustizia” alla quale il governo Letta sta
cercando di porre rimedio.
I due Ministri del Governo Letta sono
riusciti finalmente a mettere d'accordo i sindacati della
scuola che ormai sembrano avviarsi verso una azione unitaria
a difesa di stipendi sempre più magri per tutti. Ma la
stessa Carrozza, a questo punto, potrebbe "saltare".
La Tecnica della Scuola.it, del 08-02-2014,
di Reginaldo Palermo
Si sono impegnati a fondo e, alla fine, ce
l’hanno fatta: i ministri Carrozza e Saccomanni sono
finalmente riusciti a raggiungere l’obiettivo di mettere
d’accordo tutti i sindacati, dalla Cisl allo Snals e fino
alla Cgil che sembrava ormai orientata ad andare avanti per
la propria strada. L’accordo fra i 5 sindacati che siedono al tavolo delle
trattative nazionali si sta realizzando su una questione
relativamente limitata ma pur sempre significativa: il
taglio del fondo di istituto e la mancata soluzione della
questione delle posizioni economiche. Se poi ci mettiamo
dentro anche il problema del fondo unico nazionale dei
dirigenti scolastici possiamo tranquillamente affermare che
l’intesa fra le diverse sigle si estende anche all’ANP. In realtà, per ora, l’accordo fra i sindacati non è del
tutto perfezionato perché le iniziative di mobilitazione e
di protesta sono ancora frammentate. Per esempio sulle
questioni dei dirigenti scolastici c’è uno sciopero Cgil,
Cisl,Uil e Snals per il 14 febbraio al quale però non
aderisce Anp che aveva già organizzato un affollato sit-in
in viale Trastevere a Roma, nel mese di gennaio. In questi giorni Flc-Cgil ha proclamato l’astensione da
tutte le attività aggiuntive di docenti e ATA dal 21
febbraio al 22 marzo, mentre tutte le altre sigle hanno
diffidato Miur e MEF dal procedere al recupero degli aumenti
legati alle posizioni economiche ATA dando avvio alla
procedura di conciliazione; e c’è anche l’annuncio che, in
caso di mancato accordo, gli ATA si asterranno da ogni
attività aggiuntiva. Ma, il mancato accordo è nei fatti
perché arrivati ormai alla età di febbraio è impossibile
bloccare il recupero degli aumenti già attribuiti. Ma quali potrebbero essere i prossimi sviluppi della
vicenda? Difficile prevederlo perché la questione si intreccia con le
vicende politiche più generali. Una possibilità è che in
occasione dell’ormai quasi certo “rimpasto” di Governo il
ministro Carrozza potrebbe essere immolata con l’accusa di
non essere riuscita a dialogare con il mondo della scuola. Il problema è che, al momento attuale, risulta difficile
pensare ad un ministro dell’istruzione capace di dialogare
con docenti, ata, dirigenti scolastici e famiglie al quale
però non vengano assegnate risorse finanziarie adeguate. Anzi, quasi certamente il futuro Presidente del Consiglio
farà fatica a trovare un nuovo Ministro da mettere al posto
di Carrozza che magari, proprio per questo motivo,
correrebbe il rischio di rimanere ancora a viale Trastevere
ma solo per fare da parafulmine alla incapacità del Governo
nel reperire risorse vere da destinare al sistema di
istruzione (giorno dopo giorno, i famosi 400 milioni del
decreto “La scuola riparte” si stanno infatti rivelando una
mezza bufala). Quello che è certo, però, è che fra un mese o due il
Ministro dell’Istruzione (chiunque sia) dovrà rispondere a
parecchie domande; in mancanza di risposte chiare l’unità di
intenti fra le diverse sigle sindacali potrebbe trasformarsi
in un’unità di azione.
Responsabilità sociale legata
al “render conto” delle cose che si fanno e di come si fanno
e dei risultati che si ottengono o non si ottengono.
ScuolaOggi.it, del 29-01-2014, di Antonio Valentino
Parlare
oggi della questione docente – indubbiamente cruciale se si
vuole invertire l’attuale tendenza al declino - penso
significhi necessariamente e, per alcuni versi, soprattutto,
misurarsi col tema della responsabilità sociale degli
insegnanti (e delle scuole in genere). Responsabilità sociale legata al “render conto” delle cose
che si fanno e di come si fanno e dei risultati che si
ottengono o non si ottengono. Quella delle responsabilità dei docenti (e dei DS e delle
scuole in genere) rispetto agli esiti scolastici degli
studenti è - come è risaputo - questione delicata e
complessa, perché il successo e l’insuccesso a scuola non
dipendono solo dalla qualità dei percorsi di insegnamento;
dietro i risultati infatti ci sono anche questioni che
hanno a che fare con le caratteristiche degli ambienti
familiari e del contesto sociale degli allievi, con le
storie individuali (esperienze, occasioni …), oltre che con
il DNA di ciascuno. Tutto questo indubbiamente porta a relativizzare – più o
meno, a seconda delle diverse visioni che si hanno delle
questioni che entrano in gioco - il livello di
responsabilità rispetto alla “riuscita” degli studenti, ma
certamente non l’annulla. La complessità e la delicatezza del tema non possono
comunque oscurare alcuni aspetti e comportamenti ricorrenti
nella vita delle nostre scuole. Chi ha esperienza di gestione o di sola partecipazione ai
Consigli di classe, non necessariamente finalizzati agli
scrutini finali, sa per esempio che l’insuccesso
scolastico, soprattutto da parte di quei docenti che hanno
un numero elevato di insufficienze nella propria materia,
viene messo generalmente in carico ai soli studenti. Responsabilità soggettive, per molti insegnanti, zero. Di altri - compresa madre natura - praticamente tutte. L’idea ancora prevalente L'idea prevalente di sė ė ancora quella di chi pensa di
assolvere ai propri compiti professionali mettendo al centro
del proprio impegno, l'attività di insegnamento fermo al
trinomio spiegazione - interrogazione - valutazione. Il cambiamento di ottica (l'insegnante che si preoccupa che
lo studente apprenda, che tutti gli studenti apprendano
secondo le proprie possibilità e attitudini), non c'è stato
ancora. Certamente si sono fatti passi in avanti importanti
rispetto ad alcuni decenni fa, quando l'insegnante non
doveva preoccuparsi d'altro che di fare delle belle lezioni
(quando era in grado di farle), dare voti, promuovere o
bocciare. Ora c'è senz'altro una maggiore sensibilità, ma
l'idea che il successo e l'insuccesso dipende molto da lui -
e dal tipo di intesa che riesce a stringere con i colleghi
del suo Consiglio - non ė ancora diffusa. O, almeno, non è
prevalente. Che la crisi del nostro sistema formativo sia anche la
conseguenza di questa mancata riforma nei comportamenti e
più in generale nel modo di percepire la professione (anche
a seguito dei cambiamenti indotti dalla scolarizzazione di
massa, ma non solo), ė cosa che non può essere negata. Come ė indubbio che questa mancata riforma ė soprattutto il
frutto di politiche del personale non certo pensate per dare
qualità al nostro sistema, di riforme parziali e generali
pasticciate e incoerenti e di misure attuative e di
accompagnamento che non andavano bene neanche sulla carta. Pertanto una considerazione diversa, da parte dei docenti,
del proprio lavoro e il sentirsene responsabili rispetto ai
risultati che ne conseguono, non ė un problema trascurabile,
ma ė parte centrale dell'intera questione docente. E quindi
di un ragionamento complessivo che punti a portare la nostra
scuola fuori dall'attuale situazione di demotivazione e di
diffusa irresponsabilità (per i risultati di apprendimento
dei propri allievi). Portare al centro dell'attenzione la responsabilità della
scuola - e quindi delle sue figure centrali - rispetto agli
esiti del lavoro scolastico non ė pertanto obiettivo da
poco, sotto molti aspetti. Nelle scuole se ne parla poco, perché forse si pensa che, a
parlarne, si voglia quasi offrire alibi e giustificazioni
all’Amministrazione e alla politica, per le loro
inadempienze, ma soprattutto per la mancanza – e non da oggi
- di una visione coraggiosa e motivante (credibile) di cui
il nostro sistema di istruzione ha sempre sofferto – salvo
che per alcuni limitati periodi -. I ragionamenti che qui si fanno non sono dunque relativi
alle responsabilità di vario tipo (civili, dirigenziali,
disciplinari, penali), che le disposizioni normative
opportunamente prevedono per i dipendenti
dell’Amministrazione Pubblica, nei casi di inosservanza dei
propri doveri professionali (omissioni o azioni carenti o
comportamenti inadeguati o peggio). Sfera etico-professionale e profilo del buon insegnante Il senso di responsabilità rispetto ai risultati al centro
di questa riflessione attiene piuttosto alla sfera
etico-professionale di chi opera nella scuola e che è
comunque cruciale per “vedere”, progettare e accompagnare i
cambiamenti necessari. Potremmo definirlo “valore aggiunto” (se il termine non
fosse abusato), in funzione dell’innovazione e del
miglioramento. E include atteggiamenti e comportamenti
riferibili soprattutto al farsi carico delle difficoltà di
apprendimento e di attenzione dei propri allievi al sapere
organizzare per proposte, ambienti, strumenti e modalità
adeguati per coinvolgere, motivare, ottenere risultati al
meglio delle possibilità di ciascuno, alla capacità di
ascolto attivo e all’analisi attenta degli esiti del proprio
lavoro, positivi o negativi che siano. Quindi al sentirsi responsabili del successo o insuccesso
dei propri studenti. La responsabilità percepita in una ricerca sul campo. L’interrogativo specifico qui al centro del ragionamento è
soprattutto il seguente: il senso di responsabilità
soggettiva e di gruppo va considerato soltanto rispetto alla
sfera etica oppure ha un valore sociale e come tale va
considerato e promosso? Ricerche in proposito, dell’ultimo decennio, condotte in
paesi del Nord America ed europei (v. nota bibliografica)
confermano sostanzialmente l’idea che il sentirsi
responsabili degli insuccessi (ma anche artefici dei
successi dei propri allievi) aiuta a diventare dei buoni
insegnanti e anche a vivere meglio (in termini meno
stressati o “arrabbiati” o demotivati) la professione. In Italia non mi risulta siano stati condotti studi
specifici al riguardo. Perciò ho letto con interesse i
risultati di una ricerca condotta nella provincia di Parma
su “Insegnanti e responsabilità percepita: uno studio
empirico” della prof.ssa Alessandra Cremaschini[1],
condotto sulla base di stimoli e strumenti operativi degli
studi realizzati nei paesi prima citati. Si tratta di una tesi svolta per un Corso di Laurea in
Psicologia scolastica e di Comunità presso l’Università di
Parma, che conferma, per quella provincia, quanto già emerso
negli studi ricordati; ma anche percezioni diffuse tra chi
sa di cose scolastiche. E cioè che 1. Sentirsi – ed essere – responsabile dei risultati
scolastici è atteggiamento culturale e professionale che
aiuta l’insegnante a rapportarsi meglio con i propri
studenti e a migliorare le proprie competenze
professionali, in vista di risultati positivi o più positivi
del proprio insegnamento. 2. Il sentirsi - ed essere - responsabili degli esiti
formativi dei propri allievi è fortemente favorito da
fattori interni ed esterni alla scuola (un certo clima,
politiche di coinvolgimento nelle scelte), ma anche da
attitudini personali e dalle motivazioni che sono state alla
base della scelta di fare l’insegnante. Questo risultato della ricerca è particolarmente importante
perché interpella le competenze del DS rispetto al clima di
scuola e al coinvolgimento dei docenti per promuovere un più
alto senso di responsabilità e favorire una qualità
professionale più elevata. Ma , forse, ancor prima,
interpella chi (in primis il MIUR) ha il compito di favorire
una professionalità più alta di docenti e DS, a
valorizzarne l’impegno e a coinvolgerli nelle scelte
educative di politica scolastica. E rimanda alle politiche
del personale, come quelle per la selezione, la formazione,
la valorizzazione, …. .
Rassegna.it, del 29-01-2014
"Poche
luci e molte ombre" dopo l’incontro con il ministro
dell'Istruzione Maria Grazia Carrozza. Lo afferma il leader
della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo. "Riteniamo importante -
osserva il sindacalista - l’impegno del governo a rimuovere
il blocco delle retribuzioni dei lavoratori della scuola per
il 2014, ma rileviamo che rimangono ancora aperte alcune
partite importanti sugli aspetti salariali e contrattuali
del personale della scuola". Sul versante del ripristino degli scatti di anzianità di
docenti e Ata, "pur apprezzando l’impegno del ministro per
evitare il recupero forzoso in busta paga, dobbiamo rilevare
che nessuna risorsa aggiuntiva è stata prevista e l’unica
possibilità che ci è stata prospettata è la decurtazione del
fondo per il miglioramento dell’offerta formativa (Mof), che
rappresenta un pezzo del salario accessorio del personale e
l’unica fonte certa per sostenere l’ampliamento dell’offerta
formativa". Nessuna soluzione, invece, per le posizioni economiche del
personale Ata e per il salario di posizione dei dirigenti
scolastici. "Diciamo con chiarezza - prosegue Pantaleo - che
su questi punti occorre trovare una soluzione in fretta: non
è accettabile che si proceda retroattivamente a recuperare
somme già pagate a fronte di prestazioni rese negli anni
scorsi. Se queste risposte non arriveranno, la Flc Cgil
continuerà con le mobilitazioni ed è pronta ad arrivare fino
allo sciopero della scuola". "Assolutamente inammissibile - a suo giudizio - è invece il
tentativo di scambiare salario/stabilizzazioni di gelminiana
memoria. Non possiamo non rilevare la contraddizione fra il
ripristino degli scatti 2012 e l’intervento sulle carriere
dei neoimmessi in ruolo per sostenere i costi delle
assunzioni previste dal piano triennale licenziato dal
Governo un paio di mesi fa. Lo diciamo fin da adesso: se è
questo ciò che si prefigura, la Flc darà battaglia per
evitare che a pagare il conto siano sempre i più deboli". "Crediamo infatti - conclude la nota - che sia giunto il
momento di cessare gli interventi invasivi sui diritti
contrattuali e salariali del personale della scuola e fare
l’unica cosa che i lavoratori e le lavoratrici si aspettano:
rinnovare il contratto nazionale di lavoro sia per la parte
economica che normativa. La Flc a tal proposito nelle
prossime settimane presenterà la propria piattaforma
contrattuale per dare un segnale tangibile dell’impegno
della nostra organizzazione. Ora sta al governo, dare una
risposta a tutto il personale dei comparti della conoscenza
in termini di salario e di miglioramento delle condizioni di
lavoro garantendo il rinnovo del contratto nazionale".
Incontro
tra ministro e rappresentanti di categoria
la
Repubblica.it, del 29-01-2014
IN ARRIVO
più di 18mila assunzioni nella scuola per il prossimo anno
scolastico, ma i sindacati non sono affatto soddisfatti
dell'azione di governo sulla scuola. Oggi, durante
l'incontro con i sindacati, il ministro dell'Istruzione
Maria Chiara Carrozza e i sindacati ha annunciato la prima
tranche di assunzioni nella scuola a partire dal mese di
settembre. Si tratta, per entrare nel dettaglio, di 12.625
immissioni in ruolo per i docenti su posto comune, 1.604 per
gli insegnanti di sostegno e 4.317 posti per il personale
Ata: amministrativi, tecnici e ausiliari. Un pacchetto di
assunzioni che farà scattare il nuovo Piano triennale varato
dal governo Letta che prevede oltre 82mila assunzioni. L'annuncio è arrivato mentre ancora sulla questione
degli scatti di anzianità non si è ancora trovata
la soluzione definitiva. "Un confronto su molti temi - è
il commento piuttosto interlocutorio di Francesco Scrima,
della Cisl scuola - e con qualche interessante spunto di
apertura, ma nessuna concreta soluzione per le emergenze su
cui abbiamo ancora una volta posto l'accento nell'incontro
di oggi con la ministra". Prima fra tutte quella per le
cosiddette posizioni economiche del personale Ata, scatti
che hanno già prodotto aumenti stipendiali, che per effetto
del blocco degli automatismi economici, gli Ata rischiano di
dovere restituire. Una eventualità che Scrima definisce come "un vero e proprio
furto a danno di lavoratori che hanno già svolto le attività
per cui sono stati retribuiti". Anche la Flc Cgil è
piuttosto critica nei confronti della Carrozza e parla di
incontro con "poche luci e molte ombre". "Sul versante del
ripristino degli scatti di anzianità di docenti e Ata -
dichiara Mimmo Pantaleo - pur apprezzando l'impegno del
ministro per evitare il recupero forzoso in busta paga,
dobbiamo rilevare che nessuna risorsa aggiuntiva è stata
prevista e l'unica possibilità che ci è stata prospettata è
la decurtazione del fondo per il miglioramento dell'offerta
formativa". "Nessuna soluzione invece - continua Pantaleo -
per le posizioni economiche del personale Ata e per il
salario di posizione dei dirigenti scolastici". La Gilda degli insegnanti parla di importante "passo in
avanti" per le prime assunzioni del Piano triennale e chiede
al ministro di affrettare l'incontro all'Aran per trovare
una soluzione alla questione degli scatti stipendiali. Ma
sul contingente delle assunzioni su sostegno secondo l'Anief
"i conti non tornano". "Col decreto Scuola - dichiara
Marcello Pacifico - si era stabilito un numero di assunzioni
su sostegno superiore di dieci volte. Con questi numeri,
oltre a danneggiare gli allievi, si rischia di lasciare per
strada almeno 2mila docenti specializzati vincitori di
concorso. Mentre Marco Paolo Nigi, dello Snals, "ha espresso
con forza l'insoddisfazione del sindacato che non può
dichiararsi soddisfatto soltanto perché il governo ha
ridotto le penalizzazioni per il personale scolastico".
Le proposte del Forum giovani per scuole e
atenei, in occasione della pubblicazione del Rapporto
McKinsey «Education to Employment»
La Stampa.it, del 22-01-2014
ROMA
La valorizzazione dell’istruzione
professionale, attraverso l’aumento delle ore laboratoriali
e un investimento fattivo nel miglioramento della qualità
didattica dei percorsi. È una delle proposte avanzate dal
Forum nazionale dei giovani alla luce del Rapporto
McKinsey «Education to Employment» ,
presentato a Bruxelles. Altri interventi, secondo il Forum, dovrebbero riguardare
forme di sostegno all’occupazione giovanile e di incontro
tra domanda-offerta di lavoro, come ad esempio la Youth
Guarantee; una riorganizzazione degli strumenti di
alternanza tra istruzione e lavoro sia nelle scuole sia
negli atenei, come, ad esempio, lo stage; la necessità che
le scuole si interfaccino con il proprio tessuto
imprenditoriale territoriale per poter garantire una
formazione che valichi gli insegnamenti teorici. A parere del Forum deve essere prioritario per il Paese
ricercare un piano di rifinanziamento complessivo
dell’istruzione pubblica a partire da cinque ambiti d’azione
fondamentali: edilizia scolastica, partecipazione e
protagonismo studentesco, istruzione tecnica e professionale
e collegamento tra saperi e lavoro, diritto allo studio,
strumenti didattici e formazione degli insegnanti. «Le politiche di definanziamento in materia d’istruzione
degli ultimi governi – afferma Giuseppe Failla, portavoce
del Forum – hanno reso drammatico lo stato in cui versano
scuole e università. Il tasso di abbandono scolastico al
17,6% e il drastico calo delle immatricolazioni
all’università non soltanto pongono il nostro Paese a una
distanza abissale dagli obiettivi di Europa 2020, ma
impongono anche una riflessione complessiva sulle scelte
economiche da prendere in una fase ancora di profonda crisi.
L’Italia, infatti, è tra i Paesi che spende meno per Scuola
e Università pubblica». «Riteniamo che la “bolla formativa”, ossia l’incapacità del
mercato del lavoro di assorbire i nostri laureati, sia –
aggiunge Stefano Vitale, Consigliere del Forum con delega a
Scuola, Università e Ricerca – un’analisi attenta e una
risposta politica chiara. I nostri laureati non sono troppi,
troppi sono i nostri giovani disoccupati. Bisogna costruire
dei legami profondi tra mercato del lavoro e istruzione,
mettendo in discussione il modello produttivo attuale a
partire dalle scuole e dalle università e voltando pagina
rispetto a quelle forme di lavoro precario oggi molto
diffuse». E per Failla «è evidente come le risorse stanziate
dal DL Istruzione dello scorso Settembre «siano in questo
quadro positivi ma assolutamente insufficienti».
In un’Italia che vede l’istruzione e la
scienza ignorate, quando non umiliate, sarebbe auspicabile
che chi si candida con determinazione alla guida del Paese,
e soprattutto a un suo cambiamento strutturale, illustrasse
con chiarezza le proprie idee, possibilmente iniziando un
dialogo con i protagonisti di questo mondo, sulla pelle dei
quali sono state fatte nei decenni scorsi tutte le “riforme
epocali”.
l'Unità, del 22-01-2014, di Paolo Valente
Recente accelerazione della curva di Matteo
Renzi all’interno del Partito Democratico lo ha portato fino
alla massima responsabilità: segretario nazionale. Si è trattato di un percorso che è passato attraverso le
primarie perse a dicembre 2012 a vantaggio di Pierluigi
Bersani, dalla vittoria-non vittoria del PD alle ultime
elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013, fino al
tentativo fallito di formare un governo da parte di Bersani,
con il conseguente esecutivo di “larghe intese” affidato a
Letta, e le conseguenti dimissioni del Segretario. Quindi la
reggenza, e le nuove primarie a dicembre 2013, vinte
largamente da Renzi. Come primo atto, il nuovo Segretario ha rilanciato il suo
programma di riforme, a partire dalla legge elettorale, il
bicameralismo perfetto, il Titolo V della Costituzione. In questo anno, dalle primarie perse a quelle vinte,
all’azione politica di Matteo Renzi, candidato e sindaco di
Firenze, si è sovrapposto l’operato del Governo presieduto
da Enrico Letta, sostenuto, ovviamente, dal PD, e composto,
in parte, di parlamentari etichettati come “renziani”. Tra
questi, il ministro dell’istruzione, università e ricerca,
l’on. Carrozza. Governo che, come spesso capita di leggere nelle analisi
politiche anche meno ostili, è costretto, sia per la
particolare natura della maggioranza che lo sostiene in
Parlamento, sia per il respiro molto limitato del suo
programma e mandato, a navigare a vista in molti dei settori
in cui il nostro Paese versa in grave difficoltà: la
crescita, il lavoro, le riforme istituzionali. In materia di scuola, per esempio, abbiamo assistito ad una
vicenda, quella degli scatti stipendiali degli insegnanti,
che dice semplicemente che in molti settori ci si limita a
gestire il lascito delle pesanti manovre economiche lungo la
linea di continuità del “rigore” Tremonti-Monti-Saccomanni,
cercando di correggere la rotta, appunto “a vista”, ogni
qual volta si metta in evidenza un’emergenza dal punto di
vista sociale, politico o comunque di consenso. Né in tema di università e ricerca c’è stata una decisa
inversione di tendenza rispetto ai passati governi. Certo, i
tagli pesanti della legge 133/2008 e della manovra
correttiva del maggio 2010 (D.L. 78/2010) non sono stati
aggravati, e la ministra Carrozza rivendica alcune decine di
milioni di Euro di incremento nel fondo ordinario
dell’Università, che pure in questi anni si è ridotto da
oltre 8 a circa 7 miliardi; non si può però sostenere che la
logica del ridimensionamento sia stata superata. Anzi,
l’impianto della riforma “Gelmini” dell’Università, tutta
incentrata sulla riduzione del personale, sull’accentuato
controllo sui bilanci degli atenei, e accompagnata da una
selva di decreti attuativi che hanno – di fatto – bloccato
l’intero sistema, non è stato minimamente messo in
discussione. Il reclutamento universitario, infatti, oltre che limitato
dalla drastica riduzione del turnover, è bloccato di fatto
dall’incredibile lentezza delle procedure per l’abilitazione
scientifica nazionale (il requisito per poter aspirare a
diventare professore): a un anno e mezzo dalla scadenza del
bando (DD 222 del luglio 2012) ancora mancano all’appello i
risultati di oltre metà delle commissioni. Sorte migliore non tocca agli enti pubblici di ricerca:
dispersi e soggetti al controllo multiplo e incoerente di
(almeno) sette ministeri, non solo vedono i loro bilanci
erosi da anni, ma annegano nel mare della burocrazia, in
quanto accomunati dalla pletora di norme – spesso illogiche
e punitive – che riguardano la pubblica amministrazione. A
fronte di annunci di “cabine di regia” e una “nuova governance unificata”,
che minacciano l’ennesima riforma a costo zero, l’ennesimo
riordino in grado di aggravare i problemi dovuti ovviamente
alla scarsità di risorse e personale, ma anche e soprattutto
alla scarsa o nulla programmazione, non si vede
quell’attenzione a un settore che in qualsiasi altro Paese
d’Europa è considerato strategico: nessuna traccia del nuovo
Piano Nazionale della Ricerca, finanziamenti universitari (PRIN)
azzerati, programma per i giovani ricercatori annunciato ma
non bandito (Futuro in ricerca), rientro dei cervelli
bloccato, decreti di riparto in ritardo cronico, vertici
degli enti di ricerca ancora “monchi”, problema oramai
cronicizzati e per i quali sono state annunciate soluzioni
ancora all’ordine del giorno (precariato, in particolare ma
non solo all’INGV, accorpamenti e soppressioni di enti,
blocco dei contratti e delle carriere, caos normativo,
eccetera). Una lista lunga e noiosa per i non addetti ai
lavori. Sembra allora molto lontano il Forum università, saperi e
ricerca, presieduto dalla stessa Carrozza, che rivendicava
prima delle primarie 2012 “immediatezza, riformismo, metodo”
per “settori irrinunciabili come l’università e la ricerca,
dato che l’Italia, per competere in un nuovo scenario
globale, ha bisogno di più laureati e di più ricercatori”, e
che avrebbe voluto “fare dell’università il luogo centrale
della promozione di nuove risorse umane, in grado di
diventare l’ossatura di un nuovo modello di sviluppo del
nostro paese”. Su tutto questo, che dovrebbe rappresentare l’investimento
sul futuro del nostro Paese, sulle sue prospettive di
crescita e rilancio della competitività, ovvero
l’istruzione, la formazione, l’università e la ricerca
scientifica e tecnologica, Renzi ha parlato e scritto poco,
in questi mesi. Sulla scuola, dato l’enorme bacino
rappresentato non solo dal quasi milione di dipendenti, ma
soprattutto dai molti milioni di famiglie degli studenti di
ogni ordine e grado, un passo significativo viene dal
programma per le primarie: Gli insegnanti sono stati sostanzialmente messi ai margini,
anche dal nostro partito. Abbiamo permesso che si facessero
riforme nella scuola, sulla scuola, con la scuola senza
coinvolgere chi vive la scuola tutti i giorni. Non si tratta
solo di una autogol tattico, visto che comunque il 43% degli
insegnanti vota PD. Si tratta di un errore strategico:
abbiamo fatto le riforme della scuola sulla testa di chi
vive la scuola, generando frustrazione e respingendo la
speranza di chi voleva e poteva darci una mano. Il Pd che noi vogliamo costruire cambierà verso alla scuola
italiana, partendo dagli insegnanti, togliendo alibi a chi
si sente lasciato ai margini, offrendo ascolto alle buone
idee, parlando di educazione nei luoghi in cui si prova a
viverla tutti i giorni, non solo nelle polverose stanza
delle burocrazie centrali Molto meno, su università e ricerca, praticamente assenti
dal dibattito politico. Questo se si dimenticano le lontane
dichiarazioni a una trasmissione televisiva (8 e mezzo di
qualche mese or sono) che sono tutt’altro che rassicuranti e
– quanto meno – denotano un scarso approfondimento dei temi
dell’istruzione universitaria, della ricerca e della loro
valutazione e valorizzazione: Ma come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della
ricerca, cosa vuol dire? Cinque realtà anziché avere tutte
le università in mano ai baroni, tutte le università
spezzettatine, dove c’è quello, il professore, poi c’ha la
sede distaccata di trenta chilometri dove magari ci va
l’amico a insegnare, cinque grandi centri universitari su
cui investiamo… Le sembra possibile che il primo ateneo che
abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al
centoottantatreesimo posto? Io vorrei che noi portassimo i
primi cinque gruppi, poli di ricerca universitari nei
vertici mondiali. In un’Italia che vede l’istruzione e la scienza ignorate,
quando non umiliate, sarebbe auspicabile che chi si candida
con determinazione alla guida del Paese, e soprattutto a un
suo cambiamento strutturale, illustrasse con chiarezza le
proprie idee, possibilmente iniziando un dialogo con i
protagonisti di questo mondo, sulla pelle dei quali sono
state fatte nei decenni scorsi tutte le “riforme epocali”. Anche su questo, Matteo, cambia verso.
Viale
Trastevere intenzionato a unificare le aree. Ecco quali
saranno gli effetti
ItaliaOggi,
del 21-01-2014, di Carlo Forte
Dal
prossimo anno scolastico i docenti precari di sostegno delle
superiori rischiano di rimanere disoccupati. Secondo quanto
risulta a Italia Oggi, il ministero dell'istruzione sarebbe
orientato a disporre l'unificazione delle aree del sostegno
(AD01, AD02, AD03, AD04) già dal 1° settembre 2014, non solo
ai fini dei nuovi concorsi, ma anche della mobilità. Ciò
vuol dire che i docenti di ruolo potranno chiedere il
trasferimento sul sostegno a prescindere dall'area di
appartenenza. E potranno farlo anche in sede di
utilizzazione. L'opzione più rischiosa per i precari è
quella dei trasferimenti. Al momento, infatti, il passaggio
sul sostegno (che si configura giuridicamente come un
trasferimento) può essere chiesto solo con riferimento
all'area di appartenenza. Ciò limita fortemente le
probabilità di ottenere il movimento richiesto. Ma se la
possibilità del passaggio sarà consentita su qualsiasi area,
a prescindere da quella di appartenenza, il numero dei
docenti che otterranno il passaggio è destinato a salire
vertiginosamente. Ciò determinerà una forte contrazione
delle disponibilità di posto sul sostegno già nell'organico
di diritto. E poi il colpo di grazia interverrà al momento
delle utilizzazioni. In tale fase, infatti, oltre ai
movimenti e alle conferme dei docenti della Dos (dotazione
organica del sostegno) e cioè dei docenti di sostegno di
ruolo che insegnano alle superiori, verranno disposti anche
più provvedimenti di utilizzazione sul sostegno. Proprio
perché, mancando il vincolo dell'area di appartenenza, gli
interessati avranno molte più probabilità di ottenere i
movimenti richiesti (sulla Dos). Il che farà diminuire
sensibilmente le disponibilità per gli incarichi di
supplenza. Di qui il rischio, più che fondato, che molti
docenti precari rimangano senza lavoro. Va detto subito,
però, che l'interpretazione del ministero non è indenne da
elementi di criticità. Il decreto Carrozza, infatti, nel
disporre in generale l'unificazione delle aree del sostegno,
reca una serie di disposizioni di dettaglio che
sembrerebbero orientare l'interprete nel senso
dell'applicabilità delle nuove disposizioni solo ai fini del
reclutamento. Per giunta, ai soli concorsi che saranno
banditi dopo l'entrata in vigore della riforma. Salvo una
graduale applicazione anche alla disciplina delle supplenze
da conferire tramite lo scorrimento delle graduatorie di
istituto. Ed è proprio il mantenimento in vita delle
disposizioni sul reclutamento, tramite lo scorrimento delle
graduatorie a esaurimento e dei concorsi ordinari già
esistenti, che induce a ritenere che gli organici
continueranno ad essere compilati recando l'indicazione
della tipologia di posto. E l'assenza di disposizioni di
legge modificative dei criteri di compilazione degli
organici non fa che confortare la tesi, secondo la quale, i
docenti di ruolo che sono stati assunti con il vecchio
sistema dovrebbero continuare ad insegnare su posti
dell'area per la quale sono stati assunti. In caso contrario
si andrebbe in rotta di collisione con il principio di
infungibilità degli insegnamenti. Che preclude la
spendibilità in altri insegnamenti dei titoli professionali
posseduti dai docenti attualmente in servizio. A viale
Trastevere, però, non hanno dubbi circa l'applicabilità
delle nuove norme anche alla mobilità dei docenti di
sostegno. La diatriba, infatti, verte solo sul termine a
partire dal quale la nuova disciplina deve essere
implementata. Secondo quanto risulta a Italia Oggi, gli
orientamenti sarebbero essenzialmente due. Un primo
orientamento, che darebbe per scontata la necessità di dare
applicazione alle nuove disposizioni, anche per la mobilità,
con effetti già a partire dal 1° settembre prossimo. E un
secondo orientamento, che invece propenderebbe per un
termine più lato: il 1° settembre 2017. Termine che si
ricaverebbe dal comma 3-bis dell'articolo 15 del decreto
Carrozza. Che comunque fa riferimento all'attuazione
dell'unificazione ai fini delle graduatorie di istituto.
Dunque, del reclutamento dei supplenti da parte dei
dirigenti scolastici.
Dal tutor
alla formazione, tanti i ritardi accumulati dal Ministero.
Prevale il Fai da te
ItaliaOggi,
del 21-01-2014,di Giorgio Candelora
Le
promesse fatte in pompa magna alla vigilia di Natale dal
ministro Carrozza facevano pensare a una svolta e molti
erano pronti a giurare che col 2014 ví sarebbe stato un
nuovo inizio per l'orientamento scolastico. Ai circa sei
milioni e mezzo di euro previsti dal decreto istruzione,
prevalentemente per potenziare l'orientamento in uscita dei
ragazzi delle superiori (da estendere anche agli studenti
del quarto anno), si sarebbe dovuta affiancare, al ritorno
dalle vacanze natalizie, una nota di indirizzo per
consentire a dirigenti e insegnanti di mettere in pratica le
novità: orientamento in raccordo con il territorio e
soprattutto un tutor in ogni scuola. E ancora, formazione
obbligatoria per tutti i docenti e master specifici. Infine
una robusta campagna pubblicitaria, a base di spot su Rai
Scuola e MTV, e un sito sul portale istruzione.it; il tutto
per fornire informazioni e una guida efficace agli alunni
delle medie, alle prese con la scelta del liceo e ai grandi
da orientare verso l'università e il mondo del lavoro. Poco
di tutto questo è avvenuto sul serio: della nota
ministeriale promessa non c'è ancora traccia e la figura del
tutor di istituto va sfumando nel limbo degli effetti
annuncio. Solo gli spot e il sito sono partiti ma senza
sortire lo sperato effetto chiarificatore, visto che a un
mese dalla chiusura delle iscrizioni alle superiori una
famiglia su due con figli in terza media non ha ancora
scelto né l'indirizzo né l'istituto giusto, mentre i
maturandi sono più impegnati sulle (costose) simulazioni
"fai da te" dei test per le facoltà a numero chiuso esami
previsti in primavera, che a navigare tra le informazioni
piuttosto generiche proposte dal sito del ministero. Ma i
ritardi sulla tabella di marcia del nuovo orientamento
rischiano di creare parecchia confusione soprattutto alle
singole scuole. Con il decreto istruzione e con la
conferenza di fine anno del ministro, sembrava che il tutor
dovesse essere cosa fatta già in gennaio, e invece i
dirigenti navigano a vista senza indicazioni. Teoricamente
ogni istituto dovrebbe già essere dotato di questa figura di
riferimento, docente universitario, manager o imprenditore,
ma continuano a mancare le istruzioni sui criteri di
selezione, sulle caratteristiche specifiche e sulle
retribuzioni dei tutor, dubbi che la nota ministeriale
avrebbe dovuto chiarire. A questo punto è molto probabile
che di tutta la questione si riparli il prossimo anno, anche
perché tra circa un mese il termine per le iscrizioni sarà
chiuso e con esso anche il tema dell'orientamento, al di là
delle buone intenzioni, finirà col perdere inevitabilmente
di mordente e di attualità fino al prossimo autunno. In alto
mare anche la questione della formazione obbligatoria dei
docenti sull'orientamento. Anche qui il decreto istruzione
parla chiaro: le scuole devono provvedere. Ma come e con
quali fondi non è dato sapere. Non bastano certo i poco più
di sei milioni già stanziati, né si potrà provvedere con i
fondi di istituto, in queste settimane pesantemente
tagliati. E c'è chi avverte che rendere obbligatoria la
formazione implica un cambiamento del profilo professionale
e identitario dei docenti, con ricadute sia sulla
progressione giuridica ed economica delle carriere degli
insegnanti che sulla libertà di scelta per questi ultimi
dell'ente o del soggetto riconosciuto presso il quale
formarsi. Insomma una gran confusione che rischia, al di là
degli annunci, di lasciare ancora una volta tutto come
prima.
Sono
diverse le vertenze aperte e si stanno tutte concludendo con
un nulla di fatto.
La Tecnica
della Scuola.it, del 21-01-2014, di R.P.
L’approvazione del decreto legge “sblocca scatti” da parte
del Governo è servito certamente a allentare le tensioni con
i sindacati ma la situazione resta difficile e delicata. In questi giorni si sono susseguiti diversi incontri di
“raffreddamento” per esaminare le richieste dei sindacati,
ma tutti si sono conclusi con un nulla di fatto. Nel pomeriggio di oggi 20 gennaio la Commissione istituita
presso il Miur, presenti dirigenti ministeriali e sindacati
del comparto, ha preso in esame le richieste avanzate nei
giorni scorsi dalla Flc-Cgil e, come era facilmente
prevedibile, non si è riusciti a trovare una sintesi fra le
diverse posizioni. D’altronde trovare un’intesa sarebbe stato del tutto
impossibile dal momento che la Flc chiede la soluzione di
non poche questioni; si va dal ripristino delle risorse
sottratte al fondo di istituto, al ripristino degli scatti
di anzianità del 2013 fino al problema delle posizioni
economiche degli Ata. Senza trascurare la questione del regolare pagamento degli
stipendi dei supplenti e delle ferie maturate ma non
fruibili. E quella della Flc, non è l’unica vertenza aperta, dal
momento che anche la Fgu-Gilda - su questioni analoghe - non
ha accettato la conciliazione. Nella giornata del 21 è in programma l’esame della vertenza
aperta da Cisl, Uil e Snals sul fondo unico nazionale dei
dirigenti scolastiche che si presenta anch’essa di difficile
soluzione. In concreto tutti i sindacati, per un motivo o per l’altro,
sono sul piede di guerra e quindi a questo punto non si può
escludere un’azione di sciopero proclamata anche da più
sigle. Ma per capire meglio cosa potrebbe accadere è bene attendere
la pubblicazione ufficiale del decreto “sblocca scatti”
perché il testo definitivo potrebbe riservare qualche
sorpresa.
Istruzione-Tesoro lavorano ai 370 milioni di copertura. Il
decreto legge toglie il tetto del 2014
ItaliaOggi,
del 21-01-2014, di Alessandra Ricciardi
Non ci
sono state quelle risorse aggiuntive che alcune
dichiarazioni del ministro dell'istruzione, Maria Chiara
Carrozza, avevano lasciato intendere. E il 2013, salvo
correttivi, resterà congelato, non utile ai fini della
maturazione degli scatti di anzianità, così come prevede il
dpr 122 approvato dal consiglio dei ministri di fine agosto.
Ma potrà essere recuperato il 2012, attraverso la via
negoziale, e intanto non ci sarà nessun recupero di
eventuali aumenti già pagati. Comunque, già dal 2014 non ci
saranno più tetti agli stipendi degli insegnanti. Queste le
novità sul fronte scatti, come emergono dal decreto legge,
approvato la scorsa settimana dal governo, e dalla direttiva
a cui il ministero dell'istruzione e il Tesoro stanno
lavorando. É l'ultimo passaggio, l'atto di indirizzo
all'Aran, per recuperare definitivamente il 2012, dando
copertura non solo agli scatti già pagati lo scorso anno a
circa 80 mila insegnanti, ma anche ad altri 120 mila a cui
andranno in pagamento quest'anno. Se è chiaro che la coperta
in tutto costerà 370 milioni di euro, e che solo 120 milioni
sono quelli disponibili della fetta del 30% dei risparmi
della riforma Gelmini, ad oggi non è ancora deciso come
saranno coperti i restanti 250 milioni di euro. Due le
ipotesi in campo: procedere a tagli lineari sui vari
capitoli di finanziamento del fondo delle scuole; utilizzare
in larga misura le risorse non spese dagli istituti negli
anni passati e solo in via residuale ricorrere a una
riduzione lineare sugli altri capitoli. Secondo quanto
risulta a ItaliaOggi, sarebbero circa 200 i milioni di euro
giacenti a settembre 2013, e imputabili ad altre annualità,
che non risultano impegnati. Un tesoretto che in queste ore
è sotto la lente dell'Istruzione. Se vi si dovesse
ricorrere, dovrà essere modificata la bozza di direttiva che
era stata formulata solo pochi giorni fa. Questa fissava i
capitoli a cui l'Aran, l'agenzia governativa per la
contrattazione nel pubblico impiego, e i sindacati in sede
di negoziato avrebbero dovuto attingere. E fissava alcuni
paletti: non più del 30% di taglio sul fondo per i corsi di
recupero delle scuole superiori; garantire un adeguato
finanziamento per i turni festivi e notturni dei convitti;
non intaccare l'attuale livello di finanziamento per le ore
eccedenti e le sostituzione dei colleghi assenti. Il fondo
per le istituzioni scolastiche non deve essere ridotto,
ulteriore paletto, in misura superiore alle altri voci
contrattuali, al netto delle risorse per i corsi di recupero
e gli straordinari nei convitti. Nel caso in cui il governo
non dovesse raggiungere un'intesa con i sindacati entro sei
mesi, recita il decreto legge, i 120 milioni disponibili
della riforma Gelmini andranno a bilancio dello stato. A
compensare gli anticipi di cassa che il Tesoro sta facendo
per gli aumenti già concessi lo scorso anno. E che comunque
non verrebbero recuperati. Ma è ipotesi improbabile che
l'accordo non si faccia. Almeno per Cisl, Uil, Snals e Gilda
che hanno già firmato un accordo analogo non più di un anno
fa e nel giro di pochi giorni. Restano invece tutte le
perplessità della Flc-Cgil, contraria a una nuova riduzione
del Mof. Già quest'anno comunque le cose dovrebbero
cambiare: «Per il personale della scuola non trova
applicazione per l'anno 2014, nell'ambito degli stanziamenti
di bilancio relativi alle competenze stipendiali, l'articolo
9, comma 1, del decreto legge 31 maggio 2010. n. 78... come
prorogato dall'articolo 1, comma l, lettera a) del citato
dpr 122 del 2013». Alle risorse necessarie perché i salari
crescano, dopo anni di stop, ci si penserà in altra sede.
L'amministrazione ha superato l'impasse che aveva precluso
le assunzioni di questa tipologia di personale, e cioè la
questione dei docenti inidonei
ItaliaOggi,
del 21-01-2014, di Carlo Forte
Al via le
immissioni in ruolo del personale Ata. Sono 3740 i posti
destinati alle assunzioni a tempo indeterminato del
personale Ata, che il ministero dell'istruzione ha
predisposto per le relative operazioni. Al momento non è
stata ancora effettuata la ripartizione regione per regione
e provincia per provincia. Ma un dato è certo:
l'amministrazione ha superato l'impasse che aveva precluso
le assunzioni di questa tipologia di personale. E cioè la
questione dei docenti inidonei. Che nelle intenzioni del
legislatore, in prima battuta, avrebbero dovuto transitare
nei ruoli del personale Ata. Salvo poi mutare indirizzo
nell'ultima tornata legislativa. Adesso, infatti, il
transito nei ruoli del personale non docente è diventato
facoltativo. Ma i docenti inidonei che non avranno
presentato domanda in tal senso dovranno rassegnarsi ad
affrontare le incognite della mobilità intercompartimentale.
Quanto alla decorrenza delle immissioni in ruolo, secondo
quanto risulta a Italia Oggi, il termine iniziale sarà
fissato al 1° settembre 2013. Ma si tratterà di una
decorrenza retroattiva solo ai fini giuridici. Mentre la
decorrenza ai fini economici sarà fissata alla data di
effettivo inizio del rapporto di lavoro. Nei prossimi giorni
l'amministrazione renderà noto il prospetto con le
immissioni in ruolo, suddivise anche per profili
professionali. Dopo di che, sarà emanato il provvedimento
autorizzatorio e gli uffici periferici disporranno
materialmente le assunzioni. In quella fase le
amministrazioni periferiche applicheranno le cosiddette
quote di riserva e le priorità previste dalla legge 104/92
nei confronti dei disabili e di chi li assiste. Le riserve
saranno applicate in massima parte in favore degli invalidi,
ai quali è riservato il 7% dei posti dell'organico
regionale, e degli orfani per lavoro, la cui quota di
riserva è pari alli% dell'organico. Le priorità della legge
104/92 consistono invece in una mera precedenza nella scelta
della sede di destinazione.
5 anni
dopo l'Università solo il 6% non ha occupazione
Il Messaggero, del 19-01-2014, di Alessia
Camplone
LA RICERCA ROMA Cinque anni dopo la laurea solo il 6% dei giovani che
hanno scelto l’università è ancora senza
lavoro. È il dato che rileva AlmaLaurea, il consorzio
interuniversitario che mira a coinvolgere studenti,
mondo accademico e aziende, in una rilevazione che si muove
sulla scia degli ultimi dati dell’Istat sulla disoccupazione
giovanile, giunta invece al suo massimo storico. Si potrebbe
dire: la laurea è ancora un buon passaporto per entrare nel
mercato del lavoro. Ma forse sarebbe meglio dire: una buona laurea. La
disoccupazione giovanile, tra i 15 e i 24 anni, secondo
l’Istat (l’Istituto centrale di statistica) a novembre ha
raggiunto il suo poco ammirevole primato, toccando il 41,6%,
addirittura di quattro punti più alto rispetto a novembre
2012. Si tratta però di un dato che va tarato considerando
che riguarda, fortunatamente, non l’intera popolazione
giovanile (che comprende ovviamente anche i ragazzi che
studiano, tra secondarie e università) ma soltanto la platea
dei cosiddetti “attivi” occupati-inoccupati. Considerando
che i disoccupati tra i 15-24enni sono 659 mila, dunque tra
i giovani di quell’età i disoccupati sono in realtà l’11%
del totale. Va detto però che, se studiare rappresenta tuttora un
antidoto alla disoccupazione, secondo i risultati raccolti
da AlmaLaurea, non è più efficace quanto in passato. La
crisi si fa sentire anche per chi ha un titolo di studio
come la laurea: a un anno dal conseguimento il tasso di
disoccupazione (sia triennale, sia laurea specialistica o
specialistica a ciclo unico) è leggermente superiore al 20%.
E l’area della disoccupazione tra i laureati è di fatto
raddoppiata nel giro di appena quattro anni. Soprattutto,
c’è laurea e laurea. Esaminando le rilevazioni dell’AlmaLaurea
con la lente d’ingrandimento tutte le differenze vengono
alla luce. Tra i neolaureati specialistici biennali, a un
anno dal titolo, la disoccupazione supera il 30% nel gruppo
psicologico, seguito a breve distanza dai laureati dei
gruppi giuridico e letterario. Va meglio ai laureati dei
gruppi chimico-farmaceutico, ingegneria e scientifico, per i
quali l'area della disoccupazione è prossima al 10%. Meglio
ancora i laureati delle professioni sanitarie. LA VITA LAVORATIVA Nell'intero arco della vita lavorativa, i laureati
beneficiano di un "tasso di occupazione" di 13 punti
maggiore rispetto ai diplomati (77 contro 64%). E una laurea
- questo lo rileva l’Ocse - rispetto a un diploma, vale una
retribuzione superiore del 50%. Ma anche qui è un dato
medio. Quando la realtà italiana è vista in un’ottica
europea, secondo AlmaLaurea, va ricordato che il nostro
percorso di studi preuniversitari risulta uno dei più lunghi
nel continente, con l’inevitabile ingresso all’università in
età più avanzata e, quindi, l’arrivo nel mercato del lavoro
anch'esso posticipato. Se c'è laurea e laurea, ci sono anche
differenze tra Nord e Sud. La media del 6% di disoccupati
dopo cinque anni, è frutto appunto di media: al Nord si
scende al 4%, al Sud si sale al 10%. L'età media della
laurea per la platea degli oltre 226mila laureati usciti nel
2012 dai 64 atenei AlmaLaurea è 27 anni e diviene prossima
ai 28 anni per i laureati magistrali/specialistici. DIFFERENZE TRA I SESSI Ci sono, ancora, differenze tra donne e uomini. A cinque
anni dalla laurea, il tasso di disoccupazione delle donne
(7%) supera ampiamente quello degli uomini (4%). La
differenza di sesso, come quelle del territorio, continua a
dare risultati diversi: è l'Italia delle differenze, che
resiste ancora alla prova dei fatti.
Finirà in anticipo
Il Messaggero, del 19-01-2014, di Luca Cifoni
IL CASO ROMA L’uscita di sicurezza inizierà a chiudersi tra poche
settimane. Dal prossimo mese di marzo non sarà più possibile
per le lavoratrici autonome andare in pensione a 58 anni,
con 35 di contributi, accettando un assegno decurtato per
l’applicazione del calcolo contributivo. Poi da settembre
l’alt verrà dato alle dipendenti, che avrebbero potuto
scegliere la stessa via di fuga già a 57 anni. Verrà così meno una delle ultime scappatoie alle regole
rigide della riforma previdenziale voluta a fine 2011 dal
governo Monti nel pieno dell’emergenza finanziaria e passata
alla storia con il nome dell’allora ministro del Lavoro Elsa
Fornero. Ma la fine di questo regime alternativo, reso
appetibile proprio dal brusco innalzamento dei requisiti
ordinari per la pensione, è tutt’altro che pacifica. Lo
scorso novembre la commissione Lavoro del Senato ha
approvato una risoluzione che impegna il governo a rivedere
la situazione: in particolare con la modifica della
circolare dell’Inps che di fatto anticipa i tempi rispetto
all’originaria scadenza di fine 2015. Finora però non c’è
stata nessuna novità. La storia inizia nel 2004, quando in una delle riforme
previdenziali che hanno costellato la storia recente(la
Maroni-Tremonti, quella del famoso “scalone”) viene inserita
un’opzione particolare riservata alle donne. Per loro
sarebbe stato possibile, in via sperimentale fino al 2015,
sfruttare ancora i requisiti per la pensione di anzianità
che venivano cancellati (57 anni di età e 35 di contributi,
con un anno in più di età per le lavoratrici autonome); a
condizione però di optare per il calcolo dell’intero
trattamento previdenziale con il sistema di calcolo
contributivo, generalmente più svantaggioso. SCAMBIO CONVENIENTE Insomma, un po’ di soldi in meno in cambio della possibilità
di andare a riposo prima. La decurtazione è significativa,
almeno del 15-20 per cento (anche se varia caso per caso) ma
per più di qualcuna lo scambio risulta comunque appetibile.
La convenienza aumenta poi a partire dal 2012, con la
riforma Fornero che stringe le maglie della pensione di
vecchiaia e di quella anticipata: l’opzione contributiva
consente di andare via sei-sette anni prima, che non sono
pochi. Nel marzo del 2012 arriva però una circolare dell’Inps che
precisa alcune cose. Intanto ai requisiti di età bisognerà
aggiungere gli ulteriori mesi (tre dal 2013) imposti dalle
nuove norme in corrispondenza dell’incremento della speranza
di vita. Ma soprattutto a questo regime si continueranno ad
applicare le vecchie “finestre mobili” di uscita (un anno di
attesa per le dipendenti, uno e mezzo per le autonome), con
la conseguenza che il termine ultimo del 31 dicembre 2015
per la fine del regime sperimentale deve essere riferito
proprio all’uscita effettiva e non alla maturazione dei
requisiti. LA RICHIESTA AL GOVERNO Ecco quindi che per sfruttare l’opzione le lavoratrici
autonome devono aver compiuto l’età di 58 anni (e raggiunto
i 35 anni di contributi) entro febbraio di quest’anno,
perché poi ci sono i tre mesi aggiuntivi e l’anno e mezzo di
finestra Per le dipendenti il compleanno deve cadere di
fatto entro agosto, massimo settembre per le pubbliche. A
meno di un intervento del governo che vada nella direzione
richiesta dalla commissione Lavoro: la resistenza non è
all’Inps ma al ministero dell’Economia, che a suo tempo per
ragioni finanziarie aveva sollecitato l’interpretazione
restrittiva.
l'Unità, del 18-01-2014, di Benedetto
Vertecchi
C’È QUALCOSA DI ANOMALO NEL CONFRONTO IN ATTO
SULL’EDUCAZIONE, CHE SI MANIFESTA CON MAGGIORE evidenza in
quei contesti, come quello italiano, nei quali da troppo
tempo si è rinunciato a sviluppare una riflessione originale
ed autonoma circa il profilo culturale che si vorrebbe fosse
generalmente posseduto dalla generalità della popolazione e
le soluzioni educative che potrebbero consentire il
conseguimento di tale intento. Nello sviluppo storico
dell’educazione occidentale l’indicazione di traguardi ha
anticipato l’assunzione di determinate caratteristiche
dell’organizzazione educativa e delle pratiche didattiche.
Ciò non significa che fossero enunciati principi, e
tantomeno regole, uniformemente seguiti, né che vi fosse da
parte degli educatori la medesima consapevolezza degli
effetti che sarebbero potuti derivare dalla loro attività,ma
che all’educazione si riconosceva una funzione di concausa
nei processi di trasformazione sociale. Il grande sviluppo
dell’educazione scolastica che ha consentito negli ultimi
secoli di assicurare crescenti opportunità d’istruzione per
i bambini e i ragazzi, considerato dal punto di vista che
prima s’indicava, quello dell’elaborazione di un profilo
culturale diffuso, appare come la realizzazione di scenari
delineati nelle grandi utopie che hanno rappresentato una
parte importante del pensiero europeo dalla metà del secondo
millennio. Attraverso l’utopia ci si poteva riferire a una
realtà costruita per negazione di quella che costituiva la
comune esperienza: se l’analfabetismo rappresentava la
condizione più frequente, gli abitanti dei non-luoghi
dell’utopia si distinguevano per il possesso di una cultura
alfabetica; se l’educazione formale era per lo più rivolta a
strati favoriti della popolazione maschile, nell’utopia
tutti potevano fruirne, senza distinzione di classe o di
genere;se il tempo della vita era in massima misura
assorbito dal lavoro, si affermava l’idea che una uguale
rilevanza dovessero avere il riposo e le attività rivolte a
coltivare la sensibilità e l’intelligenza di ciascuno; se la
conoscenza era considerata una prerogativa individuale,se ne
affermava l’utilità per il miglioramento delle condizioni di
vita; e così via. Ciò che interessa rilevare riflettendo
sull’anomalia del confronto educativo in corso è che mentre
negli scenari utopistici determinate caratteristiche della
popolazione erano considerate necessarie per la coerenza
dell’insieme della proposta di assetto sociale, da qualche
tempo si tende ad affermare il contrario, e cioè che gli
indirizzi dell’attività educativa devono essere congruenti a
scelte che sono già operanti nei diversi contesti sociali,in
particolar modo nelle attività produttive. Risulta evidente
che è cambiata sostanzialmente la concezione del tempo:
mentre il grande sviluppo dell’educazione formale è da
considerarsi l’effetto di progetti per il lungo periodo, da
qualche tempo sembra essere stato abbandonato l’intento
progettuale, e sostituito da una nozione funzionalista
dell’offerta di apprendimento. In altre parole, le scelte
educative non sono più coerenti con un disegno a lungo
termine volto a definire il profilo della popolazione, ma
rispondono alle esigenze di breve periodo che si manifestano
nel sistema produttivo. Le concezioni educative elaborate
nell’ambito dell’utopia classica hanno anticipato il corso
di eventi che si sarebbero osservati nei secoli successivi,
mentre nelle condizioni attuali si vorrebbe realizzare
un’improbabile concomitanza tra le richieste del mercato del
lavoro e l’offerta di apprendimento del sistema d’istruzione
formale. La rinuncia a interpretare l’educazione secondo una
logica autonoma non è l’ultima ragione della crisi che, in
varia misura, ha investito i sistemi scolastici dei Paesi
industrializzati. Anche quando i dati derivanti da
rilevazioni comparative sembrano segnalare l’esistenza di
condizioni migliori, ci si dovrebbe chiedere se a posizioni
più favorevoli in graduatoria corrispondano risultati
educativi capaci di configurare un profilo innovativo di
cultura della popolazione, o se i livelli più elevati siano
da porre in relazione solo a migliori condizioni
organizzative e ad apparati ideologici più coinvolgenti. Non
sarebbe inutile chiedersi, per esempio, quanta parte abbiano
avuto le condizioni organizzative e la pressione ideologica
nel consentire ai sistemi scolastici di alcuni Paesi
dell’estremo oriente di scalare le posizioni più elevate
nelle graduatorie dell’ultima indagine Ocse-Pisa. E,
soprattutto, ci si dovrebbe chiedere se una competitività
così spinta da far accettare, oltre a un orario scolastico
lungo, alcune ore ulteriori di pre e di post scuola, con
quel che ne consegue in termini di resistenza allo sforzo
prolungato, corrisponda a una concezione educativa che si è
disposti a riconoscere come preferibile o solo ad accettare
come selezione de facto. Ma, in un caso e nell’altro,non si
capisce quale sia il disegno culturale, se non per ciò che
riguarda l’utilità che dagli studi si può trarre nel breve
termine. In Italia la crisi è più grave non solo per
l’eclissi di progettualità che da troppo tempo caratterizza
il sistema educativo, ma anche per il crescere della
distanza tra le soluzioni didattiche e organizzative del
nostro sistema scolastico rispetto a quello degli atri paesi
industrializzati. Mentre si discetta in un latinorum da Don
Abbondio di soluzioni tecniche per questo o quell’aspetto
del funzionamento del sistema, sembra che nessuno si
preoccupi di capire che cosa stia accadendo nelle scuole,
quali siano le difficoltà che gli insegnanti incontrano nel
loro lavoro quotidiano, di che cosa ci sia realmente bisogno
in un disegno di lungo termine, che cosa di culturalmente
significativo bambini e ragazzi dovrebbero saper fare non
solo al momento, ma nella lunga prospettiva di vita che li
attende.
Accordo
Istruzione-Economia Oggi il decreto legge va all'esame del
Consiglio dei ministri
Il Sole 24 Ore, del 17-01-2014, di Eugenio
Bruno - Claudio Tucci
Un
meccanismo per evitare il recupero degli "scatti" percepiti
nel 2013 (come da impegno politico preso direttamente dal
premier, Enrico Letta) e che, successivamente, lasci
inalterate le retribuzioni di docenti e Ata attraverso una
compensazione con il riconoscimento degli aumenti
stipendiali 2012. I ministeri dell'Economia e
dell'Istruzione hanno trovato la soluzione "tecnica" alla
questione degli scatti d'anzianità del personale della
scuola e l'hanno messa nero su bianco in un decreto legge
composto da un unico articolo e 5 commi che arriverà oggi
sul tavolo del Consiglio dei ministri. Il Tesoro ha sospeso
l'attività di recupero fmo a 150 euro lordi al mese sulle
retribuzioni di docenti e Ata che hanno percepito lo
"scatto" nel 2013, in contrasto, però, con quanto previsto
dal Dpr 122 del 4 settembre 2013 che invece ha disposto il
blocco di qualsiasi aumento stipendiale per l'intero 2013.
Le buste paga sono così cresciute, e la rinuncia al recupero
di queste somme decisa dal governo, dopo forti polemiche
politiche e sindacali, ha creato uno squilibrio nei conti
pubblici. Per questo la soluzione tecnica è stata
individuata in un decreto legge, subito operativo, che farà
due cose. Autorizzerà il Tesoro a soprassedere dal recupero
in tranche di 150 euro al mese delle somme corrisposte nel
2013. E contestualmente gli consentirà, a partire da
febbraio, di continuare a pagare lo stesso stipendio,
comprensivo quindi dello "scatto" maturato e già acquisito.
Complessivamente, fanno sapere i due ministeri dell'Economia
e dell'Istruzione, la questione interessa circa 52mila tra
docenti e Ata che hanno ricevuto mediamente lo scorso anno
aumenti di circa 700 euro (nella scuola gli scatti
d'anzianità sono l'unico modo per avere incrementi di
stipendio, a differenza del resto del pubblico impiego dove
ciò avviene per selezione e per merito). Per quanto riguarda
il mese di gennaio, non potendo sterilizzare subito il
taglio fino a un massimo di 150 curo, docenti e Ata vedranno
arrivare un cedolino che conterrà il prelievo. Questo
cedolino sarà accredito il 23 gennaio. Ma uno o due giorni
dopo, sottolineano dal Mef, riceveranno un nuovo cedolino
che conterrà l'importo decurtato, che verrà quindi
restituito, lasciando inalterata la busta paga. Come verrà
compensato questo mancato gettito per lo Stato? La soluzione
individuata da Mef e Miur, e anticipata nei giorni scorsi su
questo giornale, passa dal recupero degli scatti 2012,
bloccati dal Dl 78/2010, che prevede però anche la procedura
per il loro "recupero". Con questi soldi si compenserà (in
una sorta di dare e avere) l'incremento mantenuto in busta
paga. L'utilità 2012 vale circa 120 milioni per il solo
2012; e dal 2013 circa 370 milioni. La copertura avverrà per
120 milioni utilizzando i risparmi (30%) derivanti dai tagli
Tremonti-Gelmini e per la restante quota procedendo a un
nuovo taglio del «Mof», il fondo per il miglioramento
dell'offerta formativa a vantaggio degli studenti. Per
sbloccare i fondi del «Mof» è pronto un atto d'indirizzo e
poi si dovrà aprire una sessione negoziale all'Aran con i
sindacati. I tempi per arrivare all'accordo con i sindacati
dovranno essere ragionevoli, sottolinea il capo dipartimento
del Miur, Luciano Chiappetta: «Ci aspettiamo un'intesa
nell'arco di sei mesi».
Il
problema è anche che le abilità, con antipatica parola
inglese le «skills» di cui dispongono i giovani in cerca di
un impiego, non rispondono alle richieste dei potenziali
datori di lavoro.
Corriere
della sera.it, del 14-01-2014, di Orsola Riva
Cornuti e
mazziati. In un Paese che ha superato la soglia angosciante
del 40 per cento di giovani disoccupati, ora «scopriamo» che
il problema non è (o non è soltanto) la crisi del mercato
del lavoro sempre più asfittico. Il problema è anche che le
abilità, con antipatica parola inglese le «skills» di cui
dispongono i giovani in cerca di un impiego, non rispondono
alle richieste dei potenziali datori di lavoro. In nessun
Paese il disallineamento è così forte: da noi quasi un
datore di lavoro su due lamenta di non trovare le competenze
giuste di cui avrebbe bisogno. Un dato, in realtà, non così
sorprendente. Non solo non facciamo più figli, ma i pochi
giovani che abbiamo li perdiamo per strada. È l’esercito dei
Neet (not in education, employment or training): oltre due
milioni di giovani fra i 15 e i 29 anni che né studiano né
lavorano. Alcuni hanno il diploma, altri neanche quello.
L’Italia ha il record di abbandoni scolastici in Europa: il
17,6% di alunni (con punte del 25% nel Mezzogiorno) lascia i
banchi di scuola troppo presto. Se si vuole capire come mai
da noi i giovani faticano tanto a trovare lavoro bisogna
risalire la corrente degli studi e ripartire dalla scuola
media. Spiega Stefano Molina, dirigente ricercatore della
Fondazione Agnelli: «Da noi la scuola media funziona come un
setaccio che divide i ragazzi in tre gruppi: i più bravi al
liceo, quelli così e così negli istituti tecnici e i più
scarsi nelle scuole professionali. Così si uccide la
possibilità di fare degli istituti professionali, di cui
pure il Made in Italy avrebbe tanto bisogno, una scuola
seria». Ma neanche i laureati se la passano bene. Come ha
ricordato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco,
da noi studiare conviene meno che altrove: è per questo che,
complice la crisi (e l’innalzamento delle tasse
universitarie) molte famiglie non spronano più i figli a
iscriversi all’università e solo il 58% dei diplomati si
immatricola (dieci anni fa erano il 73%). La «colpa» è in
parte delle università che (come mostrato dalla ricerca sui
Nuovi Laureati della Fondazione Agnelli) licenziano dei
giovani robusti nelle competenze disciplinari ma scarsi in
quelle trasversali (capacità di lavorare in gruppo, di
consegnare un lavoro nei tempi prestabiliti ecc.) magari
anche perché durante il corso di studi non hanno mai fatto
stage o comunque stage davvero utili. In parte però anche di
un mercato del lavoro che in Italia sembra essere meno
favorevole che altrove ai laureati stessi. «Da noi — spiega
Andrea Cammelli di Almalaurea — il 37% dei manager ha solo
un diploma di scuola media, mentre in Germania i manager
laureati sono la stragrande maggioranza. E, come dimostrato
da uno studio recente di Bankitalia, un manager laureato
assume tre volte più laureati di un manager che non lo è».
ItaliaOggi
ha letto la direttiva inviata dalla Carrozza al Mef sui 370
milioni di copertura. Al prossimo cdm la norma che
sterilizza il decreto di blocco
ItaliaOggi,
del 14-01-2014, di Alessandra Ricciardi
La
direttiva per l'avvio delle trattative, che dovranno dare
copertura al pagamento degli scatti di anzianità per l'anno
2012, è pronta. ItaliaOggi l'ha letta: i 370 milioni di euro
che servono a pagare gli aumenti, che il Mef aveva disposto
di recuperare a colpi di 150 euro al mese, andranno a
incidere per 250 milioni sul fondo di istituto. Gli altri 120 sono quelli disponibili a seguito dei risparmi
della riforma Gelmini. Tutto bene allora? Niente affatto. La
vicenda degli scatti (si veda ItaliaOggi di mercoledì
scorso), dopo il pasticcio politico e burocratico che ha
investito il governo, con tensioni tra i due ministri
direttamente interessati (Carrozza e Saccomanni) che sono
tutt'altro che esaurite, avrà necessità anche di un
passaggio al consiglio dei ministri per essere
definitivamente risolta. Non basta infatti trovare i soldi a
questo punto. Serve anche una norma per sterilizzare
il dpr che il consiglio dei ministri di fine agosto ha
approvato e che ha prorogato a tutto il 2013 il blocco degli
scatti di anzianità. É il decreto che consente tra l'altro
al ministro dell'economia, Fabrizio Saccomanni, di dire che
la collega dell'istruzione, Maria Chiara Carrozza, non
poteva non sapere. Non poteva non sapere che per il 2013 il
blocco degli scatti sarebbe andato avanti. Quali sono gli
effetti del dpr, in assenza di un intervento normativo
correttivo, è spiegato nel servizio in pagina: le
retribuzioni resterebbero comunque congelate, con una
conseguente perdita di circa 1000 euro l'anno, a causa del
permanere del ritardo di un anno nella maturazione del
gradone. Già, perché a fronte del ripristino dell'utilità
del 2012, sarà comunque cancellata l'utilità del 2013. Insomma, non basta la sola decisione politica del premier
Enrico Letta di non togliere dalle buste paghe di gennaio i
150 euro al mese a recupero degli aumenti già pagati. Così
come non basta un accordo tra sindacati e Aran sulle
coperture. Serve la norma. Ed è quella che sarà approvata al
prossimo consiglio dei ministri. Probabilmente sarà poi
presentata come emendamento a un dei decreti in conversione
in parlamento. Forse il Milleproroghe. Sta di fatto che ieri
una nota di Palazzo Chigi annunciava: «Per quanto riguarda
il 2014, il pagamento degli scatti di anzianità potrà essere
assicurato a seguito delle decisioni che verranno assunte
nel prossimo consiglio dei ministri per gli insegnanti che
ne abbiano beneficiato nell'anno 2013». Una precisazione che conferma anche la gestione tutt'altro
ordinata e coerente che la vicenda ha avuto finora. E su cui
i due ministeri non hanno affatto riposto le armi in quanto
a riffacciarsi le responsabilità. Se per Saccomanni, la
collega dell'Istruzione sapeva, visto che l'annuncio del
decreto di recupero delle somme era stato dato in un vertice
del 9 dicembre scorso, mentre la reazione della Carrozza è
del 7 gennaio, è altrettanto vero che l'atto di indirizzo
per il recupero delle somme è stato firmato dal ministro
dell'istruzione a fine dicembre. E anche questo era noto all'Economia, che ben poteva
risparmiarsi, è il ragionamento fatto a viale Trastevere,
una nota di recupero di somme che poi dovevano essere
restituite. Ma al di là delle responsabilità dei singoli che
hanno lavorato sui dossier ministeriali, il fatto politico è
che il governo, che aveva annunciato un cambio di rotta
sulla scuola, e che almeno sulla carta gode del consenso
elettorale del personale scolastico, ha fatto un autogol
mediatico. In queste ore in cui si intensificano le voci di
un rimpasto di governo, sia il nome della Carrozza che
quello di Saccomanni compaiono nella lista dei candidati
alla sostituzione, una lista sempre più lunga. Voci, che
secondo rumors di palazzo Chigi, sarebbero in entrambi i
casi prive di fondamento.
Tra un
decreto (già varato) e un contratto (ancora da fare) ecco
come il servizio del 2013 va in fumo
ItaliaOggi,
del 14-01-2014, di Antimo Di Geronimo
Il recupero dei gradoni entra dalla porta ed esce dalla
finestra. Le retribuzioni dei docenti e dei non docenti,
infatti, rimarranno comunque ferme agli importi in godimento
nel 2013. Anche dopo il ripristino dell'utilità del 2012 ai
fini dei gradoni, a cui si è impegnato il governo con la
trattativa in via di autorizzazione. Perché il dpr n. 122/2013, approvato a fine agosto dal
consiglio dei ministri, prevede la cancellazione
dell'utilità 2013. E quindi gli effetti del ripristino 2012,
che avverrà dopo la firma di un contratto ad hoc, saranno
posti nel nulla dall'applicazione del decreto. In altre
parole, il nuovo contratto restituirà ai lavoratori della
scuola un anno di anzianità di servizio (il 2012) eliminando
il ritardo di un anno nella progressione di carriera (i
cosiddetti gradoni). E il decreto 122, cancellando il 2013,
riporterà nuovamente indietro di un anno le lancette
dell'orologio. Il risultato sarà quello di cristallizzare le retribuzioni
agli importi del 2013. Per comprendere appieno la questione
è necessario fare un salto indietro fino al 2010: l'anno in
cui è stato emanato il decreto legge 78 dall'allora governo
Berlusconi. Il decreto 78, infatti, è il provvedimento con
il quale è stata disposta la cancellazione dell'utilità di 3
anni ai fini della progressione di carriera: il 2010, il
2011 e il 2012. Ciò ha comportato il differimento di 3 anni
del termine di compimento dei cosiddetti gradoni. E cioè dei
periodi di servizio al compimento dei quali si ha diritto ad
un aumento di stipendio (circa 100 euro). Facciamo un
esempio. Il contratto prevede incrementi stipendiali legati
all'anzianità di servizio al compimento dei seguenti
periodi: 8, 15, 21, 28 e 35 anni di servizio. L'entrata in
vigore del decreto legge 78/2010 ha comportato uno
slittamento in avanti di tre anni di tutti i relativi
termini di compimento dei gradoni. Il primo è passato da 8 a
11 anni di servizio, il secondo da 15 a 18, il terzo da 21 a
24, il quarto da 28 a 31 e l'ultimo, da 35 a 38 anni di
servizio. A seguito del pressing sindacale, l'allora
ministro del'economia, Giulio Tremonti, diede l'ok a un
decreto interministeriale (14 gennaio 2011) che ha
consentito il ripristino dell'utilità del 2010. E quindi, il
ritardo nella progressione di carriera si è ridotto da 3 a 2
anni, determinando i seguenti termini di compimento dei
gradoni: 10, 17, 23, 30 e 37 anni di servizio. Il 13 marzo 2013, poi, è stato sottoscritto un contratto ad
hoc che, utilizzando parte delle risorse destinate allo
straordinario (i fondi del cosiddetto miglioramento
dell'offerta formativa), ha ripristinato l'utilità del 2011,
determinando un'ulteriore diminuzione di un anno del ritardo
nella maturazione dei gradoni. Così, per effetto di tale
accordo, i termini di compimento dei gradoni sono passati a
9, 16, 22, 29 e 36 anni di servizio. Grazie al contratto del
2013, dunque, circa 80mila lavoratori avevano maturato i
gradoni, sebbene in ritardo di un anno: una prima tranche
con effetti nella busta paga di maggio 2013 e una seconda
tranche con effetti nella busta paga di settembre. Fermo restando che restava comunque da recuperare ancora il
2012. Per il quale è attualmente in corso una trattativa.
Senonché, il 25 ottobre scorso è stato pubblicato in
Gazzetta Ufficiale il dpr 122/2013, che cancella anche
l'utilità del 2013, di fatto, ponendo nel nulla gli effetti
del recupero del 2011. E proprio per effetto di questo
provvedimento il mineconomia stava per riprendersi i soldi
già versati ai lavoratori che avevano maturato il gradone
nel 2013. Poi, però, il governo ha fatto dietrofront. Perché,
comunque, quando verrà stipulato il contratto per il
ripristino del 2012, il ritardo nella maturazione dei
gradoni ritornerà ad essere di un solo anno. E quindi si ritornerà alla situazione precedente all'entrata
in vigore del decreto 122, prima del ripristino del 2012.
Insomma, con una mano il governo intende ridare ciò che ha
tolto e con l'altra intende riprenderselo.
In realtà
a volere sapere, i due ministri avrebbero potuto sapere. «Da
novembre abbiamo denunciato sul nostro sito la possibilità
che lo Stato avrebbe bussato alle porte dei lavoratori della
scuola per chiedere soldi», dice Domenico Pantaleo
Corriere della sera.it, del 09-01-2014
La
ministra Carrozza ieri ha rinviato la sua partenza per
Washington. Ha quindi parlato di «impicci burocratico
amministrativi» e ha detto che questi avvengono «a volte
senza che i ministri e il governo ne sappiano niente». Da
una parte, Carrozza si mostra vittima in comune con
Saccomanni. Dall’altra, ammette che il ruolo politico
rischia, talvolta, di essere irrilevante. La burocrazia
dell’Economia ha avvertito la burocrazia dell’Istruzione
senza che nulla sia avvenuto a riparare quello che
politicamente era per forza un errore. Carrozza ieri ha
appreso questa lezione e la proclama: «La filiera tra la
decisione politica e l’attuazione deve essere corta. Non è
pensabile che da una parte si decidono le cose e dall’altra
come e quando si pagano gli stipendi». In realtà a volere sapere, i due ministri avrebbero potuto
sapere. «Da novembre abbiamo denunciato sul nostro sito la
possibilità che lo Stato avrebbe bussato alle porte dei
lavoratori della scuola per chiedere soldi», dice Domenico
Pantaleo, Cgil scuola. Il 30 novembre si svolge una
manifestazione dei sindacati della scuola e il pericolo
viene gridato dal palco. Massimo Di Menna, Uil scuola,
racconta: «Sono venuto a conoscenza della nota del ministero
dell’Economia il 27 dicembre. Il 29 dicembre ho cercato
Carrozza per avvertirla che s’addensava una enorme nube. Mi
hanno detto: è in Consiglio dei ministri. Il 3 gennaio ho
scritto alla ministra per pregarla di affrontare il caso.
Nessuna risposta». Lo stesso 29 dicembre l’allarme appare
anche sul sito della Cisl. Ecco, la Cisl. Il segretario generale Bonanni ha chiesto
ieri sera di indagare su cosa c’è dietro «questa incuria o
sciatteria di Saccomanni, una sciatteria politica. Chi ha
preparato questa polpetta avvelenata? Potrebbe essere un
caso creato dolosamente da qualcuno al ministero? Non
sarebbe la prima volta». Proviamo a capire. Un’ipotesi è che
nelle stanze della Ragioneria generale qualche alto
dirigente complotti per far fuori il ministro e lo trascini
in questo guaio. La seconda ipotesi è che nelle stesse
stanze si sia tentata una vendetta contro gli «scatti di
anzianità», che ormai sono un diritto solo per militari,
giornalisti e personale scolastico. Carrozza ha avviato
un’indagine nel suo ministero, per capire chi ha deciso di
non avvertire i ministri di ciò che stava per accadere. E adesso? Ce la faranno all’Economia a correggere gli
stipendi di gennaio? Dove troverà il ministero
dell’Istruzione gli oltre cento milioni per «rimborsare»
l’Economia? Quasi certamente sottraendoli al Mof, i fondi
destinati alla formazione, ai corsi di recupero, alle
supplenze, all’autonomia scolastica. Con buona pace del
risanamento della scuola pubblica. agaribaldi@corriere.it.
Intervista al prof. Vertecchi
Il Messaggero, del 09-01-2014, di Angela
Padrone
L’INTERVISTA ROMA Professor Vertecchi che ne dice di questi insegnanti ai
quali stavano per chiedere addirittura il rimborso degli
scatti d’anzianità? «Stavolta si è proprio esagerato. Già non hanno una
carriera...» Il professor Benedetto Vertecchi, ordinario di
Pedagogia a Roma Tre, di professori si occupa da una vita e
ne conosce pregi e difetti . Ecco, appunto: l’unico modo in cui un insegnante può vedere
il proprio stipendio crescere in Italia è con gli scatti di
anzianità. Non è prevista una carriera fatta di crescita
professionale? «No, le organizzazioni sindacali hanno sempre considerato
improponibile l’articolazione delle carriere» Anche negli ultimi anni però i rappresentanti degli
insegnanti non hanno visto di buon occhio le forme di
valutazione, come i test Invalsi, che forse potevano servire
a giudicare un lavoro ben fatto oppure no «Da noi la valutazione viene sempre considerata ”un bastone
da maresciallo”, cioè un’attività che serve a sanzionare,
invece che a produrre un’attività conoscitiva. D’altra parte
anche loro hanno le loro ragioni, perché le condizioni di
partenza non sono uguali in tutte le scuole e in tutte le
aree. Perché i risultati al Sud sono peggiori che al Nord?
Ma perché c’è tutta una storia dietro. Invece ora è invalsa
una logica economicistica che appiattisce tutto» Però ci si lamenta sempre che all’estero gli insegnanti
vengono pagati meglio «In realtà ai livelli iniziali non c’è molta differenza tra
noi e altri. Il problema è che poi in altri paesi
l’insegnante può fare carriera e quindi cresce anche lo
stipendio» E come avviene questa progressione di carriera? «In Francia per esempio si entra tutti a un primo livello e
dopo la maggior parte passa a un secondo livello, attraverso
una serie di accertamenti, dove si ottiene anche uno scatto
sostanzioso. Poi c’è una piccola percentuale, un 5%, che
riesce a passare al terzo livello, dove gli insegnanti hanno
anche compiti di formazione professionale e di ricerca e
hanno una retribuzione decisamente più alta». La possibilità di crescere professionalmente è fondamentale
anche al livello personale no? «Certo. Ma gli insegnanti non si sono mai sottratti. Gli
sono stati fatti molti torti. Il principale è che è stata
loro sottratta la formazione professionale di altri
insegnanti (come avviene invece in tutte le categorie, pensi
agli avvocati che fanno pratica negli studi o ai giornalisti
che fanno il praticantato nei giornali) e sono stati messi
in posizione di subalternità alle università, dove ci sono a
volte dei “formatori” che non si sa dove siano stati
pescati» Lei sta dicendo che gli insegnanti sono vessati? «Sì, sono stati marginalizzati e al tempo stesso inseriti in
una organizzazione del lavoro dove hanno poca voce in
capitolo. Il lavoro di insegnante è uno strano lavoro: sono
dei lavoratori intellettuali che invece vengono trattati
come dei fornitori di servizi. E allora torniamo al discorso
della carriera. Che carriera può venire fuori così? Si
chiede a tutti la stessa prestazione!» Da quello che dice lei la valutazione del lavoro diventa
sempre più difficile. Come si può fare? «Starei attento a certe logiche aziendali che adesso vanno
di moda. Nel lavoro dell’insegnante, per così dire la parte
“emersa” è minore di quella “sommersa”. Per giudicare il
lavoro di un insegnante su un ragazzo e capire se è stato
efficace bisogna aspettare 10, 20, anche 30 anni.
Soprattutto ora che la vita professionale è soggetta a molti
cambiamenti. Una semplice batteria di test purtroppo non
basta».
Si chiama miglioramento dell’offerta
formativa, la sigla è Mof, ed è da qui che saranno prelevate
gran parte delle risorse economiche per pagare lo scatto
d’anzianità agli oltre centomila, tra insegnanti e ausiliari
della scuola, che lo avevano maturato nel 2012
Il Messaggero, del 09-01-2014, di A. Cam.
I CONTI ROMA Si chiama miglioramento dell’offerta formativa, la
sigla è Mof, ed è da qui che saranno prelevate gran parte
delle risorse economiche per pagare lo scatto d’anzianità
agli oltre centomila, tra insegnanti e ausiliari della
scuola, che lo avevano maturato nel 2012. Il Mof racchiude
quelle risorse che vengono utilizzate dalle scuole per le
attività extra didattiche (dai corsi di teatro e musica allo
sport), per il pagamento delle ore di supplenza, per i
docenti che rivestono particolari ruoli nelle scuole, per le
retribuzioni accessorie degli insegnanti e per il Fondo di
istituto (il Fis). È il Mof la voce che verrà
inevitabilmente penalizzata dal dietrofront del governo? La
somma è stata già individuata dal ministero dell’Istruzione
(Miur), d'intesa con il ministero dell’Economia (Mef). Per
la copertura degli scatti di anzianità del 2012 sono
necessari circa 380 milioni di euro, lo stesso importo
dell’anno precedente. Di questi, quasi 100 milioni verranno
coperti dalle economie ottenute con i tagli agli organici.
Una legge dell’allora ministro Tremonti, che per la prima
volta ha previsto il blocco degli scatti, fissava che il 30%
di queste risorse sarebbero dovute andare a coprire proprio
gli scatti di anzianità. UN MARGINE DI PRECAUZIONE La restante parte, circa 280 milioni di euro, viene coperta
dal Mof. Mof che complessivamente ammonta a 980 milioni di
euro per questo anno scolastico. E proprio per coprire
questa spesa, fino ad ora ai presidi è stata assegnata solo
la metà dell’importo disponibile. Una precauzione per avere
un margine di disponibilità nel caso la trattativa all’Aran
con i sindacati diventasse più onerosa del previsto. La
trattativa dovrebbe essere conclusa a breve. Proprio a fine
dicembre, infatti, il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara
Carrozza, ha firmato l’Atto di indirizzo da portare sul
tavolo del confronto con i sindacati.? «Questo spiega il
paradosso del recupero che si stava facendo sugli scatti –
commenta Rita Frigerio della Cisl scuola –. Le risorse ci
sono. Si trattava solamente di avere pazienza e di chiudere
la trattativa». IL BLOCCO DI BERLUSCONI A bloccare per la prima volta la progressione economica
degli stipendi degli insegnanti è stato il governo
Berlusconi, nel 2010. Stipendi fermi per tre anni, fino al
2012. Anche se poi gli scatti vennero comunque pagati dopo
un tira e molla con i sindacati. Nel 2010 l’operazione costò
circa 300 milioni di euro. Recuperati tutti dalle economie
derivanti dai tagli agli organici. L’accordo per il 2011 fu
trovato ricorrendo all’Aran, ma con la Flc Cgil che prese le
distanze. Perché per coprire i 380milioni di euro di costo
dell’operazione si fece ricorso al Mof. La scuola, così, è
sacrificata sempre.
Maria Chiara Carrozza «Non voglio, né chiedo
le dimissioni del ministro Saccomanni. Sulla scuola non va
la catena di comando tra Funzione pubblica, Miur e Finanze»
l'Unità, del 09-01-2014, di NATALIA LOMBARDO
(@NataliaLombard2)
In un tweet è stata la stessa ministra
dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza ad esultare: «Finita
la riunione a Palazzo Chigi. Gli insegnanti non dovranno
restituire i 150 euro, sono soddisfatta per gli insegnanti».
La detrazione è stata fermata. Ma come è potuto accadere
questo pasticcio? «È possibile perché in passato si è
proceduto con i blocchi degli scatti degli insegnanti o dei
dipendenti pubblici per ricavare risparmi. La storia è
legata a una stratificazione delle norme di contenimento
della spesa pubblica che hanno toccato la scuola e che hanno
previsto per il 2010, 2011, 2012 il blocco degli scatti di
anzianità. Poi, dopo il governo Monti è stata aperta la
finestra del 2013». Il ministro dell'Economia, Saccomanni si
dice solo un «mero esecutore» delle indicazioni sulle
retribuzioni arrivate dal Ministero dell'Istruzione e che il
9 dicembre vi aveva informato sulla richiesta delle somme
agli insegnanti. Insomma, il ministro la attacca. Per lei
invece di chi è la colpa? «Ah no, io non sono abituata a
scaricare la responsabilità su nessuno e non voglio che
questa polemica continui, perché non è interesse del
governo, né della scuola, per cui non replico a questi
comunicati. È evidente che non va la distribuzione tra
Funzione Pubblica, Istruzione e Economia, della
responsabilità sugli insegnanti e sulla loro retribuzione.
La cinghia di trasmissione non funziona, bisogna rivederla».
Sta scoppiando un caso anche sul personale non docente?
«Anche il personale Ata può stare tranquillo perché proprio
in queste ore stiamo lavorando sia sui non docenti che sugli
insegnanti». C'è chi vorrebbe le dimissioni del ministro
Saccomanni. Lei è d'accordo? «No. E non le ho mai chieste.
Saccomanni sta affrontando una situazione estremamente
difficile da quando ha iniziato il suo mandato. Il tema non
è questo, ma lavorare insieme per far funzionare meglio la
macchina amministrativa». Cosa risponde a chi dice che
eravate informati? «Non voglio alimentare ulteriori
polemiche, l'importante è aver trovato una soluzione al
problema. E continuare a lavorare insieme al governo e al Pd
per la scuola e l'istruzione». Insomma, di chi è la
responsabilità di ciò che è successo? «Sarà avviata
un'analisi interna, per capire dove è saltata la
comunicazione, poi vedremo. Di sicuro dovrà cambiare il
processo decisionale». Un groviglio burocratico sulla pelle
degli insegnanti. È accaduto perché nel 2013 sono stati
sbloccati gli scatti? «Non proprio, a settembre è stato
approvato un Dpr che blocca la contrattazione e gli scatti a
tutto il 2014, in applicazione di una normativa approvata
dal governo Monti. Essendo le norme entrate in vigore a
novembre, fino ad allora gli scatti maturati erano stati
pagati. Quindi il problema che si è posto è come evitare che
gli insegnanti dovessero restituire le somme percepite. Si
sarebbe dovuto affrontare tutti insieme questo nodo, invece
il 27 dicembre abbiamo appreso che è stata messa on line
l'informazione agli insegnanti: restituirete sulla busta
paga del 2014 quello che avete avuto. Senza neanche aver
saldato ciò che spettava nel 2012». Non se ne era accorta?
«Sono stati presi questi provvedimenti tra Natale e
Capodanno, per inerzia amministrativa e senza comunicare ai
ministri competenti che cosa stava avvenendo. Ma appena sono
tornata operativa al 100 per cento ho affrontato il tema e
ho chiesto a Saccomanni di sospendere la detrazione. Gli
avevo già inviato la lettera quando sono scoppiate le
polemiche». Un'altra grana per il premier Letta. «Il
presidente Letta era presente oggi (ieri) alla riunione,
abbiamo trovato insieme una soluzione politica e
amministrativa. Perché la differenza con chi sta al governo
e chi sta fuori è che chi sta a Palazzo Chigi deve trovare
soluzioni legislative e gestionali in breve tempo. In questo
caso si doveva anche evitare che il sistema informatico
avviasse il prelievo sugli stipendi. Ce l'abbiamo fatta, ma
appena in tempo». Con quali risorse? «La scuola è all'osso e
non è facile trovare le risorse, togliere fondi di qua o di
là. I lavoratori del mondo della scuola sono 800mila circa,
tra docenti e personale Ata, io affronto un'emergenza al
giorno, dai lavoratori socialmente utili agli insegnanti,
che guadagnano davvero poco. E complesso, considerando che
si sono fatti risparmi tagliando le spese per la scuola». È
soddisfatta delle risorse che il governo sta dedicando alla
scuola? Sarà un tema del patto di coalizione? «Sì, abbiamo
presentato la nostra agenda per il patto di coalizione; ma
rivendico che come governo abbiamo già ricominciato a
investire per l'edilizia scolastica, i programmi. Sono
soddisfatta, vuol dire che il governo ci pensa. Presto
partirà la costituente della scuola, per la quale avvieremo
una grande consultazione». E per la ricerca e l'Università?
«Il bilancio comincia a migliorare: per l'Università abbiamo
191 milioni in più per il 2014. Per la ricerca sta per
partire il piano nazionale». Però questo governo sta facendo
molti scivoloni, o marce indietro: la web tax, le slot
machina, ora gli insegnanti. O no? «Non stiamo facendo né
scivoloni, né marce indietro. Non mi piace questa
formulazione: avere la responsabilità delle riforme,
preparare il semestre europeo, far funzionare la macchina
dopo i tagli subìti, non è facile. Diciamo che il governo ha
affrontato il tema». Diciamo che il governo l'ha causato.
«Il governo ha affrontato il tema e l'ha risolto». Renzi non
ne fa passare una al governo e su questo caso è intervenuto
con forza. Si è sentita appoggiata o criticata? «Dal punto
di vista politico c'è qualcuno che sta cercando di
destabilizzare. Il clima non è sempre positivo, ma sta a noi
della maggioranza valorizzare ciò che il governo ha fatto.
In questo caso con il Pd, il segretario e il responsabile
scuola avevamo la stessa linea e non troverà una parola
contro di me. Sono grata a loro perché si occupano di
scuola, e fanno il loro mestiere».
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